Il 'tempo' della politica di coesione - di Gian Paolo Manzella - EDITORIALE - 19 MAGGIO 2021 - Sipotra

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ISSN 1826-3534

   EDITORIALE - 19 MAGGIO 2021

Il ‘tempo’ della politica di coesione

        di Gian Paolo Manzella
            Consigliere SVIMEZ
Il ‘tempo’ della politica di coesione
                                         di Gian Paolo Manzella
                                                  Consigliere SVIMEZ

Che cosa già chiede con urgenza l’avvenire alla nostra Europa? Chiede, innanzitutto, per dirla con Ortega y Gasset, che l’Unione sia
                                                      vertebrata da iniziative di coesione politica, di coesione fisica, di coesione sociale
                                                                                                        Carlo Azeglio Ciampi, 2005

Negli anni alle nostre spalle - in cui il riferimento all’Europa è per molti versi divenuto sinonimo di
politiche di austerità - ci siamo a volte dimenticati quanto la coesione sia valore cardine dell'ordinamento
europeo. Eppure bastano pochi richiami normativi ad averne la piena conferma. Il termine “coesione”
compare subito, già nel preambolo del Trattato sull'Unione, mentre in quello sul suo funzionamento vi è
un riferimento alla ‘sollecitudine’ degli Stati membri nel “rafforzare l'unità delle loro economie e di assicurarne lo
sviluppo armonioso, riducendo le disparità fra le diverse regioni e il ritardo di quelle meno favorite”. Una
indicazione successivamente rafforzata con le norme contenute nel Titolo XVIII – artt. 174 e ss. – in cui
la coesione si delinea come elemento in qualche modo ‘ordinatore’ per la politica economica degli Stati e
della Commissione. Con gli Stati che conducono la loro politica economica e la coordinano anche al fine
di raggiungere gli obiettivi di coesione e con la Commissione che elabora e implementa politiche comuni
e dà attuazione al mercato interno tenendone conto e contribuendo alla loro realizzazione. Sempre in
quel titolo (all’art. 175) sono individuati come strumenti centrali in quest’azione i Fondi strutturali e la
Banca europea per gli investimenti, anch’essa chiamata a contribuire al raggiungimento di uno “sviluppo
equilibrato e senza scosse” (art. 308). Particolarmente significative sono, poi, le norme del Protocollo ad
essa dedicato, il n. 28, in cui la coesione è considerata “di vitale importanza per il pieno sviluppo e il durevole
successo dell'Unione”. Termini che indicano un nesso molto chiaro e centrale nella costruzione europea:
quello tra rafforzamento della coesione e pieno sviluppo e durevole successo dell’Unione. È, dunque, solo lo
sviluppo armonioso a poterne garantire la durata.
In questo affiancamento ‘ampio’ - quello tra due parole come sviluppo e armonia - c'è un'indicazione
chiara; un vero e proprio tratto culturale della costruzione europea, che è lì sin dalle sue origini. È quello
della “solidarietà di fatto” della dichiarazione Schumann del 9 maggio 1950 ed è anche quello della
“costruzione di una società più umana” del Tindemans Report del 1976: indicazioni chiare che sono ancora
essenziali per definire identità e scelte dell’Unione.

