La sospensione della prestazione di lavoro - UniFI
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La sospensione della prestazione di lavoro Riccardo Del Punta Sommario: 1. Gli eventi sospensivi della prestazione di lavoro: struttura e funzione. 2. Malattia e infortunio. 2.1. La malattia come incapacità al lavoro. 2.2. Comunicazione e certificazione della malattia. 2.3. Il contenuto della certificazione. 2.4. La facoltà datoriale di valutazione della certificazione medica. 2.5. Lo svolgimento di attività da parte del lavoratore malato. 2.6. Rapporti tra certificato privato e pubblico. 2.7. Il controllo della malattia: l’art. 5 dello Statuto dei lavoratori. 2.8. Le «fasce orarie» di reperibilità: l’illecito. 2.9. Segue: la sanzione. 2.10. Il diritto del lavoratore alla conservazione del posto. 2.11. Comporto per sommatoria e giudizio di equità. 2.12. Il licenziamento in pendenza di malattia. 2.13. Periodo di comporto e licenziamento. 2.14. Il trattamento economico di malattia. 3. I congedi parentali. 3.1. I lavori vietati. 3.2. Il divieto di lavoro notturno. 3.3. Il congedo di maternità. 3.4. Il congedo di paternità. 3.5. Adozione e affidamento. 3.6. Il trattamento dei congedi di maternità e paternità. 3.7. I congedi parentali. 3.8. I riposi giornalieri (e i permessi per assistenza a figli con handicap grave). 3.9. I congedi per la malattia del figlio. 3.10. Il divieto di licenziamento. 3.11. Le dimissioni della lavoratrice madre. 4. Il servizio militare. 5. Aspettative e permessi per funzioni pubbliche. 5.1. L’aspettativa per funzioni pubbliche elettive. 5.2. I permessi per funzioni pubbliche elettive. 5.3. I permessi per motivi elettorali. 6. Aspettative e permessi per ragioni personali. 6.1. I permessi per motivi di studio. 6.2. I congedi formativi. 6.3. I congedi per eventi e cause particolari. 6.4. I riposi giornalieri per i donatori di sangue. 6.5. I permessi per i donatori di midollo osseo. 6.6. L’aspettativa per lo svolgimento di attività di volontariato nei paesi in via di sviluppo. *** 1. Gli eventi sospensivi della prestazione di lavoro: struttura e funzione. Il destino della locuzione “sospensione del rapporto di lavoro” è sempre stato, in certo senso, paradossale: tanto utilizzata, come categoria riassuntiva di istituti che trovavano il proprio emblema nella malattia e nella maternità1, quanto intrisa di criticità, nella misura in cui pretendeva di trarre, dall’asserita “alienità” funzionale degli interessi sottesi ai predetti, rispetto all’impianto causale del rapporto di lavoro, la conseguenza, strutturale, che fosse il rapporto stesso a vivere, in corrispondenza, uno stato di quiescenza. Questa posizione, peraltro, ha finito col tempo per apparire insostenibile2, allorché ci si è resi conto (ma ciò ha richiesto un non irrilevante lavorio interpretativo, in specie sulla nozione di retribuzione3) che, al di là della non attuazione della prestazione facente carico al lavoratore (ergo, della sospensione del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato continuava a produrre effetti giuridici di rilievo, ivi compresi, nelle ipotesi maggiormente “protette” dall’ordinamento, quelli economico e previdenziale. 1 In generale sulla “sospensione”, oltre agli AA. citati nelle note successive, v. M. Dell’Olio, Sospensione del rapporto di lavoro, in Digesto Comm., Torino, 1988, XV, 2 ss.; M. Rusciano, Sospensione del rapporto di lavoro, in Enc. giur. Treccani, vol. XXX, Roma 1993; R. Santucci, La sospensione del rapporto di lavoro: spunti ricostruttivi, in Lav. dir., 1989, 389; M.J. Vaccaro, La sospensione del rapporto di lavoro, Napoli, 1983. Per trattazioni più risalenti, v. G. Branca, La sospensione nelle vicende del rapporto di lavoro, Padova, 1971; G. Lavagnini, La sospensione del rapporto di lavoro, Milano, 1961. 2 Il che valga anche come autocritica, in riferimento al titolo della monografia dello scrivente su La sospensione del rapporto di lavoro, Il Codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, sub artt. 2110 e 2111, Milano,1992, ove pure, a p. 20, si precisava che l’espressione doveva essere riferita, ellitticamente, non al rapporto come tale, ma alla prestazione di lavoro. 3 Tappa fondamentale è stata, al riguardo, la riflessione di T.Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, 1968. In una prospettiva parzialmente diversa, di tendenziale superamento della corrispettività, in nome dei contenuti personali intrisi nel rapporto di lavoro, v. L. Zoppoli, La corrispettività nel contratto di lavoro, Napoli, 1991. Per una ricostruzione critica del dibattito in materia, rimando a R. Del Punta, op.cit., p. 397 ss. Da ultimo, il tema è stato ripreso da L. Calafà, Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004, p. 123 ss.
