La cultura come intelligenza d'amore di Maria Grazia Maitilasso

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Maria Grazia Maitilasso

                         La cultura come intelligenza d’amore
                                      di Maria Grazia Maitilasso

                                              1. Introduzione

       In che senso la cultura è intelligenza d’amore1 ? In che senso noi donne de “la
Merlettaia”2 coltiviamo intelletto d’amore?
       Il senso non si coglie tanto nell’enumerazione delle iniziative culturali pro-
poste in questi anni alla città dal circolo, né tanto meno si esaurisce nella descrizio-
ne degli specifici contenuti delle attività, credo che la “novità fertile”3 sia da rinve-
nire nelle modalità di approccio alla cultura che abbiamo tentato di praticare: la
consapevolezza che l’esercizio di cultura, la frequentazione con le produzioni sim-
boliche cambia il mondo se c’è una trasformazione soggettiva e che questa trasfor-
mazione soggettiva avviene in relazione con altri e altre. È per questo che mi sem-
bra di cogliere il senso del lavorio di questi anni andando ad indagare come il mio
rapporto con la cultura si è trasformato. Lo farò rappresentandolo attraverso tre
figure: quella dell’esteta narcisista, quella dell’intellettuale-guida; quella di chi ha
intelligenza d’amore.

                                  2. La figura dell’esteta-narcisista

       Prima di incontrare il pensiero e la pratica politica delle donne intrattenevo
con la cultura un “amore” molto tradizionale, tutto inscritto nelle costruzioni di
senso dell’ordine patriarcale. Come suggerisce l’etimo mi “coltivavo”4, o la cultura
“coltivava” me. Ma, sebbene il termine evochi trasformazione, crescita, questi cam-

     1
        L’espressione è ripresa da un articolo di Luisa Muraro, L’intelligenza d’amore in: Annarosa Buttarelli e
Liliana Rampelli (a cura di) Duemila e una donne che cambiano l’Italia, Milano: Pratiche, 2000 p. 154.
     2
        Il Circolo di pratica e riflessione politica “La Merlettaia” opera a Foggia dal 1992 grazie al desiderio
iniziale di un gruppo di donne, Katia Ricci, Antonietta Lelario, Clelia Iuliani, Rosy Daniello, Cornelia Rosiello,
Pina Massarelli, che hanno dato inizio a questa impresa e ne hanno avuto grande cura in tutti questi anni. Il
loro desiderio ha attirato molte altre donne come me, e anche alcuni uomini.
      3
         Dal titolo del convegno curato dall’artista bolognese Donatella Franchi con la collaborazione della
critica d’arte foggiana Katia Ricci, svoltosi a Bologna il 28 e 29 ottobre 2000 sul pensiero delle donne nella
produzione artistica e nella critica d’arte, nell’ambito delle iniziative di Bologna 2000, Città europea della
cultura.
      4
         Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Milano: Garzanti, 1991, p. 273.

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biamenti rimanevano un ciclo inerte, poiché si risolvevano tutti in un solipsismo
che mi lasciava in una sorta di contemplazione estetica, nel rispecchiamento men-
zognero di un immaginario tipico dell’ordine simbolico maschile.

                                3. La figura dell’intellettuale-guida

       C’è l’altro versante di una modalità altrettanto diffusa di rapporto con la
cultura che si può esemplificare nella figura dell’intellettuale-guida; anche io
non ne sono stata indenne. Il mio rapporto con la cultura era diventato appa-
rentemente più “politico”: quando ho cominciato a frequentare la cultura come
“impegno” pensavo che il mio compito fosse mettere in circolo nella città quel-
le produzioni simboliche che a mio avviso potessero produrre spostamenti, tra-
sformazioni, crescite; un processo, aperto sì al mondo, non arenato nelle secche
dell’individualismo narcisista, ma pur sempre unidirezionale, di sola andata,
senza ritorno5 ; processo che ha in sé un piccolo germe autoritario, da re-filoso-
fo, da intellettuale-guida6 , di chi “possiede” la verità e doverosamente la dif-
fonde.
       Sia la figura dell’esteta narcisista, sia quella dell’intellettuale-guida, rappre-
sentano due modalità di rapporto con la cultura alquanto diffuse, che si alternano o
si sovrappongono, due facce di una stessa medaglia, poiché tutte interne a un ordi-
ne simbolico patriarcale nel quale giganteggia l’individualismo dell’artista-genio o
quello dell’intellettuale-guida. Espunta da sé la coscienza che la verità si costruisce
nella relazione con l’essere, queste due modalità hanno la medesima funzione: par-
lare al posto di tutti, dire una verità che si pensa assoluta, universale, espressa e
interpretata secondo canoni rigidi. Modalità ormai alle corde, in crisi come in crisi
è l’ordine patriarcale, la cui strenua sopravvivenza si presenta nelle vesti della farsa,
del non-senso, del nichilismo, del formalismo, del già detto.

