ALCUNI SPUNTI SUI PROBLEMI DEL WELFARE STATE - (Enrico Del Colle)
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ALCUNI SPUNTI SUI PROBLEMI DEL WELFARE STATE (Enrico Del Colle) 1
La posizione dell’Italia nell’Europa comunitaria alla luce degli indicatori della Strategia di Lisbona 1. Le componenti “sociali” della Strategia di Lisbona Appare ormai chiaro che il welfare europeo, e non solo, dovrà confron- tarsi in futuro con la ricchezza disponibile dei Paesi. Già nel Libro Bianco della Commissione europea del 1994 sulla Politica sociale europea1 veniva evidenziato lo stretto legame tra welfare e prosperità economica ma è nella Strategia di Lisbona, come visto, che si ritrova l’idea di società attiva, fun- zionale agli obiettivi tanto di competitività quanto d’inclusione sociale. In questi ultimi anni, ad esempio, i Paesi scandinavi (come vedremo meglio più avanti) hanno rappresentato un punto di riferimento per quanto riguarda le politiche sociali: sui sistemi pensionistici, sulla Sanità ed anche sul Lavo- ro sono state realizzate diverse riforme. Alcuni provvedimenti sono stati presi pure in tema d’infanzia, formazione e lotta all’esclusione sociale. Ma, a ben riflettere, il bilancio, nel suo complesso, non appare molto soddisfa- cente. Ad esempio, la struttura della spesa sociale in Europa non sembra essere dissimile da quella d’inizio secolo, soprattutto in Italia. Soffermandoci sugli aspetti riguardanti la spesa sociale, le tabb. 3.1, 3.2, 3.3 e 3.4 raccolgono indicazioni utili per valutare ed interpretare gli orien- tamenti dei Paesi europei (nella composizione a 15 membri) in relazione alla diversa destinazione delle risorse. Le prime due tabelle mostrano la composizione percentuale della spesa per prestazioni sociali sostenuta dai diversi Paesi negli anni 2000 e 2008, suddivisa per funzioni. Si osserva immediatamente che, eccezion fatta per l’Irlanda, la spesa tende a concen- trarsi nella funzione Vecchiaia (cioè spesa per pensioni di vecchiaia), con 1 Si veda Commissione delle Comunità Europee (1994), European Social Policy. A Way Forward for the Union. A White Paper, Bruxelles. 2
Tab. 3.1 – Composizione percentuale per funzione della spesa per prestazioni so- ciali nei Paesi dell’Unione europea nella composizione a 15 membri – Anno 2000. Reversibi- Paesi Malattia Invalidità Vecchiaia Famiglia lità Austria 25,6 9,7 39,7 8,3 10,7 Belgio 24,2 9,4 33,7 10,6 8,6 Danimarca 20,2 12,0 38,1 0,0 13,1 Finlandia 23,8 13,9 31,8 4,0 12,5 Francia 28,8 5,9 38,4 5,9 9,1 Germania 29,4 7,8 33,8 8,7 11,2 Grecia 26,5 4,8 46,5 3,3 7,4 Irlanda 41,5 5,3 19,5 5,9 13,7 Italia 25,1 6,1 52,5 10,7 3,8 Lussemburgo 25,4 13,4 36,9 3,0 16,6 Paesi Bassi 29,3 11,8 37,0 5,4 4,6 Portogallo 32,0 12,7 37,7 7,1 5,4 Regno Unito 25,5 9,4 44,5 4,3 6,9 Spagna 29,4 8,0 34,3 10,4 4,9 Svezia 27,0 13,2 37,0 2,2 9,0 UE-15 28,2 7,5 38,6 8,1 8,4 Disoccupa- Esclusione so- Paesi Alloggio Totale zione ciale Austria 4,9 0,4 0,7 100,0 Belgio 11,8 0,0 1,7 100,0 Danimarca 10,5 2,4 3,7 100,0 Finlandia 10,5 1,5 2,0 100,0 Francia 7,2 3,2 1,5 100,0 Germania 7,5 1,1 0,5 100,0 Grecia 6,2 3,1 2,2 100,0 Irlanda 9,6 2,4 2,1 100,0 Italia 1,7 0,0 0,1 100,0 Lussemburgo 3,2 0,6 0,9 100,0 Paesi Bassi 5,1 1,5 5,3 100,0 Portogallo 3,7 0,0 1,4 100,0 Regno Unito 3,0 5,7 0,7 100,0 Spagna 11,6 0,8 0,6 100,0 Svezia 7,1 2,1 2,3 100,0 UE-15 6,7 1,4 1,1 100,0 3
Tab. 3.2 – Composizione percentuale per funzione della spesa per prestazioni so- ciali nei Paesi dell’Unione europea nella composizione a 15 membri – Anno 2008. Reversibi- Paesi Malattia Invalidità Vecchiaia Famiglia lità Austria 26,1 7,8 42,2 7,1 10,3 Belgio 28,4 7,1 32,6 8,0 7,8 Danimarca 23,3 15,2 38,4 0,0 13,2 Finlandia 26,8 12,6 34,6 3,4 11,6 Francia 29,8 6,0 39,3 6,5 8,4 Germania 30,5 7,8 35,3 7,6 10,6 Grecia 29,0 4,7 42,4 8,3 6,3 Irlanda 40,8 5,5 21,7 4,4 14,8 Italia 26,4 5,9 51,4 9,4 4,7 Lussemburgo 25,2 11,5 26,8 9,2 19,8 Paesi Bassi 32,8 8,8 35,5 4,5 6,6 Portogallo 28,0 9,3 44,2 7,3 5,5 Regno Unito 33,3 11,0 38,9 0,8 7,3 Spagna 30,8 7,2 30,6 8,9 6,8 Svezia 26,0 15,1 39,9 1,9 10,4 UE-15 29,6 7,0 38,9 7,4 8,2 Disoccupa- Esclusione Paesi Alloggio Totale zione sociale Austria 5,0 0,4 1,1 100,0 Belgio 12,5 0,9 2,7 100,0 Danimarca 4,8 2,5 2,6 100,0 Finlandia 7,1 1,7 2,2 100,0 Francia 5,8 2,7 1,5 100,0 Germania 5,4 2,2 0,6 100,0 Grecia 5,1 2,0 2,2 100,0 Irlanda 8,7 2,0 2,1 100,0 Italia 1,9 0,1 0,2 100,0 Lussemburgo 4,6 0,9 2,0 100,0 Paesi Bassi 3,8 1,4 6,6 100,0 Portogallo 4,5 0,0 1,2 100,0 Regno Unito 2,5 5,4 0,8 100,0 Spagna 13,6 0,9 1,2 100,0 Svezia 3,0 1,6 2,1 100,0 UE-15 5,9 1,6 1,4 100,0 4