Il denominatore comune di tali istituti, da tempo non più circoscritti alle classiche fattispecie degli artt. 2110 e 2111 del codice civile, è stato quindi ravvisato nell’effetto modificativo del normale andamento del rapporto di lavoro, in virtù della tutela di interessi legati a scelte o condizioni personali del lavoratore4, di massima connotati, in qualche modo, dal crisma costituzionale, e capaci, come tali, di imporsi alle esigenze dell’imprenditore, sino al punto di addossargli una responsabilità sociale (o, direbbe Pietro Ichino, un onere assicurativo) in ordine al finanziamento di quelle situazioni. Ciò ha condotto taluni, per l’appunto, a varcare il guado sino a ritenere inutile il ricorso alla nozione di “sospensione”, ed a configurare gli eventi in questione come momenti di attuazione del “programma contrattuale” 5, quale scolpito dal sinallagma genetico legalmente prefigurato. In tale visione v’è, al fondo, un’evidenza quasi tautologica, ma forse anche un’opzione non del tutto accettabile di equiparazione fra gli interessi che insistono nel “cuore” della struttura causale del rapporto di lavoro subordinato, e quelli che sono alla base degli istituti sospensivi. Si è suggerito, invece, che è più realistico e lineare, dal punto di vista ricostruttivo, continuare a concepire i contenuti delle sospensioni per quello che esteriormente appaiono e sono percepiti da entrambe le parti, ossia come contenuti irriducibilmente e radicalmente personali, che non allargano l’ambito del contratto, ma che piuttosto (e pur dall’interno) si impongono ad esso6. Ciò non significa certo espungere gli istituti in discorso dal sinallagma genetico, bensì coltivare un’immagine della causa del contratto di lavoro, che pur a partire dall’integrazione ormai acquisita delle vicende sospensive, eviti di porre sullo stesso piano quello che permane essenziale per l’attuazione del rapporto e quello che invece, e significativamente nel rispetto di precise condizioni di accesso e rigidi limiti temporali, è semplicemente tollerato da esso, in misura direttamente proporzionale alla meritevolezza dell’interesse sotteso. Tra l’altro, questa visione, che postula una permanente permeabilità del rapporto di lavoro subordinato al riconoscimento di interessi “altri”, fatta salva la modulazione dei presupposti e dei limiti di tale apertura, sembra maggiormente in sintonia con le evoluzioni più recenti e significative della tematica in esame, che, soprattutto in relazione alle novità recate dalla legge 8 marzo 2000, n. 53, sui congedi parentali, familiari e formativi, ha messo l’ordinamento, per la prima volta, in una pur iniziale posizione di dialogo con la discussione da tempo in corso sulle nuove prospettive di conciliazione tra tempi di lavoro, di formazione e di vita7. E, al di là dei frutti ancora incerti (per ragioni che non possono essere discusse qui) di tale riorganizzazione culturale, resta il fatto che negli istituti sospensivi di più recente generazione sembra essersi consumato un tendenziale scivolamento dalla 4 Restano pertanto escluse dalla presente disamina, come da tradizione, le c.d. sospensioni “nell’interesse dell’impresa”, a cominciare da quelle nascenti dall’intervento della Cassa integrazione guadagni. 5 V., ad es., M. Cinelli, I permessi nelle vicende del rapporto di lavoro, Milano, 1984, 203 ss. Ma v. già, pur con implicazioni in parte diverse, ad es. nel senso del superamento della tradizionale distinzione tra “sospensioni” e “pause” del lavoro, in vista di una personale classificazione, P. Ichino, Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, I, Milano, 1984, 73 ss. ; dello stesso A., con una sostanziale conferma delle posizioni già espresse, ma con un ricorso molto netto ed onnicomprensivo (tanto da includervi anche lo sciopero) alla categoria della “sospensione della prestazione di lavoro”, v. Il contratto di lavoro, in Trattato di Diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, e continuato a P. Schlesinger, III, Milano, 2003, 1 ss. 6 V. R. Del Punta, op.cit., 397 ss. In tale ordine di idee, in esito ad un riesame critico del dibattito sul tema, v. anche L. Calafà, op.cit., 123-174. 7 V. in generale L. Calafà, op.cit., 9 ss. e 235 ss.
necessità alla libertà. Se nei “vecchi” istituti, come malattia e servizio militare, dominava la categoria della necessità, come dimostrato dal ricorso (pur da taluni criticato) alla categoria dell’impossibilità della prestazione, e se nella stessa disciplina di tutela delle lavoratrici madri, pur volta ad assecondare la libera decisione della maternità, il sostegno normativo era comunque limitato allo stretto essenziale e soggettivamente circoscritto alla posizione della madre (riportandola di fatto, in molti casi, alla “necessità” di una scelta tra maternità e lavoro), la cifra dominante dei “nuovi” istituti (a cominciare dalla rivisitazione della disciplina del genitore lavoratore) sembra (o aspira ad) essere quella della valorizzazione della libertà di scelta del lavoratore (ad es. circa l’articolazione dell’alternanza fra istruzione- formazione e lavoro, quale si evince anche da istituti pur apparentemente lontani dal tema in discussione, come l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione), tanto da configurare sospensioni meramente potestative8. Persino nella malattia l’accento non cade più sull’impossibilità di prestare, bensì, in positivo, sulla tutela del diritto alla salute del lavoratore; e giacché a sua volta la salute, come si vedrà fra poco, non è semplicemente assenza di malattia (un indizio significativo essendo rappresentato, ad es., dall’apertura della nozione di malattia alla rilevanza di esigenze terapeutiche), sono da prevedere ulteriori evoluzioni, che arricchiranno vieppiù la fotografia di un rapporto meno che mai chiuso in un recinto, ma contemplante (anche sull’onda di una flessibilità oramai a tutto tondo) crescenti livelli di interazione con altri valori costituzionalmente protetti. Ciò premesso, ed avvertito altresì che la trattazione prenderà in considerazione i soli istituti di fonte legale9, uno sguardo sinottico alle costanti strutturali della fattispecie sospensiva, ricavato induttivamente dall’esame degli istituti ad essa riconducibili, mostra come essa sia leggibile attraverso una griglia concettuale, alla quale cercheremo di restare fedeli – pur con le varianti imposte dalla particolarità dei vari istituti - nel prosieguo, anche perché è proprio in virtù di essa che si legittima il ricorso alla categoria della “sospensione della prestazione di lavoro”: a) definizione dell’evento sospensivo; b) modalità di produzione dell’effetto sospensivo, sulla base di una mera attestazione dell’evento tutelato nella sua oggettività (con i connessi problemi di accertamento, e in particolare di controllo, in particolare nella malattia), ovvero dell’esercizio di un diritto potestativo condizionato alla sussistenza (ed eventualmente alla documentazione) del presupposto, e talvolta, se pur raramente, anche all’inesistenza di esigenze aziendali ostative; c) intensità della protezione dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, limitata alla (scontata) giustificazione dell’assenza dal lavoro, o amplificata sino ad istituire una posizione di franchigia del lavoratore dal recesso della parte datoriale; d) estensione temporale di tale protezione; e) riconoscimento o no della retribuzione, pur in assenza della prestazione corrispettiva, e/o di una prestazione previdenziale integrativa o sostitutiva, nonché, ai vari fini per cui essa può rilevare, dell’anzianità di servizio. 2. Malattia e infortunio. 2.1. La malattia come incapacità al lavoro. 8 V. L. Calafà, op.cit., 187 ss. 9 Con l’esclusione, peraltro, dei permessi e dell’aspettativa per ragioni sindacali.