                                       4. L’intelligenza d’amore

      Con la politica e la riflessione di pensiero delle donne, sono pervenuta alla
cultura come “intelligenza d’amore”: l’alternativa non è fra il coltivare la cultura
“dentro di sé” o “fuori di sé”, è praticabile una terza via, quella della cultura come

     5
       Andata e ritorno è il titolo di una mostra collettiva di artiste progettata e organizzata e da Donatella
Franchi con la collaborazione di Katia Ricci, partita dalla galleria “Il graffio” di Bologna, ha fatto tappa alla
“Merlettaia” di Foggia, alla “Galleria delle Donne” di Torino, per poi ritornare a Bologna. Nata da un’idea
dell’artista scomparsa Federica Manfredini, l’operazione ha coinvolto numerose artiste, alcune critiche d’arte
e donne di alcuni luoghi di elaborazione del “pensiero della differenza” di varie parti d’Italia, “in cammino”
per rendere visibile la creatività delle donne.
     6
       Francesco Fistetti, Hannah Arendt e Martin Heidegger. Alle origini della filosofia occidentale, Roma:
Editori Riuniti, 1998, pp. 18-20.

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relazione d’amore. A questo proposito trovo illuminante un’espressione di Christa
Wolf: “Fra uccidere e morire, c’è un’alternativa: vivere”.
        Intelligenza d’amore. Ancora una volta andare all’origine della lingua mi soc-
corre - ho imparato da mia madre a interrogarmi sulla nascita e il senso delle parole
e dei suoni -: la cultura è l’atto dell’intelligere, cioè di inter-legere, legare insieme in
modi sempre nuovi e sempre diversi fili di realtà e di esperienza; ma, se ci fermiamo
solo all’intelligenza, la cultura continuerebbe a collocarsi nei canoni tradizionali
analizzati nelle figure precedenti: così intesa sarebbe l’opera meccanica di demiurghi
solitari, il cui solo compito è quello di essere contemplata e incorporata. Diversa è
l’intelligenza d’amore. Perché l’amore è relazione: ha ragion d’essere solo in pre-
senza di ciò che è “altro da sé”, ma non basta ancora, perché la presenza dell’altro è
ragione necessaria ma non sufficiente: occorre che l’altro sia ricercato, desiderato,
ascoltato, toccato. Accade allora che l’amore è ricerca, desiderio, pulsione, emozio-
ne, è corpo esposto al mondo e all’interazione. Ed è proprio l’amore che ordina
l’intelligenza, che inter-lega, ordina i fili, inventando trame sempre nuove, giochi di
pieni e di vuoti imprevisti.
        Nel senso dell’intelligenza d’amore, la cultura è politica. Come la politica7 ,
l’intelligenza d’amore non può prescindere dalla relazione fra due soggetti che si cer-
cano e si desiderano, come nella primaria relazione con la madre; e come la politica,
l’intelligenza d’amore è libertà di dare inizio a qualcosa d’imprevisto. E allora l’intel-
ligenza d’amore è narrazione della messa in circolo del desiderio fra due soggetti, è
sguardo diverso che opera piccole rotazioni sulla realtà8 , che apre squarci di verità.
Accade che la cultura non è di chi la produce e di chi la assorbe passivamente. La
cultura come intelligenza d’amore, la fanno due soggetti in relazione, due desideri
che si incontrano, che si contaminano, che circolano, che confliggono… anche.
        In questi anni di pratica politica con le donne della Merlettaia, ho imparato
anche che non è indifferente il sesso degli occhi che guardano, che non è indifferen-
te il sesso dei soggetti desideranti, come non è indifferente la loro storia. Ho impa-
rato che la cultura non scaturisce dall’incontro fra me e un “testo”, ovvero fra me e
una produzione simbolica di qualsiasi tipo, il testo è bensì il “pre-testo” che attiva
l’incrocio di sguardi, parole, desiderio fra me e un’altra donna, o uomo. In questo
senso abbiamo intelletto d’amore: in questo incrociarsi di sguardi, di parole, di azioni,
in questo scambiarci reciprocamente misura e libertà, necessità e desiderio; in que-
sto senso abbiamo guadagnato quella competenza simbolica che rompe i canoni,
tipica espressione del patriarcato, della cultura e dell’arte9 .
        Nella competenza simbolica c’è però anche la consapevolezza che questa con-
quista non è automatica, essa ha tutti gli intoppi, gli arresti, le difficoltà di una

