La consuetudine canonica: le riflessioni teoriche e il sistema di Suárez - Filodiritto

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                              Direttore responsabile: Antonio Zama

    La consuetudine canonica: le riflessioni teoriche e il
                     sistema di Suárez
                                                 17 Febbraio 2021
                                                Guido Ferro Canale

Indice:
1. Questioni risolte e disputate fino a Suárez
2. L'edificio teorico di Francisco Suárez (1548 – 1617)
2.1 Premessa e definizioni introduttive
2.2 Della consuetudine in generale
2.2.1 Enunciazione dei requisiti e rapporti con la lex
2.2.2 Ritus e stylus
2.3 I singoli requisiti
2.3.1 La rationabilitas
2.3.1.1 Abrogazione, proibizione pro futuro e irrationabilitas: differenze
2.3.2 Il tempo necessario per la praescriptio consuetudinis
2.3.3 I soggetti che possono introdurre la consuetudine
2.3.4 Gli atti che introducono la consuetudine
2.3.5 Il consenso del popolo
2.3.6 Il consenso del legislatore
2.3.7 Gli effetti della consuetudine e la volontà necessaria a produrli
2.4 La consuetudine secundum legem
2.5 La consuetudine contra legem
2.6 La cessazione della consuetudine
3. Sintesi conclusiva

1. Questioni risolte e disputate fino a Suárez
Come preannunciato nel precedente articolo, dopo aver inquadrato il tema, dobbiamo ora soffermarci
sugli sviluppi posteriori alla costituzione di Gregorio IX, che consistono sostanzialmente in riflessioni
dottrinali, almeno fino alla codificazione del 1917; e va subito detto che né il Codice pio-benedettino né
quello del 1983 hanno apportato grandi novità rispetto all'opinio communis faticosamente consolidatasi in
precedenza.[1]
In questa sede, sia per economia di trattazione sia perché lo scopo ultimo è pur sempre l'illustrazione del
diritto vigente, possiamo dispensarci dall'esaminare in dettaglio i dibattiti dottrinali seguiti alla Quum tanto
e darne conto solo indirettamente, esponendo invece con ampiezza notevole la costruzione teorico-
sistematica di Suárez, che è poi diventata appunto l'opinione comune, come tale presupposta dal Codice
del 1917 e anzi da esso assunta a canone interpretativo.
Basti dunque dire che, rispetto ai vari problemi aperti o lasciati aperti da Gregorio IX, i giuristi anteriori al
Doctor Eximius - i più importanti dei quali, in subiecta materia, sono Giovanni d'Andrea e il Panormitano
– anzitutto si sono trovati concordi nel distinguere tra il consenso generale del legislatore alla
consuetudine, prestato una volta per tutte nella Quum tanto, e il consenso speciale da lui eventualmente
espresso in casi singoli,[2] il quale però, a ben vedere, trasforma la consuetudine in una legge, o almeno la
munisce di un'approvazione espressa che ne attesta la rationabilitas, rende superfluo il computo del tempo
e irrilevanti, ai fini pratici, tutti gli altri problemi caratteristici della fonte consuetudinaria canonica.
Ammesso comunemente che bastasse il consenso generale, non vi sono stati particolari problemi a ritenere
che la Quum tanto, prestandolo espressamente per la consuetudine contra legem, lo implicasse a fortiori
per quelle praeter o secundum legem. Riguardo alle prime, il discorso si spostava senz'altro sui requisiti
sostanziali, in particolare sulla rationabilitas; e anche le seconde sono sempre state viste con notevole
favore, perché l'idea che la legge dipenda dall'accettazione del popolo, o almeno che questa le conferisca
una stabilità maggiore e particolare, resta molto forte per tutto il Medioevo e oltre.[3]
Rispetto alle consuetudini contra legem, tuttavia, si è manifestata ben presto l'esigenza di distinguere e
qualificare meglio il silenzio del legislatore: sa egli che la tale usanza si è di fatto introdotta? Ed è libero di
intervenire, oppure codesto suo silenzio non può valere come approvazione perché dovuto a prudenza
davanti a possibili ostacoli?[4] La risposta, anche per la gran varietà di casi e situazioni possibili, lasciava
gli interpreti incerti e divisi, tanto che più di uno riteneva necessario l'accertamento in via giudiziale
dell'esistenza della consuetudine e della sua legittimità.
Ma ancor più importante era il dubbio su chi fosse il vero autore di una consuetudine: se per Giovanni
d'Andrea il suo fondamento doveva considerarsi sempre e solo la tacita civium conventio, senza che
occorra il consenso del legislatore (posizione normale per un romanista, ma a stretto rigore non esclusa
nemmeno dalla Quum tanto), nel secolo seguente il Panormitano ha ribaltato l'affermazione e, pur
continuando a vedere nel popolo la causa efficiente della consuetudine, riteneva che essa ripetesse la
propria autorità soltanto dal legislatore. Tesi che si è presto imposta come prevalente ed è poi stata recepita
da Suárez.
Riguardo alla rationabilitas, sul cui contenuto la legge taceva affatto, si sono ben presto formate due
tendenze contrapposte, che anzi si affrontano tuttora: una per così dire “negativa”, secondo cui è
rationabilis ogni consuetudine non contraria al diritto divino, e l'altra “positiva”, che richiede non un nulla
osta ma un giudizio favorevole nel merito, variamente articolato e argomentato.
Infine, ma non da ultimo, la tendenza medioevale a concepire in
   termini “privatistici” un po' tutte le situazioni giuridiche e
   diverse oggettive ambiguità di linguaggio nelle fonti rendevano
   spesso difficile distinguere la consuetudine da un altro istituto in
   cui da un fatto continuato nasce un diritto, l'usucapione (
   praescriptio, e “prescrizione acquisitiva” ancora nel Codice
   Pisanelli). Il che complicava non poco il problema della liceità
   morale degli atti che costituiscono una consuetudo contra legem
   , e quindi della stessa possibilità di approvarla, dato che il diritto
   canonico ritiene che la buona fede sia necessaria iure divino
   nel possesso necessario ad usucapire,[5] epperò se il popolo è in
   buona fede ossia ignora l'esistenza della legge contraria,
   quest'ignoranza non inficia forse il suo consenso alla
   consuetudine in questione?