La “classicità” della malattia, nel novero degli eventi sospensivi, si fa apprezzare tanto in senso qualitativo, essendo l’istituto finalizzato alla protezione di un bene di elevato rango costituzionale quale la salute del cittadino lavoratore, quanto su quello empirico, trattandosi dell’ipotesi di più frequente realizzazione nella dinamica quotidiana delle relazioni di lavoro. Nondimeno, quelli di malattia e di salute sono concetti non equivalenti. Come fissato una volta per tutte nel Preambolo costitutivo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, ”la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste solamente in una assenza di malattia o di infermità”. Ciò acquisito in positivo (con delega alla normativa di tutela dell’ambiente di lavoro dell’istanza di prevenzione dei rischi legati al lavoro, ma anche, in prospettiva, di promozione del “benessere” del lavoratore), rimane da qualificare, in negativo, lo stato di malattia. Per la scienza medica, è tale una qualsiasi alterazione morfologica e/o funzionale di una o più parti dell'organismo, o dell'organismo in toto. Era logico che questa definizione rappresentasse, come è in effetti accaduto, un termine di riferimento imprescindibile per il diritto, il quale ha peraltro elaborato, di ritorno, una pluralità di nozioni di malattia, più o meno tributari della definizione portante, ma mai del tutto coincidenti con essa. Ai fini in esame rileva, segnatamente, l’art. 2110 del codice civile, il quale si limita, peraltro, ad enunciare l’evento, senza definirlo10. Il relativo onere si è così spostato sugli interpreti, fra i quali è emerso, da tempo, il riferimento ad una nozione più ristretta di quella medica e/o medico-legale generale, tale da comprendere non ogni alterazione dello stato psico-fisico del lavoratore, ma esclusivamente quelle situazioni nelle quali l'infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale (seppure transitoria) incapacità al lavoro del medesimo11. Questa nozione si è affermata anche sul terreno previdenziale, nel quadro dell'assicurazione contro le malattie comuni12, come positivamente confermato (senza risalire a più remoti precedenti) dall'art. 2, 1° co., della l. 29 febbraio 1980, n. 33, il quale, nel prescrivere modalità e termini di trasmissione del certificato medico di malattia all'INPS ed al datore di lavoro, ha riguardo ai “casi di infermità comportanti incapacità lavorativa”. In sé, la questione definitoria si pone negli stessi termini per la malattia di origine professionale, di certo compresa nell'ambito precettivo dell'art. 2110, ove non si distingue a proposito dell'eziologia, lavorativa o no, dell'evento. Peraltro, data la presenza trainante di un dispositivo di assicurazione obbligatoria (d.P.R. 30 giugno 10 Tributaria di tale nozione deve pure ritenersi la pur scarna disciplina di tutela introdotta per l’ipotesi di malattia o di infortunio del collaboratore a progetto o a programma (art. 66, 1° e 2° co, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276), che per la prima volta ha portato un frammento della normativa al di là delle “colonne d’Ercole” del lavoro subordinato. 11 V., per mera esemplificazione, Cass. 27 maggio 2004, n. 10215; Cass. 14 dicembre 1999, n. 14065, in Foro it. , 2000, I, 51; Cass. 23 agosto 1997, n. 7908, in Mass. giur. lav., 1997, 871; Trib. Parma 7 novembre 1996, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, 120. In dottrina, anche per ulteriori riferimenti, v. R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro, cit., 21 ss.; P. Ichino, Malattia del lavoratore subordinato, in Enc. giur. Treccani, XIX, Roma, 1990; G. Loy, La capacità fisica nel rapporto di lavoro, Milano, 1993, 237 ss.; A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, 130 ss.; M. Tatarelli, La malattia nel rapporto di lavoro privato e pubblico, Padova, 2002, 37 ss.; M. J. Vaccaro, La sospensione del rapporto di lavoro, cit. , 8 ss. 12 Su cui v., in generale, M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2007, 370 ss. ; G. Dondi, L'indennità di malattia dopo la riforma sanitaria, Padova, 1981, passim; R. Pessi, Lezioni di Diritto della previdenza sociale, Padova, 2006, 383 ss.
1965, n. 1124, novellato dal d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38)13, la rilevanza privatistica di queste malattie, per i benefici che di solito ne derivano (ad es., un periodo di comporto più lungo), è spesso condizionata, talora per esplicita previsione di contratto collettivo, talaltra di fatto (ma, in questo caso, senza un vincolo giuridico), al riconoscimento delle medesime da parte dell'INAIL, fatta salva la verifica giudiziale. Per altro verso, il passaggio ormai acquisito ad un sistema “misto”, che lascia al lavoratore la facoltà di provare (in primis verso l'INAIL) l'eziologia professionale di ogni malattia, pur se non tabellata, o derivante da lavorazioni non tabellate14, ha riproposto il problema dell’individuazione dell'evento assicurato, fermo restandone, peraltro, l’aggancio al concetto di inabilità al lavoro (cfr. art. 68 del d.P.R. n. 1124/1965). La questione si pone in termini non diversi per l'infortunio del lavoratore subordinato (anch’esso non definito dall’art. 2110), la cui disciplina è differenziata esclusivamente in rapporto all’eziologia dell'evento. Tanto che l'infortunio extra- lavorativo è normalmente accorpato dai contratti collettivi alla malattia comune, e quello sul lavoro, sulla scia dell’assicurazione pubblica, alla malattia professionale. Ai fini della presente ricognizione, merita comunque sottolineare che uno dei tre classici elementi che descrivono la nozione di infortunio ai fini INAIL (artt. 2 e 210, d.P.R. n. 1124/1965) è appunto quello dell'inabilità al lavoro, permanente o temporanea, conseguente all'evento; gli altri due essendo la “causa violenta”15 e il nesso di occasionalità con il lavoro16 (concetto più ampio della “causalità”, richiesta nella malattia professionale17). Le ragioni che hanno portato in auge il concetto di “incapacità al lavoro” sono state, fondamentalmente, endogene alla disciplina. É intuitivo che in un rapporto obbligatorio incentrato sull'utilizzazione continuativa delle energie lavorative della persona del debitore, il primo criterio di delimitazione delle ipotesi di legittima esenzione (per motivi di salute) dalla prestazione di lavoro non possa che guardare alle situazioni nelle quali il lavoratore non sia ragionevolmente in grado di svolgere, ostandovi le sue condizioni fisiche o psichiche, tale prestazione. Nondimeno, allorquando la riflessione su malattia e contratto di lavoro muoveva i primi passi, essendo ancora molto sentito il legame sistematico col diritto privato “comune”, si avvertiva l’esigenza di un inquadramento dogmatico, ai fini del quale è stato ineluttabile il ricorso alla categoria dell’impossibilità sopravvenuta18; già servita, agli albori della materia, al limitato scopo di escludere che la malattia potesse dar 13 Su cui v., soprattutto (anche a proposito degli infortuni sul lavoro), A. De Matteis - S. Giubboni, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2005. Cfr. anche lo “storico” G. Alibrandi, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2002 ; F. Facello (a cura di), Il sistema di tutela degli infortuni e delle malattie professionali, Milano, 2005. Sulla nozione di malattia professionale nel nuovo sistema “misto”, v. da ultimo Cass. 15 maggio 2007, n. 11087; Cass. 21 giugno 2006, n. 14308. 14 V. Corte cost. 18 febbraio 1988, n. 179. 15 Cfr. Cass. 26 maggio 2006, n. 12559. 16 Sull’”occasione di lavoro” v., fra le tante, Cass. 4 agosto 2005, n. 16417, relativo ad un caso di incidente occorso durante la deambulazione nel luogo di lavoro. Sul concetto di “rischio elettivo”, inteso come “scelta di un comportamento abnorme, volontario e arbitrario da parte del lavoratore, tale da condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli inerenti alla normale attività”, v. Cass. 3 agosto 2005, n. 16282; Cass. 8 settembre 2003, n. 13110; Cass. 27 febbraio 2002, n. 2942; Cass. 4 dicembre 2001, n. 15312. Sulla penetrazione strisciante di tale concetto, in quanto sostanzialmente equivalente all’esimente dell’art. 1218 c.c., nello spazio dell’azione di responsabilità promossa da lavoratori infortunati o ammalati per il risarcimento del danno biologico, v. ad es. Cass. 2 gennaio 2002, n. 5, peraltro in un caso in cui è stato ricondotto alla responsabilità datoriale l’incidente stradale occorso a un dipendente in servizio, in quanto dovuto allo stress da superlavoro. 17 A tale ampiezza si deve, tra l’altro, la riconducibilità all’evento assicurato dell’infortunio in itinere, sul quale si sono manifestate, da un certo momento, tendenze giurisprudenziali estensive, poi recepite dall’art. 12 del d. lgs. n. 38/2000: v. ad es. Cass. 28 aprile 2006, n. 9982; Cass. 3 agosto 2005, n. 16282; Cass. 8 giugno 2005, n. 11950. 18 Per tutti, anche per l'accurata ricostruzione storica, v. A. Pandolfo, op. cit., 37 ss.
