Intervista al Land Artist Saype* - Viella

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Intervista al Land Artist Saype* - Viella
Isabelle Blaha

Intervista al Land Artist Saype*

    Guillaume Legros, perché ha scelto Saype come nome d’artista?

     Direi che provenga dal mio passato. Mi sono avvicinato alla pittura
per la prima volta con i graffiti, quando avevo circa 14 anni. Non avevo una
particolare vocazione per diventare un artista o un pittore: mio padre è un
informatico, mia madre lavora in ospedale. E poi da piccolo non ero mai
entrato in un museo, quindi il mio primo colpo di fulmine per la pittura è
avvenuto veramente tramite i graffiti, per una sorta di desiderio di esistere
nella società. Quando dipingi graffiti, devi trovare uno pseudonimo perché
cʼè in questo processo un aspetto di disobbedienza civile, una sorta di atto
di ribellione. Molto presto, ho sviluppato una forma di riflessione sul mio
lavoro e sulla mia intenzione di fare arte. Avevo trovato qualcosa di inte-
ressante, cercando una sorta di dinamica nelle lettere che taggavo; e poi
le tre lettere che più amavo dipingere o taggare erano S, A, Y, cioè “dire”
in inglese. Poi ho adottato SAYPE – è la contrazione di SAY PEACE: ho
pensato di compiere un atto di ribellione scrivendo “dire la pace”.

     Lei è diventato famoso per le sue incredibili opere, che sono veri e
propri affreschi in mezzo alla natura; però ha mosso i primi passi come
artista di graffiti di strada. Può spiegarci come è passato dalla Street Art
alla Land Art?

     Ci sono molte situazioni diverse, ovviamente. All’inizio, ho pro-
vato numerose tecniche. Come le dicevo, non ero veramente immerso
nell’ambiente artistico, quindi ho un po’ costruito le mie armi, credo, in
modo autonomo. Ho provato molte cose; andavo nei negozi di pittura e

    * Intervista realizzata il 20 maggio 2020.
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compravo un po’ tutto ciò che trovavo, per provare. E poi, quando avevo
tra i 18 e i 20 anni, mi chiedevo davvero quale fosse lo scopo dell’arte,
il significato della mia azione; e a un certo punto sono giunto a pensare
che, per me, la finalità dell’arte è catturare l’attenzione. Tutto ciò è ovvia-
mente molto soggettivo, ma pensavo che esistesse comunque una logica
nel catturare l’attenzione dello spettatore; poi ho avuto l’impressione che
si fosse talmente sollecitati dall’inquinamento visivo nelle nostre città
che, alla fine, l’atto di fare un tag, un murale o un poster, tutte queste
cose perdessero un po’ del loro significato perché non riuscivo più a cat-
turare l’attenzione della gente. Durante lo stesso periodo, leggevo molta
letteratura buddista ed ecologista. Poi, negli anni 2000, in Europa sono
arrivati i droni: ciò mi consentiva un punto di vista diverso sul mondo
e mi sono detto: Eureka! Vivevo in campagna, non conoscevo la Land
Art – oltretutto all’epoca non avevo mai visto alcun lavoro artistico re-
alizzato in esterno. Ho capito che mi si apriva così un campo infinito;
mi piaceva l’idea di uscire da tutta questa logica di Street Art, gallerie,
musei ecc. Trovavo davvero interessante pensare che avevo individuato
così qualcosa di infinito, finalmente proprio in ciò che più amo, la natura,
i grandi spazi aperti, e mi sono messo a dipingere … e poi mi sono detto
che per dare senso a questo lavoro avrei dovuto trovare un modo di dipin-
gere corresponsabile. Così, per circa un anno, ho cercato una ricetta per
produrre una pittura efficace. Ho anche trascorso circa un anno a provare
tutti i tipi di pigmenti, leganti, ed espedienti vari per arrivare a una pittura
che funzionasse. Fondamentalmente, ho iniziato in questo modo.

     Quali motivazioni e circostanze l’hanno spinta a intervenire in metro-
poli come New York e Parigi, dal momento che ha realizzato la sua opera
parigina al Champ-de-Mars? E, in quanto francese, come ha scelto la città
quale spazio e questi spazi verdi come supporto?