2. L'edificio teorico di Francisco Suárez (1548 – 1617)
2.1 Premessa e definizioni introduttive
Il Doctor Eximius dedica alla “legge non scritta, chiamata consuetudine”, il Libro VII del suo Tractatus
de legibus ac Deo legislatore, elaborando una teorica che, in seguito, è riuscita a imporsi come opinione
comune fino al punto di essere sostanzialmente recepita dal Codice del 1917. Per questo motivo mi sembra
opportuno offrirne una disamina molto dettagliata, quasi una parafrasi; il che, a sua volta, rende necessario
qualche chiarimento preliminare sulle caratteristiche del testo.
Qui come nelle Metaphysicae Disputationes, Suárez abbandona la forma del commento ad un testo per
redigere una trattazione organica e sistematica, che in questo caso spazia dalla teologia del diritto
fino alle peculiarità giuridiche dei regni spagnoli; va in particolare notato che l'esposizione non procede
esattamente in linea retta, ma anticipa spesso i termini generali dei temi successivi, approfondendoli
gradatamente (caratteristica in larga misura da me mantenuta nell'esposizione).
Comunque, il metodo seguito rimane, in sostanza, ancora quello medioevale, in cui si parte da una serie più
o meno ampia di auctoritates riconosciute e si costruisce una teoria capace di armonizzarle tutte; lo sforzo
può anche comportare qualche forzatura dei testi, ma la persuasività del sistema in termini di armonia
raggiunta è il banco di prova del lavoro scientifico; soprattutto, l'alternativa – scartare questa o quell'
auctoritas come errata – è inammissibile.
Ciò spiega perché, invece di proporre una definizione propria di consuetudo, egli muova dalle due recepite
nel Corpus Iuris Canonici e provenienti dalle Etymologiae di S. Isidoro di Siviglia, sebbene in apparenza
contrastanti e addirittura scorrette sul piano formale:[6] grazie ad una serie di accurate distinzioni lessicali,
Suárez non solo ne risolve i difetti, ma in pari tempo getta le basi di una rigorosa teoria sistematica del
fenomeno consuetudinario, che vuol essere generale e quindi valida per ogni diritto umano, ma è stata
pensata e costruita con una particolare attenzione per il diritto canonico e i suoi problemi specifici.[7]

   Egli viene dunque a muovere da una tricotomia tra usus, mos e
   consuetudo. In teologia, specifica per prima cosa, usus
   è l'atto della volontà che dà libera esecuzione alla propria scelta,
   in filosofia è qualunque applicazione di una facoltà all'utilizzo di
   un mezzo rispetto a un fine; ma nell'uso corrente è la “similium
   actuum frequentia”, o anche ciò che da tale frequenza nasce.[8]
   Mos si predica anche degli animali, ma solo per analogia, perché
   – come indica l'aggettivo moralis – la sua sfera propria sono gli
   atti degli esseri dotati di ragione e libera volontà; lo definisce
   come un caso particolare di usus, ossia “frequentia, seu
   continuatio, similium actuum moralium et humanorum per
   aliquod tempus”; e questa è anche la definizione di consuetudo
   , se la si considera quale dato di fatto, come fa ad es. la
   costituzione di Gregorio IX. Ma, oltre a questa consuetudo
   formalis (e all'abitudine indotta dalla ripetizione degli atti), il
   termine indica anche la consuetudo moralis ossia gli effetti
   giuridici che il fenomeno consuetudinario può produrre.[9]

2.2 Della consuetudine in generale
2.2.1 Enunciazione dei requisiti e rapporti con la lex
A questo punto, egli si porta subito sui requisiti necessari perché tali effetti si producano: li esclude
anzitutto per la vitiosa consuetudo e per gli atti, ancorché diuturni e continuati, di semplice osservanza
della legge, in quanto recepisce la tesi di Bartolo secondo cui la consuetudine opera in caso di consenso
tacito del legislatore, mentre quello espresso dà luogo ad una legge;[10] in positivo, inoltre, esige che
l'usanza di fatto sia alicui iuri consentanea e tanto comune da potersi riferire a tutta una comunità, sia nel
suo complesso sia nelle diverse parti; elemento in seguito meglio specificato nel senso che la condotta di
una singola persona, fosse pure il principe, o di una famiglia non può dar luogo ad una consuetudine, ma
occorre che si tratti di una communitas perfecta, dotata almeno della capacità astratta di legiferare, che in
concreto eserciterà o come Stato indipendente, o per consenso tacito del principe a cui è soggetta.[11]
Quanto infine al decorso del tempo, Suárez non lo pone nella definizione, ma, distinguendo la consuetudo
dalla praescriptio, anticipa che “illud sufficit, quod ad iudicandum consensum principis, vel populi
sufficiens est, ut postea exponemus”.[12]
La trattazione passa quindi alle consuetudini diverse dalla praeter legem, l'unica esplicitamente ammessa
da S. Isidoro: ribadito anzitutto che l'introduzione di una legge non può, in sé, dar vita a una consuetudine,
egli trascorre in un certo senso al caso inverso. Un problema ricorrente, infatti, e di notevole rilievo anche
pratico era la natura giuridica delle compilazioni di consuetudini, in particolare se avessero l'effetto di
trasformarle in legge e assoggettarle, quindi, al relativo regime di più agevole modificabilità.[13] Graziano
lo affermava[14] e così pure Bartolo, almeno se la compilazione sia promulgata dal legislatore per verba
obligantia; ma Suárez – ed è il primo elemento di forte novità rispetto alla communis opinio – sostiene che,
in questo caso, la medesima norma viene ad aver vigore sia come legge sia come consuetudine, quindi
l'intervento legislativo è volto a conferirle “novum robur” e a trasformarla, da speciale che era, in parte del
ius commune del regno; però, nei luoghi dove essa vigeva già prima come consuetudine, conserva
quest'autorità ulteriore, che non è inutile, poiché implica che lì non si applichi un eventuale successivo
privilegio che deroghi alla legge ma non menzioni la consuetudine.[15] Naturalmente, nella misura in cui
la compilazione apporti modifiche alle norme consuetudinarie che redige e riordina, queste varranno solo
in forza dell'autorità legislativa e non daranno mai luogo – per la ragione già vista – a consuetudini
propriamente dette.[16]
Rispetto, invece, alla consuetudine contra legem, Suárez la ritiene ammissibile per consenso tacito generale
del legislatore, civile o canonico secondo i casi, e in prima battuta si limita ad indicare che essa può
introdurre sia un obbligo sia un permesso, aggiungendo cioè un'alternativa altrettanto legittima alla
condotta prevista dalla legge e impedendo di sanzionare chi la preferisca.[17]
Il tema è, comunque, tosto approfondito, perché la consuetudo come dato di fatto viene distinta in
secundum, praeter o contra ciascuno dei possibili tipi di lex, ossia naturale, divina positiva e umana
. Per quanto già detto, la consuetudine secundum legem non può consistere nella semplice osservanza di
una qualunque lex, ma deve aggiungere qualcosa a mo' di completamento o di interpretazione; e dunque in
concreto opera solo rispetto alle leggi umane,[18] di cui anzi va considerata la miglior interprete, perché
quanto al diritto divino tutto ciò che non è contemplato è praeter legem,[19] né vi è spazio alcuno per una
legittima consuetudo contra legem, giacché il legislatore divino non vi consente. Lo spazio di intervento
della fonte consuetudinaria – ma anche di quella legislativa – è quindi individuato negli atti di per sé onesti,
ma il cui compimento non è comandato dalla legge naturale o divina positiva, o anche in quelli moralmente
indifferenti se in essi “spectetur aliqua utilitas de se honesta”.[20] (Qui va forse specificato che l'atto
onesto è quello in sé moralmente buono, mentre l'indifferenza morale comporta che esso non sia né buono
né cattivo: nel giusnaturalismo suareziano, in altre parole, ciò che è irrilevante per la morale lo è anche per
il diritto, almeno in linea di principio).[21]

