Il lavoro digitale, i suoi significati e i suoi effetti, nel quadro del capitalismo pandemico Ricardo Antunes 1, Pietro Basso 2, Fabio Perocco 3

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Il lavoro digitale, i suoi significati e i suoi effetti,
   nel quadro del capitalismo pandemico
   Ricardo Antunes 1, Pietro Basso 2, Fabio Perocco 3

    Questo numero di Socioscapes intende offrire un’analisi approfondita
dei significati attribuiti al lavoro digitale, della sua progressiva espansione
in tutti i rami della produzione sociale, dei suoi effetti sulle condizioni di
lavoro e sulla composizione del proletariato, delle reazioni di resistenza e
di rivolta dei lavoratori, nonché della formidabile accelerazione che l’in-
sieme di questo processo, e delle sue antitesi, ha conosciuto con l’avvento
della pandemia da coronavirus.

   Lavoro digitale e lavoro manuale

    L’importanza di questo tema è evidente poiché negli ultimi decenni
il capitalismo sta espandendo con sempre maggiore intensità le tecnolo-
gie dell’informazione e della telecomunicazione, un processo all’interno
del quale le corporations globali ribadiscono quotidianamente la tendenza
“inevitabile” e “inesorabile” all’ampliamento del lavoro digitale in sosti-
tuzione del lavoro manuale.
    Sorge dunque una domanda: cosa significa parlare di lavoro digitale?
Quali sono i suoi effettivi meccanismi di funzionamento? E quali i suoi
reali significati? Quando si parla di lavoro digitale, cosa deve considerarsi
mistificazione, e cosa invece è realtà?
    Gli articoli contenuti in questo numero di Socioscapes, ciascuno con le
sue singolarità e differenze, offrono un’ampia panoramica del problema.
Sappiamo bene che fin dall’avvento della rivoluzione industriale l’intro-
duzione dei macchinari è parte intrinseca del capitalismo che, in questo
modo, cerca di ridurre il lavoro vivo (realizzato dalla forza di lavoro uma-

   1. University of Campinas (Brazil).
   2. University of Venice.
   3. University of Venice.

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na) per sostituirlo con il lavoro morto (attraverso l’introduzione incessante
di nuovi macchinari, siano essi industriali o informatico-digitali).
    Se è vero che l’universo lavorativo contemporaneo è sempre più imbe-
vuto di computer, smartphone, tablet, cellulari, algoritmi, big data, internet
delle cose, industria 4.0, ecc., bisogna ricordare che nessuno di questi ele-
menti dell’universo informatico-digitale potrebbe esistere senza un qual-
che tipo di interazione con l’attività umana in generale e, in particolare,
con il lavoro manuale.
    Un esempio piuttosto illuminante: la pericolosa attività dei minatori,
degli operai che lavorano nel settore dell’estrazione mineraria (principal-
mente nelle miniere asiatiche, africane e latinoamericane) costituisce le
fondamenta su cui si struttura un complesso sistema che include la pro-
duzione globale dei prodotti informatico-digitali. Questo significa che
senza la base del lavoro vivo dei minatori il lavoro digitale non potrebbe
esistere.
    Se analizziamo la produzione di prodotti digitali su scala globale, allo-
ra il lavoro manuale risulta essere la protoforma, la prima forma di attività
che rende possibile lo sviluppo del lavoro digitale e del mondo virtuale,
con le sue tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni, che
nel nostro esempio (e potremmo farne molti altri) inizia dalla miniera e
si conclude nel cloud. Pur considerando che nel settore dell’estrazione di
minerali è presente il lavoro digitale, vi rimangono assolutamente predo-
minanti le attività di estrazione manuali. È per questo che, data la divisio-
ne internazionale del lavoro, chiaramente differenziata tra Nord e Sud del
mondo, tra centro e periferia, l’espansione delle catene di produzione del
valore non può prescindere dai collegamenti effettivi tra lavoro digitale
e lavoro manuale (senza approfondire in questa sede gli equivoci sorti
intorno a tali definizioni, quando le si considera rigide e immutabili).
    Ursula Huws (2014) offre una chiara sintesi di questa problematica
quando indica che senza la produzione di energia, cavi, computer, cellu-
lari e tanti altri prodotti materiali; senza l’utilizzo di materie prime; senza
la costruzione di edifici in cui questa moltitudine di prodotti è fabbricata
e venduta; senza la produzione e la conduzione di veicoli che si occupa-
no della distribuzione di tutte queste componenti fondamentali; senza la
produzione e la messa in orbita di satelliti in grado di gestire i segnali del
cloud; senza tutta questa immensa e diversificata infrastruttura materiale,
internet non potrebbe non solo essere connesso, ma neppure esistere.

