Lacan e gli americani - European Journal of Psychoanalysis

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Aug 26, 2022
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Darian Leader

Lacan e gli americani
Questo articolo “Lacan and the Americans” è stato proposto in inglese da Darian Leader alla rivista francese
Essaim.

Nei primi anni ’90 mi trovavo su di un aereo che volava da Madrid a Parigi con molti analisti lacaniani,
quando all’improvviso è iniziata una accesa discussione sulla società americana e la sua cultura. Gli Stati
Uniti venivano rappresentati nei termini di una nazione di Filistei, preoccupati solamente di trovare delle
soluzioni “smart”, dediti al consumismo e alla felicità istantanea. Un unico analista fu abbastanza coraggioso
da dissentire, difendendo ciò che riteneva essere delle virtù ereditate dalla cultura protestante ed evidenziava
inoltre l’accoglienza e l’apertura sociale di quel paese. Solo successivamente, sono venuto a conoscenza del
fatto che l’analista in questione fosse sposato con una americana e che in quel momento in questione era
qualcosa di più della sola valutazione della cultura americana.

Certamente in ogni valutazione è presente un qualcosa “di più” ed è un peccato che questo non abbia
stimolato un esame più attento da parte del nostro gruppo. L’antiamericanismo di Lacan è sicuramente una
eredità di Freud e il disprezzo di quest’ultimo per gli Americani è ben noto. Ad esempio egli riteneva che gli
Stati Uniti sarebbero diventati entro il 1970 una “negro republic”, repubblica di negri (Alexander 1964).
Anche se, come gli storici della psicoanalisi hanno mostrato, dal 1923 in poi Freud stesso utilizzava gran
parte del suo lavoro quotidiano ad analizzare nient’altro che… Americani! (Roazen 1990). Se si assume che
gli sviluppi concettuali siano influenzati in qualche modo dalla pratica clinica, questo significa che, per
quanto possa sembrare strano, la psicoanalisi freudiana del ventesimo secolo porta con sé il timbro della
“psiche americana”.

Senza dubbio si può obiettare, in quanto analisti, che non crediamo possa esistere qualcosa come “la psiche
americana”, ma solo il soggetto in quanto elisione della catena significante, ma a quel punto come possiamo
concepire e comprendere i riferimenti di Lacan ad esempio agli “Inglesi”, ai “Francesi” o ai “Giapponesi”? È
risaputo che durante la Seconda Guerra Mondiale e anche nel Dopoguerra, gli analisti fossero
frequentemente impiegati dai governi per compilare dei dossiers sulla “psiche nazionale” dei paesi nemici e
Lacan stesso contribuì a tal riguardo. I risultati di queste analisi spaziano tra l’essere delle considerazioni
interessanti fino al ridicolo (Mandler 2013, Pick 2012).

Qualunque sia il nostro punto di vista su questo tema, non dobbiamo farci fuorviare dalla rappresentazione
che Lacan proponeva della psicoanalisi americana degli anni ’50. Questa, infatti, ci riduce a una
raffigurazione piuttosto ingannevole della cosiddetta “psicologia dell’io”, indentificata con il triumvirato
Hartmann, Kris e Loewenstein e all’enfasi data all’autonomia dell’io e delle sue funzioni. Questa è
sicuramente una distorsione. Infatti, nonostante essi abbiano lavorato insieme a diversi scritti, Kris e
Loewenstein propongono una visione nel complesso differente da quella di Hartmann, sia nei termini degli
obiettivi che dei metodi della psicoanalisi e sia rispetto alla natura della domanda scientifica in sé. Si può
sostenere a fatica, inoltre, che questi autori abbiano proposto un adattamento allo “stile di vivere americano”
– o alla immagine di quest’ultimo che Lacan proponeva – mentre invece essi hanno affermato che la
psicoanalisi implica un adattamento al – o con – il sintomo, una visione che Lacan stesso avrebbe adottato
negli anni ‘70.

Le critiche sui rischi di mercificare la psicoterapia e di normativizzare i modelli della psiche nel dopoguerra
facevano già parte della scena culturale psicoanalitica americana. L’innovativo libro di Eric Fromm Fuga
dalla Libertà fu pubblicato negli Stati Uniti nel 1941 e poi alcuni aggiornamenti degli argomenti trattati da
Fromm furono pubblicati gli anni successivi.