particolare accentuazione per il nostro Paese e, ad una certa distanza, anche per la Grecia, il Portogallo ed il Regno Unito. È sufficiente questo elemento per comprendere che tale situazione riflette non poco sull’importanza asse- gnata dai Paesi alle altre funzioni della spesa: infatti, mentre per la funzione Malattia (cioè spesa per la Sanità), i Paesi dedicano una percentuale intorno al 25-30% (tranne l’Irlanda che, invece, dedica a questa funzione più del 40% della spesa complessiva, per le altre funzioni che non sono direttamen- te riferibili alla previdenza, le situazioni di alcuni Paesi appaiono alquanto sbilanciate e inferiori alla media europea; per le funzioni Famiglia e Disoc- cupazione, considerate insieme, ad esempio, mentre a livello dei 15 Stati membri viene destinato complessivamente più del 15% dell’intera spesa, in taluni Paesi non si arriva nel 2008 al 10% (Portogallo e Regno Unito) o ad- dirittura al 7% come l’Italia. Ulteriori conferme di quanto andiamo affermando provengono dalla let- tura dei dati contenuti nelle tabb. 3.3 e 3.4 che evidenziano il peso delle prestazioni sociali rispetto al Pil, sempre nel 2000 e nel 2008. Il primo ele- mento di riflessione attiene all’aumento delle risorse, rispetto al Pil, che i Paesi hanno mediamente destinato alla protezione sociale, passando dal 2000 (25,5%) al 2008 (26,3%). Ma, naturalmente, il dato medio opacizza realtà nazionali molto diversi- ficate: infatti, la Germania, il Regno Unito e la Svezia hanno ridotto sensi- bilmente la loro quota di Pil attribuita alla protezione sociale (di pochissi- mo anche l’Austria). Il nostro Paese, nel periodo considerato, ha accresciu- to di quasi tre punti percentuali di Pil le risorse destinate al sociale (in par- ticolare alle funzioni Vecchiaia, Malattia e Famiglia). È inoltre da segnala- re il forte incremento dell’Irlanda nei riguardi della funzione Malattia (qua- si sette punti percentuali di Pil). Come si può constatare, quindi, i Paesi hanno cercato di modificare il loro comportamento nei confronti dei temi sociali, provando a riequilibrare, nel periodo analizzato, la ripartizione delle risorse ed a convergere verso obiettivi comuni. Permangono, comunque, differenze ancora significative tra i diversi Paesi ed all’interno di essi sul piano della destinazione delle risorse e su quello territoriale, tale da giustificare un prolungamento temporale, fissato dalla Commissione europea, per l’allineamento dei Paesi in tema di welfare an- che alla luce dei 12 nuovi Paesi entrati, nel frattempo, a far parte dell’Unione europea. Ma di questo parleremo più avanti. Superato, dunque, il termine di scadenza temporale (anno 2010) per il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, i Paesi dell’Europa a 15 si con- frontano sui risultati conseguiti e su quanto c’è ancora da fare al riguardo, 5
Tab. 3.3 – Incidenza percentuale rispetto al Pil della spesa per prestazioni sociali, suddivisa per funzione, nei Paesi dell’Unione europea nella composizione a 15 membri – Anno 2000. Reversibi- Paesi Malattia Invalidità Vecchiaia Famiglia lità Austria 7,1 2,7 11,0 2,3 2,9 Belgio 6,0 2,3 8,4 2,6 2,1 Danimarca 5,7 3,4 10,7 0,0 3,7 Finlandia 5,8 3,4 7,7 1,0 3,0 Francia 8,0 1,6 10,6 1,6 2,5 Germania 8,3 2,2 9,5 2,5 3,2 Grecia 6,0 1,1 10,6 0,8 1,7 Irlanda 5,5 0,7 2,6 0,8 1,8 Italia 6,0 1,4 12,5 2,5 0,9 Lussemburgo 4,8 2,5 6,9 0,6 3,1 Paesi Bassi 7,3 2,9 9,2 1,3 1,1 Portogallo 6,0 2,4 7,0 1,3 1,0 Regno Unito 6,5 2,4 11,3 1,1 1,8 Spagna 5,8 1,6 6,8 2,1 1,0 Svezia 7,9 3,9 10,9 0,7 2,6 UE-15 7,2 1,9 9,8 2,1 2,2 Disoccupa- Esclusione Paesi Alloggio Totale zione sociale Austria 1,3 0,1 0,2 27,6 Belgio 2,9 0,0 0,4 24,9 Danimarca 3,0 0,7 1,0 28,1 Finlandia 2,6 0,4 0,5 24,3 Francia 2,0 0,9 0,4 27,7 Germania 2,1 0,3 0,2 28,3 Grecia 1,4 0,7 0,5 22,7 Irlanda 1,3 0,3 0,3 13,2 Italia 0,4 0,0 0,0 23,8 Lussemburgo 0,6 0,1 0,2 18,8 Paesi Bassi 1,3 0,4 1,3 24,7 Portogallo 0,7 0,0 0,3 18,7 Regno Unito 0,8 1,4 0,2 25,5 Spagna 2,3 0,2 0,1 19,8 Svezia 2,1 0,6 0,7 29,4 UE-15 1,7 0,4 0,3 25,5 6
Tab. 3.4 – Incidenza percentuale rispetto al Pil della spesa per prestazioni sociali, suddivisa per funzione, nei Paesi dell’Unione europea nella composizione a 15 membri – Anno 2008. Reversibi- Paesi Malattia Invalidità Vecchiaia Famiglia lità Austria 7,1 2,1 11,5 1,9 2,8 Belgio 7,6 1,9 8,7 2,1 2,1 Danimarca 6,7 4,4 11,1 0,0 3,8 Finlandia 6,8 3,2 8,8 0,9 3,0 Francia 8,7 1,7 11,5 1,9 2,5 Germania 8,1 2,1 9,4 2,0 2,8 Grecia 7,3 1,2 10,7 2,1 1,6 Irlanda 8,5 1,1 4,5 0,9 3,1 Italia 7,0 1,6 13,6 2,5 1,3 Lussemburgo 5,0 2,3 5,3 1,8 3,9 Paesi Bassi 8,8 2,4 9,5 1,2 1,8 Portogallo 6,5 2,1 10,2 1,7 1,3 Regno Unito 7,6 2,5 8,8 0,2 1,7 Spagna 6,8 1,6 6,8 2,0 1,5 Svezia 7,5 4,3 11,5 0,6 3,0 UE-15 7,8 1,9 10,2 2,0 2,2 Disoccupa- Esclusione Paesi Alloggio Totale zione sociale Austria 1,4 0,1 0,3 27,3 Belgio 3,3 0,2 0,7 26,6 Danimarca 1,4 0,7 0,8 28,9 Finlandia 1,8 0,4 0,6 25,5 Francia 1,7 0,8 0,4 29,3 Germania 1,4 0,6 0,2 26,7 Grecia 1,3 0,5 0,5 25,1 Irlanda 1,8 0,4 0,4 20,9 Italia 0,5 0,0 0,1 26,5 Lussemburgo 0,9 0,2 0,4 19,8 Paesi Bassi 1,0 0,4 1,8 26,9 Portogallo 1,0 0,0 0,3 23,2 Regno Unito 0,6 1,2 0,2 22,7 Spagna 3,0 0,2 0,3 22,2 Svezia 0,9 0,5 0,6 28,8 UE-15 1,5 0,4 0,4 26,3 7
