Il fenomeno del back-shoring in Italia. Strategie delle grandi e opportunità per le piccole imprese - MICROIMPRESA
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Economia, lavoro e società Il fenomeno del back-shoring in Italia. Strategie delle grandi e opportunità per le piccole imprese Paola Savi1 Introduzione C on intensità e tempistiche differenziate per sistema territo- riale, settore produttivo, dimensione e organizzazione d’impresa, la delocalizzazione internazionale ha ridisegnato la geografia della produzione nel periodo tra gli ultimi decenni del Novecento e i primi anni del nuovo millennio. In Italia, lo spostamento, totale o parziale, di linee produttive in paesi a basso costo del lavoro ha interessato non solo singole imprese di grandi dimensioni ma anche distretti industriali di piccola e media impresa, i quali han- no “perso” pezzi di filiere produttive che precedentemente erano saldamente ancorate al territorio di origine. Le ricadute più evidenti sui territori di partenza sono state a carico dei mercati del lavoro e hanno messo in luce i nessi pro- blematici tra delocalizzazione, deindustrializzazione e disoccu- pazione. Nello stesso periodo, la delocalizzazione si è incrociata 1 Professore associato di Geografia economico-politica, Università di Verona.
Paola Savi con fenomeni come l’automazione dei processi produttivi e la fi- nanziarizzazione dell’economia che hanno configurato la nuova geografia economica dell’era della globalizzazione (Masulli, 2014). Sul finale della prima decade del Duemila, inoltre, agli effetti della delocalizzazione produttiva si sono sommati quelli della crisi eco- nomica, con il suo carico di chiusure di attività o pesanti ridimen- sionamenti, non solo nel settore industriale ma anche nei servizi. È difficile valutare le perdite in termini di occupazione: nell’Unione Europea, per effetto della delocalizzazione, si stima che siano andati perduti oltre sei milioni di posti di lavoro (Needham, 2014). Nei paesi economicamente avanzati, inoltre, si è ridotto notevolmente il contributo dell’industria alla composizione del Pil. Secondo quanto calcolato dal CIA Factbook, nel 2012, l’industria rappresentava il 30% del Pil in Germania, il 23% in Italia, il 21% nel Regno Unito e il 19% in Francia; per contro, in Cina, il contributo del settore secondario alla composizione del Pil aveva raggiunto il 45% (Needham, 2014). Negli ultimi anni, dopo decenni di delocalizzazione, ci sono indizi non solo di un rallentamento dei flussi in uscita e degli in- vestimenti all’estero ma anche di un ritorno delle produzioni nei paesi di origine delle imprese (UNCTAD, 2013). I primi segnali sono arrivati dagli Stati Uniti dove grandi imprese - come Apple, General Electric, Google, Caterpillar, Ford - ma anche aziende di media dimensione hanno riportato in patria le produzioni o hanno aumentato la capacità produttiva degli impianti esistenti (The Eco- nomist, 2013). Evidenze empiriche simili si riscontrano nei paesi europei tanto da attrarre l’attenzione della stessa Unione Europea che ha dichiarato, a più riprese, l’intenzione di contrastare il decli- no dell’industria nei paesi comunitari, in particolare nelle vecchie regioni industriali (Comitato Economico e Sociale Europeo, 2014). In una prospettiva di reindustrializzazione, nel 2014, la Commis- sione Europea ha adottato l’Industrial Compact, con l’obiettivo di 12
Il fenomeno del back-shoring in Italia portare la quota di Pil del settore secondario, attualmente al 15,2%, al 20% entro il 2020. Queste strategie non costituiscono in sé una novità poiché i disinvestimenti esteri sono praticati fin dagli anni Ottanta dalle grandi imprese multinazionali, le quali hanno sempre giocato sui differenziali geografici dei fattori produttivi. Nell’ultimo decennio, è cambiata però l’intensità del fenomeno, che ha investito anche realtà produttive di minori dimensioni, e la sua estensione geogra- fica. Partendo dalla cornice internazionale, l’articolo intende ana- lizzare la diffusione e le caratteristiche del back-shoring in Italia, mettendo in evidenza, in particolare, se e in che modo questo fe- nomeno potrebbe costituire un’opportunità per il rilancio delle piccole imprese. In linea con la maggior parte degli studi sul tema, sarà adottata una metodologia di tipo esplorativo che prevede l’u- tilizzo di diverse fonti, accademiche e non. Allo stato dei fatti, non è possibile quantificare le dimensioni del back-shoring perché le evidenze empiriche e le informazioni di cui disponiamo sono an- cora scarse e frammentarie e derivano da un insieme variegato di fonti che comprende la stampa economica e generalista, pubbli- cazioni scientifiche, rapporti di grandi società di consulenza, rap- porti o documenti di istituzioni e organizzazioni internazionali, come l’Unione Europea e l’UNCTAD, interventi a convegni e te- stimonianze di imprenditori e rappresentanti delle associazioni di categoria. A queste fonti si farà riferimento nel lavoro. Alcune definizioni Nella letteratura internazionale il fenomeno del ritorno delle produzioni nei paesi economicamente avanzati viene definito con un’ampia varietà di termini, a conferma della difficoltà di collo- 13
Paola Savi carlo nell’ambito dei processi di internazionalizzazione già cono- sciuti. Oltre al più diffuso back-shoring, troviamo back-reshoring, re-shoring, in-shoring, reverse off-shoring, on-shoring, reverse glo- balization, mentre in ambito nazionale si parla di rilocalizzazione, contro-delocalizzazione o delocalizzazione di ritorno2. Ciò è conseguenza della multidimensionalità stessa di quello che genericamente chiamiamo “rientro delle produzioni”. Il ritor- no include, in realtà, movimenti di diverso raggio geografico che non sono mutualmente esclusivi: non solo produzioni che rien- trano in patria ma anche rilocalizzazioni in paesi stranieri, più vicini o più lontani rispetto al paese di origine dell’impresa de- localizzante. Strategie di questo tipo sono state messe in atto da imprese statunitensi che hanno spostato le attività dalla Cina al Messico, sia per l’erodersi del differenziale salariale tra i due paesi che per i vantaggi logistici e i risparmi sui costi di trasporto dovuti alla prossimità del Messico con la frontiera nordamericana (Goel, Moussavi, Srivatsan, 2008). Più che di un’inversione di tendenza, si tratterebbe quindi di strategie di riorganizzazione delle supply chain che, in funzione dei prodotti da realizzare e di alcune varia- bili critiche (non solo costo ma anche qualità del lavoro, costi di trasporto, incentivi fiscali ecc.), avrebbero indotto le imprese ame- ricane ad abbandonare il modello organizzativo basato sul concen- trare la produzione in un solo paese a basso costo, da cui rifornire il resto del mondo (The Economist, 2013)3. 