     A essere onesto, il processo mi si è anche un po’ imposto. All’ini-
zio, ho lavorato principalmente in montagna, in mezzo alla natura, poi fi-
nalmente ho trovato che era un po’ un peccato non confrontarmi con lo
spazio urbano. Volevo trovare una via di mezzo, vale a dire non rientrare
nuovamente nella Street Art, ma cercare un equilibrio con la Land Art che
vedevo in mezzo alla natura, in modo da integrarla nelle città, e ho trovato
piuttosto interessante potermi appropriare dei parchi cittadini. In città, direi
che c’è il vantaggio di un rapporto più diretto con le persone e la popola-
Intervista al Land Artist Saype* - Viella
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zione. All’improvviso, devi affrontare anche il lavoro in modo più diretto
che in mezzo alla natura. È stato quindi interessante per me poter andare
nelle città, incontrare persone e raggiungere il pubblico a un altro livello:
a Parigi, ad esempio, per il lancio del mio progetto Beyond Walls, per la
prima volta nel corso della sua storia il Champ-de-Mars è stato interamente
chiuso per ospitare un’opera artistica: ciò mi ha anche conferito credibilità
per lanciare il progetto che deve il fare il giro del mondo [Fig. 1].

     E per quanto riguarda il Champ-de-Mars, forse anche dal punto di
vista dei diritti umani?

    Assolutamente.

     Può spiegarci in poche parole qual è stato il suo rapporto con le is-
tituzioni e le amministrazioni; come sono andate le cose a Parigi, a New
York?

     Direi che ho diversi modi per raggiungere i miei scopi o per creare un
progetto; a volte le città mi contattano direttamente. Ad esempio Bruxelles,
recentemente, mi ha informato che voleva presentare il progetto in città:
in questo caso la richiesta viene dalla città. Per quanto riguarda il mio pro-
getto Beyond Walls, vorremmo presentarlo almeno dieci volte all’anno,
per cinque anni. Dobbiamo quindi pensare ai luoghi in cui presenteremo
il progetto in modo che esso abbia un senso, poi pensare a come lo realiz-
zeremo. Vivo in Svizzera da tre anni e sono pertanto sostenuto in questo
progetto da Présence Suisse, l’organizzazione responsabile dell’immagine
della Svizzera all’estero, che talvolta funge per me da tramite. A Parigi,
ho avanzato la richiesta tramite SOS Méditerranée, un’associazione che
avevo sostenuto nel 2018. Abbiamo semplicemente contattato il Comune
di Parigi per proporre un progetto artistico, e il Gabinetto della Sindaca, la
signora Hidalgo, ha immediatamente aderito all’idea e lo ha pienamente
sostenuto. Le porte si sono aperte. Comunque, questi sono progetti che
richiedono a monte tra i tre e i sei mesi di amministrazione, perché com-
portano una logistica complessa. Questo è stato anche il caso dell’Africa,
dove abbiamo dovuto fare tutto da lontano, recuperare i contatti giusti – è
il Municipio di Ouagadougou che ci ha accolti: là bisogna procurarsi un
contatto al Municipio, discutere a distanza. Di solito, si fa tutto quasi in
diretta, oppure tramite reti intermediarie.
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     Ci sono molti artisti napoletani che lavorano in città e nei sobborghi
di Napoli: il suo messaggio potrebbe essere interessante nel difficile conte-
sto che sta vivendo il Sud dell’Italia a causa della pandemia.

    Sarebbe un grande piacere per me scambiare idee con loro, perché ci
sono molti progetti che si realizzano così: io discuto, la gente mi dice “ah,
ma io penso che sia una città per la quale…”; perché so poco della storia
del mondo, ed è spesso parlando che si aprono porte e trovo delle idee.

     Qual è il suo rapporto con l’ambiente naturale e perché ha scelto
prati e pendii di montagne come supporto delle sue opere? Prova una ca-
rica emotiva diversa quando realizza le sue opere in un ambiente naturale
piuttosto che in un ambiente urbano?