anche tenendo conto, come già detto, della nuova proposta di convergenza dei Paesi europei (il termine stabilito è il 2020), nella composizione a 27 Stati membri, verso obiettivi, comunque non molto dissimili da quelli di Lisbona 2000. In verità, il traguardo complessivo del 2020 appare, nei con- tenuti, un po’ più ambizioso di quanto previsto nella precedente strategia, avendo introdotto, infatti, soglie più elevate per alcune delle grandezze e- saminate. Ma i 15 Paesi che hanno avviato nel 2000 il processo di conver- genza anche alla luce della spesa sociale prima descritta, quali progressi hanno compiuto? Ed inoltre, quali ritardi registrano ancora? Vediamo in sintesi: l’Austria ha attuato nel decennio un’intensa riforma delle pensioni ed ha dedicato notevoli risorse all’istruzione, mentre appare ancora in ritar- do sugli obiettivi di Kyoto (riduzione emissione di gas) e sul tasso di occu- pazione degli ultracinquantacinquenni. Il Belgio, dal canto suo, ha decisa- mente ridotto il rapporto debito/pil ed ha aumentato le risorse da destinare alla Ricerca e sviluppo; non ha raggiunto, invece, risultati apprezzabili per ciò che concerne la formazione e l’occupazione (soprattutto “anziana”). La Danimarca ha introdotto misure a sostegno dell’occupazione (mino- re tassazione), ottenendo così il più alto tasso di occupazione dei Paesi UE (sia complessivo che femminile). Sul versante dei ritardi si constata un li- vello dei prezzi superiore alla media UE ed un deludente risultato in merito agli obiettivi di Kyoto. In Finlandia ci sono stati importanti interventi a fa- vore dell’occupazione “anziana” e contro l’emarginazione sociale oltre al raggiungimento di consistenti risultati nell’ambito dell’istruzione ed in re- lazione alla riduzione dei gas. Sono stati poco incisivi i provvedimenti in tema di concorrenza dei servizi. La Francia ha adottato una riforma ampia del sistema pensionistico ed è riuscita, con opportuni interventi, ad innalza- re in misura significativa il tasso di occupazione. Inoltre si è ridotto il livel- lo dei prezzi e si è registrata un’attenzione particolare al tema dell’istruzione. Ci sono, invece, situazioni preoccupanti sulla crescita del debito pubblico e si evidenzia una scarsa apertura in alcuni mercati (soprat- tutto gas e elettricità). La Germania ha ristrutturato il sistema di sicurezza sociale e modernizzato il mercato del lavoro. Vi sono stati anche profondi interventi sulla formazione professionale, sulla spesa per la Ricerca e svi- luppo e per la riduzione dell’emissione dei gas. Sono stati invece molto de- boli gli interventi riguardanti l’istruzione, il sistema pensionistico ed il de- bito pubblico. La Grecia ha avviato ma non completato, alcuni interventi per incentivare il lavoro, per migliorare il livello dell’istruzione e per inco- raggiare l’uso dell’ITC; resta precaria la situazione della disoccupazione (femminile, in particolare), del mercato interno energetico (assenza di con- correnza) ed anche il debito pubblico è molto elevato rispetto al Pil (il più 8
alto dei Paesi europei). L’Irlanda ha fatto registrare un aumento significati- vo della produttività del lavoro, una riduzione della disoccupazione e buoni risultati nell’istruzione secondaria; appare invece ancora indietro per quan- to attiene alla questione ambientale (scarsi risultati in relazione agli obietti- vi di Kyoto), per quanto concerne le risorse da destinare alla Ricerca e svi- luppo (troppo basse) e per quanto riguarda gli investimenti delle imprese (in netto calo). L’Italia si lascia apprezzare per interventi volti da un lato a migliorare il mercato del lavoro in termini di flessibilità, dall’altro a rende- re più moderno il sistema educativo. Vi sono segnali incoraggianti anche per ciò che riguarda gli investimenti delle imprese. La situazione italiana appare, invece, preoccupante per il tasso di occupazione femminile (e gio- vanile) troppo ridotto e per un elevato tasso di dispersione dei tassi di oc- cupazione regionali; inoltre, la sostenibilità a lungo termine della finanza pubblica sembra ancora alquanto incerta. Il Lussemburgo mostra una situazione positiva su diversi fronti: siamo, infatti, in presenza di un Paese con la più alta produttività del lavoro in am- bito UE, con un ridotto tasso di disoccupazione e con una spesa significati- va in Ricerca e sviluppo (si pensi che in Lussemburgo si è constatato il più elevato numero di accessi ad internet da parte delle imprese). Da segnalare, sul lato degli aspetti negativi, la presenza di un tasso di occupazione degli ultracinquantacinquenni ancora decisamente basso rispetto alla media UE. I Paesi Bassi rappresentano il Paese comunitario che ha praticamente rag- giunto gli obiettivi ambientali (quello di Kyoto) e mostra un tasso di disoc- cupazione molto basso anche alla luce di importanti misure introdotte in tema di flessibilità del lavoro. È, invece, ancora debole (anche se in recupe- ro) la produttività del lavoro ed esiste un netto divario in termini retributivi tra settore privato e settore pubblico, mentre è in calo la spesa per la Ricer- ca. Il Portogallo ha attuato una serie di azioni per promuovere l’utilizzo dell’ITC e per una maggiore spesa per la Ricerca e sviluppo; sono anche significativi alcuni risultati nel campo dell’istruzione. Vi sono difficoltà di un certo rilievo, invece, per contenere il deficit pubblico (dovuto princi- palmente alla spesa pensionistica) e per i prezzi applicati ad alcuni servizi pubblici (gas ed elettricità, in particolare) che sono tra i più alti in Europa. Il Regno Unito ha dedicato, nel decennio appena trascorso, molte risorse al problema della disoccupazione, alla spesa per l’istruzione e trasporti, alla formazione professionale ed alla riduzione dell’emissione di gas, ottenen- do, nel complesso, ragguardevoli risultati; non appare altrettanto “curato” il livello di produttività del lavoro e quello degli investimenti delle imprese (molto basso). La Spagna ha introdotto provvedimenti volti a far lievitare il 9