2 Per un’analisi dettagliata della letteratura internazionale e nazionale sul tema del back-shoring si rimanda a Fratocchi et al. (2013, 2014a, 2014b) e Ricciardi et al. (2015). 3 Tre note imprese statunitensi costituiscono casi emblematici di queste operazio- ni di rilocalizzazione che non si escludono a vicenda: Ford Motor Company che, tra il 2011 e il 2013, ha fatto rientrare in patria produzioni precedentemente svolte in altri paesi a diverso livello di sviluppo economico (Cina, Giappone, Messico, Turchia e Spagna); Walt Disney Company, la quale, dal 2013, sta implementando un progetto per trasferire ad Haiti la produzione di oggetti di merchandising pri- ma realizzati in Bangladesh, Ecuador, Venezuela, Bielorussia e Palestina; Emer- 14
Il fenomeno del back-shoring in Italia In termini simili, alcuni paesi comunitari, oltre a riportare le produzioni in sede domestica, hanno effettuato processi di riloca- lizzazione dall’Asia verso paesi relativamente vicini, come Maroc- co, Turchia o Europa dell’Est. Per completare il quadro, bisogna considerare che, nell’ultimo decennio, si sono delineati processi di internazionalizzazione in senso inverso: imprese, della Cina e di altri paesi emergenti, con dense reti di subfornitori e capacità di sviluppare nuovi prodotti, stanno localizzando fabbriche nei paesi dell’Unione Europea (Ne- edham, 2014) e negli stessi Stati Uniti. Emblematico, al riguardo, il caso della cinese Lenovo che, nel 2013, ha deciso di aprire un nuo- vo impianto nel North Carolina; gli Stati Uniti, dopo avere sposta- to quasi tutta la produzione americana di pc in Asia negli ultimi trenta anni, hanno ripreso così a produrli (The Economist, 2013)4. Un altro elemento da considerare è la forma di governo adotta- ta con la delocalizzazione (Ellram, 2013; Gray, 2013). In base a que- sta si configurano infatti diverse tipologie di rientro. La produzio- ne può essere stata decentrata in impianti di proprietà dell’azienda delocalizzante o esternalizzata a subfornitori stranieri: in termini speculari, il rientro può comportare una internalizzazione delle at- tività precedentemente svolte all’estero, secondo le due modalità descritte sopra, oppure una loro esternalizzazione a fornitori na- zionali o locali. La scelta dell’una o dell’altra modalità di rientro, e si può aggiungere, la decisione di esternalizzare a fornitori nazio- nali o del contesto di prossimità dell’impresa, acquistano grande importanza non solo perché comportano ricadute diverse a livello son, che ha messo in atto contemporaneamente strategie di rientro e di riloca- lizzazione, spostando, nel 2009, negli Stati Uniti e in Messico produzioni prima realizzate in Cina (Fratocchi, 2014b). 4 Il costo del lavoro più elevato rispetto a Cina e Messico sarà compensato da un maggiore ricorso all’automazione e dai risparmi in termini di costi di trasporto e logistica, uniti al vantaggio legato alla vicinanza al mercato americano (The Economist, 2013). 15
Paola Savi territoriale ma anche perché rendono complesso “misurare” il fe- nomeno stesso. Soprattutto nel caso italiano, la creazione di nuova imprendi- torialità all’estero ha coinvolto una pluralità di soggetti e, in molti casi, non ha dato origine a investimenti diretti esteri o comunque a modalità che ricadono nelle consolidate forme “equity” (Mariotti e Mutinelli, 2010). Con le forme non equity anche imprese di media e piccola dimensione hanno potuto praticare la delocalizzazione produttiva, attraverso accordi quali i contratti di subfornitura in- ternazionale, le licenze, gli accordi commerciali, le forniture chiavi in mano o le cessioni di assistenza (Sanguigni, 1995). Tenendo conto di tutte queste variabili, Mariotti e Mutinelli (2010) ritengono che non si possa parlare di una vera e propria in- versione di tendenza quanto piuttosto di un aumento dell’eteroge- neità dei comportamenti delle imprese in un contesto decisionale in cui le scelte localizzative diventano sempre più complesse, sia per il cambiamento delle condizioni economiche su scala interna- zionale che per la dimensione assunta dal fenomeno. Sulla stessa linea si pone Fratocchi che, dopo una dettaglia- ta analisi della letteratura internazionale, elabora una definizione operativa del back-shoring delle attività produttive, inteso come “una strategia d’impresa – deliberata e volontaria – orientata alla rilocalizzazione (parziale o totale) di attività svolte all’estero (di- rettamente o presso fornitori) per fronteggiare la domanda locale, regionale o globale” (Fratocchi et al. 2014b, pp. 428-429). In que- sti termini, il back-shoring non si configura come un fenomeno isolato ma come una fase del processo di internazionalizzazione dell’impresa che prevede più opzioni localizzative, nessuna delle quali esclude l’altra, come l’off-shoring di secondo livello (riloca- lizzazione dell’attività produttiva in un paese più lontano rispetto a quello in cui si è precedentemente delocalizzato) e il near-resho- ring (rilocalizzazione dell’attività produttiva in un paese più vicino 16