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Pertanto, è fondamentale demistificare le formulazioni che sopravva-
lutano il lavoro digitale e lo separano, come se non avesse alcuna connes-
sione con la realtà concreta, con le sue infinite componenti materiali, di
cui il lavoro vivo è parte imprescindibile. L’universo virtuale può esistere
solo e soltanto come vertice della catena di produzione, ancorato e struttu-
rato a partire da un enorme complesso di attività condensate alla sua base,
e realizzate da un’intensa attività lavorativa umana.

   Infoproletariato e lavoro uberizzato

    È proprio per questa ragione che la diffusione del lavoro digitale porta
con sé nel Sud del mondo, nella periferia del capitalismo globale, un am-
pio mosaico di attività cosiddette manuali che continuano a espandersi
senza sosta, come è possibile constatare in Cina, India, Sudafrica, Brasile,
Messico, etc. Attività che si estendono dalla base al vertice delle catene di
produzione globali e che, nonostante le differenze, sono assolutamente
imprescindibili per la creazione di valore e plusvalore.
    In questo numero della rivista sono analizzate e discusse molte di que-
ste attività, che risultano estremamente differenziate una volta che siano
davvero comprese tanto nella loro materialità quanto nella loro virtualità.
Esse sono presenti nei più diversi spazi lavorativi, come ci dimostrano i/
le lavoratori/lavoratrici di banche, commercio, fast food, turismo e ospi-
talità, call-center e telemarketing, istruzione, piattaforme digitali, agroin-
dustria, settore dei servizi e servizi industriali – il che ha reso possibile
l’esplosione, all’interno della classe lavoratrice, di un nuovo contingente
in continua espansione che abbiamo definito infoproletariato.
    È importante sottolineare che, oltre alla loro enorme eterogeneità fun-
zionale, queste attività si caratterizzano sempre più anche per la loro omo-
geneità, per l’aumento della precarizzazione, l’espansione dell’informali-
tà, la crescita del lavoro intermittente e uberizzato – tutte caratteristiche
ricorrenti nelle attività che utilizzano le tecnologie informatiche e della
comunicazione, di cui il lavoro uberizzato è l’espressione attuale più con-
tundente, poiché diffusa a livello globale.
    Vale la pena ricordare anche che la presenza del lavoro digitale si sta
accentuando sempre di più, soprattutto con l’avvento dell’industria 4.0,

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una proposta che ha come obiettivo l’ampliamento e l’intensificazione
delle IT in tutti gli spazi della produzione.
    Vi è poi un altro problema analitico di fondo che può essere così indi-
cato: poiché il capitale accresce il suo valore soltanto con lo sfruttamento
della forza lavoro (le macchine, industriali o digitali che siano, non creano
valore bensì lo potenziano), l’universo del lavoro su scala globale sta as-
sistendo all’ampliamento delle diverse modalità di gestione dei profitti e
della creazione di plusvalore in tutte le sfere ove ciò sia possibile, non sol-
tanto nel mondo industriale, bensì anche in quello agricolo e dei servizi,
visto l’inestricabile intreccio tra i diversi settori (di cui sono esempio l’a-
groindustria, l’industria dei servizi e i servizi industriali). La mercificazio-
ne dei servizi, in particolare, sfruttando i progressi tecnologici e l’enorme
aumento della forza lavoro disoccupata, presenta un ingente potenziale di
espansione dei guadagni e della creazione di plusvalore.
    In questo modo nell’ultimo decennio, oltre alla terziarizzazione, in-
formalità e flessibilità, si sta verificando un’enorme espansione del lavoro
intermittente utilizzato in particolare dalle piattaforme digitali, il che ha
creato il lavoro uberizzato, in costante ampliamento su scala globale, nelle
cosiddette piattaforme digitali.