luogo ad una responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, così da scongiurarne, quantomeno, il licenziamento in tronco. La concezione della malattia come impossibilità di prestare è rimasta a lungo incontrastata, anche se con un rilievo limitato al piano dogmatico, visto che la disposizione del codice civile aveva disciplinato esaustivamente gli effetti fondamentali della fattispecie (diritto alla retribuzione e alla conservazione del posto), ed entrambi, fra l’altro, in chiave derogatoria, o quantomeno specializzata, rispetto al regime comune. In elaborazioni più recenti, peraltro, essa è stata oggetto di perplessità, suggerendosi il ricorso alla categoria (priva, tuttavia, di riscontri positivi) dell'inesigibilità, con l’intento di porre in luce la presenza, nella situazione, di un conflitto fra interessi, arbitrato dall’ordinamento con l’assegnazione di un’interinale preminenza all'interesse del debitore ad essere esonerato dalla prestazione per salvaguardia della salute19. Altri hanno preferito insistere sull’impossibilità, ma con l'indispensabile precisazione, di ascendenza mengoniana, che la relativa valutazione, inerendo alla persona, non può che risolversi in un giudizio di valore, e, segnatamente, in una comparazione tra interessi: la prestazione deve reputarsi “impossibile” tutte le volte che, ove continuasse a lavorare, il dipendente metterebbe a repentaglio la salute e la guarigione. Pertanto, in concreto, rileva la constatazione di un’incompatibilità fra lo svolgimento delle mansioni di pertinenza del lavoratore20 e la sanità del medesimo. In questa prospettiva, che sospinge in seconda fila la mediazione, pur ancora proficua, delle categorie civilistiche21, a campeggiare non è più la prestazione, bensì la persona, e con essa il principio costituzionale di tutela della salute. Da questa base concettuale e di valore si dipanano implicazioni, che permettono di precisare l’ambito oggettivo della nozione di malattia, canale di accesso alla disciplina di tutela. Anzitutto, proprio perché ruotante attorno alla salute della persona, il diritto ad astenersi dal lavoro può anche derivare (non da una condizione inabilitante in atto, ma) dalla mera esigenza di sottoporsi tempestivamente ad una terapia che sia, in concreto, incompatibile con la continuazione del lavoro22. Un riscontro positivo di tale opzione è stato offerto dalla disciplina dei permessi per cure idrotermali, che dopo tormentate oscillazioni legislative (scandite dalla sentenza 18 dicembre 1987, n. 559, della Corte costituzionale, la quale si distinse per una lettura molto ampia della nozione di malattia, pur riassorbita, in qualche misura, dalla giurisprudenza successiva), si è attestata sull’art. 16 della legge 30 dicembre 1991, n. 412, secondo cui, per poter essere goduti al di fuori delle ferie (ed essere, in tal caso, retribuiti), i permessi in questione debbono essere giustificati da una motivata attestazione di un medico specialista, che dia atto del carattere “determinante” del trattamento idrotermale, nonché, soprattutto, dell’esigenza di una 19 V. soprattutto (ma sulla scia di spunti di C. Smuraglia) P. Ichino, Malattia, assenteismo e giustificato motivo di licenziamento, in Riv. giur. lav., 1976, I, 278- 279, e più di recente Il contratto di lavoro, cit., 31 ss.; M. J. Vaccaro, op. cit. , 15. 20 Cfr. R. Del Punta, op. cit., 40 ss.; A. Pandolfo, op. cit., 142 ss. 21 V. però, ad es., Cass. 28 giugno 2006, n. 14891: “La risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell’adempimento”. 22 Tanto è stato affermato chiaramente da Corte cost. 18 dicembre 1987, n. 559, in Riv. it. dir. lav. 1988, II, 3, su cui v. ancora infra, nel testo. Con riguardo ad una malattia professionale, v. Cass. 23 giugno 2005, n. 13479. Per il caso di un lavoratore necessitante di periodici trattamenti per emodialisi, v. Pret. Abbiategrasso 19 febbraio 1986, in Lav. '80, 1986, 625. V. anche R. Del Punta, op. cit., 48-49, sia pure con alcuni distinguo. In senso contrario, ove non si provi l'opportunità della visita per prevenire un processo morboso, v. Pret. Padova 29 luglio 1982, in Giust. civ., 1983, I, 678.