Il fenomeno del back-shoring in Italia rispetto a quello in cui si è precedentemente delocalizzato o co- munque in un paese appartenente alla stessa regione della Triade in cui è localizzata la casa madre)5. A conferma della fluidità di questi processi, recentemente si vanno configurando anche tendenze al next-shoring (o smart-sho- ring) che portano le imprese a localizzarsi vicino a mercati con un elevato potenziale di domanda e nelle aree che sanno esprimere forti capacità innovative (Gubitta, 2015b). Ciò implica una strate- gia di multilocalizzazione che pone diversi problemi alle imprese, sia in termini di individuazione dei mercati a più forte crescita, sia in merito alla possibilità effettiva per le piccole imprese di imple- mentare azioni di questo tipo, in assenza di adeguate risorse finan- ziarie, problema che potrebbe tuttavia essere affrontato ricorrendo ad alleanze o altre modalità di collaborazione con fornitori locali o alla formazione di piccole supply chain locali. I fattori all’origine del back-shoring Le diverse modalità di rilocalizzazione entrano in gioco anche quando si considerano le ragioni che sono all’origine del ritorno delle produzioni. Diversi studi (Goel et al., 2008; Sirkin et al., 2011, 2012; Wu, Zhang, 2013) individuano, tra le principali cause alla base del ri- entro, la diminuzione dei differenziali salariali tra i paesi econo- micamente avanzati e i paesi a basso costo del lavoro verso i quali si sono diretti i flussi di delocalizzazione produttiva degli ultimi decenni. Secondo l’International Labour Organization, in Asia i 5 Non sono compresi in questa definizione casi di disinvestimento all’estero che non prevedono la prosecuzione dell’attività precedentemente svolta, né i casi di nuovi investimenti manifatturieri realizzati fino dall’inizio nel paese di origine dell’impresa anziché in un paese straniero. 17
Paola Savi salari reali sono cresciuti mediamente del 7,5% l’anno tra il 2000 e il 2008 (Needham, 2014); in Cina, in particolare, oltre al costo è aumentata anche la conflittualità del lavoro6. L’Est Europa, che rappresentava la principale destinazione per le imprese dell’area occidentale del continente, dopo l’allargamento è diventata meno competitiva in termini di costo del lavoro. Al contrario, nei pae- si economicamente avanzati, nello stesso periodo, i salari hanno registrato una crescita molto debole (in media lo 0,7% annuo), la conflittualità è scesa ed è aumentata la produttività, con diminu- zione del costo del lavoro per unità di prodotto. Inoltre, la recente crisi economica, sia in America che in Europa, ha di fatto costretto i lavoratori ad accettare posti e condizioni di lavoro precari e mal retribuiti. Il costo del lavoro, sebbene importante, non è comunque il solo fattore in grado di spiegare il back-shoring. Nella prima metà degli anni 2000, la continua crescita del prezzo del petrolio ha incremen- tato i costi connessi con la logistica, rendendo meno competitivi paesi lontani come la Cina e gli altri paesi asiatici, visto l’aumento del costo del trasporto navale (Goel et al., 2008; Dachs, Kinkel, 2013). Alla crescita dei costi di trasporto su scala internazionale ha fatto da contrappeso, in alcuni paesi economicamente avanzati, la diminuzione del costo dell’energia che ha reso di nuovo conve- niente produrre in sede domestica. L’esempio più significativo è quello degli Stati Uniti che, grazie soprattutto allo shale gas & oil, gas metano e petrolio ricavati da giacimenti non convenzionali di 6 Secondo il Boston Consulting Group, in Cina il costo del lavoro manifatturiero è aumentato del 19% annuo nel periodo 2005-2010 per l’effetto combinato della crescita dei salari e dei bonus elargiti ai lavoratori, mentre gli scioperi e le riven- dicazioni sono diventati più frequenti. Inoltre, la nuova normativa sul lavoro del 2008 ha introdotto garanzie prima inesistenti a tutela del lavoratore. Paesi come Vietnam, Indonesia e Filippine hanno ancora un costo del lavoro conveniente ma non offrono le stesse garanzie della Cina in termini di presenza e articolazione delle catene di fornitura e di dotazione infrastrutturale (The Economist, 2013). 18
Il fenomeno del back-shoring in Italia argille, hanno raggiunto l’autosufficienza energetica. Questa inno- vazione ha avuto ripercussioni su tutta l’economia internazionale, essendo stata una delle cause all’origine del crollo del prezzo del petrolio dopo il 2008, fatto che potrebbe di nuovo cambiare le con- venienze localizzative e segnare una ripresa dei flussi di delocaliz- zazione produttiva. La logistica è ritenuta uno dei fattori critici che hanno inci- so sulla decisione di rientrare da parte delle imprese, non solo in termini di costi di trasporto e di coordinamento internazionale delle supply chain, ma anche in relazione ai tempi di approvvi- gionamento. Questo vale soprattutto per beni con un ciclo di vita breve e soggetti a repentini cambiamenti della domanda da parte del consumatore, come la moda, per la quale è fondamentale la prossimità rispetto ai fornitori e ai mercati finali (Needham, 2014). Senza considerare che esistono anche rischi di rottura della supply chain, dovuti alla sua lunghezza e a eventi naturali (tifoni tropicali, ad esempio), e che l’intensificarsi di fenomeni di pirateria, diffusi in particolare nelle tratte che attraversano l’Oceano Indiano, fini- sce per incidere sui costi delle assicurazioni (Ancarani et al., 2012). Il ricorso a fornitori internazionali, soprattutto dei paesi in via di sviluppo, impone poi costi legati agli interventi di formazione e assistenza, investimenti specifici che vanno perduti se la relazione si interrompe. Va evidenziato anche il pericolo di comportamenti opportunistici da parte del fornitore, come nel caso del mancato rispetto della proprietà intellettuale e la difficoltà di monitorare e controllare il mantenimento dei livelli qualitativi della produzione delocalizzata (Fratocchi, 2014b). Qualità e sicurezza dei prodotti, in particolare, sono ritenuti elementi determinanti dalle imprese italiane che hanno deciso di riportare in patria la produzione. Il prodotto made in Italy diventa in questo senso un punto di forza per rilanciare la competitività dell’impresa nella crisi economica globale e la decisione di rien- 19