   La digitalizzazione del lavoro, un processo pluridecennale

    Oltre che parlarci del rapporto tra lavoro digitale e lavoro manuale, di
infoproletariato e lavoro uberizzato, i materiali raccolti in questo numero
di Socioscapes offrono una grande messe di elementi utili a collocare la
rivoluzione digitale nel continuum discontinuo delle innovazioni tecniche
e organizzative che caratterizza il modo di produzione capitalistico – ele-
menti che qui proviamo a riassumere per fornire una sorta di guida alla
lettura, che speriamo risulti utile.
    Anzitutto, molto spesso la digitalizzazione del lavoro viene raffigurata
come una rivoluzione improvvisa. In effetti la digitalizzazione del lavo-
ro ha introdotto (o favorito) molteplici, profondi e rapidi cambiamenti
nelle strutture di produzione, nei processi produttivi, nell’organizzazione
del lavoro, nel mercato del lavoro, causando una forte parcellizzazione del
processo produttivo, una altrettanto forte accelerazione del ciclo di valo-
rizzazione della merce (nella produzione, nella gestione delle catene di

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fornitura, nella vendita), una significativa scomposizione della forza-lavo-
ro (riducendo la sua concentrazione fisica), un’acuta individualizzazione
dei rapporti di lavoro e dei contratti di lavoro. Questa grande trasfor-
mazione della produzione e dell’economia si è basata su un alto grado
di informatizzazione, automazione e robotizzazione, sotto l’egida delle
tecnologie digitali.
    Ma appare improprio raffigurare questa grande trasformazione come
qualcosa di improvviso e del tutto recente. Non è così. La digitalizza-
zione del lavoro e dell’economia è in realtà un processo pluridecenna-
le, iniziato negli anni Settanta e Ottanta, che è andato avanti a volte in
modo regolare, a volte a salti, a seconda delle innovazioni tecnologiche
e organizzative, e a seconda dei cambiamenti sociali e politici verificati-
si nei diversi contesti (la trasformazione digitale, processo senza dubbio
globale e unitario, è avvenuta però nei singoli paesi con tempi e sfuma-
ture differenti). Negli anni Ottanta e Novanta essa si è caratterizzata per
l’informatizzazione e l’automazione nel settore manifatturiero, ma anche
per l’esternalizzazione di alcune attività nei paesi del Sud del mondo da
parte di imprese occidentali. Gli anni Duemila, invece, hanno segnato
l’avvento della connettività totale, del cloud work, della digitalizzazione
dell’industria manifatturiera (4.0), dei servizi e di settori specifici come
quello della cura. Oggi, a distanza di diversi decenni dalla sua genesi,
la digitalizzazione del lavoro costituisce un fenomeno che ha coinvolto
la gran parte degli ambiti lavorativi e gran parte del mondo, anche e
soprattutto sulla spinta della pandemia. Mentre le prime due fasi della
digitalizzazione sono legate a cause per così dire “interne” all’ambito eco-
nomico-produttivo (le innovazioni tecnologiche), l’ultima ondata della
digitalizzazione è legata ad una causa per così dire “esterna” (la pandemia,
su cui torneremo).

   Le pesanti conseguenze sulle condizioni di lavoro

    Secondo punto: la digitalizzazione del lavoro non è stata e non è social-
mente neutra. Ha fatto irruzione in un contesto caratterizzato dalla preca-
rizzazione strutturale del lavoro, e, dato un tale contesto, ha determinato
e sta determinando molteplici conseguenze e ricadute sulle condizioni di
lavoro, tra cui si possono indicare schematicamente: l’intensificazione del

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lavoro (intensificazione dei ritmi di lavoro, riduzione dei tempi di esecu-
zione delle attività e delle mansioni lavorative, saturazione dei tempi di
lavoro); il fortissimo controllo della prestazione lavorativa, attraverso una
sorveglianza minuziosa e un monitoraggio continuo dei “tempi e meto-
di”; l’allungamento del tempo di lavoro; la frammentazione degli orari di
lavoro; la dequalificazione professionale. Nello stesso tempo, i processi
di digitalizzazione, intersecandosi in modo diretto o indiretto col “nuo-
vo” diritto del lavoro, che è sempre più in realtà un diritto dell’impresa,
stanno favorendo la crescita della disoccupazione e della sotto-occupa-
zione; l’iper-segmentazione del mercato del lavoro; l’aumento del lavoro
temporaneo (nelle forme più variegate ed estreme, dal lavoro intermit-
tente e discontinuo al “ritorno” del lavoro a cottimo in salsa digitale);
l’allargamento della quota del lavoro free-lance e delle collaborazioni per
prestazioni d’opera, che nel settore specifico del crowd work costituisce la
modalità principale di messa al lavoro; il dissolvimento del contratto di
lavoro e lo sgretolamento dello status tradizionale di lavoratore dipenden-
te, fisso, salariato; l’affievolimento della differenza tra lavoro dipendente
e lavoro autonomo; l’abbassamento dei salari (che è spesso la prima causa
dell’allungamento forzato dell’orario di lavoro); l’erosione del salario so-
ciale, dei diritti sociali, del diritto del lavoro, sistematicamente by-passati
nell’economia digitale tour court. Questi processi rendono la distinzione
tra vita lavorativa e vita privata, tra tempo di lavoro per il mercato e tem-
po di lavoro per la riproduzione, sempre più debole, comportando spesso
la disponibilità continua e la reperibilità permanente delle lavoratrici e
dei lavoratori.