sua fruizione “tempestiva”23. Al di là di questa ipotesi classica, il problema dell’applicazione della disciplina della malattia in caso di procedure diagnostiche e/o terapeutiche sembra destinato a porsi, in prospettiva, in misura crescente, in specie a proposito di prestazioni sanitarie nuove (e già previste a livello sperimentale da varie Regioni), come il Day Service ambulatoriale24. Il fatto che nel corpo dell’art. 2110 la conservazione del posto sia garantita al lavoratore malato o infortunato soltanto per un periodo delimitato di tempo ha facilmente consentito, altresì, di attribuire allo stato di malattia o di infortunio il necessario attributo della “temporaneità” (rapportabile alla categoria dell’impossibilità parziale ratione temporis), realizzandosi altrimenti la diversa (per il diritto, più che per il linguaggio) condizione dell’inidoneità, come tale definitiva, al lavoro. In questo caso non trova applicazione la disciplina della malattia25, ma quella “comune” dell’impossibilità definitiva della prestazione, filtrata sul piano lavoristico (pur in modo spurio, e comunque alla condizione dell’inutilizzabilità aliunde del dipendente) tramite il giustificato motivo obiettivo di licenziamento26. Il nodo delicato è se intendere l’inidoneità come una condizione già in atto e senza alcuna aspettativa di miglioramento27, ovvero, più estensivamente (a detrimento del lavoratore), anche in termini previsionali e probabilistici, secondo un approccio che ha avuto qualche riscontro nella giurisprudenza28, ma che non si è affatto consolidato29. Del resto, il fatto di non riconoscere, ad un lavoratore colpito da un evento di portata ancora più grave, l’applicazione dei pur transitori benefici collegati 23 Un’ulteriore, e pur particolare (anche come disciplina, tanto da non poter essere ricondotta all’art. 2110) ipotesi nella quale l’esigenza di sottoporsi a un trattamento terapeutico è stata presa in considerazione dal legislatore come motivo di legittima astensione del dipendente dalla prestazione è quella della tossicodipendenza (art. 124 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), la quale, se accertata, può comportare il diritto all’accesso ai programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi sanitari delle ASL o di altre strutture, con diritto alla conservazione del posto per il periodo del trattamento o comunque per un periodo non superiore a tre anni. Durante tale aspettativa (che può essere richiesta anche da un familiare del tossicodipendente) non è prevista, peraltro, la corresponsione del trattamento retributivo, a meno di più favorevoli discipline contrattuali. Sono comunque fatte salve le disposizioni che prevedono, per ragioni di ordine pubblico, particolari requisiti psico-fisici e attitudinali per l’accesso all’impiego. Sul regime di questa (meno assistita, rispetto alla malattia, data la carenza retributiva, ma) innovativa ipotesi sospensiva, v. Pret. Milano 5 novembre 1993, in Riv. crit. dir. lav. , 1994, 363, con nota di F. Scarpelli, Lavoratore tossicodipendente e licenziamento. Cfr. anche G. Pera, Disposizioni per la tossicodipendenza e l'AIDS nel rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav. , 1990, III, 198; A. Topo, La tutela del lavoratore tossicodipendente, ivi, 1993, I, 247. Per le mansioni che comportano rischi per la sicurezza, l’incolumità e la salute dei terzi, come individuate da un d.m., sono inoltre previsti (art. 125) accertamenti di assenza dello stato di tossicodipendenza (svolti dal medico competente), i quali comportano, se positivi, un giudizio di inidoneità temporanea al lavoro, con avviamento del lavoratore al Sert territorialmente competente, e comunque con cessazione dell’assegnazione alla mansione e affidamento, ove possibile, di mansioni diverse; le intese preliminari per l’emanazione del d.m. in questione sono state fissate, il 30 ottobre 2007, in un’intesa della Conferenza Stato-Regioni (per un commento alla quale v. M. Marrucci, Test antidroga per mansioni a rischi: pubblicata l’intesa Stato-Regioni, in Guida al lav., n. 47/2007). 24 L’INPS ha cominciato ad occuparsene con il messaggio 12 febbraio 2008, n. 3701 (cfr. P. Gremigni, Day Service ambulatoriale e trattamenti di malattia, in Guida al lav., n. 8/2008). 25 Per un riscontro nel diritto comunitario, v. Corte di Giustizia C.E., 11 luglio 2006, C-13/05, secondo cui per il diritto comunitario handicap e malattia non sono assimilabili, sì che un lavoratore licenziato per causa di malattia non può invocare la tutela offerta ai disabili dalla direttiva n. 2000/78/CE, contro le discriminazioni sul luogo di lavoro. 26 Sul punto, che presuppone l’esame del regime del licenziamento in pendenza di malattia, v. § 2.13. 27 Nel senso che l’inidoneità, a differenza di quella nascente dalla malattia, ha carattere permanente, o “quantomeno durata indeterminata o indeterminabile”, v. Cass. 24 gennaio 2005, n. 1373. 28 V., ad es., Cass. 17 maggio 1997, n. 5416; Cass. 2 aprile 1996, n. 3040, in Not. giur. lav. ,1996, 618. Per l’ulteriore precisazione che l’inidoneità si deve valutare in relazione al pregiudizio, anche probabile, arrecato al dipendente dall’attività lavorativa svolta, v. Cass. 13 dicembre 2000, n. 15688. 29 Si v., ad es., la ragionevole precisazione (Cass. 13 aprile 1992, n. 4507, in Not. giur. lav. 1992, 659) per cui rileva, ai fini risolutori (§ 2.13), soltanto un’inidoneità fisica “di grado elevato residuata alla completa guarigione o alla stabilizzazione della parziale remissione della malattia”.
alla malattia, comporta difficoltà sul versante dell’equità30. In linea di principio, la nozione di malattia dovrebbe essere “tarata” sulle concrete mansioni normalmente espletate dal dipendente, di guisa che potrebbe persino darsi il caso di un lavoratore incapace di svolgere certe mansioni, ma non altre, alle quali potrebbe essere legittimamente assegnato, eventualmente sulla base di una prescrizione medica “articolata” (così come accade, ma lì per evitare il licenziamento, nel caso di inidoneità). Ma nell’esperienza italiana una siffatta prassi è, a dir poco, rara31, a monte di tutto essendovi la tradizionale riluttanza della classe medica (che pure, va riconosciuto, non dispone di adeguati strumenti di conoscenza nel passaggio cruciale del controllo, ed è spesso costretta ad affidarsi alle informazioni più o meno complete fornite dal dipendente32) a rapportare la valutazione medica alle mansioni effettivamente svolte33. Altrettanto infrequente è che il problema dell’effettività dell’incapacità al lavoro emerga nell’esperienza giudiziaria. Qualche segnale in controtendenza, a partire da alcuni vicende esemplari34, ha cominciato tuttavia a registrarsi sin dagli anni ’80 del secolo scorso, quasi sempre per il tramite di inferenze logiche desunte dall’acclarato svolgimento di altre attività (lavorative o di altra natura) da parte del lavoratore malato35. Infatti, senza il “grimaldello” di condotte abusive (che tuttavia, essendo all’oscuro della diagnosi della malattia, il datore ha difficoltà a valutare), l’incapacità al lavoro rimane una cassaforte difficile da penetrare. Infine, non è in discussione che la disciplina dell’art. 2110 (al pari di quella previdenziale36) trovi applicazione anche nelle ipotesi di malattie o infortuni determinati da colpa del lavoratore37. 30 Non è un caso che tale garanzia, quanto meno per la prima tranche (18 mesi) del periodo di comporto, sia assicurata da tutti i contratti collettivi dei comparti pubblici. 