Paola Savi trare un fattore di reputazione e immagine che viene percepito dal cliente (Fratocchi et al. 2014b). Il fattore qualità incide molto in al- cuni settori, come il sistema moda, l’agroalimentare e la meccanica che, non a caso, sono i protagonisti del processo di rientro. Al ri- lancio del prodotti italiani di qualità contribuiscono indirettamen- te anche i nuovi modelli di consumo che si stanno diffondendo nei paesi emergenti stessi dove la nuova classe media richiede, ed è disposta a pagare, beni che incorporano il saper fare e la qualità del made in Italy, a condizione che questi siano prodotti nel paese di origine (Ricciardi et. al., 2015). Per contrastare la deindustrializzazione e incoraggiare il ritor- no delle imprese nazionali, alcuni paesi hanno messo in atto spe- cifiche politiche. Negli Stati Uniti sono stati introdotti contributi e incentivi per favorire la rilocalizzazione di imprese nazionali. Tra gli obiettivi dell’Amministrazione Obama vi sono proprio la reindustrializzazione e il rientro delle produzioni dopo decenni di delocalizzazione produttiva che hanno smantellato l’industria americana, assieme a milioni di posti di lavoro. Il Blueprint “An America Built to Last” del 2012, al primo punto, fa riferimento espressamente all’industria manifatturiera, indicando tra gli obiet- tivi prioritari la creazione di nuovi posti di lavoro e la messa in atto di azioni e strumenti per scoraggiare le delocalizzazioni e incentivare le imprese americane a rientrare. Nel documento si propone di togliere detrazioni e incentivi fiscali alle aziende che delocalizzano e fare pagare una tassa, seppure minima, sui profit- ti e le attività create all’estero e, al contempo, riservare forme di tassazione più bassa e incentivi alle imprese che riportano posti di lavoro o che investono negli Stati Uniti (www.whitehouse.gov). In particolare, andrebbero premiate le imprese che operano nel settore dell’high-tech e quelle che realizzano nuovi investimenti in aree con alti tassi di disoccupazione, perché severamente colpite dalla delocalizzazione produttiva o dalla chiusura di basi militari. 20
Il fenomeno del back-shoring in Italia Al di là degli aspetti propagandistici, che non mancano nel do- cumento e che si sintetizzano nello slogan del Presidente Obama “Make it in America again”, il paese ha messo in campo incentivi pari a diversi milioni di dollari per indurre le imprese a rientrare (Ronchetti, 2014). Il Blueprint sottolinea inoltre l’importanza di in- tervenire in settori come quello delle infrastrutture e della ricerca, per rendere il contesto nazionale più competitivo e attrattivo per le imprese, o nell’ambito del commercio estero, per rafforzare i prodotti americani. Nell’Unione Europea, i principali documenti prodotti negli ul- timi anni indicano nel back-shoring uno degli strumenti con i qua- li perseguire l’obiettivo della reindustrializzazione (European Eco- nomic and Social Committee, 2014). A differenza degli Stati Uniti, però, l’Unione Europea non ancora ha messo in campo strumenti concreti per aiutare il rientro delle imprese dei paesi comunitari. Non mancano, tuttavia, iniziative da parte di singoli gover- ni europei. Il Regno Unito, dove la deindustrializzazione risale a periodi precedenti la recente fase di delocalizzazione produttiva, intende, secondo le parole del premier Cameron, diventare una “re-shore nation”. Al riguardo è stato attivato il Manufacturing Ad- visory Service, gestito dallo United Kingdom Trade Institute (l’equi- valente dell’italiano ICE), il quale dovrebbe occuparsi di definire strumenti sia per l’attrazione di investimenti che per favorire il rientro di imprese britanniche delocalizzate (www.mymes.org). Oltre a questo, il governo intende intraprendere una serie di azio- ni per creare un contesto attrattivo per le imprese: semplificazione legislativa, flessibilità del mercato del lavoro, diminuzione della tassazione, sia per le imprese che per i lavoratori, e riduzione dei costi energetici. La Francia ha affidato a un istituto analogo, l’Agence Francaise des Investissements (AFI), le politiche per attrarre le imprese che hanno delocalizzato e ha sviluppato un marchio volontario, Ori- 21
Paola Savi gine France Garantie, a tutela della qualità dei prodotti francesi. Anche Germania, Austria e Svizzera hanno previsto finanziamenti per le imprese che rientrano. Altri motivi riconducono alla recente crisi economica: la cri- si finanziaria mondiale ha disincentivato gli investimenti diretti esteri (Ricciardi, 2015), inoltre riportare in patria le aziende, e più in generale reindustrializzare, può avere anche l’effetto di aumen- tare, attraverso gli stipendi, il potere d’acquisto dei consumatori, come sottolineano diversi imprenditori e la stessa Confindustria (Spampinato, 2014). Ultimo ma non meno importante sarebbe il ruolo di recenti innovazioni tecnologiche e organizzative come la fabbricazione di- gitale che permette di creare oggetti solidi e tridimensionali (com- ponenti, semilavorati, prodotti finiti) a partire da disegni digitali elaborati al computer e inviati direttamente a una stampante 3D. Gli oggetti vengono costruiti con le cosiddette tecniche “additti- ve”7, ovvero attraverso la sovrapposizione di sottili strati di mate- riale di diverso tipo (Anderson, 2013). Al centro di queste nuove tecniche produttive, che stanno cambiando il rapporto tra proget- tazione e produzione, c’è la stampante in 3D, innovazione che, se- condo lo stesso Anderson, avrebbe una portata tale da aprire la via a una nuova rivoluzione industriale. Le nuove tecniche di fabbricazione potrebbero, indirettamente, contribuire a cambiare le convenienze localizzative delle imprese, riducendo i vantaggi legati alla delocalizzazione in paesi a basso 7 Al contrario delle tecniche sottrattive, con le quali gli oggetti vengono creati per sottrazione, cioè scavando o tagliando materiali, o per saldatura dei pezzi. La fabbricazione digitale, evoluzione della prototipazione rapida, è in grado di creare oggetti dalla forma complessa senza stampi e altre attrezzature e consente di utilizzare qualunque tipo di materiale, dalla plastica al metallo. Rispetto alle tecniche tradizionali il processo produttivo è a minore impatto ambientale, dal momento che si riducono sia le materie prime in entrata che gli scarti finali (Car- rus et al., 2014). 22