   Tecnologie digitali, e loro uso capitalistico

    Tali conseguenze sulle condizioni di lavoro e di vita dei salariati dei
più diversi settori lavorativi non derivano in linea retta dalle nuove tec-
nologie, derivano dalla concezione e dall’applicazione capitalistica di esse.
Nei processi di trasformazione del lavoro di stampo digitale l’elemento
tecnologico appare in superficie come prevalente sui rapporti sociali che in
realtà lo sussumono. L’ideologia dominante presenta la digitalizzazione del
lavoro come una semplice questione tecnica, in un’ottica di “neutralità
della tecnica”, secondo l’idea che il mezzo tecnico domina sul capitale.

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Nei fatti, invece, il capitale si nasconde dietro il mezzo tecnico, per attri-
buire a fattori “oggettivi”, extra-sociali – incorporati nei processi produt-
tivi – le nuove modalità di sfruttamento del lavoro.
    Sotto il profilo tecnologico la digitalizzazione del lavoro si presenta
ed è certamente guidata da ritrovati e innovazioni digitali nell’ambito di
ICT sempre più complesse, da computer e sistemi informatici sempre
più potenti ed economici, dalla connettività totale; ma tali tecnologie
sono concepite e utilizzate per l’appropriazione del valore prodotto dal
lavoro vivo – oggi più rarefatto rispetto al lavoro morto, ma proprio per
questo più che mai essenziale alla valorizzazione del valore. L’attivazione
di una gamma amplissima di attività e servizi determinata dall’espan-
sione delle piattaforme, l’integrazione verticale e orizzontale dell’intero
processo economico-produttivo nell’industria tramite l’automazione, la
robotizzazione e la digitalizzazione, sono processi avvenuti nel quadro di
una fortissima centralizzazione e di un controllo quasi totale del proces-
so economico-produttivo (soprattutto nell’economia digitale, ma anche
nell’industria 4.0 grazie a vari strumenti – in primis i cyber-physical sy-
stems) per generare profitto, non per altri scopi sociali.
    Si può prendere ad esempio il processo di intensificazione del lavo-
ro, strettamente combinato col processo di rafforzamento del controllo
sul lavoro. La concezione e l’applicazione capitalistica del lavoro digitale
intensifica i ritmi di lavoro, condensa il lavoro, aumenta la tensione nel
lavoro e il carico di lavoro, satura il tempo di lavoro, attua una costante,
forte pressione nel workflow ininterrotto e veloce. Premessa e strumento
essenziale di ciò, è il rafforzamento del controllo sul lavoro e del comando
gerarchico sulla forza lavoro. L’economia digitale impone alla forza lavoro
di essere “flessibile” (sul piano dei contratti di lavoro, per esempio), ma
esige al tempo stesso forza lavoro “rigida”, nel senso di uomini-robot co-
mandati dalle macchine, dal workflow. Nella misurazione micronizzata e
nella registrazione minuziosa delle prestazioni lavorative, nella definizio-
ne dei ritmi delle attività lavorative secondo tempistiche e modalità fluide
scandite da macchine, dispositivi automatici e algoritmi, nella valutazio-
ne continua delle performance, dei movimenti, del tono della voce, è
incorporato il comando capitalistico sul lavoro per generare profitto, un
comando oggi più aspro che mai.
    Elemento basilare di questa ossessiva sorveglianza del lavoro che entra
in ogni dettaglio del processo produttivo, del monitoraggio dei movi-