     Spesso, quando riprendo in mano i pezzi del mio puzzle, direi umano,
ci trovo una sorta di logica, che fa pensare a qualcosa di un po’ determi-
nato, e quando mi viene detto che ho “scelto” una cosa, ho l’impressione
che essa si sia piuttosto imposta. Sono nato in un piccolo villaggio dell’Est
della Francia e ho sempre vissuto in campagna, rimanendo quindi sempre
molto vicino alla natura. Molte volte stabiliamo delle differenze tra natura
e uomo, quando alla fine noi stessi siamo parte della natura; capisce cosa
intendo? Mi dicono “come ti relazioni con la natura?” come se ci fosse
veramente una differenza tra le due cose, mentre penso che in fin dei conti
anche noi siamo la natura. Poi, provo un’ammirazione e una sorta di infi-
nita curiosità per la magia della vita e della natura. Trovo che ci sia un’in-
credibile complessità e un’assoluta armonia in tutto ciò che accade intorno
a noi; si tratta di qualcosa che mi affascina completamente da quando ero
piccolo. All’epoca, volevo diventare una guardia forestale. Poi, di colpo,
quando ho iniziato a dipingere fuori, vedendo che funzionava, la natura è
diventata per me come un terreno da gioco, ma sono stato molto attento
alle tracce che potevo lasciarvi. Con la mia squadra, ho trascorso diversi
anni ad analizzare i suoli e studiare la biodiversità, prima e dopo il mio
passaggio. Uso principalmente un gesso che posso trovare qui in Europa, il
bianco di Meudon, che è un gesso molto bianco, normalmente usato come
riempitivo, ma che uso come un pigmento per saturare la mia pittura. Ado-
pero anche il carbone di legna per il nero e proteine ​​di latte per ottenere una
sorta di colla. Cerco di utilizzare solo elementi naturali nella mia pittura. E
poi volevo davvero conoscere l’impatto del mio lavoro, anche se si trattava
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di elementi naturali. Non appena si presta un po’ di attenzione a ciò, ci si
rende conto che esistono mille modi per minimizzare il proprio impatto
sull’ambiente. Per rispondere alla sua domanda, direi quindi che in città
stiamo lavorando all’interno di parchi in cui la biodiversità è molto scarsa,
perciò in essi io sono meno sensibile alla natura, piuttosto all’energia della
città. Per l’ultimo lavoro che abbiamo realizzato a Leysin, per esempio,
eravamo in mezzo alle montagne, con lo splendore della natura… e lì suc-
cede qualcosa, è chiaro. L’energia è completamente diversa a seconda che
io sia in città o nel pieno della natura [Fig. 2].

     E poi c’è questa relazione con il pubblico che la osserva, che vede il
suo lavoro prendere forma man mano… Quindi forse sta accadendo qual-
cosa di specifico in relazione all’ambiente umano che la circonda?

      In città, siamo immersi nell’energia della città, sentiamo le macchine,
il traffico, quando andiamo la mattina per realizzare l’opera; e poi, come
lei ha detto, incontriamo continuamente persone, quindi è davvero diverso.
In mezzo alla natura, siamo un po’ più soli con noi stessi e con la natura
– in questo caso, faccio la distinzione! – e infine l’energia che emerge al
momento è completamente diversa.

     In questi giorni di pandemia di Covid 19, il suo lavoro prodotto a Ley-
sin, sulle Alpi svizzere, che rappresenta una bambina che scruta l’orizzon-
te, ha fatto il giro del mondo [Fig. 3]. Può dirci come è nata questa idea e
cosa l’ha spinta a realizzarla?

     A metà marzo, stavo tornando dall’Africa, dopo avervi trascorso un
mese con la mia squadra. All’inizio, eravamo quasi felici di essere un po’
confinati, a un livello molto personale – non sto parlando ovviamente della
tragedia che questo ha rappresentato a livello mondiale –, a noi, però, ha
fatto bene. E poi, dopo due o tre settimane, ci è venuta voglia di portare un
po’ d’aria fresca in un contesto diventato estremamente pesante. Si accen-
deva la TV, si vedevano solo statistiche di malati e di morti, l’atmosfera era
superpesante, anche se ho la fortuna di abitare in Svizzera dove abbiamo
vissuto solo un semiconfinamento: avevamo il diritto di uscire un po’ da
casa, rispettando alcune regole – mantenere il distanziamento sociale di 2
metri, evitare di mettersi in pericolo –, ma abbiamo avuto comunque una
forma di libertà. In realtà, tutti i temi che cerco di approcciare attraverso il
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mio lavoro, mi piace affrontarli in modo ottimista e positivo. Dico sempre
che si avanza nella direzione in cui si guarda e trovo che l’arte conferisca
un potere notevole a livello di ideali, nel dibattito sugli ideali; da artista,
penso di avere un posto privilegiato in questo dibattito, perché spesso si
affrontano le questioni in un modo un po’ universale. Ad esempio, si può
mostrare la foto di Beyond Crisis e un po’ ovunque c’è un’emozione che
ne emerge. Nel caso di questo progetto, di fronte ad un momento pesante,
tetro, volevo portare una ventata di aria fresca, ottimista e positiva.