31 Si collega a questo, in certo senso, l’affermazione che, non venendo meno durante la malattia i doveri di diligenza, buona fede e corretta, è giustificato il licenziamento intimato a un dirigente che abbia rifiutato, sol perché malato, ogni comunicazione con il datore di lavoro, rendendosi irreperibile e non dando riscontro a una richiesta di informazioni: v. Cass. 20 novembre 2006, n. 24591. 32 Nel senso che non costituisce prova idonea dell’infermità un certificato nel quale il medico curante si sia limitato ad attestare la dichiarazione del lavoratore circa il proprio disturbo, v. però App. Roma 16 gennaio 2004, in Riv. it. dir. lav., 2004,II,61. 33 Tanto che, forse per troncare gli abusi alla radice, si era suggerito che la valutazione sull'impedimento al lavoro esulasse dalla competenza del medico: così la tesi minoritaria di P. Ichino, Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nel rapporto di lavoro, Milano, 1979, 94, sulla quale, criticamente, R. Del Punta, op. cit., 48. 34 V. ad es. Trib. Milano 31 gennaio 1997, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 791; Trib. Parma 7 novembre 1996, ivi, 1997, II, 120, a conferma di Pret. Parma 22 luglio 1995, ivi, 1995,II,876 (ed a propria volta confermata da Cass. 5 maggio 2000, n. 5622), che aveva ritenuto effettivamente sussistente la lombalgia cronica certificata dal medico curante, ma ha escluso il suo preteso effetto inabilitante; Pret. Parma 27 giugno 1989, ivi, 1989, II, 404 (sul punto che la stessa inidoneità permanente sulla quale si è fondato l’avviamento obbligatorio al lavoro non può giustificare l’astensione, occorrendo un’infermità in fase acuta); Pret. Milano 3 febbraio 1989, ivi, 298, nel caso di una centralinista col mignolo ingessato, escludendosi la malattia a dispetto del diverso parere di tre successivi medici USL, in quanto la lavoratrice continuava ad essere in grado di attendere alle proprie normali; Pret. Torino 19 gennaio 1989, ivi, deducendosi l'inesistenza di un'infermità anche dall'osservazione diretta dell'aspetto del lavoratore nel corso dell'udienza convocata in costanza dell'allegata malattia. Nel senso che la sindrome premestruale può dar luogo a malattia, nella misura in cui si accompagna a concreti disturbi (come cefalea, nausea e vomito), v. Cass. 27 marzo 1991, n. 3332, in Not. giur. lav., 1991, 141. Per altre citazioni, relative ai vari momenti del controllo sulla malattia, v. infra, nel testo. 35 § 2.5. 36 Per l’infortunio sul lavoro, gli artt. 11, 3° co., e 65 del d.p.r. n. 1124/1965, escludono il diritto alle prestazioni soltanto nel caso di infortunio doloso (o autolesionistico), e non anche colposo (peraltro, il concetto di “rischio elettivo” è evocativo di una colpa particolarmente grave). 37 V., in tal senso, R. Del Punta, op. cit. , 96 ss.; P. Ichino, Malattia del lavoratore subordinato, cit., 6; A. Pandolfo, op. cit., 96 ss. La questione fu dibattuta a proposito dell'indennità previdenziale di malattia, ritenuta spettante anche in caso di malattia colposa, v. Corte cost. 28 aprile 1976, n. 91, in Riv. giur. lav. 1976, III, 132; Cass. 13 febbraio 1997, n. 1314, in Giust. civ., 1997, I, 1545, con nota di G. Pera; G. Dondi, op. cit., 45 ss. La soluzione di cui al testo è rimasta ferma anche
Ma è in circolazione, nella materia, anche un’altra nozione di malattia, non del tutto coincidente con quella sin qui discussa. Ne è la fonte non l’art. 2110, bensì l’art. 2109 c.c., letto alla luce della sentenza 30 dicembre 1987, n. 616, della Corte costituzionale38, che ne ha dichiarato la parziale illegittimità, nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo di ferie ne sospenda il decorso. Piuttosto che l’incapacità al lavoro, rileva, a questi fini, l’incapacità al riposo, vale a dire l’incompatibilità dell’evento morboso con la funzione di recupero delle energie psico-fisiche (id est, anche puramente ricreativa), propria dell’istituto feriale39. Nella difficoltà di munirsi di gestibili criteri di identificazione della fattispecie (oltre che di contare su accertamenti efficaci), dopo iniziali tentativi fuori misura40 i contratti collettivi si sono di massima affidati, pragmaticamente, a soglie temporali minime di durata della malattia (ad es. tre giorni)41. 2.2. Comunicazione e certificazione della malattia. Nel procedimento di accertamento della malattia si distinguono due momenti separati: quello rivolto a portare a debita conoscenza il datore di lavoro della sopravvenienza della malattia, tramite la comunicazione e la certificazione della medesima, e quello (eventuale) del controllo. La fonte dell’obbligo di comunicazione, al di là della sua rispondenza al generale dovere di correttezza42, è la contrattazione collettiva. Pressoché tutti i contratti, privati e pubblici, pongono a carico del lavoratore l'obbligo di giustificare la malattia e l’infortunio extra-lavorativo mediante la presentazione tempestiva di un certificato medico, ma anteponendo di solito a detto obbligo un autonomo e distinto obbligo di dare comunicazione, a breve (ad es. 24 ore), dell'evento inabilitante occorso43. Oltre che per consentire la sostituzione del dipendente malato, l'avviso dovrebbe servire al datore anche per disporre l'eventuale visita di controllo. Nella prassi, tuttavia, onde incidere anche sulle malattie di brevissima durata, tale visita è spesso richiesta quando ancora non sono ufficialmente noti i motivi dell'assenza del lavoratore, ergo sulla base di una mera supposizione in ordine agli stessi44. E’ sempre la normativa collettiva, in secondo luogo, ad abilitare il lavoratore a provare (interinalmente) la malattia inviando una certificazione del proprio medico di dopo l’emanazione dell'art. 5, 1° co., del d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626 (oggi trasposto nell’art. 20, 1° co., del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81), il quale ha imputato a ciascun lavoratore il dovere generale di prendersi cura della propria salute (oltre che di quella dei colleghi di lavoro). 38 Poi ulteriormente precisata da Corte cost. 19 giugno 1990, n. 297, anche per evitare il corto circuito giuridico che avrebbe potuto altrimenti condurre a riconoscere efficacia sospensiva delle ferie anche alle cure idrotermali. 39 V., ad es., Cass. 6 aprile 2006, n. 8016, osservando altresì che l’effetto sospensivo si determina dalla data della conoscenza della comunicazione della malattia da parte del datore di lavoro; Trib. Milano 26 ottobre 2005, in Or. giur. lav., 2005, I, 982. 40 Come la limitazione dell’efficacia sospensiva alle malattie comportanti un ricovero ospedaliero, ritenuta non accettabile dalla Cassazione: v. Cass. 3 agosto 1999, n. 8408. 41 Anche qui, pertanto, nel dissenso, pur meno consolidato, della Suprema Corte: v. Cass. 14 dicembre 2000, n. 15768. 42 Nel senso che, anche in mancanza di espresse prescrizioni contrattuali, il lavoratore dovrebbe ritenersi tenuto a comunicare tempestivamente la malattia secondo correttezza e buona fede, v. Cass. 26 marzo 1984, n. 1977, in Giust. civ. , 1984, I, 2170, in un caso riguardante un pilota di aereo che era stato licenziato perché, comunicando la malattia soltanto nell'imminenza del volo, aveva provocato notevoli disservizi. 43 Sull’informalità di tale avviso v., ad es., Trib. Firenze 3 marzo 1987, in Toscana lavoro giur., 1987, 488. 44 Ciò fu avallato dalla Cassazione: v. Cass. 5 maggio 1979, n. 2156, in Riv. giur. lav., 1980, II, 89. V. anche Trib. Milano 23 luglio 1974, in Mass. giur. lav., 1974, 511, a riforma di Pret. Milano 16 aprile 1974, in Or. giur. lav. 1974, 346.