In questo testo, egli affrontava in maniera diretta il problema della pratica psicoanalitica sotto il capitalismo
e le conseguenze che questo comportava sia per la teoria psicoanalitica che per la pratica clinica ed egli
avrebbe poi continuato questa critica per diversi decenni. Complessivamente, l’idea di Fromm e del progetto
di Karen Horney fu quello di ricordare agli analisti che il loro lavoro non consiste nel modellare l’io del
paziente secondo le norme sociali, ma invece quello di permettere al paziente di entrare in contatto con il
proprio personale desiderio che è unico e difficilmente riducibile a delle norme, sia sociali che parentali
(Fromm 1949, Horney 1939). La psicoanalisi, dunque, concerneva una separazione tra il desiderio del
soggetto e la domanda dell’Altro e la nozione di desiderio in Lacan è per certi versi uno sviluppo di questa
tradizione culturale.

Dovremmo ricordarci che la vera psicologia dell’io in America è riconducibile a Hartmann e David
Rapaport, i due architetti di questa corrente in psicoanalisi. Il lavoro di Rapaport soprattutto fu influente
anche per il fatto che egli viaggiò molto per tutti gli Stati Uniti negli anni ’50 per insegnare la psicologia
dell’io nei diversi istituti psicoanalitici, prima della sua morte prematura avvenuta negli anni 1960.

Curiosamente Rapaport non ha mai praticato la psicoanalisi, anche se la sua teorizzazione “dell’autonomia
dell’io” è quella più citata rispetto a quella di Hartmann. Entrambi condividono un’attenzione ai cosiddetti
processi psichici “liberi da conflitti”, con il conseguente rischio, come diversi autori hanno indicato, di
desessualizzare la psicoanalisi. Tuttavia, il lavoro di Rapaport fu semplicemente una estensione della teoria
dell’angoscia di Freud del 1926 ad altri affetti e questioni connesse alla motivazione. Sia Hartmann che
Rapaport speravano che la psicoanalisi potesse finalmente diventare parte di una psicologia generale pur
riconoscendo l’autonomia dell’io che loro stessi misero in primo piano.

La psicoanalisi negli Stati Uniti è stata plasmata meno dagli emigrati dotti che hanno fatto proprie le
scoperte freudiane, e di più invece da questi sforzi innovativi che cercavano uno statuto e una legittimità
scientifica alla psicoanalisi, e Lacan ha commentato poco il loro lavoro. Similmente è scorretta anche l’idea
che solo Lacan abbia messo in discussione i dogmi principali della psicologia dell’io, anche se questa
asserzione è servita a confermare un proposito religioso-politico, decontestualizzando il suo lavoro per far
sembrare che scaturisca dalla testa di Atena. In effetti c’è stata molta opposizione al lavoro di Hartmann e
Rapaport negli stessi Stati Uniti d’America, in Inghilterra e in tutto il continente. In Francia, la polemica più
coraggiosa è quella di Nacht che presentò una terribile critica alla psicologia dell’io di Hartmann definendola
“stérilsante et régressive” al Congresso di Amsterdam del 1951, mentre sedeva accanto ad Hartmann sul
palco. Egli contestò la concezione di una autonomia dell’io e delle sue funzioni psichiche, le personificazioni
dell’io, dell’es e del super-io e denunciò il pericolo di fare dello psicologismo. Da questo vertice, infatti, non
esisterebbero “istanze” psichiche, ma solamente “processi”, ed è in questo contesto che dovremmo
interpretare l’enfasi di Lacan sull’“instance de la lettre”.

Nacht effettivamente sostenne la variabilità del tempo analitico standard e programmato, e al congresso di
Zurigo del 1949 sostenne una de-ritualizzazione del processo analitico stesso. Al tempo già esisteva un
interesse nuovo per lo studio del linguaggio, soprattutto tra gli analisti americani che, come Lacan,
esploravano ciò che si poteva imparare dalla cibernetica. Hartmann stesso già nel 1948 sostenne che la
psicoanalisi contemporanea avrebbe dovuto considerare “le implicazioni strutturali della parola e del
linguaggio in analisi”, e Loewenstein nel 1952 alla New York Psychoanalytic Society fece un intervento
simile (Hartmann 1951, Loewenstein 1982). Purtroppo, la teoria e il modello del linguaggio a cui potevano
fare riferimento questi autori non era sofisticato come quello di Lacan, anche se al tempo in cui Lacan
abbandonò lo studio del linguaggio erano presenti delle teorie più accurate studiate dagli analisti americani
soprattutto nella monografia del gruppo vicino a George Klein “Psychological Issues”.