2.2.2 Ritus e stylus
Prima di passare a trattare in dettaglio i diversi requisiti della consuetudine, già enumerati, il Doctor
Eximius affronta un ultimo problema di delimitazione dei suoi confini: i rapporti con i riti sacri da un lato (
ritus), dall'altro con quella che in termini moderni chiameremmo prassi amministrativa o giudiziaria (stylus
).[22] Mentre per quanto riguarda l'ambito liturgico egli non ha difficoltà ad ammettere che la consuetudine
operi come fonte e che, anzi, il termine ritus possa designare le consuetudini liturgiche in genere, nega però
che esse siano in qualche modo sui generis e le assoggetta senz'altro alle regole generali del fenomeno
consuetudinario.[23] Più articolato il discorso rispetto allo stylus, che come al solito prende le mosse da
un'analisi linguistica: il vocabolo designa innanzitutto il modo di esprimersi, specialmente per iscritto, e
questo può includere anche l'impiego di formule usuali; esse, tuttavia, non hanno mai un'importanza tale da
poter assurgere a obbligo giuridico,[24] eccezion fatta per l'ambito delle procedure, siano esse giudiziarie
oppure volte ad ottenere rescritti (accostabili grosso modo ai procedimenti amministrativi):[25] a questo
riguardo, infatti, Cino da Pistoia ha potuto definire lo stylus come “practica alicuius curiae” e Bartolo “
consuetudo quae respicit ordinem loquendi et procedendi”,[26] perché sia il contenuto degli atti sia la loro
successione secondo un dato ordine possono assumere, rispetto al bene pubblico, una rilevanza tale da
farne oggetto di legge o di consuetudine. A questo proposito, Suárez si limita a riferire le opinioni di altri
autori, in particolare Pietro d'Ancarano, sulla capacità dello stylus di fare testo nel silenzio o nell'ambiguità
della legge,[27] s'intende della norma di procedura, perché rispetto a quelle sostanziali il discorso si fa più
complesso (v. infra, §2.4).
Manca purtroppo, e sarebbe senz'altro interessante, un'analisi
   più specifica che chiarisca, in particolare, da quale “comunità”
   vada introdotta la prassi, perché, pur esprimendosi in termini
   volti a ricondurre senz'altro lo stylus nell'alveo delle regole
   generali sulla consuetudine, egli parrebbe piuttosto concepirlo
   soprattutto come prodotto dai giudici mediante provvedimenti
   giurisdizionali.[28] In particolare, contesta la tesi[29]
   secondo cui basterebbero due soli atti simili a fondare uno stylus
   , richiedendo invece atti frequenti come per la consuetudine in
   generale, tranne quando si tratti di decisioni assunte dal
   principe, o da altro legislatore, oppure in quel regno vigano leggi
   che rendono più rapidamente vincolanti le decisioni di qualche
   tribunale; fuori di queste ipotesi, tuttavia, l'autorità dei giudici è
   soltanto dottorale. Nondimeno, egli conclude, lo stylus divenuto
   usuale “per aliquos actus” va seguito “secundum prudentiam
   ”, a meno che non urgano in contrario o una ragione molto forte
   o una gravissima necessità.[30]

2.3 I singoli requisiti
2.3.1 La rationabilitas
La rationabilitas della consuetudine è una delle questioni più importanti sul piano della teoria del diritto e
Suárez mostra di esserne ben consapevole, anzitutto proprio per il fatto che, sebbene formalmente sia
richiesta dalla sola legge canonica, per lui è un requisito generale. E infatti egli comincia negando ogni
valore giuridico alla consuetudo mala ossia moralmente illecita, giacché, nel suo giusnaturalismo, ciò
implicherebbe una contraddizione con il concetto stesso di ius, quindi ben a monte della distinzione tra
civile e canonico. All'interno della consuetudo bona, poi, distingue quella che è tale solo rispetto al
contenuto, dunque secundum quid, da quella che lo è simpliciter cioè anche negli altri elementi che
rilevano, il soggetto agente e le circostanze degli atti onesti mediante cui viene introdotta: quanto a tali
requisiti ulteriori, infatti, la prima viene ad essere mala secundum quid; ma se il difetto non finisce per
rendere illecito l'oggetto stesso,[31] è comunque possibile anche per essa conservare o acquistare valore
giuridico, In particolare, quella contraria al diritto umano, “licet 'in fieri' sit mala” perché implica
necessariamente una trasgressione, “potest 'in facto esse' carere malitia”.[32]
Solo a questo punto egli introduce la distinzione cruciale, “rationabilis” vs. “irrationabilis”, notando
peraltro come essa sia oscura e, secondo diversi autori, coincida in realtà con la precedente, perché una
consuetudine moralmente lecita sarebbe in automatico rationabilis; altri addirittura reputano irrationabilis
qualunque consuetudine contra legem, invocando sia l'autorità della Glossa ordinaria, sia il fatto che la
rationabilitas è requisito comune di consuetudine e legge, quindi se lo si riconosce alla seconda (che
altrimenti non sarebbe una legge) occorre negarlo alla prima, che le è contraria. Suárez, tuttavia, contesta
con vigore entrambe le posizioni e, tra i fautori della prima, in particolare Navarro,[33] secondo cui la
contrarietà al diritto divino si darebbe “directe vel indirecte”: anzitutto possono darsi leggi e consuetudini
irrationabiles, in un certo senso, per eccesso di onestà, perché ad es. mancano contro la prudenza, come
farebbe il popolo se volesse obbligarsi a sentir Messa tutti i giorni; inoltre, il diritto – e qui intende la
legislazione canonica – dichiara tali a più riprese anche usanze che al massimo sono indecorose, come p.es.
i laici che siedono in coro con i chierici, o questi che vanno a caccia per divertimento. Navarro forse
direbbe che queste ultime sono “indirettamente” contrarie al diritto divino, ma non considera tale la
consuetudine contra legem, benché Iddio prescriva l'obbedienza verso i superiori.[34] Più in generale,
la legge non può comandare tutti gli atti non vietati dal diritto divino: gli esempi addotti mostrano casi in
cui essa, così facendo, sarebbe irrationabilis sebbene non prava. D'altro canto – e qui refuta l'altra opinione
– ben può essere rationabilis anche la consuetudine contra legem, punto su cui si richiama al Panormitano
e a Bartolo. In conclusione, sarà dunque irrationabilis ogni usanza che, pur non contraria al diritto divino,
sia però indecorosa o foriera di pericoli,[35] o contrastante con la libertas Ecclesiae; risulterà invece
rationabilis quella immune da tali inconvenienti. Visto il carattere generale di questo criterio, che richiede
l'apprezzamento di molte circostanze, in concreto il giudice, il giurista o il confessore (nei loro rispettivi
ruoli) dovranno regolarsi caso per caso;[36] tuttavia, è sempre vincolante il giudizio del legislatore, quando
dichiara espressamente irrationabilis una data consuetudine.