fiducia45, dotata di una valenza probatoria non inesistente (dato il dovere deontologico), ma realisticamente debole. Occorre aggiungere, peraltro, che per i soli lavoratori dipendenti da amministrazioni pubbliche, l’art. 71, 3° co., della legge 6 agosto 2008, n. 133, ha disposto che “nell’ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni (ivi compresa l’ipotesi di una malattia originariamente certificata per un periodo inferiore ma poi protrattasi oltre il decimo giorno, tramite un certificato di proroga, senza soluzione di continuità, n.d.a.) e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell’anno solare l’assenza viene giustificata esclusivamente mediante presentazione di certificazione medica rilasciata da struttura sanitaria pubblica”. Con circolare n. 7/2008 del Ministro per la funzione pubblica, è stato precisato, peraltro, che è certificato idoneo allo scopo anche quello rilasciato da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale. L'invio del certificato non costituisce soltanto lo strumento per soddisfare un onere probatorio (avente ad oggetto l'evento malattia), che il lavoratore può comunque assolvere in qualsiasi momento (anche, al limite, in giudizio), ma è pure il contenuto di un obbligo, concernente un comportamento strumentale a rilevanza organizzatoria, a prescindere dal fatto che la malattia possa essere nota altrimenti al datore di lavoro46. Le vecchie diatribe dogmatiche sulla natura della posizione soggettiva del dipendente possono ritenersi assorbite dalla rilevazione di una compresenza di una duplicità di situazioni soggettive, che si collocano su piani diversi47. In quanto obbligo strumentale, il suo rispetto è assoggettato a termini, da intendersi perentori, prescritti dai contratti collettivi (due - tre giorni dall’inizio della malattia). Di fatto, invece, non viene quasi mai in gioco il rispetto del termine ex art. 2 l. n. 33/1980, che obbliga il lavoratore ad inviare all'INPS il certificato di malattia, e al datore di lavoro un attestato di malattia48, entro due giorni dal rilascio, ma che vale soprattutto sul piano dell’autonomo rapporto previdenziale lavoratore - INPS, cioè ai fini del conseguimento dell'indennità economica di malattia49, corrisposta materialmente dal datore di lavoro, ma come mero adiectus solutionis causa50. Qualora gli obblighi di tempestivo invio dell'avviso e/o della certificazione di malattia non vengano rispettati, la relativa assenza dal lavoro è di solito qualificata dai contratti collettivi come ingiustificata, con la conseguente applicabilità delle sanzioni disciplinari (sino al licenziamento) previste per tali ipotesi (in aggiunta alla possibile trattenuta della retribuzione51, in applicazione del principio di 45 La trasmissione dell'avviso non esonera ovviamente dall'invio del successivo certificato, che rappresenta la prova della malattia, ma l'invio in tempi brevissimi del certificato assorbe l'avviso: v. Cass. 21 marzo 1997, n. 2494, e, per la giurisprudenza di merito, Trib. Milano 8 marzo 1977, in Or. giur. lav., 1977, 414. 46 In questo ordine di idee, v. R. Del Punta, op. cit., 107 ss.; A. Pandolfo, op. cit., 365-366; L. Salutini, Profili probatori, disciplinari e contrattuali nella malattia del lavoratore, in Riv. dir. lav., 1977, I, 171. Per il rilievo che l'infrazione commessa dal lavoratore non va “derubricata” a mero inadempimento formale, v. invece O. Mazzotta, Accertamenti sanitari, eccessiva morbilità e contratto di lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind. , 1983, 1 ss. , qui 5. 47 Per una completa ricostruzione del dibattito, v. R. Del Punta, op. loc. cit. 48 Ma, per l’affermazione per cui i principi di correttezza e buona fede impongono di applicare la regola di cui alla legge n. 33/1980 anche all’ipotesi di malattia contratta all’estero, v. Cass. 24 giugno 2005, n. 13622, in Mass. giur. lav., 2006, 40. 49 Cfr. R. Del Punta, op. cit. , 116 ss.; per la rilevanza anche privatistica della norma, v. invece G. Dondi, op. cit., 61 ss. Sulla finalizzazione del certificato al conseguimento dell'indennità di malattia, v. infra, nel testo. 50 In argomento, v. G. Dondi, op. cit., 92 ss. 51 Alla quale corrisponde, sul piano previdenziale, la sanzione della perdita dell’indennità di malattia per i giorni di ritardo (rispetto al termine ex art. 2 l. n. 33/1980) nell’invio della certificazione (v. ,ad es., Cass. 8 febbraio 1995, n. 1420), fatta salva l’esistenza di un giustificato motivo che abbia materialmente impedito tale invio (v. Corte cost. 29 dicembre 1988, n. 1143, in Mass. giur. lav. ,1988, 796).