Il fenomeno del back-shoring in Italia costo del lavoro. Per le aziende digitali (o 2.0 come vengono an- che chiamate), a bassa intensità di manodopera, il lavoro incide in misura irrilevante sulla struttura dei costi di produzione, mentre diventano determinanti la prossimità ai clienti e ai consumatori, per seguire da vicino i cambiamenti della domanda e per garanti- re la personalizzazione del prodotto, e i contatti con i progettisti, considerata anche la sofisticatezza dei nuovi progetti (Carrus et al., 2014). La maggiore competitività della produzione su piccola scala, la bassa intensità di lavoro e il ridotto impatto ambientale della manifattura digitale, inoltre, potrebbero, nel prossimo futu- ro, favorire la concentrazione spaziale delle nuove imprese anche all’interno dei centri urbani (Beltrametti, Gasparre, 2014). Le evidenze empiriche: il quadro internazionale La stampa economica internazionale ha colto in anticipo i primi segnali di quella che potrebbe essere una controtendenza rispetto al processo di delocalizzazione produttiva. I primi artico- li sul tema sono apparsi già nella prima metà degli anni 20008, i riferimenti si sono poi intensificati a partire dal 2008 e soprattutto negli anni più recenti: nel 2013 The Economist ha dedicato un nu- mero monografico al backshoring9. L’ambito manageriale, con le indagini su campioni di impre- se condotte da grandi società di consulenza americane, costituisce un’altra fonte significativa di informazioni che sembra confermare i resoconti giornalistici. Tra i primi, il McKinsey Group ha messo in evidenza come il venir meno di alcune condizioni economiche (aumento dei prezzi del petrolio e di conseguenza dei costi di tra- 8 Si possono citare, al riguardo, i numerosi articoli apparsi su Business Week a partire dal 2004. 9 The Economist, Reshoring manufacturing, Special report, 19 gennaio 2013. 23
Paola Savi sporto e delle materie prime) e vantaggi localizzativi (crescita dei salari e della conflittualità nei paesi asiatici) abbia reso meno con- veniente, per le imprese americane, delocalizzare in Cina e in altri paesi asiatici (Coxon et al., 2008; Goel et al., 2008). Sulla stessa linea, altre indagini hanno rilevato la propensione a un ripensamento delle scelte di outsourcing, pur sostenendo che le imprese adottano una pluralità di comportamenti piuttosto che seguire un’unica strategia. Da una ricerca elaborata dall’Offshoring Research Network della Duke University e dalla Pricewaterhouse Coopers su cento imprese con sede negli Stati Uniti e in Europa emerge che solo il 15% delle imprese è orientata al rientro il patria, mentre una percentuale analoga (14%) è propensa piuttosto a ulte- riori spostamenti in paesi dove i costi di produzione sono ancora più bassi rispetto alla Cina e ai paesi del Sud-Est asiatico, come lo Sri Lanka, l’Egitto, il Nicaragua (Lewin et al., 2009). Analisi condotte dal Boston Consulting Group per gli Stati Uniti stimano invece in crescita l’entità del rientro per i prossimi anni e valutano le ricadute della rilocalizzazione in termini di 2-3 milioni di posti di lavoro, tra diretti e indotti, che porterebbero a una riduzione dell’1,5-2% del tasso di disoccupazione, oltre a un miglioramento della bilancia commerciale (Sirkin et al. 2012). La Reshoring Inititiative, un’associazione che si occupa di mo- nitorare il fenomeno del back-shoring delle imprese americane, ha censito 360 casi di rientro negli Stati Uniti nel periodo 1997- 2014, concentrati soprattutto nei settori delle componenti per ap- parecchi elettrici, del tessile-abbigliamento, della fabbricazione di prodotti in metallo e delle attrezzature per i trasporti (Reshoring Inititiative, 2014). Queste iniziative di rientro hanno determinato il recupero di oltre 39.000 posti di lavoro. La parte più consistente dei flussi di rientro, pari a oltre il 50% delle imprese censite, provie- ne dalla Cina; il secondo paese in ordine di importanza è il Messi- co. Gli stati americani più attrattivi, per le aziende che ritornano, 24
Il fenomeno del back-shoring in Italia sono gli stati del sudovest e il Texas in particolare, per i bassi salari e la tassazione meno elevata, seguiti dal Midwest, per la presenza di una base industriale. Sebbene al momento, molte multinazionali stiano rilocalizzan- do linee di produzione che realizzano beni destinati al mercato nordamericano, i flussi in uscita superano comunque quelli in en- trata (The Economist, 2013). Informazioni dettagliate si evincono dalla banca dati costruita da studiosi di università italiane, il Gruppo di ricerca Uni-CLUB Mo-Re Back-reshoring10, la quale contiene attualmente 294 casi re- lativi a 254 imprese industriali11 dell’Europa comunitaria, del Nord America e dell’Asia (Giappone, Corea del Sud e Taiwan) che hanno deciso di fare rientrare le produzioni in patria o di spostarle in pae- si vicini12. Le due macro-aree, Stati Uniti ed Europa, sono più meno equivalenti come numero di casi (contano rispettivamente 141 e 145 imprese); in Europa i paesi maggiormente rappresentati sono l’Italia e la Germania13. Le due macroaree si differenziano però per provenienza geografica dei rientri: mentre le imprese nordame- ricane rientrano quasi esclusivamente dalla Cina e da altri pae- si asiatici, molte imprese europee rientrano, oltre che dall’Asia, dall’Est Europa, nel recente passato area privilegiata di destinazio- 10 Gruppo di ricerca che coinvolge studiosi di management costituito dalle Uni- versità di Catania, L’Aquila, Udine, Bologna e Modena & Reggio Emilia. 11 La differenza è dovuta al fatto che alcune imprese hanno messo in atto più percorsi di rientro. 12 I dati sono stati raccolti e classificati secondo una metodologia di tipo esplorati- vo (formulative research) che ha utilizzato più fonti. Le imprese non costituiscono quindi un campione statisticamente significativo e i risultati non sono generaliz- zabili (Fratocchi et al., 2014b). 13 In Germania, il Fraunhofer Institute svolge una rilevazione biennale del fe- nomeno back-shoring partire dal 1997. Molto consistente, per questo paese, è anche l’ambito degli studi accademici. Per un’analisi dettagliata relativa agli studi realizzati da autori tedeschi si rimanda ad Ancarani et al. (2012) e a Fratocchi et al. (2014b). 25