     7
       Il riferimento è al concetto di politica introdotto in Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione uma-
na, Milano: Bompiani, 1994, pp.18-20.
     8
       Dall’intervento della filosofa del linguaggio Chiara Zamboni al convegno “La novità fertile”; cfr. nota 3.
     9
      Questa riflessione scaturisce dalla ricerca sul canone letterario condotta negli anni 1999 e 2000 alla
“Merlettaia”; gli interventi di Antonietta Lelario e Katia Ricci, in particolare, vertevano sulla critica all’analisi
strutturalista dei testi.

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ricerca che è sempre aperta, mai conclusa, come aperta, inconclusa e imprevista è la
relazione con l’essere.

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       Come si può rendere “visibile” la politica culturale “dell’invisibile” che han-
no fatto in questi anni le donne, e alcuni uomini, della Merlettaia? Se questa politica
dell’invisibile è la “politica del simbolico” in cui “il meno è la più fedele rappresen-
tazione del tutto”, in cui “il senso della mancanza è l’incentivo più potente allo
scambio”10 , come si può dar conto delle trasformazioni soggettive cui conduce la
cultura come intelligenza d’amore?
       Forse è possibile attraverso una narrazione dalle origini del mio rapporto
con il simbolico attraverso le relazioni con donne e uomini. Una narrazione che
lasci aperte le interpretazioni a sempre nuovi interstizi di verità11 .

                    6. Movimenti verso la figura dell’intelligenza d’amore

         “Vorrei dunque che la parola e l’ascolto che s’annoderanno qui siano simili al va e vieni di
         un bimbo che giochi intorno alla mamma, che se ne allontani, e poi a lei ritorni per offrirle
         un ciottolo, un filo di lana, disegnando così, intorno a quel centro di pace, tutto un alone di
         gioco, all’interno del quale, il ciottolo, il filo di lana meno contano del dono pieno di tra-
         sporto che ne vien fatto”.
                                 Roland Barthes, Lezione inaugurale al College de France, 7/1/1977

         Ho imparato a leggere da mia madre. Non è un riconoscimento metaforico
o in senso lato. Ho imparato davvero da lei. Nel senso che ricordo proprio con il
mio corpo quel pomeriggio assolato d’autunno in cucina, il libro e i gomiti sul
marmo così familiarmente freddo, lei accanto, a tratti anche un po’ spazientita… e
poi all’improvviso il miracolo, all’improvviso capivo come si faceva. Ho imparato
da lei, grazie al suo amore per il mondo, non certo dai suoi titoli di studio. Da lei ho
imparato l’amore per la lettura, da lei ho imparato il gusto delle storie (sarà per
questo che il cinema mi piace anche tanto!), da lei ho imparato ad andare per il
mondo leggendo, da lei ho imparato a cercare la verità anche nei libri. Poi forse le
mie professoresse di italiano hanno continuato l’opera di mia madre: pativo con
loro la loro ironia, la passione per la “loro” letteratura; che importava che quegli

    10
       Luisa Muraro, Donne dell’altro mondo in “Via Dogana”, n. 50/51, settembre 2000
    11
       “La narrazione rivela il significato, senza commettere l’errore di definirlo, essa rivela il finito nella sua
fragile unicità e ne canta la gloria, contrariamente alla filosofia, che da millenni si ostina a catturare l’universo
nella trappola della definizione” da Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della
narrazione, Milano: Feltrinelli, 1997, p. 10.