2.3.1.1 Abrogazione, proibizione pro futuro e irrationabilitas: differenze
Proseguendo senz'altro il discorso, Suárez - notando come gli interpreti parlino in modo promiscuo di
consuetudo reprobata - per chiarire gli effetti delle diverse previsioni e formule legali impiegate nel
Corpus Iuris Canonici, distingue anzitutto l'abrogazione della consuetudine dalla proibizione di quella
futura, nonché dal giudizio espresso di irrationabilitas, notando come solo in quest'ultimo caso sia
appropriato parlare di consuetudo reprobata e di un giudizio vincolante per l'interprete (punto su cui si
trova d'accordo con Navarro e Covarrubias). L'abrogazione, infatti, si limita a eliminare la
consuetudine preesistente, la clausola Non obstante quacumque consuetudine va riferita solo al
passato e non anche al futuro:[37] il legislatore non ha fatto altro che ritener più conveniente, hic et nunc
, un'altra disciplina, ma una consuetudine può risultar meno conveniente senza che ciò la renda
irrationabilis,[38] in questo senso depone la dottrina comune. Invece, il divieto di introdurre consuetudini
future è, in sé e per sé considerato, un effetto normale della legge, che vieta le trasgressioni: non implica un
giudizio di irrationabilitas, ma solo la presunzione che le circostanze che al momento rendono più
conveniente la disciplina introdotta dal legislatore dureranno anche in avvenire. Quando però
l'abrogazione o il divieto sono motivati bollando la consuetudine come corruptela, prava, o anche solo
minus rationabilis, oppure formulati mediante verbi come improbare o reprobare, allora abbiamo
appunto un giudizio di tal fatta. E precisamente un giudizio dichiarativo, se la contrarietà al diritto divino
o il carattere nocivo dell'usanza sono evidenti; oppure costitutivo di una irrationabilitas che non era in re
ipsa, ma da quel momento in poi vincola l'interprete allo stesso modo.[39]

2.3.2 Il tempo necessario per la praescriptio consuetudinis
Ex natura rei, alla consuetudine è necessario solo un lasso di
   tempo che basti a far ragionevolmente presumere conoscenza e
   consenso tacito da parte del legislatore; e siccome il suo
   fondamento sta appunto in questo consenso tacito, i termini
   previsti dalle norme civili o canoniche perché si compia la
   praescriptio non sono di per sé pertinenti. Tuttavia, poiché
   l'opinione comune dei giuristi – per entrambi i diritti – e
   l'impiego dell'espressione consuetudo praescripta da parte del
   legislatore canonico richiedono, per condivisibili esigenze di
   certezza giuridica, il compimento di un tempo ben determinato,
   quegli stessi termini saranno applicabili per analogia.[40]
   E il richiamo riguarda anche gli effetti, nel senso che, compiuto
   quel dato lasso di tempo, l'usanza acquisterà valore giuridico di
   consuetudine anche se non vi sia alcuna certezza circa la
   sussistenza del consenso personale del principe, almeno tacito.
Quanto poi alla durata del termine in ambito, Suárez nota che la Glossa e l'Hostiensis richiederebbero
sempre il compimento di quarant'anni, ma – ancora sulla scorta dell'analogia istituita dal legislatore
canonico – come regola generale considera sufficiente il decennio della longi temporis praescriptio
, riservando il quarantennio alle sole consuetudini contra legem.[41]
Deve comunque trattarsi di tempo continuo, ossia senza atti interruttivi: anche un solo atto del popolo che
manifesta di non voler introdurre la consuetudine, ad es. osservando la legge contraria, basta a far ripartire
il computo da zero e lo stesso deve dirsi per gli interventi dell'autorità che urgono l'osservanza del diritto
scritto, ad es punendo i trasgressori, e quindi negano la sussistenza del consenso tacito.
Tuttavia, il consenso legale e il compimento del termine, per Suárez, restano mezzi di supplenza
all'incertezza sul consenso personale tacito del legislatore; quindi, se vi è certezza che la tale usanza,
sebbene in corso da un numero di anni minore, “fit cum scientia et patientia principis”, avrà egualmente
valore di consuetudine; detta certezza dovrà, però, poggiare su mezzi di prova sicuri,[42] tanto più che la
natura stessa del problema impedisce di ancorarla ad un lasso di tempo preciso, sia pur inferiore al
decennio: a parte la sentenza da lui personalmente resa o confermata in favore della consuetudine, che vale
consenso espresso, in via generale si presume che egli conosca gli usi che si introducono o praticano nel
luogo in cui si trova e ignori gli altri, ma un buon indizio di approvazione è la tolleranza, da parte sua, della
sentenza di un giudice inferiore, a lui nota e favorevole alla consuetudine in gioco; la certezza morale può
poi anche derivare dal moltiplicarsi di pronunce od opinioni favorevoli senza che il principe reagisca.[43]

2.3.3 I soggetti che possono introdurre la consuetudine
Dal punto di vista della causa efficiente – perché la finale, a giudizio di Suárez, è la stessa della legge ossia
il bene comune – si distinguono la prossima, i soggetti che con i loro atti danno vita all'usanza, e la
primaria, la potestà superiore al cui consenso vanno ascritti gli effetti giuridici. Riguardo alla prima, egli
richiama quanto già detto circa la sufficienza di una civitas in quanto communitas perfecta, affermando
trattarsi dell'opinione comune, ma rigetta l'altrettanto comune deduzione che soltanto un popolo dotato in
atto di potestà legislativa possa introdurre una consuetudine: appoggiandosi a S. Tommaso contro Giovanni
d'Andrea, Bartolo, il Panormitano e Navarro, obietta che anche una comunità che ne sia priva può
beneficiare del consenso tacito del proprio sovrano.[44]
Risolve quindi obiezioni particolari, precisando che anche una comunità composta di soli laici può
introdurre una consuetudine ecclesiastica, sia perché gode di un'astratta capacità naturale a legiferare anche
in materia religiosa e liturgica, sia in quanto, pur dopo la fondazione della Chiesa, conserva almeno quella
di ricevere leggi simili, che a suo avviso implica una perfectio sufficiente. Per essa, come per i monasteri
femminili o, in ambito civile, per le comunità dei mercanti, basta dunque il consenso tacito del principe o
del prelato.[45]
In concreto, è necessario che gli atti vengano compiuti dalla maggior parte dei membri, perché solo così
possono moralmente imputarsi al tutto; non occorre che tutti ne siano al corrente, però devono essere
pubblici ossia notori: le azioni clandestine non fanno nascere diritto. La maggioranza si computa rispetto
ai soggetti abili al consenso, esclusi dunque i bambini e i pazzi; secondo alcuni, anche le donne e i
minorenni, ma per Suárez occorre distinguere secondo i casi.[46]