    Quindi, in qualche modo, lei si definisce un po’ come un artista impe-
gnato rispetto ai suoi contemporanei, al suo tempo?

      Penso di esserlo davvero. Uso sempre con cautela il termine “impe-
gnato”, perché suggerisce un’idea di militanza, un po’ come nel caso di
Greenpeace ad esempio. Ma ovviamente, anche il mio approccio è impe-
gnato dal punto di vista della corresponsabilità; in tutti i lavori che faccio, è
davvero lì come sfondo – in ogni caso ci provo, spero. A Leysin, ad esem-
pio, ho cercato di lavorare sul fatto che la bambina è sola, raccontando un
po’ il confinamento che tutti hanno vissuto: lei ha disegnato una farandola
di personaggi a cui partecipa… i suoi amici immaginari. La farandola for-
ma una sorta di cerchio, come la terra, perché metà della popolazione nel
mondo era confinata: un evento storico. Ma ciò significa anche che siamo
tutti insieme sulla stessa barca. La bambina guarda verso l’orizzonte e poi,
disegnando questa farandola, mi dicevo una volta di più che solo insieme
avremmo potuto superare questo tipo di crisi. Nei momenti che viviamo,
dobbiamo soprattutto ricordare di essere solidali, di pensare a tutti i valori
dell’aiuto reciproco. Ritengo che sia molto importante sottolinearlo.

     Il tema della catena ricorre in molti dei suoi lavori; nella fattispecie,
in quello del progetto Beyond Walls. Quindi mani e braccia che si stringo-
no. Tuttavia, oggi, gli abbracci vengono negati e continueranno ad esserlo
a lungo per proteggerci dalla diffusione del virus. Le sue immagini acqui-
siscono così un significato ancora più emblematico per noi, diventano vere
immagini iconiche [Fig. 4]. Può precisare quello che rappresentava per lei
l’idea di solidarietà tramite questa questione dell’abbraccio?

    Lei mi sta facendo troppo onore dicendo questo, ma è molto gentile,
sono davvero molto onorato se la gente la pensa così. È vero che il progetto
Intervista al Land Artist Saype* - Viella
Blaha, Intervista al Land Artist Saype               33

Beyond Walls, al suo inizio, non parlava affatto della crisi: l’ho lanciato lo
scorso giugno, partendo dallo stupido postulato che viviamo un momento
della storia in cui il mondo si sta polarizzando – anche se è un fenomeno un
po’ ciclico –, con un’intera parte della popolazione che tende a ripiegarsi su
se stessa, e sono davvero persuaso che insieme l’umanità può affrontare le
varie sfide che deve superare. Ho l’impressione che sia davvero una follia
pensare che si possano trovare soluzioni facendo lo struzzo. L’attuale crisi
ci dimostra chiaramente che viviamo in un mondo totalmente intercon-
nesso. Quindi, chiudersi in se stessi, secondo me, è una fantasia, un’illu-
sione – se non altro perché oltretutto è anche impossibile farlo. La realtà
è giustamente dirsi che si è interconnessi e che dunque dobbiamo trovare
soluzioni comuni tutti insieme. Per me, il progetto Beyond Walls sta nel
creare simbolicamente la più grande catena umana del mondo, basandomi
davvero su questi ideali. Le persone stabiliscono spesso un parallelo sba-
gliato quando concepiscono il mondo globalizzato come un mondo diluito.
Al riguardo c’è una frase di Miguel Torga che adoro: «L’Universale è il lo-
cale meno i muri». In realtà non credo che il fatto di globalizzare il mondo
così com’è a livello dell’informazione implichi necessariamente il diluirlo:
in queste mani c’è un intero viaggio che si racconta, sono mani universali;
in fin dei conti, la stretta di mano è qualcosa di completamente universale,
nel senso che si comprende immediatamente qual è la posta in gioco. Poi,
se entriamo nel dettaglio, ci rendiamo conto che ogni mano ha una storia
e una propria identità. Questo progetto si basa davvero su questa logica:
abbattere le barriere mentali, mantenendo in definitiva l’identità di tutti.