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autori fossero quasi solo tutti i maschi della tradizione canonica: fra di noi correva
una fiducia e una speranza che rendeva tutto bello, interessante, vicino alla mia vita;
quella letteratura aveva per me una coloritura particolare. Anche quelle forse sono
state “poppate teoriche”.12
       Prima della mia entrata nella politica delle donne, nella Merlettaia per inten-
derci, amavo le opere di autori e autrici per la vita che vi prorompeva dentro, perché
sentivo che attraverso quei luoghi potevo vedere i lati più nascosti delle differenze,
i conflitti della vita, mi piaceva anche la critica letteraria perché ero alla ricerca delle
“profondità oscure, ossia le strutture materiali e simboliche che ci fanno essere e
parlare come siamo e parliamo.”13
       Ma allora non sapevo che ero alla ricerca di questo. Il mio era un procede-
re ancora inconsapevole che mi faceva dichiarare che il tale scrittore mi piaceva
perché aveva una “sensibilità femminea”, che mi faceva aborrire certe rappre-
sentazioni di “fra maschi” (genere western o guerre) e mi faceva preferire le
messe in scena di mondi di donne; riuscivo ad accettare il “fra maschi” solo se
c’era almeno una donna che movimentasse un po’ “la ripetizione dell’identico”.
Allora però credo che quella mia inconsapevolezza si accompagnasse anche a
un allontanamento da mia madre: non ero come lei, non volevo esserlo e lei non
approvava quello che facevo, anche se non ha mai smesso di amarmi; allora liti-
gavo anche spesso con la mia amica Antonietta Lelario: questa sua passione per
le donne proprio non la capivo; finché amorosamente non mi regalò Cassandra
di Crista Wolf e non mi parlò di un film, che aveva visto e discusso con i suoi
studenti e le sue studentesse, in cui lei vedeva la cancellazione di una madre
attraverso la sua idealizzazione. Era Tutte le mattine del mondo di Alain Cor-
neau. Fu una svolta.
       Non ho mai visto questo film, ma è come se lo avessi visto. Mi fidai dello
sguardo della mia amica e la sua passione per le donne adesso mi sembrava meno
sospetta. Qualche tempo fa sono andata a leggermi la recensione di Mereghetti sul
Dizionario dei film: sembra che si parli di un altro film e di un simbolico per me
insignificante.
       Con la mia entrata nella politica delle donne, iniziò anche la mia competen-
za simbolica: da allora non ho avuto più bisogno di affidarmi alla critica letteraria
per cogliere le “profondità oscure”, il simbolico che è nella letteratura, o in un
testo.

   12
        Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Roma: Editori Riuniti, 1991, p. 39.
   13
        ivi, p. 94.

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                                    7. L’indipendenza dal già detto