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menti, delle interazioni del lavoratore e degli output produttivi (nell’eco-
nomia digitale e nell’industria 4.0) è l’estrema standardizzazione del lavo-
ro: altro che lavoro creativo! Automazione, standardizzazione e controllo
del processo produttivo e del lavoro nell’economia digitale, specie nel
crowdworking, hanno toccato livelli particolarmente avanzati, da estrema
taylorizzazione del lavoro – ancorché ammantata dal mito del lavoro cre-
ativo e svolto in autonomia. La concezione e l’uso di questa tecnologia
di ultima generazione si presentano, quindi, come un campo di battaglia
dove si svolge uno scontro dall’esito aperto, legato ai rapporti di forza tra
capitale e lavoro. L’esito è aperto anche perché in questo processo di in-
tensificazione del lavoro hanno un ruolo elementi che non sono “tecnolo-
gici”, bensì sociali: la messa in concorrenza o la solidarietà dei lavoratori,
nei luoghi di lavoro di una stessa compagnia o di differenti compagnie; la
precarietà strutturale dei rapporti di lavoro; l’ideologia dei grandi gruppi
del digitale, che rappresenta i lavoratori digitali come lavoratori liberi,
autonomi, autogestiti (anche nell’auto-sfruttamento) e il diritto del lavo-
ro come un ferrovecchio arrugginito di cui disfarsi, laddove l’esperienza
concreta di questi lavoratori, nella quasi generalità dei casi, tutto è salvo
che una esperienza di libertà e di autodeterminazione. E induce già a una
molteplicità di forme di resistenza e anche di rivolta.

   Taylorismo/toyotismo in salsa digitale

    I ricchi materiali raccolti in questo numero di Socioscapes, dunque,
provano che nonostante i profondi cambiamenti avvenuti nel processo di
lavoro, questo rimane, pur in forme nuove e in termini nuovi, processo
di produzione capitalistico, processo di valorizzazione, in cui il dispoti-
smo padronale sui lavoratori è confermato in pieno. Non è neppure il
caso di esagerare l’elemento di novità, dal momento che l’organizzazio-
ne del lavoro nell’era digitale presenta numerosi elementi di continuità
con i modelli precedenti, a partire dalla flessibilità produttiva, ripresa dal
toyotismo e implementata dalla lean production. La produzione flessibile
ha significato maggiore incisività e pervasività dei processi di standar-
dizzazione, misurazione e controllo, accelerazione dei processi produttivi
grazie a nuovi metodi gestionali quali l’Erp e il re-engineering resi possibili
dalle tecnologie informatiche. Sul piano produttivo-organizzativo la no-

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vità è consistita sia nell’applicazione più serrata e occhiuta, più vincolante
e pressante, della fabbrica taylorista, con un più alto grado di controllo
e di velocità, grazie all’utilizzo delle tecnologie informatiche, sia nella
standardizzazione del lavoro impiegatizio e del terziario mediante il tra-
sferimento dal settore industriale al terziario dei sistemi manageriali, dei
“tempi e metodi” presenti nelle fabbriche. Dopo aver sperimentato la
produzione flessibile e il re-engineering nella “nuova” catena di assemblag-
gio automobilistica, queste tecniche sono state estese ad altri comparti in-
dustriali (elettronica, chimica, industria alimentare, siderurgia), a diverse
funzioni delle aziende industriali (vendita, amministrazione, deposito,
trasporto), e infine a gran parte del mondo dei servizi (telefonici, sani-
tari, pubblicitari, bancari). Ciò è avvenuto con l’incontro tra taylorismo
applicato al lavoro impiegatizio (i tempi e i metodi applicati all’office ma-
nagement), re-engeneering e toyotismo. Nei call center, ad esempio, dove
le mansioni e i compiti ricalcano e riproducono i processi industriali, il
lavoro è spezzettato in tante singole operazioni che vengono sincronizzate
e cronometrate; la sorveglianza del flusso di lavoro (modalità e contenuti)
e il controllo degli output da parte del management sono fortissimi. E il
tecno-stress è alle stelle.
    Oggi, la novità riguarda la direzione del trasferimento: dall’economia
digitale e dalle piattaforme a settori come la medicina e gli ospedali, l’i-
struzione, le miniere. Ma, tanto nei settori tradizionali quanto in quelli
nuovi, il flusso produttivo costante scorre su linee di assemblaggio digi-
talizzate in cui opera un proletariato coatto alla disciplina della fabbrica
mediante i nuovi sistemi di automazione e controllo forniti dalle tec-
nologie digitali. Questo “proletariato digitale” comprende anche molti
lavoratori qualificati, chiamati però a un lavoro ripetitivo e routinario, a
forte rischio di dequalificazione. L’accelerazione e l’efficientizzazione dei
singoli movimenti ripetuti all’infinito, specialmente con l’adattamento
dell’uomo alla macchina o al computer, come appendice della linea di
montaggio o del flusso lavorativo continuo, si sono infatti rivelati mec-
canismi di svuotamento del lavoro qualificato. Nell’economia dei servizi
verso cui è transitato questo nuovo taylorismo in salsa digitale applicato
al lavoro impiegatizio, al lavoro della conoscenza, al lavoro “immateria-
le”, si tocca con mano la diminuzione o addirittura l’eliminazione dell’e-
lemento umano, e la drastica riduzione dei suoi margini di autonomia.