     Beyond Walls diffonde davvero un messaggio potente, specialmente
per le giovani generazioni. Spinge a sensibilizzarle attraverso le sue opere,
riconsiderando ciò che viviamo in questo momento, evocando ciò che lei
ci trasmette attraverso le sue opere: questa nozione di un mondo solidale
anziché diviso.

     Ne sono davvero convinto. Capisco benissimo che lo straniero, tutto
ciò che non conosciamo, ci angoscino; si tratta di una posizione arcaica,
ma che si spiega molto bene. L’ho visto, ad esempio, con l’ultimo progetto
che abbiamo realizzato nel Burkina Faso. Volevo andarci perché questo
paese sta attraversando una grave crisi di sicurezza; ho pensato che sarebbe
stato un bel dono recarsi in questo paese per offrire un piccolo sostegno
ai suoi abitanti; inoltre, questo paese è stato la culla di Thomas Sankara,
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un leader africano che voleva emancipare l’Africa dall’Europa e le don-
ne, che per me rappresenta davvero una figura emblematica dell’Africa. A
febbraio, quando abbiamo capito che saremmo partiti, tutti ci hanno detto
che eravamo pazzi a voler realizzare un progetto lì, dove c’era la guerra
civile, e che non saremmo mai più tornati. Personalmente, trovo davvero
importante confrontarsi con la realtà al di fuori dei media, vivere realmente
un’esperienza. Per noi, per me, è stato proprio uno dei progetti più belli mai
vissuti a livello sociale, umano e a tutti i livelli. Onestamente, non ci siamo
mai sentiti in pericolo e abbiamo potuto lavorare a un progetto veramente
incredibile. Come essere umano, trovo bello poter vivere un’esperienza
completa al di là delle informazioni che si possono dedurre dai media.

    Inoltre, lei deve aver incontrato numerosi giovani africani, quelli del
Burkina Faso che saranno stati molto colpiti nell’assistere alla realizza-
zione delle sue opere.

   Assolutamente. Bisogna sapere che si tratta di un paese in cui oltre il
70% della popolazione, credo, ha meno di 30 anni [Fig. 5].

     Le sue opere di Land Art sono realizzate con materiali biodegradabili,
con pigmenti naturali; ci ha spiegato come li realizza e quali sceglie. Sono
destinati a deteriorarsi nel giro di pochi giorni o, nel migliore dei casi, in
poche settimane, sotto l’azione del vento e della pioggia – ho anche saputo
che il volto di uno dei suoi personaggi era stato rosicchiato dalle talpe…

    È accaduto a Leysin, dove nel 2016 ho realizzato due opere… Avevo
disegnato un grande uomo, un pastore sdraiato.

     Come vive questa fragilità e il fatto che le sue opere siano temporanee?