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Potrebbe sembrare inutile ribadire questa assoluta centralità dell’intervento di coesione e delle sue ragioni:
ma non è così.
Se la “solidarietà di fatto” è presente sin dall'inizio della costruzione comunitaria, i tornanti della sua ‘vita
istituzionale’ non sono stati semplici. Nonostante questa nascita per molti versi ‘aristocratica’, per lungo
tempo l'intervento regionale è stato, infatti, una politica europea in qualche modo minore.
Innanzitutto è arrivata tardi sulla scena: solo nel 1973. E solo grazie alla coincidenza degli interessi di
Italia e Gran Bretagna. Entrambe con problemi di differenziazioni territoriali: dal Mezzogiorno alle aree
industriali del Nord del Regno Unito. Fu su questo campo che i due Paesi cementarono un'alleanza
politica che ebbe quali protagonisti George Thomson - primo commissario alla politica regionale - e
Renato Ruggiero, suo capo di gabinetto. Furono loro, infatti, gli instancabili ‘pionieri’ dell'intervento
regionale europeo, impegnati in quegli anni ad affermarne l’importanza e ad assicurarne l’attuazione
superando le ritrosie nazionali di quel primo periodo di azione comunitaria.
Da quel punto di partenza, la politica regionale si è progressivamente ma lentamente affermata negli anni
Settanta: solo, però, grazie alle grandi fatiche dell'allora commissario responsabile Antonio Giolitti,
impegnato a portare a Bruxelles l'esperienza della programmazione economica nazionale (che lo aveva
visto in prima linea nella politica italiana degli anni Sessanta).
La coesione ha avuto il suo indiscutibile momento di consacrazione alla metà degli anni Ottanta: con
Jacques Delors che ne ha fatto il contraltare ‘stretto’ della liberalizzazione del mercato unico. Dopo quel
‘momento di gloria’ ha, però, ripreso una vita ‘periodicamente’ complicata. Ad ogni rinegoziazione dei
temi dell’intervento regionale si assiste, infatti, a confronti: tra Stati membri divisi in Paesi ‘della coesione’
e Paesi ‘contribuenti; tra impostazioni culturali che vorrebbero finanziare tutti i territori europei e quelle
che vorrebbero limitare le risorse a solo alcuni di essi; tra voci che mettono in questione l'effettività della
politica, proponendone l’indebolimento o la ‘rinazionalizzazione’, ed altre che segnalano il ‘valore’
aggiunto dell’intervento regionale ed i suoi risultati. D’altra parte - tranne specifiche eccezioni, come
quella di Michel Barnier, commissario alla politica regionale ed alle riforme tra il 1999 e il 2014 - non è
stata nella Commissione una responsabilità che ha normalmente attratto personalità politiche di primo
piano nell'esecutivo europeo. Nonostante il suo crescente peso finanziario non è stata considerata,
insomma, un portafoglio paragonabile a concorrenza, mercato unico, affari economici.
Più che per il suo valore intrinseco nella scala europea la coesione fa notizia e rumore per vicende relative
alle sue disfunzioni, alle ‘restituzioni’ delle risorse europee inutilizzate. Da tempo, insomma, le cattive
notizie sulla dimensione finanziaria e gestionale hanno oscurato i risultati e, soprattutto, i valori di quella
politica.