Paola Savi ne dei flussi di delocalizzazione (Fratocchi et al. 2014b). Le riloca- lizzazioni dall’Europa dell’Est ammontano a circa 1/4 del totale per la Germania e a 1/3 per la Francia. Dall’analisi dei casi si evincono ulteriori informazioni. In pri- mo luogo sulla coordinata temporale: a conferma del fatto che i disinvestimenti sono sempre stati praticati dalle imprese, i primi casi censiti di rilocalizzazione produttiva risalgono agli anni ’80 e ’90. Tuttavia è a partire dalla seconda metà degli anni 2000 (Figura 1), in concomitanza con la crisi economica mondiale, che si assiste a un’intensificazione del fenomeno: fino al 2005, infatti, si sono verificati solo 1/5 dei casi e circa la metà dopo il 2009, con un picco nel periodo compreso tra il 2011 e il 2013 (Fratocchi et al., 2014b). Sempre in prospettiva temporale, se si considera l’intervallo che intercorre tra l’anno di implementazione della decisione di de- localizzare e la successiva decisione di rientro, si notano alcune differenze che dipendono dal paese estero in cui era stata origina- riamente decentrata la produzione. In particolare, le delocalizza- zioni nell’Europa dell’Est si caratterizzano per un profilo tempora- le maggiormente esteso rispetto a quelle effettuate in Cina e negli altri paesi asiatici. Per quanto riguarda i settori produttivi, le imprese rientrate operano principalmente nei comparti dell’elettronica, della mec- canica, del mobile e arredamento, dell’automotive e degli elettro- domestici14. Queste evidenze sono interessanti anche perché con- trastano con le stime del Boston Consulting Group su quelli che saranno i settori a più forte propensione al rientro nei prossimi anni: vetro, pietra e minerali, prodotti in legno (non arredamento), petrolio e carbone, alimenti e bevande, prodotti a base di carta, prodotti chimici e lavorazione dei metalli (Ancarani, 2012). 14 L’auto-motive e l’elettronica sono coinvolti soprattutto nel rientro delle impre- se tedesche (Ancarani et al., 2012). 26
Il fenomeno del back-shoring in Italia Figura 1- Back e nearshoring: evoluzione temporale del fenomeno Fonte: Uni-CLUB Mo-Re Back-reshoring Research Group Sebbene le evidenze empiriche e le analisi teoriche riguardi- no prevalentemente l’industria, la tendenza al rientro coinvolge anche i servizi che, nei decenni scorsi, sono stati protagonisti di processi di off-shoring in paesi a basso costo del lavoro. Diverse multinazionali hanno infatti decentrato ad altre imprese straniere i servizi informatici e di back-office o spostato direttamente all’e- stero i propri centri ricerca. La programmazione del sofware, i call centre, i data-centre management sono state le prime attività de- localizzate all’estero, seguite in un secondo momento da servizi come le analisi mediche e le analisi per le banche di investimento. Esemplare il caso dell’americana General Electric che, avendo ini- ziato l’off-shore nei servizi già negli anni ’90, nel 2012 decentrava 27
Paola Savi quasi il 50% delle attività di ICT all’estero, soprattutto in India. Preso atto che stava perdendo molto expertise tecnico e che il suo Dipartimento IT non rispondeva abbastanza velocemente ai cam- biamenti tecnologici richiesti, l’impresa ha reinvestito negli Stati Uniti e ha ripreso ad assumere ingegneri nel suo centro del Michi- gan (The Economist, 2013). Le evidenze empiriche: il contesto italiano Secondo il Gruppo di ricerca Uni-CLUB Mo-Re Back-reshoring, l’Italia sarebbe il paese europeo con il maggior numero di rilocaliz- zazioni (60 imprese), seguita dalla Germania (39 casi). In linea con le evidenze relative agli altri paesi europei, le imprese italiane ri- entrano soprattutto dalla Cina (36%) e dall’Est Europa (26,7%). I ri- entri dalla Cina e dagli altri paesi asiatici sono avvenuti in maniera quasi costante tra il 2004 e il 2011, mentre quelli dall’Est Europa si sono concentrati nel periodo successivo al 2007 (Ancarani, 2012). Dall’analisi dei settori merceologici, emerge invece la pecu- liarità del caso italiano: il 43% delle imprese che hanno deciso di riportare la produzione in sede domestica appartiene infatti al comparto abbigliamento-calzature, percentuale che sale al 67% se consideriamo le operazioni di nearshoring. Questi dati non sor- prendono, dal momento che questo settore è stato il principale protagonista dei processi di delocalizzazione nei decenni prece- denti. Altre indagini mettono in evidenza come, al momento, i rientri si limitino ai casi di imprese di grandi dimensioni o imprese che la- vorano in settori di nicchia, come la moda o la meccanica, le quali, anche in assenza di incentivi, riportano in Italia prevalentemente produzioni costose e di qualità o fasi produttive ad elevato valore aggiunto. 28
Il fenomeno del back-shoring in Italia Come emerge da uno studio su un campione di 45 imprese del settore abbigliamento-calzature-pelletteria realizzato dallo Studio Pambianco e da Deutsche Bank, che prende in esame un arco tem- porale di 3 anni (2010-2013), sono soprattutto le aziende di fascia alta a puntare sull’Italia. Le griffe del lusso italiane che rientrano, così come le imprese straniere che decidono di produrre in Italia, compensano infatti i costi di produzione più elevati con i vantaggi derivanti dalla qualità dei prodotti e dal fattore immagine e repu- tazione. Il fenomeno investe solo parzialmente le imprese di fascia media e bassa, dove sono presenti molte piccole imprese, per le quali, essendo i margini di profitto più bassi, l’Italia ha costi troppo elevati15 (Testoni, 2014). Nel comparto moda, spiccano i casi di Nannini, Piquadro e Furla, per il settore borse-pelletteria, Ferragamo, Prada e Tod’s per il settore del lusso; Gaudì, impresa del settore abbigliamento di Carpi, ha abbandonato i fornitori cinesi e ha affidato la produzione di alta gamma a laboratori artigiani, cinesi, localizzati in Emilia e in Toscana; Safilo è rientrata nel distretto bellunese. L’Italia, oltre che destinataria delle strategie di back-shoring di imprese nazionali, è anche interessata da operazioni di near-sho- ring di imprese europee, soprattutto marchi francesi del lusso, che vedono nelle competenze e capacità delle imprese italiane, soprat- tutto artigiane, dei fattori di competitività che superano le difficol- tà del fare impresa in Italia (Ricciardi et al., 2015)16. Non solo lusso: la francese L’Oreal ha spostato due linee di confezionamento dello 15 Per quanto riguarda le aziende di fascia inferiore, il 26% del campione prevede un’ulteriore riduzione della quota di produzione realizzata in Italia, contro il 35% che dichiara di volere incrementare la produzione in sede domestica (Testoni, 2014). 16 Nel settore della scarpa di lusso Loubutin, che ha già investito a Parabiago, nel Milanese, o il gruppo austriaco Labelux, proprietario del marchio Jimmy Choo, che ha dichiarato di volere acquistare la fabbrica che produce le sue calzature di alta gamma in Toscana (Ricciardi et. al., 2015). 29