2.3.4 Gli atti che introducono la consuetudine
Oltreché pubblici, gli atti in parola debbono essere volontari; i membri del popolo possono agire
singolarmente, purché in maggioranza, oppure tramite soggetti che operano in nome della comunità; lo
stesso dicasi per le omissioni. Non basta, però, un singolo atto – come potrebbe bastare ad es. per la
praescriptio, in caso di impossessamento permanente – ma occorre che la persistenza dell'animus
sia desumibile dalla ripetizione e dalla frequenza.[47] In proposito non può fissarsi una regola generale sul
numero di atti necessario; semmai dovrà dirsi che il comportamento de quo andrà tenuto in ogni singola
occasione rilevante,[48] che per una festa potrebbe anche essere una sola volta all'anno; la frequenza però,
anche se ridotta, dev'essere tale da far percepire la volontà del popolo e quindi anche il consenso tacito del
principe.
La Glossa, il Digesto,[49] le leggi spagnole e l'esigenza di rendere sicuri in coscienza coloro che
debbono scegliere se conformarsi o meno ad una consuetudine sembrano convergere nel senso che,
per la produzione degli effetti giuridici di una consuetudine, sarebbe necessario l'accertamento
giudiziario, in contraddittorio e con “doppia conforme”, dei requisiti, in particolare della actuum
frequentia; tuttavia, l'opinione comune dei giuristi è contraria, tanto in diritto civile quianto in canonico,
perché una tale esigenza non sorge né ex natura rei né dal diritto positivo. Anzi, secondo la optima
sententia del Panormitano, una tesi simile implica una contraddizione: o la consuetudine è già perfecta
e il giudice si limita a seguirla, oppure, prima della sentenza, gli atti che l'hanno costituita sono illeciti ed
egli, nel decidere, non potrà certo considerarli legittimi.[50] Dovrà dunque dirsi, semmai, che
l'accertamento in giudizio è molto utile per provare sia il contenuto della consuetudine, sia la sussistenza
dei requisiti, e che per questa via si soddisfano anche le esigenze di certezza giuridica e tranquillità di
coscienza. Però, anche in termini probatori, si tratta solo di un'agevolazione: dopotutto, se la consuetudine
dev'essere dimostrabile in giudizio, allora dev'essere possibile raggiungere la certezza morale su tutti i suoi
elementi già prima della sentenza, anche mediante l'opinione non contraddetta di un singolo gravis doctor
(così Bartolo). Comunque, l'accertamento in contraddittorio non è mai necessario per la consuetudo
iudicialis o stylus, per il quale basta la frequente iterazione secondo le regole generali, anche (e forse
soprattutto) quando nessuno contesti la validità del tale atto, posto nel tale modo.[51]

2.3.5 Il consenso del popolo
Il requisito della volontarietà degli atti, secondo la sententia communis, è necessario per la stessa validità
del consenso del popolo: non valgono, dunque, ad introdurre una consuetudine quelli affetti da errore o
ignoranza, in particolare circa l'esistenza o il contenuto di una legge contraria; al massimo si potrà parlare
di ius putatum, ma solo finché durino l'ignoranza o l'errore. Questa tesi deve, però, fare i conti con la l.
Quod non ratione,[52] che sembrerebbe ammettere proprio una consuetudine di tal fatta e vietarne
solamente l'estensione in similibus. Tutti però ammettono che non è questo il caso, se si tratta dell'errore di
fatto; quanto poi a quello di diritto, rispetto ad una consuetudine che in realtà è praeter ius esso implica che
si ritenga che la condotta sia prescritta o proibita, sicché, in entrambi i casi, mancherà l'animus di creare un
obbligo là dove non c'è.[53] La legge andrebbe, quindi, riferita alla praescriptio, oppure letta nel senso
che il divieto di estensione in similibus implichi, non già che l'usanza continui a valere per quel caso
specifico, ma che vada eliminata del tutto, una volta scoperto l'errore, sia pur con salvezza degli atti
pregressi.[54]
Analogamente, non è possibile introdurre una consuetudine mediante atti viziati da violenza o timore grave
(diverso il discorso per quello lieve). Se per la violenza non possono certo sorgere obiezioni, riguardo al
timore potrebbe osservarsi che esso in realtà non elide del tutto la volontarietà dell'atto, si limita a diventare
la ragione determinante per cui lo si pone. Ma appunto per questo – è agevole replicare – elide l'animus
che deve caratterizzare la consuetudine in fieri.

2.3.6 Il consenso del legislatore
Per diritto comune (D.1.1.9, Omnes populi), tutte le città che hanno il potere di emanare leges ossia
statuta municipalia hanno, implicitamente, quello di dar vita a consuetudini; in Spagna però sembra
necessaria una conferma ex post da parte del re. Nella Chiesa non esiste una facoltà analoga,[55]
perciò molti autori richiedono il consenso bensì tacito, ma a quella consuetudine in particolare, come dire
una sua tolleranza continuata. Tuttavia – premesso che il consenso può essere antecedente o successivo,
espresso o tacito – non è necessario che esso abbia carattere personale, cioè risalgfa ad una manifestazione
di volontà del legislatore-persona fisica in quel dato momento storico, basta anche quella espressa in via
generale nella legge e non contraddetta in seguito, che resta efficace perché lex semper loquitur; l'opinione
che interpreta in tal senso la costituzione di Gregorio IX si è affermata come comune, ma ad analoghe
conclusioni si deve pervenire anche rispetto alla compilazione giustinianea.
Di necessità del consenso personale, almeno tacito, può parlarsi solo quando la consuetudine non duri da
un numero di anni sufficiente per la sua praescriptio; nel qual caso, tuttavia, occorre la certezza morale che
la tolleranza ossia l'inazione implichi un'approvazione vera e propria; in casi di particolare importanza o
per speciale disposizione di legge, potrà anzi esser necessario il consenso espresso.