corrispettività). Tali sanzioni prescindono dal'effettività dello stato di malattia, per cui non sono scongiurabili offrendone la prova (ferma la necessità, per il datore di lavoro, di tenere conto di tutti gli elementi, anche soggettivi, del caso). L'unica chance, per il lavoratore, è provare di essere stato impedito, da circostanze cogenti (id est rilevanti come causa di impossibilità ex art. 1218 c.c.), persino ad inviare il certificato medico, come nella situazione di un lavoratore privo di congiunti prossimi che sia rimasto privo di sensi a causa dell’infermità, o che sia stato ricoverato in ospedale senza contatti con l’esterno52. 2.3. Il contenuto della certificazione. Il già menzionato art. 2, l. n. 33/1980, dispone che il certificato di malattia, che il lavoratore deve inviare all'INPS, contenga diagnosi e prognosi rese dal medico curante, e che invece la certificazione o attestazione da inviare al datore di lavoro rechi esclusivamente la prognosi della malattia. Questa regola, pensata per proteggere (ante litteram) la riservatezza del lavoratore, è stata criticata dalla dottrina53, in quanto la mancata conoscenza (se non, talora, in via di fatto) della natura della malattia sottrae al datore di lavoro buona parte della sua legittima facoltà di valutazione circa la sussistenza dello stato di incapacità e la congruità della prognosi54. In alcune evenienze, peraltro, può essere il lavoratore ad avere interesse a rendere nota al datore di lavoro la natura della malattia, ad es. per usufruire di particolari termini di comporto, come quelli previsti in caso di neoplasie55. Si potrebbe ipotizzare, infine, che in presenza di malattie di natura infettiva56, al di là dell’eventuale dovere di denuncia all’autorità sanitaria, la riservatezza del lavoratore ceda nei confronti dell’interesse dei colleghi a proteggersi dal pericolo di un contagio, rilevante anche sotto il profilo dell’obbligo “di sicurezza” ex art. 2087, con conseguente (ma problematica) ipotizzabilità di un dovere di comunicazione secondo buona fede. Esso è stato positivamente escluso, peraltro (artt. 5 e 6, l. 5 giugno 1990 n. 135), per i soggetti colpiti da infezione da HIV, il cui anonimato è rigorosamente protetto57. 2.4. La facoltà datoriale di valutazione della certificazione medica. Il datore di lavoro, cui sia stata tempestivamente comunicata e certificata una malattia, ha la possibilità di accettare la certificazione, senza neppure disporre una visita di controllo, o viceversa di contestarne l’attendibilità. A questo secondo fine, anzitutto, non è imprescindibile passare per l'espletamento di una visita “fiscale” di controllo58, che pure rappresenta la soluzione più prudente, 52 V., ad es., Cass. 24 giugno 2005, n. 13622.; Cass. 9 giugno 1993, n. 6416. Per due casi nei quali il lavoratore non aveva potuto comunicare la malattia, per uno stato di demenza alcoolica, v. Cass. 13 febbraio 1997, n. 1314, in Giust. civ., 1997, I, 1545 con nota di G. Pera, e Trib. Sassari 4 settembre 1993, in Giur. merito ,1994, 8. 53 Cfr. R. Del Punta, op. cit., 155-156, sviluppando uno spunto di P. Ichino, Diritto alla riservatezza, cit., 95-96. 54 § 2.4. 55 V. Cass. 19 novembre 2001, n. 14475, che ne ha tratto la conseguenza della legittimità del licenziamento intimato, dopo la scadenza del comporto ordinario, dal datore ignaro della natura della malattia. 56 In argomento, v. R. Del Punta, op. cit., 118 nt. 29; A. Pandolfo, op. cit., 88. 57 V. però Corte cost. 2 giugno 1994, n. 218, in Dir. lav. 1994, II, 478. 58 Per la non imprescindibilità della visita di controllo fiscale, anche in virtù di argomentazioni di carattere costituzionale, v.
e di fatto (al di là dei suoi incerti, e di solito frustranti, esiti) più seguita. Possono darsi, infatti, casi in cui il datore di lavoro, senza aver disposto la visita di controllo, ha a disposizione elementi che permettano di considerare inattendibile il certificato di parte, consentendo la comminazione di sanzioni disciplinari, motivate dall'assenza ingiustificata del lavoratore. Così, se un certificato non è regolare dal punto di vista formale (ivi incluse le indicazioni minime di contenuto), l'onere di certificazione, id est di prova della malattia, non può considerarsi validamente assolto, e la conseguenza – sempre rovesciabile, peraltro, in giudizio – è l'ingiustificatezza dell'assenza dal lavoro. E’ il caso di un certificato oggettivamente indecifrabile59, o comunque carente di qualsiasi dato apprezzabile e riconoscibile in ordine all’esistenza di una condizione inabilitante60, alla prognosi, o alla provenienza del medesimo da un medico61. A queste irregolarità si affianca, come ipotesi aggravata, la falsificazione del certificato, che per la sua carica fraudolenta integra, di massima, gli estremi della giusta causa di licenziamento62. Ma il certificato può essere esteriormente regolare, e tuttavia inattendibile. V’è, anzitutto, la teorica possibilità di una valutazione interna, tecnica, della congruità della certificazione. Non si potrà ritenere attendibile, ad es., un certificato che contenga una prognosi, fatta risalire dal medico ad un momento eccessivamente anteriore al giorno di effettuazione della visita medica. Ma quale sia il lasso temporale oltre il quale simili certificati perdono attendibilità non può essere stabilito una volta per tutte, anche perché variabile da malattia a malattia63. Per il datore di lavoro è invece arduo, almeno in questa fase, valutare se la malattia denunciata comporti o no un’effettiva e concreta incapacità al lavoro, e ancor più se la prognosi indicata sia congrua. Tale disagio è dovuto, primariamente, alla non conoscenza della diagnosi, che è pure all’origine della difficoltà di valutare lo svolgimento, da parte del malato, di altre attività, lavorative o di altra natura. Una casistica potenzialmente interessante, sebbene limitata, è emersa, tuttavia, nella giurisprudenza di merito64; dovendosi tener conto che, se la scelta di irrogare il provvedimento disciplinare è, in larga misura, “al buio”, durante il processo la barriera della riservatezza salta e tutte le carte difensive debbono essere messe sul tavolo65. Ma più frequente, per intuibili ragioni, è che il datore di lavoro ritenga di desumere l’inesistenza della malattia, e quindi – a monte - l’inattendibilità della Cass. 30 gennaio 1990, n. 609; Cass. 26 febbraio 1985, n. 1674, in Mass. giur. lav., 1985, 234 (a proposito della visita preassuntiva di idoneità fisica, il cui non esperimento non preclude un successivo accertamento giudiziale); R. Del Punta, op. ult. cit., 156. Per la superata opinione per cui, se non ha disposto la visita di controllo, il datore di lavoro non può più contestare la malattia, v. invece Cass. 17 gennaio 1986, n. 309, in Mass. giur. lav., 1986, 200. 59 Come in un caso in cui è stato ritenuto legittimo il licenziamento comminato ad un lavoratore che aveva inviato per fax un certificato redatto a mano, in lingua portoghese, e nell’insieme indecifrabile, nonché privo di indicazioni circa il luogo ove effettuare l’eventuale visita di controllo: Cass. 24 giugno 2005, n. 13622. 60 Non è idoneo a giustificare l’assenza un certificato con la dizione “Il sig. X necessita di ulteriori giorni di riposo e di cura”: Trib. Milano 31 gennaio 1997, in Lav. giur., 1997, 595. 61 Non è indispensabile, peraltro, che il certificato sia redatto facendo uso della corrente modulistica. 62 V. Cass. 5 febbraio 1985, n.816, in Giust. civ., 1986,I,1339; App. Milano 27 settembre 2007, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 130. Per un caso nel quale la falsità del certificato è stata considerata sintomo evidente dell’arbitrarietà dell’assenza, v. Cass. 19 luglio 1985, n.4283, ivi, 1267. Ma in un’occasione è stato adottato, paradossalmente, un approccio meno severo in casi in cui il falso era stato talmente grossolano da essere facilmente riconoscibile: v. Cass. 1° marzo 1985, n.1784. 63 In una pur rara occasione nel quale il problema si è posto, non si è ritenuta eccessiva, ragionevolmente, una prognosi estesa al giorno precedente la visita di un giorno: v. Cass. 27 marzo 1991, n. 3332; Pret. Lecco 30 aprile 1998, in Giust.civ., 1988,I,2422. 64 A partire dalla casistica già citata retro, § 2.1. 65 A quel punto anche la prognosi è sindacabile: per il caso di un’assenza di più di un anno, motivata da un modesto strappo muscolare, v. Trib.Milano 6 ottobre 1989, in Riv.it.dir.lav., 1990,II,414.
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