Paola Savi shampoo dalla Polonia al sito di Settimo Torinese che, a regime, nel 2016, dovrebbe arrivare a produrre 20 milioni di pezzi (Di Vico, 2015). Nell’ambito della mobilità sostenibile, il Gruppo Termal (50 milioni di fatturato), abbandonata la Cina, ha investito 12 milioni di euro per uno stabilimento a Bologna che sarà completato entro il 2015 e dove, a regime, produrrà 35.000 veicoli (bici elettriche e ciclomotori), tra cui il primo motorino alimentato a energia solare. In termini occupazionali, le ricadute sono stimate in circa 40 nuovi posti di lavoro (Ronchetti, 2014). Nella produzione di batterie è noto il caso di FIAMM che, dopo essere uscita da una joint-venture in India dove la produttività era bassissima e dopo avere chiuso l’impianto della Repubblica Ceca dove i risparmi non compensavano più i costi (in termini di scarti ed elevato turnover che impediva la formazione dei dipendenti), ha riportato la produzione in Italia, negli stabilimenti di Avezzano e Montecchio Maggiore (Mangiaterra, 2015a). A conferma di quanto rilevato dalla letteratura internazionale, anche nel caso delle imprese italiane, il rientro si inserisce nel più ampio contesto dei processi di internazionalizzazione che includo- no diverse strategie, che non si escludono a vicenda, e i percorsi di rientro non sono sempre lineari e definiti una volta per tutte. Un caso significativo è quello della vicentina Belfe (abbigliamento) che, dopo avere delocalizzato in Cina negli anni ’90, nel 2004 ha adottato strategie sia di back-shoring, riportando alcune linee produttive nei propri stabilimenti di Vicenza, che di near-shoring delegando altre attività a subfornitori bulgari (Alba, 2011; Gervasio, 2004). Succes- sivamente, nel 2012, Belfe ha chiuso definitivamente la produzione in provincia di Vicenza per concentrarla in Bulgaria. Il caso di Belfe non costituisce un’eccezione: la stessa Lumberjack (calzature) è ri- entrata dalla Cina per produrre in Italia e Romania, ricorrendo però all’internalizzazione e non a imprese terziste (Ancarani, 2012). 30
Il fenomeno del back-shoring in Italia Altre imprese adottano contemporaneamente strategie di back-shoring e di delocalizzazione produttiva. La veronese Calze- donia, nel 2013, ha aperto il terzo stabilimento in Serbia e riporta- to la produzione del marchio Falconeri in provincia di Trento. La strategia, come dichiarato da Sandro Veronesi, è infatti quella di continuare a produrre all’estero i capi per i quali il fattore prezzo è decisivo (le calze e l’intimo dei marchi Calzedonia, Tezenis, Inti- missimi) e di realizzare invece in Italia capi prodotti con filati pre- giati, come quelli di Falconeri, il cui marchio è stato acquisito dal gruppo Calzedonia nel 2009 (Dainese, 2014, Mangiaterra, 2015b). In risposta alla domanda di made in Italy dei paesi emergenti, il marchio di camiceria And ha riportato in Italia le produzioni destinate al mercato cinese e spostato in Romania le produzioni rivolte al mercato italiano. Il Wahaha Group, colosso del settore dei centri commerciali, ha infatti concesso all’impresa veneziana di aprire dei negozi monomarca in alcuni grandi centri commer- ciali cinesi a condizione che i capi vengano prodotti interamente in Italia (Ricciardi et al., 2015). Per quanto riguarda i casi di next-shoring sono da segnala- re i casi delle venete Zordan, Fantic e Simax, i quali dimostrano come, in un’economia globale e interdipendente, per servire i di- versi mercati sia necessario operare per piattaforme continentali (Gubitta, 2015a). Poche sono al momento le evidenze empiriche che riguardano uno dei punti di forza del nostro sistema economico-territoriale: i distretti industriali. Aku, specializzata nella produzione di scar- poni da montagna ha abbandonato la produzione in Romania per rientrare nel distretto dello sportsystem di Montebelluna; Diadora ha recentemente annunciato la riapertura a Montebelluna di una manovia e di un capannone dismesso per produrre modelli di lus- so. Anche nel caso di Montebelluna, tuttavia, il rientro coinvolge le produzioni a più elevato valore aggiunto, in un processo spinto 31
Paola Savi dalla crisi dei consumi di massa e dalla tenuta di quelli del lusso (Nicoletti, 2015). Conclusioni Allo stato dei fatti e fermo restando che qualunque conside- razione va rapportata al ciclo economico, è difficile valutare che conseguenze avrà il back-shoring sui territori precedentemente segnati dalla delocalizzazione. In primo luogo perché il fenome- no stesso, come messo in evidenza, non è ancora ben chiaro nelle dimensioni e nelle cause, in secondo luogo perché mancano anco- ra analisi qualitative e di dettaglio a scale territoriali più piccole, soprattutto alla scala dei sistemi produttivi locali di cui le piccole imprese hanno storicamente costituito l’ossatura ma in cui negli ultimi anni hanno subito pesanti ridimensionamenti, sia a causa della delocalizzazione produttiva che della crisi economica. In ogni caso, il back-shoring non consentirà di ritornare ai li- velli di occupazione industriale precedenti la delocalizzazione e la crisi economica. È infatti impensabile recuperare i posti di lavoro manifatturieri persi nei paesi di vecchia industrializzazione negli ultimi venti e più anni, sia perché molti beni a basso valore ag- giunto continueranno a essere prodotti in paesi a basso costo del lavoro, sia perché le recenti tecnologie digitali che stanno trasfor- mando l’organizzazione della produzione sono comunque a bassa intensità di lavoro. Al momento, in Italia il rientro è limitato a grandi imprese e ad alcuni settori, come la moda o la meccanica. Proprio il ritorno di alcuni di questi comparti, però, potrebbe avere un effetto trainante sulla ripresa delle piccole imprese, in particolare il sistema moda, la cui organizzazione produttiva si basa su reti di fornitura costi- tuite da piccole imprese altamente specializzate, spesso artigiane. 32