2.3.7 Gli effetti della consuetudine e la volontà necessaria a produrli
Ricapitolati brevemente i diversi requisiti, Suárez torna a soffermarsi sulla volontà del popolo, stavolta dal
punto di vista del carattere intenzionale che debbono rivestire gli effetti della singola consuetudine:[56]
lo desume in primo luogo dal consenso degli autori, quindi dalla nozione generale di lex, che applica tanto
alla scritta quanto alla consuetudinaria, e dall'intenzionalità che nella prima si richiede al principe. Non
basta, dunque, la consuetudo come osservanza costante, occorre che sia per se intenta: che tra la cena e la
Comunione intercorra il riposo notturno è regolarmente vero,[57] ma consegue semplicemente al normale
modo di vivere, non ad una scelta intenzionale del popolo, perciò non vi è alcun obbligo di agire in tal
senso.[58]
Bisogna inoltre distinguere la volontà di introdurre una consuetudo facti da quella di introdurre un obbligo:
molte pie usanze nella Chiesa si compiono bensì dalla maggior parte dei fedeli, ma per semplice devozione,
come l'uso di segnarsi con l'acqua benedetta entrando e uscendo dal luogo sacro, o svariate offerte
volontarie. Né si può pensare che il principe intenda obbligare, tramite il proprio consenso generale,
un popolo che non ha la minima intenzione di obbligarsi.
Nondimeno, in termini pratici, deve dirsi che l'elemento materiale della consuetudine, una volta soddisfatti
tutti i requisiti di legge e in particolare il decorso del tempo, è il miglior segno esterno dell'intenzione
richiesta. Quando però, come negli esempi appena visti, gli atti non la implichino necessariamente, ma
possano anche avvenire per semplice devozione, non sarebbe né opportuno né corretto presumere la più
gravosa intenzione di obbligarsi ex praecepto e, nel dubbio, si dovrà concludere che sia una condotta “
ad melius esse, et non obligationis”. Come prova dell'intenzione, la lunga osservanza vale soprattutto
quando si tratti di una materia importante e di una condotta difficile, perché in tal caso difficilmente
potrebbe spiegarsi con la pura spontaneità; così pure se gli uomini saggi e timorati non vedono di buon
occhio quanti non si conformano all'usanza, o il popolo in generale si scandalizza; se le autorità li
rimproverano o li puniscono. Se poi rimanesse ancora il dubbio, la speciale utilità di quella consuetudine
per il bene comune può indurre la presunzione che sia stata introdotta appunto al fine di assicurarlo, il che
implica l'obbligatorietà.[59]
2.4 La consuetudine secundum legem
L'attenzione di Suárez si sposta ora sugli effetti propri dei singoli tipi di consuetudine, cominciando da
quello relativo all'interpretazione della legge. In tal caso, infatti, essa può valere come segno della prova
dell'intenzione del legislatore storico – che per lui resta il criterio interpretativo principale – ed è un indizio
tanto più forte quanto più lunga è la durata e importante la questione. Ma se questo vale per la consuetudine
secundum legem propriamente detta, che è posteriore alla legge, ha tuttavia rilevanza interpretativa anche la
consuetudine anteriore, che nel dubbio si suppone conservata e che comunque, essendo lo status quo ante
, ha fatto necessariamente da punto di partenza per l'intervento legislativo.
Se praescripta, la consuetudine secundum legem ha valore di interpretazione autentica; ma anche le
sentenze giudiziali, quando sono concordi e costanti, possono esser segno certo del consenso del popolo.
Infine, ma non da ultimo, può interpretarsi in questo modo anche la legge divina, però solo rendendo più
chiara la mens legislatoris, e tal fine occorre o una tradizione universale della Chiesa, oppure
l'approvazione del Sommo Pontefice.[60]
2.5 La consuetudine contra legem
Un problema di ammissibilità non si pone per il ius civile, ma solo in ambito canonico. Stante il dato
positivo, ossia la costituzione di Gregorio IX, lo si può risolvere o supponendo che le leggi vengano
introdotte sotto la condizione tacita che il popolo le voglia mantenere,[61] il che però renderebbe superfluo
il consenso tacito e renderebbe il popolo arbitro di obbedire o meno a qualunque legge, il che sarebbe
assurdo; oppure, e meglio, mediante il concorso della volontà del principe, successiva alla formazione di
una consuetudo perfecta.
La ragione per cui non è necessario che la comunità possieda la
   potestà legislativa, ma basta la capacità di ricevere una legge, sta
   nel fatto che il rigetto dell'obbligo legale è proprio l'actus
   contrarius connesso a questa capacità: è il modo, proprio dei
   sudditi, di esigere e ottenere dal legislatore che quella tal legge
   venga abrogata. Per questo motivo, in ambito canonico, la
   facoltà di introdurre una consuetudine abrogatrice va
   riconosciuta anche ai soli laici e, nei monasteri femminili, alle
   sole donne. Inoltre, l'intenzione della comunità non crea
   problemi interpretativi, perché non si tratta di assumere o no un
   obbligo nuovo, ma di liberarsene, e quindi gli atti di non
   osservanza sono univoci ex natura rei; e la semplice abrogazione
   di una legge, diversamente dalla sua introduzione, non richiede
   alcuna speciale utilità; non si presume il consenso del principe,
   quando ne possano risultare conseguenze dannose, tuttavia
   anche la semplice ostinazione prolungata del popolo, sebbene la
   consuetudine sia irrationabilis, può giungere a un punto tale da
   render prudente l'abrogazione stessa e, se si danno simili
   circostanze, la tolleranza vale consenso tacito a tale effetto.[62]
Rispetto alle leggi ecclesiastiche universali, giova ancora aggiungere che, sebbene si possa astrattamente
ipotizzare che vengano abrogate perché la maggior parte della Chiesa tutta intera si determina in senso
contrario, in concreto non si attende la formazione di una simile consuetudine altrettanto universale, ma
l'abrogazione avviene singolarmente per ciascuna delle comunità la cui maggioranza dà vita ad una
consuetudine particolare, capace però di derogare al diritto comune.
Tuttavia, è necessario che gli atti – positivi o di omissione – contrari alla legge siano peccaminosi, almeno
all'inizio, perché se nascessero da qualche scusa ragionevole, per esempio lo stato di necessità, non
potrebbero esser segno di una volontà contraria alla legge.[63] Potrebbe nascere, nondimeno, una
consuetudine interpretativa, che le toglie forza obbligante in certi casi straordinari ma abbastanza frequenti,
lasciandola però intatta nel resto: avviene ad es. per le leggi del digiuno e del riposo festivo.
La distinzione rileva anche sul piano del tempo necessario: la consuetudine che deroga alla legge in
qualche parte, lasciandola però sussistere nel resto, per Suárez non è contra legem in senso proprio,,
dunque le è sufficiente il decennio;[64] se tuttavia il contrasto con la ratio legis comporta necessariamente
la caducazione totale, allora occorrono i quarant'anni canonici.
Peraltro, Suárez ammette che, anche in questo caso, il consenso personale tacito del principe, se certo,
renda subito produttiva di effetti la consuetudo non praescripta. Il Panormitano oppone che dalla sua
conoscenza dell'uso illegittimo può desumersi, al più, la tolleranza; ma almeno in qualche caso – e
piuttosto di frequente in ambito canonico – l'importanza della materia e la notorietà del dissenso sono tali
da portare ad ammettere che il silenzio del legislatore consapevole vale approvazione. Non si può tuttavia,
come fanno alcuni autori, concludere che in questo caso la consuetudine contra legem matura in dieci anni:
bisogna formulare un giudizio secondo le circostanze, che prescinde da lassi di tempo predefiniti.
Il problema morale della peccaminosità degli atti contra legem viene a sua volta risolto ricorrendo alla
volontà del principe, nel senso che essi non hanno valore di per sé, ma come segno di quella, funzione che
possono assolvere anche se siano moralmente cattivi: il risultato finale, infatti, non è cattivo a sua volta, ma
consiste piuttosto nella cessazione del peccato, perché quegli stessi atti, cessata la legge, vengono a
compiersi lecitamente; e si presume che il principe consenta, non alla trasgressione in sé, ma a questo
risultato.