tasso di occupazione (soprattutto quello femminile) ed a ridurre quello di disoccupazione; inoltre è stato attuato il pacchetto di riforme “Espana” per la produzione e lo sviluppo della società dell’informazione. Appaiono, al contrario, molto deboli il livello di produttività del lavoro e quello dell’istruzione, nonché quello per la spesa in Ricerca e sviluppo. La Svezia presenta il più alto livello di spesa in Ricerca e sviluppo; sono state, altresì, adottate importanti misure per mantenere in attività le persone anziane e contestualmente per promuovere l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Dal lato degli interventi ancora necessari, si nota soprattutto un li- vello generale dei prezzi ancora troppo elevato. Questa sintetica rassegna dei comportamenti dei 15 Paesi UE tra il 2000 ed il 2010 nei riguardi dei fondamentali problemi economici, sociali ed ambientali affrontati a partire dall’introduzione della Strategia di Lisbona, mostra inequivocabilmente due aspetti essenziali: il primo attiene alla cir- costanza che, nel complesso, i risultati conseguiti dai Paesi non sembrano essere pienamente soddisfacenti (non a caso, infatti, si rinvia al 2020 l’allineamento dei Paesi su basi non molto diverse, come abbiamo visto, da quelle riferite alla Strategia di Lisbona) ed il secondo riguarda il fatto che il problema centrale del processo è il sistema occupazionale (anche la Com- missione europea ha, in questi anni, effettuato numerose e pressanti racco- mandazioni a questo riguardo) in considerazione delle molteplici implica- zioni sociali ed economiche che ne derivano (si pensi, ad esempio, al ri- schio povertà, ai consumi ed ai risparmi delle famiglie)2. 2 Nel corso del decennio sono stati effettuati diversi tentativi per spiegare le ragioni del mancato raggiungimento degli obiettivi di Lisbona da parte dei 15 Paesi ed, in particolare, della situazione occupazionale. Desideriamo qui segnalare Collignon S. (2005), “Per una nuova strategia di Lisbona”, in Italianieuropei, Roma; Naldini M. (2006), Le politiche so- ciali in Europa, Carocci, Roma; Kellerman C., Ecke M., Petzold S. (2010), “Eine neue Wa- chstumsstrategie für Europa nach 2010”, in Internationale Politikanalyse, Berlin. 10
Il lavoro quale motore del welfare in Italia, tra sistema educativo e sistema pensionistico 1. Il valore del capitale umano Come abbiamo potuto constatare, uno dei principali obiettivi della Stra- tegia Europa 2020 è quello della crescita inclusiva. I Paesi europei si sono impegnati a dare nuovo impulso alle loro economie con una particolare a- pertura al lavoro ed alla protezione sociale, favorendo cioè tutti coloro che in diversa misura sono lasciati fuori. Le elaborazioni fin qui effettuate hanno confermato l’importanza strate- gica ed il valore del capitale umano, nel quadro di una riforma strutturale del lavoro e del welfare e, più in generale, di una politica economica che sappia guardare al futuro competitivo dei Paesi europei. L’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro appare come un pro- blema comune a molti Paesi comunitari ma in Italia è più intenso che altro- ve. L’attuale divario tra l’Italia ed il resto d’Europa (Tab. 6.1) evidenziato, seppur parzialmente ma significativamente, dal rapporto tra i laureati e la popolazione con età compresa tra i 25 e i 64 anni, non lascia spazio ad in- certezze interpretative: intanto c’è da registrare che nel nostro Paese ci atte- stiamo su un rapporto che sfiora il 15% (13,2 per i maschi e 16,3 per le femmine) a fronte di un dato pari al 27,4% (27,0 per i maschi e 27,7 per le femmine) se consideriamo l’Europa a 15 e del 25,9% (25,1 per i maschi e 26,7 per le femmine) se prendiamo in esame l’Europa a 27 Stati membri. Dicevamo della facilità di interpretare una tale situazione: infatti, a diffe- renza di quanto accade in molti altri Paesi, l’Italia non è generosa negli in- vestimenti sull’istruzione dei giovani, intesi come strategia di risposta, ad esempio, alla globalizzazione; questo atteggiamento indebolisce il Paese non riuscendo più a valorizzare appieno le nuove intelligenze. Di conse- guenza per mantenere un certo equilibrio sociale tra le generazioni ci si af- fida molto spesso alle reti familiari impoverendo, di fatto, i giovani di oggi 11