Dovremmo inoltre ricordare che l’orientamento adottato da Lacan nei primi anni ’50 si ispirava direttamente
a dei ricercatori americani, quelli che lavorarono a programmi diversi da quelli di Rapaport e Hartmann, i
quali cercarono di creare una connessione tra la cibernetica e le nuove scienze della comunicazione. Esistono
pochi dubbi sul fatto che Lacan stesso abbia letto i vari convegni di Josiah Macy Jr, o organizzati dalla
fondazione di Macy, dove psicoanalisti, biologi, antropologi e linguisti ebbero l’occasione di scambiare idee
e che fosse a conoscenza dei loro interessi per i modelli matematici e per i processi circolari messi in primo
piano dalla cibernetica. I primi grafi degli anni ’50 vengono spesso associati ai diagrammi che si ritrovano
nei lavori di Lévi-Strauss, anche se probabilmente derivano da alcuni lavori germogliati dalla collaborazione
di matematici e scienziati sociali negli Stati Uniti alla ricerca di un punto di incontro tra i due campi di
studio (Harary e Norman 1953).

Quando Lacan partecipò nel 1953 a un seminario della durata di un anno, organizzato dall’Unesco, dal titolo
“The Utilization of Mathematics in the Social Sciences” – dibattito a cui presero parte anche Lévi-Strauss,
Benveniste, Piaget, Riquet e Guilbaud – si inseriva chiaramente, in parte, all’interno di una cornice di studio
dei ricercatori americani. È un peccato che il lavoro di Lacan “Pattern Logici nella Pratica della
Psicoanalisi” presentato a questo seminario non sia mai stato pubblicato, anche se lo schema L è
contemporaneo al seminario, così come l’attenzione alla teoria del grafo e alla teoria dei gruppi fu
certamente sull’agenda durante questi incontri (International Social Science Research Council 1959).

Quando si affronta da vicino la letteratura della psicologia dell’io, l’approccio lacaniano a quest’ultima viene
facilmente messo in discussione. L’esempio più conosciuto è il caso dell’uomo mangiatore di cervella, che
viene spesso presentato per mostrare la stupidità dell’approccio della psicologia dell’io al sintomo e il
diniego della domanda del desiderio (Kris 1951). Lacan dice che Kris affrontò il timore di plagio del
paziente leggendo il materiale in questione per verificare se in “realtà” il lavoro fosse originale. Tuttavia, se
ci interessiamo a leggere il caso ci accorgiamo che Lacan ha completamente distorto i fatti: Kris non ha mai
fatto una cosa del genere, ma ha semplicemente domandato al paziente riguardo il suo lavoro (Leader 1997,
Orellana 2002).

Anche la teoria secondo cui la psicoanalisi americana predica il conformismo e l’identificazione è
decisamente scorretta. Anche se si può trovare a volte questa tendenza estrema in qualche autore, questa non
è tuttavia molto diffusa. Invece più comune è l’idea che l’obiettivo dell’analisi sia quello di permettere una
assunzione idiosincratica della propria sofferenza, si tratta di un “know-how” e non di una imitazione degli
altri. Eissler, ad esempio, sosteneva che l’analisi potenzialmente potesse dare dei risultati anticonformisti e
rivoluzionari, facendo eco a Fromm. Erikson invece evidenziava come l’obiettivo della psicoanalisi non
fosse quello di plasmare un cittadino modello, ma invece di realizzare un nuovo “stile” nel soggetto,
cercando di divulgare in questo modo il concetto di stile in analisi e quello delle pratiche individuali come
risultato dell’analisi (Erikson 1950).

Allo stesso modo, quando attribuiamo a Lacan l’idea che l’analisi vada oltre il significato dei sintomi, questa
idea era già diffusa nella psicoanalisi americana nel 1940. In una serie di articoli su “Psychiatry” e altre
riviste, Frieda Fromm-Reichmann ha mostrato come gli analisti di quel periodo dessero solo una
collocazione secondaria al contenuto dei sintomi e ai significati rimossi, concentrandosi invece su altri
aspetti dell’incontro psicoanalitico, vedendo il sintomo meno come qualcosa di patologico e maggiormente
come una risorsa creativa (Fromm-Reichmann 1949a, 1949b). Inoltre, insieme a queste osservazioni si
connetteva una critica del modello della patologia e della malattia mentale e un tentativo di trasformare la
visione del paziente come “oggetto di terapia” in “partner del terapeuta”, in uno sforzo collaborativo dove le
interpretazioni fossero prerogative sia del paziente che dell’analista. Da notare inoltre l’uso del termine
ferencziano “analizzante” nella psicoanalisi americana precedente al suo uso in Francia. Termine che evoca
proprio il ruolo attivo del soggetto in analisi.
Similmente, la distinzione lacaniana tra un’interpretazione e un agito era ben conosciuta in America fin da
periodo post-bellico. Fromm distingueva i due concetti in un suo saggio del 1959 “On the limitations and
dangers of psychology”, anche se questi due concetti erano già differenziati in qualche modo in precedenza
nella distinzione tra “interpretazione” e “enactment”, come mostra il seguente esempio (Fromm 1963, p.
206). Una cantante si presenta in stato di agitazione per la perdita improvvisa della propria voce e per un
bolo isterico, avendo anche un importante concerto la sera stessa. Lei fu soltanto in grado di bisbigliare che
il suo sintomo comparve la mattina dello stesso giorno, a seguito di un rapporto sessuale con il suo nuovo
amante. Questo condusse l’analista, il rinomato Lionel Blitzsten, ad ipotizzare che “i loro giochi sessuali
probabilmente includessero anche un tentativo abortito di fellatio al quale lei reagì con disgusto” (Knight e
Friedman 1954, p. 118; traduzione del curatore). L’analista, dopo essersi scusato, uscì dalla stanza di
consultazione e andò in cucina per prendere un wurstel che “per fortuna” trovò nel frigo. Tornò dalla
paziente e le avvicinò il wurstel insistendo perché lo prendesse in bocca. Questo produsse nella paziente un
chiaro pianto mezzo-soprano di protesta e improvvisamente le tornò la voce.