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Pandemia e lavoro vivo

    Nel contesto di precarizzazione strutturale del lavoro e di sua cre-
scente digitalizzazione che abbiamo qui rapidamente richiamato, ha fatto
irruzione la pandemia da coronavirus, causando la morte di centinaia di
migliaia di persone, la perdita di una montagna di posti di lavoro, e l’e-
stensione di condizioni di precarietà e di informalità radicalizzate ad altri
milioni di lavoratori e lavoratrici.
    Il verificarsi simultaneo di crisi economica e pandemia ne ha senz’al-
tro accentuato il carattere di classe, poiché ha colpito e continua a colpire
molto più intensamente la classe lavoratrice – una tendenza, questa, che
si acutizza nei paesi della periferia, in cui troviamo il principale contin-
gente di salariati precarizzati e impoveriti, con un’ulteriore differenziazio-
ne (al loro interno) di genere, razza, territorio, etc.
    La pandemia ha fatto emergere una contraddizione centrale: come
mantenere l’isolamento per la classe lavoratrice? Le persone che si trovano
in disoccupazione, informalità e intermittenza, cosa possono fare per so-
pravvivere se non ricevono un salario e non dispongono di sia pur precari
aiuti di emergenza? In particolare, il lavoro uberizzato, che continua ad
espandersi a livello globale e si trova ai margini della legislazione a tutela
del lavoro, come potrà sopravvivere, come potrà preservarsi di fronte a
questa pandemia essendo senza diritti sociali e sanitari?
    Le tesi sulla fine del lavoro dimostrano così, una volta di più, di essere
sbagliate in toto. Abbiamo già detto che il capitale non può accrescersi
di valore senza il lavoro vivo, sebbene cerchi di ridurlo, aumentando ed
espandendo nel contempo il lavoro morto. Ma la logica distruttiva del
sistema di metabolismo antisociale del capitale, per quanto possa espan-
dere illimitatamente il macchinario informatico digitale, non può portare
all’eliminazione completa del lavoro vivo poiché senza di esso non vi può
essere creazione di valore e di plusvalore. La pandemia è stata la prova
lampante di ciò.
    Proprio per questa ragione, infatti, le grandi corporations hanno eserci-
tato forti pressioni sia per impedire il lockdown (e garantire così la produ-
zione e i propri guadagni), sia per intensificare la tendenza alla riduzione
dei diritti, attraverso la creazione di laboratori di sperimentazione del
lavoro volti ad ampliare l’intensità e la qualità dello sfruttamento, di cui

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il lavoro uberizzato, l’home working e lo smart working sono solo alcuni
esempi.
     Questo ci consente di sottolineare che una comprensione in profon-
dità del lavoro digitale non può prescindere, accanto alla diffusione del
lavoro digitale, dalle altre tendenze presenti nel capitalismo contempora-
neo che la pandemia da coronavirus ha tragicamente aiutato a portare alla
luce, oltre ad averle esasperate ed intensificate.