in termini di stimoli e di mezzi. Si è creato, infatti, una sorta di bilancia- mento per il quale i genitori (e a volte anche i nonni) si occupano del be- nessere dei figli attraverso il nucleo familiare, mentre lo Stato e le Istitu- zioni adottano politiche che non facilitano l’indipendenza dei giovani. La sicurezza economica delle famiglie rappresenta quindi un supporto per i fi- gli (generalmente precari) ma non ne assicura la crescita ed il futuro1. Tab. 6.1 – Popolazione che ha raggiunto un livello di educazione terziaria (ISCED 5-6) nella classe di età 25-64, per regione. Valori percentuali sul totale della po- polazione 25-64. (Anno 2010) Regioni Maschi Femmine Totale Piemonte 13,2 14,9 14,1 Valle d'Aosta 10,1 11,9 11,0 Liguria 17,3 19,5 18,4 Lombardia 14,1 17,7 15,9 Trentino A.A. 13,8 15,3 14,4 Veneto 12,5 15,2 13,8 Friuli-Venezia Giulia 11,5 15,4 13,5 Emilia-Romagna 13,8 18,2 16,0 Toscana 13,2 17,3 15,3 Umbria 13,8 19,5 16,7 Marche 13,8 18,5 16,2 Lazio 17,9 20,3 19,1 Abruzzo 14,0 18,6 16,3 Molise 12,4 17,3 14,9 Campania 11,6 14,0 12,8 Puglia 10,7 12,4 11,6 Basilicata 10,6 14,6 12,6 Calabria 11,9 15,8 13,9 Sicilia 11,1 13,5 12,3 Sardegna 9,8 14,9 12,3 Italia 13,2 16,3 14,8 UE-15 27,0 27,7 27,4 UE-27 25,1 26,7 25,9 1 La famiglia è inoltre il luogo strategico per esaminare le conseguenze e le implicazioni di un’attività lavorativa instabile determinata da rapporti di lavoro flessibile. Si consulti Mi- gliavacca M. (2008), Famiglie e lavoro. Trasformazioni ed equilibri nell’Europa mediterra- nea, Bruno Mondadori, Milano. 12
Naturalmente esistono differenze territoriali tra centro-nord e sud. La si- tuazione della compagine maschile è mediamente migliore al centro-nord mentre il sud si lascia preferire per i risultati conseguiti dal sesso femmini- le. Comunque, in tutte e due i casi il dato italiano è più basso della media europea. L’accrescimento del capitale umano in termini di aumento dell’istruzione è, senza dubbio, un modo per aumentare la produttività e la forza competitiva del sistema delle imprese e, pertanto, del sistema Paese2. Portare, dunque, i livelli dei nostri risultati universitari (ed anche delle scuole di ordine inferiore) prossimi a quelli delle realtà più virtuose del mondo è l’autostrada verso il progresso e la modernizzazione. Certo, venire a conoscenza che la quota percentuale dei giovani con età compresa tra i 18 e i 24 anni che sono in possesso soltanto della licenza media (e non studia più) è in Italia pari a poco meno del 20% (la Francia, la Germania, il Regno Unito non arrivano al 15%) e che nessuna delle università italiane, secondo le classifiche più accreditate, compare tra le prime duecento del mondo, ci ammonisce che la strada da percorrere è ancora tanta. Ma c’è dell’altro: il problema dell’istruzione dei giovani in Italia non ha soltanto risvolti occu- pazionali e, in generale, economici, ma tale realtà crea schiere di delusi e di scoraggiati che tendono a non impegnarsi in quanto non trovano soluzioni e non vedono un futuro sereno. Una generazione di sfiduciati non favorisce la crescita di un Paese ma crea una dannosa spirale che si può arrestare soltan- to se si interviene tempestivamente3. Ed è quello che occorre fare accele- rando il passo. Si tratta, per essere più chiari, di porre al centro dell’attenzione i sistemi educativi ed il loro raccordo con il mondo del lavo- ro. Solo con la predisposizione di percorsi educativi concertati tra istituzio- ni e società civile si potrà guardare ad un futuro costruito sui giovani; pro- prio le università, in prima istanza, sono chiamate ad agire in tal senso, fa- cilitando la formazione di figure professionali utili all’azienda e sollecitan- do una maggiore cooperazione con il sistema delle imprese. Tutto ciò, per 2 La correlazione positiva tra crescita economica (misurata, ad esempio, dal valore del Pil procapite) e livello di capitale umano disponibile in un Paese è largamente dimostrata nella letteratura economica. Recenti elaborazioni riferite a confronti internazionali indicano che l’incremento di un anno del livello medio di istruzione della popolazione in età lavorati- va si associa nel lungo periodo ad aumenti del Pil procapite di circa il 10%. A tal proposito, si vedano, tra gli altri, Cipollone P., Sestito P. (2010), Il capitale umano, Il Mulino, Bolo- gna; Ciccone A., Cingano F., Cipollone P. (2006), “The private and social return to schoo- ling in Italy”, Collana Temi di dicussione, n. 569, Banca d’Italia, http://www.bancaditalia.it. 3 Si veda Livi Bacci M. (2008), Avanti giovani alla riscossa. Come uscire dalla crisi giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna. 13