Sicuramente, come Bernard Apfelbaum stesso evidenziò, questo intervento dell’analista limitò la possibilità
che la paziente avesse preso in considerazione di non voler fare la fellatio – o di non voler andare al suo
concerto – e che il suo desiderio non fosse relativo al volere in sé, ma proprio al non volere: il sintomo era la
sua incapacità di dire di no (Apfelbaum 2005). Probabilmente, la paziente venne traumatizzata
maggiormente dall’intervento dell’analista che dall’esperienza della notte prima, ma quest’esempio mostra
l’uso di un intervento poco ortodosso e teatrale, che avveniva già durante gli anni ’30.

Possiamo fare un altro esempio a tal proposito riportato da Anne Louise-Silver quando iniziò la sua analisi
con Harold Searles. Lei era congelata in un “trasnfert disperatamente idealizzante”. Searles disse, nel suo
solito amichevole tono di voce, “potrei condividere un pensiero che ho avuto qualche minuto addietro?” e
dopo che Silver acconsentì disse: “ho pensato: ‘e chi cazzo se ne frega se tu non dici più un’altra parola?’”.
Questo intervento funzionò bene: il suo mutismo cessò e la sua idealizzazione probabilmente si ruppe (Silver
2012; traduzione del curatore).

Questi non sono esempi isolati presi dalla storia analitica, ma caratterizzano la diversità della scena analitica
americana, e dobbiamo ancora imparare molto da essa. I lavori di Fromm, Erikson e Horney sono
assolutamente attuali, così come lo sono gli studi di Edith Jacobson sulla psicosi, di Bernard Apfelbaum
sulla tecnica psicoanalitica, di Frieda Fromm-Reichman sulla depressione maniacale e sulla schizofrenia, di
Selma Fraiberg sullo sviluppo linguistico e sensoriale, di Nathan Leites sul transfert, di Martha Wolfenstein
sull’humour e sul lutto, di Renè Spitz sul linguaggio, gli affetti e il corpo, di Phyllis Greenacre sui primi stati
somatici e la formazione del soggetto, di Peter Knapp sugli equivalenti dell’affetto e di Eleanor Galenson
sulla sessualità infantile, e questo per fare solo alcuni esempi.

L’assurda riduzione della psicoanalisi americana solamente ad alcuni scritti di Hartmann, Kris e
Loewenstein, insieme alla valorizzazione di una manciata di clichés sull’“American way of life”,
difficilmente rende giustizia allo scenario analitico sorprendentemente ricco e variegato. Anzi, a pensarci
bene una cosa che potremmo imparare dagli americani è esattamente ciò che ha impedito alla psicoanalisi
lacaniana di avere successo in America! Mi riferisco a una certa resistenza a un insegnamento ex cathedra
 insieme a un certo scetticismo nei confronti di metodi di argomentazione gesuitici dove avversari inventati,
anche un po’ in maniera fantasiosa, vengono ridicolizzati mentre la propria teoria viene presentata come
l’unica possibile verità.

Note e riferimenti:

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Bernard Apfelbaum, ‘The Persistence of Layering Logic: Drive Theory in Another Guise’, Contemporary
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Heinz Hartmann, ‘Technical implications of ego psychology’ (1948), Psychoanalytic Quarterly, 20, 1951,
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Peter Mandler, ‘Return from the Natives, How Margaret Mead Won the Second World War and Lost the
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Data:

10/12/2021
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