   Gli autori discutono se vi siano materie in cui non è ammessa la
   consuetudine abrogatrice; Suárez tuttavia lo nega, anzi,
   ammette questa forma di abrogazione perfino per le leggi che
   stabiliscono un'incapacità di agire o invalidano un atto, perché si
   tratta pur sempre di leggi umane che non elidono la volontarietà
   in quanto tale e, in più di un caso, può esser giusto abrogarle. Il
   discorso è ovviamente diverso per le leggi divine, ad es. il
   semplice sacerdote privo di giurisdizione non potrà mai ottenere
   per consuetudine il potere di confessare e assolvere i penitenti.
   [65] Tuttavia, nel caso della legge che riprova la consuetudine
   contraria, questa può sorgere e abrogarla solo se il giudizio non
   è stato espresso per contrarietà al diritto divino e le circostanze
   siano tanto mutate che è giocoforza concludere che sia ormai
   diversa la consuetudine stessa.

2.6 La cessazione della consuetudine
Come la legge, anche la consuetudine dotata di valore giuridico può cessare ab intrinseco, perché vengono
meno le circostanze che ne costituivano la ratio e la rendevano utile o giusta (sotto questo profilo, si può
dare una sua cessazione pura e semplice, di fatto come di diritto, o addirittura la genesi dell'obbligo di
seguire una consuetudine contraria alla precedente); ma è più importante indagare la cessazione ab
extrinseco – totale o parziale - per intervento di una volontà contraria, che può essere manifestata dal
principe oppure dal popolo.
Quest'ultimo caso non pone particolari problemi, a parte forse l'esigenza di specificare che la consuetudo
praescripta si intende mutata o abrogata solo quando gli atti contrari hanno a loro volta maturato ogni
requisito della praescriptio o almeno del consenso personale tacito. Quanto al tempo necessario, il
Panormitano considera sufficiente il decennio, dato che non si va contra legem, ma Suárez preferisce
distinguere: se la precedente è praeter legem, allora gli atti in parola vanno considerati contra ius
e richiedono il quarantennio; lo stesso se una consuetudine universale, che ha già abrogato qualunque
norma universale contraria, deve soffrire deroga da parte di una particolare; se invece è essa stessa
particolare e contraria al diritto universale, mentre la novità consiste nel tornare a quest'ultimo, è probabile
che basti il decennio.[66]
Invece, per quanto riguarda il principe, siccome la stessa obbligatorietà della consuetudine va ricondotta
alla sua volontà, non c'è dubbio che abbia il potere di farla cessare con un atto parimenti volontario,
specialmente se manifesti quest'intento mediante la clausola “Non obstante...”; anche in mancanza di essa,
tuttavia, la vera e propria incompatibilità importa abrogazione, mentre se è possibile salvare la
consuetudine, anche a costo di dare al testo legale un'interpretazione restrittiva, sarà doveroso seguire
questa strada.[67]
La clausola, però, vale anche come indice di volontà e (indirettamente) di conoscenza;[68] in sua assenza,
non basta l'incompatibilità, ma è necessario provare che il principe conoscesse la consuetudine. Se questa è
universale, lo si presume; se però è particolare varrà piuttosto il contrario.[69] Non occorre, infatti, che la
legge universale sopravveniente faccia menzione dell'anteriore per abrogarla, e qui vale l'argomento a pari
rispetto ad una consuetudine di identico ambito applicativo; altrettanto dovrà dirsi per i legislatori
particolari, ad es. il Vescovo, riguardo alle consuetudini dell'intera Diocesi o più ampie ancora; né il
discorso cambia per quelle immemorabili, che hanno semplicemente forza di legge positiva e quindi
possono esser fatte salve solo se, in qualche modo, stanno in rapporto di specialità con le disposizioni
sopravvenute.[70] Tuttavia, poiché la conoscenza non si presume, la legge universale non abroga le
consuetudini particolari, a meno che vi sia la clausola “Non obstante”; e lo stesso dovrà dirsi per la legge di
un regno rispetto alle consuetudini di una provincia, o di una Diocesi riguardo alla singola Parrocchia. Del
resto, il principio Lex specialis derogat legi generali vale anche quando la prima sia anteriore.
Suárez ritiene, anzi, probabile che vada sottratta all'effetto abrogativo, nei casi ora indicati, anche la
semplice consuetudo inchoata ignota al principe, purché duri da tanto tempo quanto ne basterebbe
– secondo un giudizio prudente – a far presumere il suo consenso tacito se la conoscesse: si tratta,
infatti, di una circostanza che potrebbe mutare il suo giudizio sul da farsi, se gli fosse nota, e tale da
rendere notevolmente più gravoso il mutamento di abitudini del popolo, che ha perciò “quoddam ius
” in contrario.[71]
Quando poi il Papa stesso, o altro legislatore universale, pone una legge particolare, ad es. il principe che
conferma lo statuto di una città, allora è necessario che egli sia stato informato della consuetudine o che
abbia almeno apposto la clausola “Non obstante”: l'esercizio della potestà per un ambito più ristretto non
comporta le stesse presunzioni di conoscenza che varrebbero per i legislatori particolari. Tuttavia, la legge
obbliga i sudditi a ricorrere al principe, esponendo la situazione, e a disporsi interiormente ad accettare il
cambiamento se egli dovesse comunque confermare il volere già espresso.
Infine, rispetto all'abrogazione della consuetudine immemorabile,[72] salvo ovviamente il caso di sua
menzione esplicita, i giuristi sono divisi fra tre opinioni sul tenore della clausola necessaria: per alcuni
basta “Non obstante consuetudine”, altri richiedono che si specifichi “...quacumque consuetudine” e altri
ancora richiedono l'ulteriore aggiunta “...etiam immemorabili”. Suárez ritiene che nella pratica si possa
seguire quest'ultima tesi, perché l'oscura origine di tali consuetudini lascia sussistere il dubbio che in realtà
siano state introdotte (o confermate) per legge speciale o privilegio, il che conferisce loro una certa nota di
specialità rispetto alle altre.