      Questo è davvero uno degli aspetti fondamentali del mio approccio.
Quando ho iniziato a dipingere sull’erba, leggevo molta letteratura bud-
dista: uno dei pilastri del buddismo sta nell’acquisire consapevolezza che
tutto è impermanente. Si tratta ovviamente di una questione di scala e di
punto di riferimento, ma tutto è impermanente, quindi effimero. Per natura.
Il fatto di volersi a un certo momento aggrappare a una situazione o conso-
lidarla, qualunque essa sia, provoca sofferenza. In effetti, nelle mie opere,
adoro l’idea di imparare a un certo punto a distaccarsi dalle cose. I buddisti
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disegnano per mesi dei mandala e poi spazzano via tutto con un colpo di
scopa, per imparare a staccarsi dalle cose. Gran parte del mio lavoro è una
riflessione attorno a questo tema e quindi ciò che mi affascina in questo
processo sta nel dirmi che riesco a trasmettere un messaggio, a esprimere
qualcosa in un momento preciso, e lascio perciò alla fine una traccia un po’
intemporale nelle menti, senza però lasciare traccia alcuna nella natura.
È qualcosa che mi affascina. In realtà, trovo incredibile poterlo fare. Non
ho nessun problema con la natura effimera delle mie opere, e poi sacraliz-
ziamo un po’ l’opera – o, meglio, la congeliamo nel tempo – scattandole
una foto. È la foto, in un dato momento, che fissa l’opera e trovo favoloso
dirmi che c’è stata in un preciso momento e tre settimane dopo non c’è più.
Solo la foto rimane, oppure un segno nella mente delle persone.

    Ci può dire come organizza il lavoro con la sua squadra?

      Per quanto riguarda la mia squadra, direi che posso contare su
un nucleo duro, anzi durissimo, che sono i miei amici d’infanzia. Fin
dall’inizio, sono stato fortunato ad averne due che mi accompagnano
nelle mie avventure e che alla fine, col tempo, sono diventati i miei assi-
stenti. Così, siamo una specie di piccola famiglia di tre persone, ma sono
l’unico a dipingere. Uno dei due si occupa, ad esempio, di realizzare
video per il sito Web e di organizzare la logistica; è lui che si prende
cura di tutto quando inviamo materiale in Africa o altrove, per passare
le dogane, e di tutto questo genere di cose. L’altro si concentra maggior-
mente sulla parte contrattuale dei progetti, ad esempio i contratti con le
guide; è lui che in una città chiama per stabilire un primo contatto, ed
è ancora lui che prepara la pittura sul posto: trattandosi di una pittura
che non si può conservare, inviamo i pigmenti naturali sul posto, e tutto
viene realizzato a partire da quello. Se, quando dipingo, mi servono 100
litri di bianco, lui mi prepara quei 100 litri in quindici o venti minuti.
Fondamentalmente, è così che gestisco le cose [Fig. 6]. Ora c’è un fo-
tografo con cui lavoro, dopo Parigi, per conservare una sorta di moni-
toraggio, e che si integra in parte nel processo creativo riguardo le luci
o alcune inquadrature; questo mi consente qualche volta di preparare a
monte le mie opere con lui, poiché ciò che mi affascina nella Land Art è
creare un’interazione diretta tra il luogo in cui vado a piazzarmi e la mia
opera. Concepirò dunque l’opera anche in funzione del luogo in cui la
realizzerò, in modo da pensarla anche a monte con il fotografo. Quindi
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ho queste tre persone con cui lavoro praticamente sempre e da qualche
tempo, una sorta di manager che cerca di raccogliere fondi. Al momento
non ho nessuno sponsor, sono principalmente le vendite delle mie opere
nelle gallerie, che mi consentono di sostenere i miei progetti. Ma sarebbe
molto più facile per me avere un po’ di mecenatismo che mi permettesse
di concentrarmi maggiormente sulla parte artistica del mio lavoro e di
liberarmi almeno in parte da questo genere di cose, perché non ho molto
tempo da dedicare a queste discussioni. In Africa, dal momento che tutti
i progetti vengono autofinanziati da me, cerco di ridurre al massimo i
costi, di negoziare con gli alberghi. Ho questa persona che cerca finan-
ziamenti e poi tutte le gallerie con cui lavoro.

     Quanto costano in media le sue opere?