Il fenomeno del back-shoring in Italia Questa organizzazione rende meno complesso il rientro dal mo- mento che non si tratta di riportare in patria un’azienda ma solo di cambiare subfornitore. Si consideri inoltre che le imprese italiane potrebbero diventare potenziali fornitrici di imprese di altri paesi che intendano implementare azioni di near-shoring mantenendo esternalizzata la produzione (Ancarani, 2012). Recenti evidenze di cui è ancora prematuro stimare la porta- ta, mostrano una ripresa della produzione nelle microimprese del Veneto e nell’artigianato toscano dei settori dell’abbigliamento e della pelletteria. Tendenze analoghe si registrano, in Veneto, nella produzione degli elettrodomestici dove aziende di media dimen- sione, che riforniscono le multinazionali e che precedentemente si appoggiavano a fornitori asiatici, si sono rivolte nuovamente a fornitori locali (Maggi e Vergine, 2014). Per ora, gli effetti sono solo in termini di aumento della produzione, non dell’occupazione. In relazione al rientro delle produzioni, ma non solo, la diffu- sione della manifattura digitale potrebbe costituire un’opportunità di sviluppo per le piccole imprese, dal momento che le tecniche di produzione su cui è basata consentono di realizzare prodotti di qualità con costi e investimenti decisamente inferiori rispetto alla manifattura tradizionale. La personalizzazione estrema del prodot- to che la fabbricazione digitale, grazie alla stampa in 3D, è in grado di realizzare, valorizzerebbe inoltre la flessibilità, la creatività e la capacità di produrre su piccola scala, che sono caratteristiche pe- culiari della piccola impresa. In particolare, potrebbe rilanciare la competitività dell’artigianato, favorendo lo sviluppo di una nuova generazione di artigiani tecnologici, i cosiddetti artigiani 2.0, figu- re che coniugano la creatività e il sapere manuale della professione con le potenzialità offerte dalle nuove tecniche di fabbricazione (Micelli, 2011). Gli effetti non saranno comunque immediati: le po- tenzialità delle nuove tecnologie trovano infatti un limite, in Italia, nella loro ancora scarsa diffusione proprio all’interno delle piccole 33
Paola Savi imprese, tra le quali si va configurando una sorta di “digital divi- de” che contrappone poche aziende innovatrici e all’avanguardia a molte imprese tradizionali e resistenti al cambiamento tecnologico (Pasetto, 2015). Quali azioni potrebbero incentivare le rilocalizzazioni? Im- prenditori come Diego Della Valle fanno leva sulla defiscalizza- zione delle produzioni 100% made in Italy e sull’investimento in formazione professionale tecnica, considerando che nel nostro paese esiste un fenomeno di disallineamento tra domanda e offer- ta di lavoro e uno scarso appeal tra i giovani per professioni che vengono considerate operaie (Bello, 2014). Se il futuro sarà quel- lo dell’artigianato industriale di qualità (Micelli e Rullani, 2011), diverse aziende, soprattutto del settore moda e beni di lusso, si stanno muovendo per creare scuole per formare giovani tecnici in grado di acquisire competenze nella produzione di beni di alta gamma. Prada aprirà, in Valdarno, la Prada Academy per formare ragazzi tra i 16 e i 21 anni; in Piemonte è già attiva Bottega dei mestieri, un laboratorio creato da Aurora che intende coniugare manualità e creatività; in Umbria Cucinelli ha creato la Scuola dei mestieri artigianali. Un problema creato dalla delocalizzazione è proprio quello del recupero delle professionalità e delle competenze che sono andate perdute. In questa prospettiva, nel distretto dello sportsystem di Montebelluna si stanno pianificando nuovi percorsi di formazione professionale per ricreare queste competenze e per sostenere nel lungo periodo il rientro delle produzioni (Nicoletti, 2015). Ancora Della Valle, per superare il problema della mancan- za di capitali che limita le piccole aziende, ipotizza l’intervento di investitori in grado di rimanere per tre anni nel capitale sociale delle società e consentire a queste ultime, alla fine del triennio, di quotarsi in borsa (Bello, 2014). 34
Il fenomeno del back-shoring in Italia Per il momento non esistono incentivi nazionali per sostenere il rientro delle produzioni. Alcune regioni si sono però già mosse in questa direzione. La Regione Piemonte, ad esempio, all’interno della L.R. 34/2004, a supporto delle politiche per l’attrazione degli investimenti, ha introdotto lo strumento del Contratto di insedia- mento che indica tra i possibili beneficiari le imprese italiane che hanno totalmente delocalizzato la produzione all’estero ma che intendano investire in Piemonte (Regione Piemonte, 2011)17. In altri casi, interventi di questo tipo, pur non resi espliciti, potreb- bero trovare comunque spazio nell’ambito delle azioni di sostegno regionali ai sistemi produttivi locali. Nell’ultima legge regionale sui distretti industriali della Regione Veneto (la L.R. 13/2014), ad esempio, le misure riguardanti la difesa dell’occupazione o la cre- azione di nuova occupazione e di nuova imprenditorialità potreb- bero includere anche il rientro di imprese dall’estero. Le politiche per l’incentivazione dei rientri trovano tuttavia efficacia e senso se pensate all’interno di un più ampio progetto di reindustrializzazione, ovvero se si raccordano ad azioni incisive rivolte alla valorizzazione e al sostegno della manifattura, con par- ticolare attenzione alla formazione e al recupero delle competenze e delle professionalità e alla modernizzazione dei sistemi produt- tivi. In particolare, l’incrocio tra back-shoring e nuove tecnologie produttive digitali potrebbe costituire la chiave per il rilancio del- le piccole imprese, potenziando soprattutto la creatività che è da sempre il valore aggiunto dell’artigianato nel nostro paese. 17 Anche grazie a questa opportunità, la biellese SVB Hella Spa (abbigliamento da cerimonia e conformato), nel 2010, ha rilocalizzato gran parte della produzione dalla Romania all’Italia (Ancarani, 2012). 35
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