   La pandemia, fattore di accelerazione

    La crisi innescata dalla pandemia – una crisi colossale, composta da
un intreccio di crisi sanitaria, crisi ecologica, crisi economico-sociale, crisi
razziale, crisi nei rapporti tra i generi – è stata un potente fattore di accele-
razione di fenomeni e tendenze sociali pre-esistenti ad essa, quali il com-
mercio on line, le consegne di cibo a domicilio, l’industria dell’intratte-
nimento domestico. Questi ed altri fenomeni precedenti la pandemia,
hanno ricevuto da essa un forte impulso, facendo un salto di quantità
che talvolta è divenuto un salto di qualità, come nel caso della crescita
rapidissima e su larga scala della didattica a distanza, che ha trasformato
la natura stessa della didattica. In particolare, la crisi da coronavirus ha
rappresentato un elemento di accelerazione di processi e fenomeni sociali
tipici dell’era neo-liberista, in corso da decenni: l’individualizzazione del
rapporto di lavoro e l’atomizzazione dei luoghi di lavoro (ed anche di
altri luoghi significativi come la scuola o l’università), la precarizzazione
strutturale del lavoro, l’aumento dei working poor, la polarizzazione socia-
le interna ai singoli paesi. Sicché il 2020, oltre che anno della pandemia
globale o anno della paura, si può considerare anche l’“anno della grande
accelerazione”.
    Accelerazione, anzitutto, della trasformazione digitale già in corso da
tempo, in particolare del lavoro digitale e delle dinamiche ad esso corre-
late. Con l’arrivo della pandemia, insieme al boom dei settori economici
e delle imprese che fondano la propria attività principale sulle tecnologie
digitali o che ne fanno largo uso per organizzare il processo produttivo,
c’è stato un enorme aumento del lavoro da casa (e del lavoro digitale gra-
tuito involontario), del lavoro o della ricerca di lavoro basati sull’utilizzo
di tecnologie digitali. La digitalizzazione che si è realizzata in poche setti-

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mane, su scala gigantesca, nel 2020, in circostanze normali si sarebbe rea-
lizzata in un arco di tempo altrimenti esteso. Questo salto lungo e veloce
si deve alla necessità oggettiva di utilizzare strumenti in grado di garantire
il distanziamento fisico, di trovare soluzioni rapide e efficaci, ma anche al
fatto che le tecnologie digitali erano già predisposte e le imprese operanti
nell’economia digitale disponevano già di un’ampia gamma di servizi.
Con l’arrivo della pandemia la loro offerta è stata spinta al massimo, con
l’improvvisa apertura di un mercato enorme (non c’è stato ambito della
vita sociale non toccato dai lockdown). Quindi, se la pandemia ha rap-
presentato di per sé un acceleratore del processo di digitalizzazione, tale
accelerazione è stata a sua volta alimentata con forza dal settore capitali-
stico dell’economia digitale in nome del “tutto on line”.
    L’ampio processo di digitalizzazione di ambiti esterni all’economia
digitale in senso proprio ha trasformato a fondo tutti gli aspetti della
vita sociale, a partire dai luoghi di lavoro, in particolare quelli in cui è
possibile praticare il lavoro da remoto (remote working) e il lavoro da casa
(work-from-home). L’adozione sistematica nei luoghi di lavoro di tecno-
logie digitali o l’espansione del loro uso sono avvenuti alla velocità della
luce e ad una scala mai vista prima, spesso aggirando le questioni riguar-
danti le condizioni di lavoro. Un vero e proprio tsunami di tecnologia di-
gitale, come le applicazioni cloud o i processi automatizzati, ha investito
i processi produttivi e l’organizzazione del lavoro. Questa transizione dei
luoghi di lavoro e della vita sociale alla digitalizzazione strutturale, trova
riscontro nell’aumento impetuoso del traffico di internet, del numero di
videoconferenze ed eventi virtuali, dei volumi delle vendite on line, delle
attività di telemedicina, etc. Se il lavoro digitale era già una realtà nel pro-
prio nucleo originario, ovvero l’economia digitale, il mondo delle piatta-
forme, degli algoritmi (anche nei settori industriali ad alta robotizzazione
e automazione), con l’avvento della pandemia esso ha interessato, e in
parte trasformato, il processo economico-produttivo (dalla produzione
alla vendita di beni e servizi) e l’organizzazione del lavoro di tanti altri
settori. In questo senso, la digitalizzazione a guida capitalistica, con le sue
varie tecnologie (internet, internet of things, IoB, blockchain, connettività
mobile, cloud, mega-dati, AI, machine learning, deep learning, etc.), ha
pilotato la trasformazione dell’organizzazione del lavoro in una precisa
direzione: velocizzare il ciclo di valorizzazione del capitale (produzione e

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circolazione sempre più strettamente interconnesse), per aumentare, in
ultima analisi, il margine di profitto.