3. Sintesi conclusiva
L'edificio sistematico eretto dal Doctor Eximius spicca, anche nell'ambito del metodo scolastico, sia
per coerenza complessiva sia per la capacità di armonizzare le auctoritates; in un panorama che
allora restava caratterizzato da un'incertezza dottrinale diffusa, di cui ho cercato di dar conto
riferendo buona parte delle questioni controverse affrontate nel De legibus, non fa meraviglia che
questa trattazione si sia imposta sulle altre, diventando così la opinio communis.
Per agevolare il raffronto con le successive previsioni del CIC 1917, che poco distano dalle odierne, e
anche per più generale utilità del lettore, mi sembra bene ricapitolare di seguito i punti salienti della
theorica suareziana:
la consuetudine come dato di fatto è opera del popolo, ma ottiene valore giuridico solo mediante il
consenso del legislatore;
questo consenso può essere personale oppure legale; la seconda ipotesi è stata introdotta per supplire alla
mancanza della prima;
nel caso del consenso personale, basta che sia decorso un lasso di tempo sufficiente a dare la certezza
morale della consapevolezza da parte del legislatore persona fisica e del suo consenso tacito; invece, il
consenso legale opera anche in caso di ignoranza da parte sua, purché concorrano gli altri requisiti, in
particolare il decorso di dieci anni, che diventano quaranta per la consuetudo contra legem;
per essere idonea a divenir consuetudine in senso giuridico, un'usanza di fatto dev'essere stata introdotta
dalla maggior parte dei membri di una comunità che sia almeno capace di ricevere una legge (non
necessariamente anche di costituirla);
a tal fine, occorrono atti volontari, pubblici e moralmente continui per tutto il tempo necessario; in
particolare, la mancata conoscenza della legge contraria elide la volontarietà e impedisce, perciò, la
maturazione di una consuetudine propriamente detta;
occorre infatti che sussista, nel popolo interessato, uno specifico animus di assoggettarsi a quel particolare
obbligo o effetto giuridico (non basta cioè la semplice opinio iuris, come nella tesi tralatizia in diritto
italiano);
quanto al contenuto, poi, l'usanza di fatto deve essere rationabilis, ossia non contraria al diritto divino e
positivamente ordinata al bene comune; in concreto, quest'ultimo requisito si risolve, però, nell'assenza di
profili di nocività, variamente intesa;
la semplice osservanza di una legge non può mai introdurre una consuetudine in senso proprio; la
consuetudine secundum legem ha, quindi, sempre carattere almeno interpretativo rispetto a un dubbio e, in
questo senso, è la miglior interprete della legge, anzi va equiparata all'interpretazione autentica;
la consuetudine contra legem è ammissibile sul piano morale perché, sebbene gli atti che le danno vita
siano trasgressioni e dunque peccati, il risultato finale della loro iterazione è il venir meno di quella stessa
ratio peccati (a questo, non ad altro, consente il principe);
la legge può sempre abrogare una consuetudine, e viceversa;
in particolare, la legge universale abroga sempre le consuetudini universali contrarie; le particolari solo in
presenza della clausola “Non obstante consuetudine”; se però queste sono ab immemorabili, è almeno
preferibile che siano menzionate esplicitamente con l'aggiunta di “...etiam immemorabili”;
la legge particolare, a sua volta, abroga sempre la consuetudine di estensione pari o maggiore della
giurisdizione del legislatore; se però proviene dal legislatore universale, si richiede o la conoscenza della
consuetudine in questione, o la presenza della clausola, nei termini appena detti.
Vedremo in separata sede fino a che punto tale costruzione sia stata recepita oppure corretta dal legislatore
canonico.

[1] Per la storia delle teorie canoniche sulla consuetudine, è tuttora un buon punto di riferimento R.
Wehrlé, De la coutume dans le droit canonique. Essai hidstorique s'étendant de les s de l'Église au
pontificat de Pie XI, Parigi 1928; una disamina delle opinioni espresse dai commentatori del CIC 1917, con
ampi riferimenti anche alla dottrina pregressa, in A. Ravà, Consuetudine (dir. can.), in Enciclopedia del
Diritto vol. IX, Milano 1961, pagg. 443-56; più attento alle novità degli ultimi decenni, ma comunque utile
per un quadro generale E. Baura, La consuetudine, in www.bibliothecacanonica.net.
[2] Ma, sebbene isolate, prese di posizione contro l'ammissibilità del consenso generale si sono registrate
ancora in pieno Ottocento: è stato il caso, in particolare, del Card. Gousset (1792-1866), che - in un clima
di esasperato ultramontanismo - esigeva sempre quello speciale o almeno una conoscenza specifica da
parte del legislatore, seguita dal silenzio (cfr. Th. Gousset, Exposition des principes du droit canonique
, Parigi-Lione 1868, pagg. 318-30). Posizioni analoghe, nel corso dei secoli, sono state espresse da autori di
rilievo come Diana, Fagnani, Gonzalez Tellez e Schulte (A. Ravà, Consuetudine..., pag. 444, testo e nt. 8),
tra cui soprattutto il Fagnani spicca come autorevolissimo commentatore delle Decretali.
[3] “Leges instituuntur, cum promulgantur, firmantur, cum moribus utentium approbantur. Sicut enim
moribus
utentium in contrarium nonnullae leges hodie abrogatae sunt, ita moribus utentium ipsae leges
confirmantur. Unde illud Thelesphori Papae (quo decreuit, ut clerici generaliter a quinquagesima a
carnibus et deliciis ieiunent) quia moribus utentium approbatum non est, aliter agentes transgressionis
reos non arguit.”. D. IV, dictum ad c. 3.
[4] Poiché basta il consenso generale, non occorre che il legislatore abbia una conoscenza attuale della
tal consuetudine; quando però essa sia stata sottoposta alla sua attenzione – vuoi perché di legittimità
dubbia sotto qualche profilo, vuoi anche per ottenerne la conferma espressa – il suo silenzio diventa
significativo e, quindi, va interpretato secondo le circostanze. Il problema si è posto soprattutto in momenti
in cui la libertà della Chiesa era minacciata dai poteri secolari e si temeva che la mancata protesta contro le
loro imposizioni finisse per legittimarle.
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