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Ma quali sono le ragioni di questa storia accidentata? Sicuramente in una prima fase ha pesato la
contrarietà di alcuni degli Stati - la Francia, per tutti - che temevano fosse una ‘scorciatoia’ per lo sviluppo
di rapporti diretti tra il livello europeo e quello regionale: un vero e proprio bypass del livello statale da
parte della Commissione europea. In un secondo momento, terminata la Golden Age di Jacques Delors,
c'è stato forse uno scarto tra una eccessiva ampiezza del mandato e le limitate risorse finanziarie per
raggiungerlo e, insieme, la difficoltà di verificare i concreti risultati dell'intervento pubblico in maniera
univoca. Da qui, il suo finire spesso per essere l’oggetto di valutazioni critiche di analisti, di giornalisti,
delle stesse istituzioni europee: e, soprattutto, della Corte dei conti, che negli anni ha spesso messo in
discussione il modo in cui le risorse per la coesione sono state investite ed i risultati ottenuti.
Ora se questa è, sino ad oggi, la storia dell'intervento – una storia, va sempre ricordato, a cui hanno
contribuito in maniera determinante personalità italiane come i già citati Renato Ruggiero e Antonio
Giolitti e, in maniera non meno incisiva, Tommaso Padoa Schioppa e Fabrizio Barca - siamo oggi ad un
punto di svolta.
Nell’attualità europea (e non solo in quella) si annodano, infatti, diversi fili che portano a intravedere un
intervento regionale sempre più marcato, con una parallela valorizzazione di questa politica: in termini
economici e finanziari e, più ancora, politici e di raccordo con la cittadinanza europea.
Ci sono prima di tutto ragioni di natura economica. Nell’attuale lungo periodo di crisi, iniziato nel 2008
e aggravato dagli effetti della Pandemia, la prima esigenza è mettere gli strumenti finanziari della coesione
in azione per far ripartire l’economia.
Il secondo punto è la questione delle disuguaglianze crescenti, anche qui rese solo più profonde dalla
pandemia Covid19. Siamo, infatti, ad un punto di svolta sotto il profilo del pensiero economico: con i temi
della sostenibilità e dello sviluppo inclusivo che sono, oramai, al centro della riflessione scientifica e di un
dibattito ampio, in cui si ascoltano voci diverse: quelle delle influenti encicliche che hanno dato origine
alla cosiddetta ‘Economia di Francesco’, di organizzazioni internazionali come l’OECD, di osservatori
globali come la McKinsey, che segnalano le trasformazioni del capitalismo e della finanza in questo nuovo
clima economico e culturale.
Il terzo punto è legato all’affermarsi di un’impostazione sempre più orientata al riconoscimento del
potenziale ‘trasformativo’ dell'investimento pubblico. È questo il filo che unisce il Next Generation alle
iniziative del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, sino agli interventi messi in campo da tutti gli Stati
membri in questo passaggio. Ed è quindi evidente che la politica di coesione - quale maggiore politica di
investimento pubblico europea – divenga un punto di riferimento essenziale in un momento in cui
l'Europa è confrontata al più grande sforzo di intervento nell’economia dal Piano Marshall ad oggi.

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Crisi economica, attenzione alle diseguaglianze e all’inclusione, affidamento sull’investimento pubblico:
è su questi elementi che va anticipato il rilancio della politica di coesione. Un’anticipazione già
testimoniata in questi mesi dalla continua attenzione della Commissione alla questione della “ripresa
simmetrica” a seguito della pandemia Covid19 e al rischio di approfondire in questo momento disparità
già esistenti, consolidando così le “Due Europe” (ma, forse, oggi sono ancora di più) di cui parlava, già
all’inizio degli anni Settanta, George Thomson; sino alla recentissima Dichiarazione di Porto in cui il
Consiglio europeo ha riconosciuto che “ora più che mai l'Europa deve essere il continente della coesione
sociale”.
C’è, poi, un ulteriore aspetto che colloca la politica di coesione nello ‘spirito del tempo’: perché è una
politica che ha ‘al centro’ la questione amministrativa. A partire dalla fine degli anni Novanta, l’intervento
europeo ha concentrato la sua attenzione anche sulla qualità delle istituzioni. In linea con le indicazioni
del nuovo ‘istituzionalismo economico’, sono considerate centrali per lo sviluppo: dove funzionano bene
l’economia cresce; dove funzionano male, dove hanno vocazione “estrattiva”, l'economia stenta. E non
è casuale, in questo senso, che il portafoglio sulla politica di coesione sia nuovamente associato, dopo
quasi vent’anni, a quello delle riforme: si tratta di un legame attualissimo dato che il vincolo tra coesione
e amministrazione è molto stretto.
Prima di tutto, perché quello della coesione è il modello di organizzazione amministrativa multilivello per
antonomasia: essa integra attorno ad una funzione di spesa l’azione di diversi livelli amministrativi -
comunitario, statale, regionale – che agiscono secondo moduli di integrazione e collaborazione. E poi
perché quello della coesione è assetto che - riprendendo l’immagine di Ortega y Gasset richiamata dal
Presidente Ciampi nel suo discorso davanti al Parlamento europeo del 2005 – concorre alla
‘vertebrazione’ amministrativa europea e all’attivazione di dinamiche di ‘europeizzazione’. La politica di
coesione contribuisce, infatti, a definire, lungo tutti i livelli amministrativi, modelli organizzativi e
funzionali uniformi; assicura un dialogo stretto tra amministrazione europea, amministrazioni statali e
regionali; agisce per una sostanziale ‘condivisione europea’ che va dall’attività di indirizzo sino alla
valutazione dei risultati dell’azione di sviluppo.
L’intervento di coesione è, quindi, oggi molto più che una semplice azione di distribuzione di risorse.
Grazie all’affermarsi di modalità condizionali proprie dei sistemi federali, persegue diversi scopi: rendere
efficaci i processi di spesa delle amministrazioni nazionali, evitando distrazioni di fondi rispetto agli
obiettivi normativi; migliorare la capacità di gestione dei programmi di investimento, rafforzando le
dotazioni delle amministrazioni responsabili; facilitare contesti legali ed economici più competitivi ed
inclusivi, condizionando l’erogazione dei fondi all’adozione di specifiche riforme. E, ancora, assicurare il
rispetto dell’acquis communautaurie da parte degli Stati e delle amministrazioni territoriali o suscitare