   La pandemia, fattore di riorganizzazione

    Per il capitale, la pandemia ha rappresentato anche un’opportunità
per riorganizzarsi, per espandere ulteriormente il proprio raggio di azio-
ne, penetrando ancora più a fondo nei campi della salute, della medicina,
del tempo libero, della socialità. Benché ogni crisi abbia le proprie speci-
ficità, da sempre nelle crisi e attraverso le crisi il capitale si riorganizza e
trasforma i processi produttivi, e nel far ciò riorganizza l’intera società. In
questo senso, per il sistema delle imprese la pandemia è stata l’occasione
per recuperare o aumentare i margini di profitto, e per accrescere la pro-
duttività, premendo sul pedale della trasformazione digitale delle proprie
strutture interne, della supply chain e del mercato in generale. Pertanto,
quando si afferma che “la pandemia ha accelerato la trasformazione digi-
tale”, bisogna precisare che il fenomeno non è avvenuto in modo per dir
così naturale; è stato alimentato, costruito, sostenuto dai governi e dagli
stati, in chiave capitalistica.
    Contestualmente a questo “punto di svolta” centrato sul paradigma
digitale, vi è stato un processo di centralizzazione industriale e di con-
centrazione finanziaria caratterizzato dalla crescita vertiginosa dei volumi
d’affari dei grandi gruppi globali del digitale, Facebook, Google, etc. Pa-
rallelamente, vi è stata la crescita esponenziale di piccole strutture, forte-
mente flessibili, subordinate a questi grandi gruppi globali e alle società
di media entità, alla gerarchia della supply chain e del sistema di outsour-
cing – in cui la forza di lavoro è composta in grandissima parte da precari,
esecutori di lavori a breve termine su piattaforme di lavoro online, con
lo statuto di freelancer-consulenti-collaboratori – che si sono gettate a
capofitto nell’economia digitale, alimentando ulteriormente il processo
di informatizzazione della vita sociale in una frenetica ricerca di nuovi
spazi di mercato in cui vendere prodotti e servizi più o meno nuovi, e
generare nuovi bisogni.
    Ora, se la digitalizzazione del ruolo di utente o consumatore è avan-
zata insieme alla digitalizzazione di un complesso di attività lavorative,
molte delle quali sono state trasferite dall’offline all’online, l’arcano del

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mondo-senza-contatto non è granché mutato rispetto al “prima”: esso
consiste nella massimizzazione della produttività della forza-lavoro ora
occupata lungo la fitta e stratificata organizzazione del lavoro dell’econo-
mia digitale, nella generazione di plusvalore assoluto e relativo attraverso
l’utilizzo di tecnologie digitali concepite e impiegate in senso capitalisti-
co (nella forma, in questo caso, del cosiddetto platform capitalism). La
piattaformizzazione (platformification) del lavoro, e delle relazioni sociali,
con la conseguente smaterializzazione (parziale) del luogo di lavoro fisso
e fisico, non è il risultato ultimo di una tecnologia autopoietica, avulsa
dal sistema sociale e dal sistema dei rapporti sociali di produzione: è il
risultato della concezione e dell’uso capitalistico delle tecnologie digitali.

   La pandemia, detonatore sociale?

    Cartina di tornasole, acceleratore sociale, fattore di riorganizzazione
del capitale e di conseguente cambiamento sociale, la pandemia costitui-
sce anche un detonatore sociale, perché ha fatto convergere e aggrovigliare
le contraddizioni sociali pre-esistenti, acuendo disagi, disparità e rischi
sociali. Se è vero che la pandemia ha alimentato il caos sociale, dall’e-
sasperazione delle contraddizioni sociali che questo caos ha provocato,
possono sprigionarsi, nel contesto di un conflitto sociale potenziato, lotte
operaie e sociali capaci di contrapporsi all’incremento dello sfruttamento
e della precarietà del lavoro, alle disuguaglianze sociali, e imporre misure
a tutela dell’occupazione, dell’ambiente e della salute pubblica. Non è
un caso, del resto, che negli ultimi anni i principali movimenti di lotta
correlati al lavoro, alle condizioni di lavoro, ai diritti sociali, siano sorti
in settori economico-produttivi a forte valenza digitale: riders, operatori
di call center, lavoratori della logistica, fattorini, autisti, etc. Movimenti
ed azioni di resistenza e di ribellione contro le condizioni di lavoro quan-
to mai precarie ed estreme dell’era digitale, che tendono ad incorporare
nuovi contingenti di lavoratrici e di lavoratori; movimenti ed azioni che,
a loro volta, tendono ad essere ogni volta presenti su scala globale – come
si è visto negli scioperi in Amazon, in Google o nello sciopero internazio-
nale dei riders partito dal Brasile. Il biennio della crisi da coronavirus non
è stato certo un biennio di pace sociale, a iniziare dagli Stati Uniti, tuttora
epicentro degli impulsi alla digitalizzazione del lavoro…

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