risolvere il problema dello scollamento tra programmi universitari ed esi- genze produttive. È un percorso lungo, impegnativo, ma consente di dare una preparazione adeguata ai giovani. In altre parole, le università debbono orientare i giovani rispetto alle op- portunità concrete del mercato e verso quelle professionalità che, verosi- milmente, verranno maggiormente richieste dalle aziende. Se, però, il sistema universitario non riesce ad essere al passo con le skills richieste dai mercati, le aziende corrono ai ripari promuovendo per- corsi formativi autonomi e paralleli alla formazione universitaria. Il pro- blema per il mondo del lavoro, pertanto, non è quello di “trovare” laureati ma quello di individuare giovani in possesso di quelle professionalità stret- tamente connesse con il business aziendale. 2. Il lavoro in Italia, tra flessibilità e tutele Il lavoro è un problema molto delicato da affrontare in quanto influenza in misura determinante la vita delle persone, delle famiglie e anche delle imprese. È il fondamento del nostro diritto di cittadinanza, come riportato nel primo articolo della Costituzione. È il centro intorno al quale proget- tiamo i nostri modelli di vita, le nostre aspirazioni e i nostri ideali. Per que- ste ragioni assume particolare importanza analizzare con attenzione come cambia il lavoro, come si modificano le sue condizioni e le sue rappresen- tanze. Nell’insieme si tratta di un mondo complesso che negli anni ha spe- rimentato profonde metamorfosi a partire dal “mito” del lavoro appartenen- te esclusivamente (o quasi) alla grande impresa, fino ad arrivare al lavoro nelle piccole e medie imprese e nel popolo delle partite Iva. Insomma, sembra essersi esaurita la fase storica caratterizzata da un lavoro radicato nelle grandi aziende e nella Pubblica Amministrazione e sembra essere in corso un periodo nel quale primeggiano incertezze e contraddizioni, ma an- che creatività e duttilità. Sono, queste, situazioni difficilmente gestibili con i vecchi schemi del passato. Lo sviluppo oggi sembra dipendere anche, se non addirittura so- prattutto, dall’introduzione di forme di flessibilità del lavoro; ma i confini tra flessibilità e sicurezza sociale sono mobili, spesso magmatici, e rendono le decisioni da assumere molto difficili a tal punto che si parla sempre più spesso di flexicurity, ovvero di flessibilità e sicurezza sociale tenute insie- me dalla necessità di dover coniugare esigenze contrapposte dei lavoratori e 14
dei datori di lavoro4. Quando si discute in Italia di modificare il proprio sistema di welfare ed, in particolare, il proprio mercato del lavoro, in molti guardano ai Paesi nor- dici con particolare attenzione alla Danimarca (ed anche alla Svezia ma con qualche differenza). Essa è considerata come un esempio vincente di flessi- bilità e di salvaguardia del lavoratore e non del posto di lavoro. Il modello sociale danese consente di armonizzare la competitività delle imprese con una crescente sicurezza sociale del lavoratore che può tramutare la perdita del posto del lavoro in un’opportunità per migliorare la propria condizione in virtù del sostegno garantito dallo Stato sociale. Per essere chiari, in Da- nimarca si tende ad assegnare una maggiore importanza all’occupabilità a danno del mantenimento del posto di lavoro. Il lavoratore viene “difeso” contro la disoccupazione con tutta una serie di indennità e con l’aiuto a ri- collocarsi altrove. Lo Stato si occupa anche di riqualificare i disoccupati con corsi di formazione continua. Va da sé che la persona disoccupata deve però accettare in un tempo stabilito una proposta di lavoro. Si tratta, in sin- tesi, di una protezione che viene posta intorno al lavoratore in modo da consentire all’azienda di muoversi al proprio interno con la necessaria fles- sibilità. A questo punto la domanda è d’obbligo: è possibile importare tale mo- dello in Italia? Non è facile immaginare un’applicazione totale del modello danese, innanzitutto perché il Paese nordico è piccolo e ricco; oltre a ciò in Italia è presente tutta una serie di elementi legislativi e culturali che ne im- pedisce la completa adozione5. Tuttavia le idee di fondo possono essere utilizzate e trasferite nella real- tà italiana. Si pensi ad esempio all’introduzione del sostegno universale per coloro che entrano nella sfera della disoccupazione, garantendo un’adeguata indennità (si può pensare ad una percentuale rispetto all’ultima retribuzione compresa tra il 60% e l’80%) in attesa di ricollocazione e la possibilità di partecipare a corsi di formazione professionale. Appare chiaro che replicare in Italia quanto avviene in Danimarca necessita di un insieme di interventi legislativi in tema di garanzie volti soprattutto a ridurre il diva- 4 Alcuni spunti interessanti sul tema della flexicurity come elemento utile allo sviluppo si possono trovare in Tivelli L. (2008), Lavori in corso, una bussola per il mondo del lavo- ro,Rubbettino-Economy, Catanzaro. 5 Ci riferiamo alla forte diversità territoriale, all’elevata diffusione dell’economia som- mersa e, forse, anche ad una mancanza di correttezza nei confronti delle Istituzioni (si pensi ad esempio alla difficoltà che incontra lo Stato nella distribuzione territoriale dei sussidi alla disoccupazione). Si veda Boeri T., Garibaldi P. (2008), Un nuovo contratto per tutti, Chiare- lettere Editore, Milano. 15