        Apprezzo tutte le possibili rappresentazioni della crisi del patriarcato, e quindi
anche il “fra maschi”, se c’è lo smascheramento dei meccanismi del potere, del do-
minio, della violenza - mi vengono in mente Il processo di Kafka, Lo straniero di
Camus, o I quasi adatti di Peter Hoeg -. Se poi in queste rappresentazioni traluce
un ordine simbolico diverso - non sprizzano barbagli di amore e di verità dagli
strani personaggi della famiglia Malaussene e i loro amici di Belleville di Daniel
Pennac? -, se questo simbolico è espresso da un personaggio femminile, se questo
personaggio che prelude a un simbolico diverso “gioca e inventa una nuova dan-
za”14 che perturba l’ordine costituito, allora sento che si dice la verità in un conte-
sto di finzione. In questo senso mi fanno impazzire le donne di Amatissima di Toni
Morrison e quelle di Alice Walker, la Smilla di Peter Hoeg, Jane Somers di Doris
Lessing, la protagonista di Film blu di Kieslowsky e di Holy Smoke di Jane Campion.
Questo vedo laddove gli altri vedono la decadenza, il nichilismo, la morte del sog-
getto.
        Ciò che attira il mio sguardo sono anche tutte le possibili narrazioni del rap-
porto madre-figlia - le madri e le figlie di Elsa Morante sono quelle che mi incurio-
siscono e mi inquietano di più! -. E anche questo mi sembra che apra squarci poli-
tici di verità molto più che le consuete tematizzazioni del rapporto padre-figlio,
con tutti i rischi di universalizzazione e cancellazione delle differenze - ad eccezio-
ne, forse, dei “figli” di Tabucchi, i quali vivono e sono, non a costo dell’uccisione
simbolica del padre, ma al contrario grazie all’affacciarsi dei padri a una nuova vita.
        Poi ci sono le rappresentazioni del desiderio e della libertà femminile - il mio
rompicapo attuale è il desiderio delle donne “cattive” e qui Margareth Atwood mi
viene in soccorso, insieme a Elsa Morante -; e ancora i rovesciamenti dei punti di
vista, l’ironia, la leggerezza, l’attaccamento all’esperienza…
        Molto spesso accade che tutto questo sia una produzione simbolica di segno
femminile, e se è di segno maschile, io ci vedo la vicinanza all’essere, alla matrice
della vita. Tutto questo rimane sintetizzato in me in una immagine, in un’espressio-
ne, che mi fanno vivere le emozioni e il gusto dell’opera intera.

                                        8. Nutrirsi dell’invisibile

       Ma questa mia competenza simbolica, intanto è possibile, perché si nutre di
quell’invisibile che è nella pratica politica con le donne, e nella pratica educativa
(che è poi una forma particolare di pratica politica) con i miei studenti e le mie
studentesse: sono loro che mi impongono di risignificare continuamente il mio de-

   14
        Marianella Sclavi in Antonietta Lelario, et al., Buone notizie dalla scuola, Milano: Pratiche, 1998.

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siderio di amore del mondo. Avevo visto Tutto su mia madre di Almodovar e mi
aveva entusiasmata perché ci vedevo la rappresentazione dell’amore femminile del
mondo, compreso quello dei transessuali, con la loro emulazione di quest’amore -
c’è un interessante immaginario maschile che non ragiona più in termini di invidia
del pene! -; il confronto con una recensione di Ida Dominijanni15 , che illuminava la
bellezza dello “scambio” del desiderio fra donne, non solo mi ha fatto vedere un’al-
tra porzione di verità, ma ha anche cambiato i miei rapporti con il desiderio delle
altre donne.
       In questa libertà che mi dà la competenza simbolica c’è la mia indipendenza
dal già detto, ma c’è anche una necessaria dipendenza da un’altra donna, dalle altre
donne, da alcuni uomini, che mi salva dal solipsismo insito nella prima figura della
cultura patriarcale, quella dell’esteta narcisista. Per poter andare per il mondo con
competenza simbolica ho bisogno di donne autorevoli alle quali affidarmi come ho
fatto con mia madre quando volevo imparare a leggere. Non che debbano dare
prescrizioni, regole, parametri, canoni, come accade nella figura dell’intellettuale-
guida. Che facciano come fece lei. Allora lei mi insegnò a leggere non quelle parole,
non quella pagina, mi insegnò come si possono leggere tutte le pagine del mondo.
Certo, si sarebbe spazientita di meno se si fosse limitata a farmi memorizzare solo
quelle parole, solo quella pagina che era sotto i miei occhi. E invece la mia gioia e la
sua era che adesso sapevo leggere per sempre e tutto, anche quelle pagine che lei
non avrebbe approvato: era un rischio che poteva anche correre dal momento che
c’era la sua impronta duratura che faceva da spilla di sicurezza.

   15
        Ida Dominijanni, La differenza oscena in “Via Dogana”, n. 46/47, dicembre 1999.

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