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l’effettiva attuazione delle raccomandazioni relative alla governance economica europea e degli impegni ad
una politica di bilancio equilibrata.
La leva finanziaria è, quindi, sempre meno neutra e focalizzata sul solo investimento. Sempre più, invece,
è strumento per il raggiungimento di specifici risultati – sia operativi, sia di contesto - e, insieme, per
l’affermazione di valori che sono oramai veri e propri capisaldi del modello europeo di intervento
nell’economia: il partenariato, la parità di trattamento uomo-donna, la concorrenza, il rispetto dei diritti
fondamentali.
È qui, oggi, la centralità, tutta politica, dell’intervento di coesione.
Una centralità di azione, in ragione della più completa attenzione ai temi della diseguaglianza e della
inclusività, accanto a quelli più tradizionali della competitività. Si tratta – per definizione, potrebbe dirsi -
della politica ‘trasformativa’ dell’Unione: sotto il piano economico, sociale, territoriale. Ed è, quindi,
inevitabile la sua maggiore valenza strategica quando è proprio la ‘trasformazione’ quello di cui i nostri
sistemi socio-economici hanno maggiore bisogno.
Una centralità di metodo amministrativo, in ragione delle modalità di organizzazione e di funzionamento
comuni ai diversi livelli di governo che è capace di suscitare. Una rilevanza che emerge quando i
meccanismi della coesione sono alla base di molte delle iniziative condotte con il NextGenerationEU: dal
Dispositivo per la ripresa e la resilienza, al Fondo per la Transizione Giusta, a React EU.
Una centralità di rapporto tra istituzioni e cittadinanza, dato che nell’intervento di coesione ci sono
ricadute dirette in termini di identità europea: con un maggior tasso di ‘europeismo’ tra i cittadini che
concretamente ne ‘vedono’ gli effetti sui loro territori.
Sono questi i motivi per cui la politica di coesione va ‘presa sul serio’: da tutti i livelli istituzionali. Con
una maggiore attenzione politica al tema; con un’azione di rafforzamento delle strutture amministrative
coinvolte sia a livello statale, sia a livello regionale; con uno sforzo in più dal punto di vista della
valutazione dei risultati e della loro comunicazione.
Sino ad oggi questa attenzione piena della dimensione ‘politico-amministrativa’ all’intervento di coesione
non c’è stata. Sicuramente non nei termini ad essa attribuiti da un discorso pubblico che dà sempre
maggiore centralità a sostenibilità ed inclusione; ma, altrettanto sicuramente, non nei termini richiesti dalla
collocazione costituzionale del valore “coesione” nella Carta comunitaria.
Anche per questo - in questo tempo di ‘ricostruzione’ e quando sono in approvazione i regolamenti per
il periodo di programmazione 2021-2027 - sembra utile rileggere e reinterpretare le norme europee che
declinano la coesione. Partendo, magari, proprio dall’etimologia latina di questa parola: il verbo cohaerere,
“essere unito”.

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