rio tra la flessibilità del lavoro a tempo limitato, che viene offerto ai giova- ni, e la rigidità di quello a tempo indeterminato, che è ormai una “dote” ri- servata ai lavoratori adulti. Ma anche se la correzione della dualità del lavo- ro in Italia è certamente un obiettivo non facile da raggiungere, questo non deve esser preso a pretesto per tralasciare la questione. Si dice, poi, che una maggiore flessibilità del lavoro nell’organizzazione dell’azienda potrebbe portare ad una più rapida espulsione dei lavoratori più anziani e meno produttivi, ma in verità non sempre è così, visto che nei Paesi con elevata flessibilità e bassi costi per i licenziamenti, l’occupazione è più alta sia tra i giovani che tra gli anziani. E, comunque, non dobbiamo dimenticare i costi da sopportare di fronte a situazioni opposte: quanto co- stano i prepensionamenti? Quanto pesa alle famiglie il sostegno ai figli non occupati? Il problema è quello di saper conciliare flessibilità in entrata e in uscita, cercando di intendere la flessibilità come uno strumento di gestione dei periodi di passaggio che scandiscono la nostra vita: dalle aule scolasti- che e universitarie al mondo del lavoro, da un’occupazione ad un’altra, dal lavoro alla pensione. Questo modo di pensare deve poter crescere guidato dalla garanzia for- nita da una società dove è più facile trovare un nuovo lavoro in quanto fun- ziona bene il sistema di collocamento (servizi per l’impiego) e quello di protezione e di sostegno al reddito nei momenti di non attività6. Insomma, efficaci politiche attive per l’occupabilità e più moderni sistemi di sicurezza sociale sembrano essere il binomio vincente ed è quello che, in fondo, l’Europa ci chiede. Cosa fare dunque? Innanzitutto ricordiamo sinteticamente che la norma- tiva vigente in tema di flessibilità in entrata risale al 2003 (Legge Biagi) e sono stati introdotti pacchetti di misure orientate ad ampliare le tipologie contrattuali: dall’apprendistato7, al contratto di lavoro ripartito, al contratto di lavoro intermittente, accessorio, occasionale, nonché al contratto a pro- getto. È stata anche introdotta una nuova disciplina per le agenzie del lavo- ro. Inoltre, sempre sul versante della flessibilità in entrata sono state varate norme volte alla liberalizzazione del collocamento8. 6 Per una disamina dei problemi attinenti alle questioni ora affrontate, si può consultare Berton F., Richiardi M., Sacchi S. (2009), Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità di- venta precarietà, Il Mulino, Bologna. 7 Recentemente è entrato in vigore un d.lgs. (167/2011) che ridisegna l’apprendistato, all’interno del quale vengono invitate le parti sociali e le Regioni a disciplinare le tre tipolo- gie contrattuali: professionalizzante, per la qualità, di alta formazione. L’obiettivo è quello di agevolare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. 8 Infatti, dall’entrata in vigore della nuova normativa (legge 98/2011) gli Enti locali, le 16
Dal lato della flessibilità in uscita è la legge 604/1966 a stabilire le con- dizioni per i licenziamenti individuali (per giusta causa o giustificato moti- vo)9, mentre risale al 1991 (legge n. 223) la normativa per i licenziamenti collettivi previsti nei casi di trasformazione e riduzione delle attività. L’attuale frammentazione delle varie tipologie contrattuali che, come visto nel capitolo precedente, determina, tra l’altro, passaggi tra condizioni lavorative non sempre migliorative (anzi, a volte peggiorative), può essere superata dall’istituzione di un contratto unico a tempo indeterminato – di cui si sta molto discutendo in questo periodo – con protezioni e garanzie che crescono con l’anzianità di servizio. Un tale contratto si applicherebbe solo ai nuovi assunti mantenendo per chi è già occupato i vecchi contratti (superando così la probabile resistenza dei lavoratori anziani). Per far funzionare un tale impianto occorre definire il livello di flessibi- lità in uscita, con una compensazione crescente – tramite indennizzo – per coloro che perdono il lavoro, e corsi di formazione e di riqualificazione nel periodo della disoccupazione10. A ciò si potrebbero aggiungere sgravi fisca- li per le imprese che offrono lavoro ai giovani. Appare tutto ciò sufficientemente armonizzato fino al punto che anche lo Stato ne guadagnerebbe con il risparmio del flusso di denaro con cui si sostiene la cassa integrazione necessaria per gestire le crisi occupazionali11. Non è questa la sede per entrare nel dettaglio della proposta appena de- scritta, anche perché gli esperti più accreditati di diverse discipline (giuristi, economisti, sociologici ed altri ancora) ne stanno discutendo, come detto, da diverso tempo. Quello che vogliamo aggiungere alla discussione è la Università, le Scuole, le Associazioni di datori di lavoro e lavoratori potranno intermediare la domanda e l’offerta di lavoro senza richiedere autorizzazioni di tipo amministrativo. 9 Se però il giudice ritiene il licenziamento illegittimo scatta l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) e quindi il reintegro nel posto di lavoro. 