     Dipende davvero… mi dispiace di dover dare una risposta da politico,
ma le spese possono essere completamente diverse. Anche per la produzio-
ne dell’opera propriamente detta, esse possono variare da uno a dieci. Ad
esempio, quando sono stato a Berlino per il trentesimo anniversario della
caduta del Muro, sono potuto andarci in auto, la logistica non era molto
complicata. Invece, sul Champ-de-Mars, c’erano chilometri di barriere da
montare e nove o dieci persone che proteggevano l’opera in modo perma-
nente: ci sono 30.000 persone che passano lì giorno e notte, e non pote-
vamo semplicemente accontentarci di recintarla con un nastro lungo 600
metri, le persone si sarebbero messe a camminarci sopra. Quindi, in questo
caso, c’era un vero budget – che oltretutto neanche conosco, perché ha pa-
gato il Comune di Parigi – per sicurezza, barriere, ecc. In Africa, nel Bur-
kina Faso, ho realizzato un’opera di meno di 5.000 mq; in Costa d’Avorio
di 10.000 mq e, in termini di logistica, è una cosa del tutto differente. Ho
dovuto spedire tre casse di materiale ed i costi, alla fine, possono variare
da una a tre volte. Ma il costo più elevato non è quello della realizzazione
dell’opera, bensì delle spese per gli assistenti, i fotografi: quando ci sono
quattro o cinque persone che lavorano su un progetto, ci sono quattro o
cinque notti in albergo da pagare, quattro o cinque pasti, mattina, mezzo-
giorno e sera.

     Torniamo sulla questione della conservazione delle sue opere. Ci sia-
mo chiesti se ne conservi delle copie; lei ha iniziato a parlarci di foto, ha
costituito qualche archivio?
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     Questa è una domanda praticamente esistenziale per me, che mi pone
di fronte a una sorta di dilemma interiore. Trovo fantastico poter realizzare
la mia opera, che essa sia ripresa dai media, che i miei video circolino;
ciò che mi affascina è riuscire a trasmettere messaggi, ma in fin dei conti
senza lasciare tracce. Quindi, in effetti, nel fatto di scattare una foto e di
conservare l’opera, indirettamente, c’è una parte del significato profondo
del mio lavoro che si perde un po’. So come lei che anche l’archivio è im-
portante per continuare a far vivere l’opera nella mente delle persone, ma
io ho come un duello che si combatte nella mia testa. Attualmente, l’unica
cosa che conservo sono gli schizzi, tutti gli schizzi a carboncino che ho
realizzato, a volte fotomontaggi o ancora foto: per preparare il progetto,
è necessario che io abbia un’idea della sua messa in scena, quindi faccio
degli scatti sia delle mani sia della persona –, per la bambina, ad esempio,
a Leysin, ho realizzato un servizio fotografico per aiutarmi; poi faccio de-
gli schizzi, scenari per i quali lavoro col carboncino, ecc., e queste sono
le cose che ora conservo. Conservo anche gli schizzi plastificati che ho in
mano quando lavoro: alla fine, per me, è interessante conservare una delle
poche tracce che restano dell’opera. Poi ho l’intera serie di foto, dal mo-
mento che il fotografo mi segue in tutti i progetti per immortalare un po’ i
momenti che trascorriamo, ciò che abbiamo vissuto. Ecco, queste sono le
tracce che posso conservare di tutto ciò.

     In relazione a questa domanda, per quanto riguarda le mani, credo
che lei abbia ricevuto o contattato molte persone per poter svolgere il la-
voro che ha in corso. Quindi, queste foto di mani che ha ricevuto o che
riceverà, ovviamente, stanno aspettando di essere utilizzate senza che nes-
suno sappia quando, alla fine, sarà ?

     Esattamente. Per il progetto Beyond Walls, quando scatto la foto di
una mano, la taglio al livello dei gomiti. Quindi non so più di chi sono le
mani nel mio database. Ho le mani di Anne Hidalgo, quelle di calciatori
famosi, e poi le mani di perfetti sconosciuti. Anche lì, mi sembrava che
questo processo spingesse l’universalità al massimo. Non so più a chi
appartengono le mani che dipingo, con poche eccezioni, perché a volte ci
sono tatuaggi o cose che mi ricordano dove ho scattato una foto. In effet-
ti, con la mia squadra, scattiamo foto ovunque: non appena incontriamo
persone, e queste si innamorano del progetto, proponiamo di fotografare
le loro mani – ne abbiamo forse mille attualmente nel database, non so
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di chi siano né quando, come o dove le dipingerò dopo. Ed è questo che
trovo davvero cool.

     Quindi tutto ciò è in sospeso, in tutti i sensi… Questa nozione di uni-
versalità, di divenire, di sospensione, di fragilità, tutto ciò rimanda anche
al suo interesse per la filosofia buddista?

     Certamente. C’è qualcosa nel mio percorso che mi spinge a fare quello
che sto facendo in questo momento. All’inizio, ho seguito un corso per in-
fermiere e ho lavorato per sette anni in geriatria. Credo che questo rapporto
diretto con la morte, con la sofferenza delle persone, mi abbia portato a
vedere il mondo, e in ogni caso a pormi domande sul mondo, riflettendo
diversamente. È qualcosa che mi ha fatto enormemente crescere, ed è per
questo che sono sensibile a tutte le cause sociali, umane.

     Evidentemente, con l’attuale crisi sanitaria, lei stesso ha potuto pro-
iettarsi nella sua precedente storia professionale; è stato molto sensibile a
questa mobilitazione del personale infermieristico, data l’esperienza con
gli anziani, acquisita attraverso le relazioni e il tipo di vita quotidiana da
lei conosciuti.

     Indubbiamente. Inoltre, mi sono iscritto nelle liste dei volontari, come
infermiere. Se ci fosse stato un problema di mancanza di operatori sanitari,
sarei stato davvero felice di dare una mano in quei momenti.

    Sta lavorando attualmente a un nuovo progetto ? Ha appena parlato
di Bruxelles. Può dirci di più, anche su altri eventuali progetti?

     Ne ho 50.000 in corso! Ce n’è uno che sto per finalizzare, ma è un
momento davvero difficile per me, perché cambia ogni giorno. Ieri ho ri-
cevuto una telefonata da Belfast perché dovevamo dipingere lì, davanti al
Parlamento, a ottobre, poi abbiamo rimandato ad aprile. Bruxelles, stessa
cosa, dovevamo farlo a settembre, slitterà ad aprile. Normalmente, sarei
dovuto andare in Ruanda a giugno, ma con la crisi attuale, il progetto è
stato rinviato. Stavo discutendo poco fa con il Municipio di Istanbul per
un progetto al quale tengo molto, avrebbe dovuto realizzarsi a settembre,
forse lo rimanderemo a ottobre; in teoria, dovrei andare a dipingere alle
Nazioni Unite a Ginevra alla fine di giugno. Inoltre sostengo un festival
Blaha, Intervista al Land Artist Saype              39

che non si svolgerà in Francia, chiamato Eurockéennes, per il quale avevo
lavorato due anni fa, e che si farà all’inizio di luglio. Queste sono le due
date che conosco, ma non riguardano Beyond Walls: se tutto va bene, la
prossima presentazione di Beyond Walls sarà a Istanbul o a Torino. Alla
fine dell’anno, ci dovremo trasferire a Torino.

    E poi Ginevra, le Nazioni Unite, è un luogo che lei già ha usato come
supporto…

     Non proprio. Ero stato a Ginevra, alla Perla del Lago: da cui si vede la
sede dell’ONU quando si sale in alto, ma non stavo veramente all’ONU. In
questo caso, si tratta veramente di un progetto per l’ONU, nel parco delle
Nazioni Unite, appunto per parlare ancora della crisi sanitaria, e soprattut-
to dell’idea di un organismo che funzioni come una specie di mediatore
mondiale. Penso che questa sia una cosa intelligente da fare, anche se non
farei mai un’apologia dell’ONU, si tratterebbe di una posizione politica, e
io evito la politica. Dopodiché, c’è la questione dell’imparzialità che biso-
gna porsi, quella dell’influenza… ma io non ho alcun desiderio di entrare
nel merito di queste questioni, vado all’ONU soprattutto per parlare nuo-
vamente di questa logica di universalità, di aiuto reciproco e per trovare
soluzioni comuni, che siano vantaggiose per tutti [Fig. 7].
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Fig. 1. Saype, Beyond Walls, Parigi, Champ-de-Mars.
Fig. 2. Saype, Un grand Homme et l’Avenir II, Valberg, Francia.
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Fig. 3. Saype, Beyond Crisis, Leysin, Svizzera.
Fig. 4. Saype, Beyond Walls, Step 5, Ouagadougou, Burkina Faso.
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Fig. 5. Saype al lavoro in Burkina Faso.
Fig. 6. Saype al lavoro con la sua squadra.
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Fig. 7 Saype, World in progress, Sede europea dell’Onu, Ginevra, 2020.
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