10 Tutte le Regioni hanno predisposto una serie di misure volte ad orientare, aggiornare e riqualificare i lavoratori in vista di un reimpiego. Si va dal voucher formativo (finanziamen- to destinato a chi vuole frequentare un master o un corso di formazione) a pacchetti di inter- venti realizzati dai Centri per l’impiego, dai Piani formativi aziendali e interaziendali a corsi affidati ad un manager, garante dei termini del piano di azione individuale. A tale riguardo, i pensi che in Italia, nel 2010, il 6% della popolazione con età compresa tra i 25 e i 64 anni ha partecipato a corsi di formazione o simili (con maggiore presenza femminile), contro il 10% circa dell’Europa a 15 membri. 11 Non deve essere dimenticato il fatto che il nostro sistema di ammortizzatori sociale è, attualmente, molto frammentato basandosi su un principio assicurativo generale con un bas- so grado di copertura per l’indennità di disoccupazione ordinaria e su uno schema settoriale, come la cassa integrazione guadagni, essenzialmente riferita al settore industriale. La coper- tura è pertanto eterogenea e poco chiara sia in termini settoriali che per dimensione di im- presa, ponendo così un problema informativo non indifferente. 17
possibilità (si potrebbe dire necessità) di ancorare la retribuzione, ovvero il corrispettivo del lavoro, alla produttività. In altre parole non solo flessibilità contrattuale in entrata e in uscita che, a nostro avviso, andrebbe regolamen- tata a livello aggregato, ma anche retributiva, disciplinata invece a livello territoriale e/o settoriale. 3. La retribuzione flessibile a misura di produttività Sono stati schematizzati nel paragrafo precedente gli aspetti prevalenti dell’intenso e vivace dibattito che si sta sviluppando oggi in Italia circa la ventilata adozione del contratto unico a tempo indeterminato (sulla falsa riga di quello scandinavo) in sostituzione della galassia di contratti tempo- ranei esistenti attualmente in Italia. Al di là degli aspetti normativi che dovranno, se adottati, delineare la cornice complessiva entro la quale agire, appare importante soffermarci sulla questione retributiva che, forse, rappresenta per la vita di un lavorato- re l’elemento più rilevante. Nel nostro Paese, l’attuale fase critica si aggancia ad una forte difficoltà di crescita che dura ormai da un decennio nel quale il tasso di sviluppo del- la nostra economia è stato sempre inferiore a quello dei Paesi europei più avanzati. Tra le cause più condivise è stata individuata la stagnazione della produttività del lavoro (e, più in generale, della produttività totale dei fatto- ri). Questa componente è rimasta in Italia sostanzialmente ferma a partire dall’inizio di questo secolo, mentre i Paesi europei mediamente sono cre- sciuti dell’1% (1,5% gli Stati Uniti). La bassa (o nulla) crescita della pro- duttività si è tradotta e si traduce in bassi salari che deprimono il potere d’acquisto delle famiglie e, quindi, il livello dei consumi e della domanda aggregata. Nonostante i salari contenuti, da quando l’Italia è entrata nell’Euro il co- sto del lavoro per unità di prodotto è però cresciuto più della media dei Pa- esi dell’area Euro. Si capisce, quindi, che dobbiamo impiegare compiuta- mente il nostro capitale umano, partendo dai giovani, incoraggiare l’innovazione tecnologica e organizzativa dell’impresa e far lievitare la produttività e la remunerazione del lavoro. Non è sufficiente, ai fini della crescita economica, valutare soltanto la produzione, ma soprattutto la pro- duttività, ovvero il centro dell’attenzione deve spostarsi dal consumatore all’impresa. Negli anni recenti abbiamo trascurato di puntare sull’innovazione – no- nostante i provvedimenti a sostegno assunti a livello governativo – ripie- 18
gando sui successi ottenuti dalle nostre aziende più esportatrici, facendoci, cioè, trascinare dalla crescita degli altri Paesi. In un momento di crisi glo- bale come quello attuale, l’eccessiva dipendenza dalla (debole) domanda estera rischia di generare sui livelli di produzione pesanti contraccolpi, che devono essere adeguatamente bilanciati per non deprimere troppo i livelli della crescita complessiva. Ed è proprio per tali motivi che il “controllo” della variabile produttività va ad assumere un ruolo sempre più centrale nel dibattito economico. In tale direzione si inserisce la nostra proposta, che è quella di legare, in modo sistematico, la progressione salariale alla produttività. L’idea di fondo è la seguente: in generale la curva salariale con la quale vengono remunerati i lavoratori è sostanzialmente di tipo lineare12, con in- crementi, quindi, all’incirca proporzionali; inoltre dopo 40 anni di servizio la retribuzione finale (escluse le indennità erogate a vario titolo e l’effetto inflazionistico) raggiunge quasi il doppio di quella iniziale13. La nostra pro- posta suggerisce di modificare la curva salariale per renderla più flessibile in funzione dei livelli di variazione della produttività del lavoro. Il modello che a nostro parere meglio interpreta questa proposta è quello logistico14 in quanto riteniamo che le caratteristiche del modello logistico siano meglio adattabili ai nostri obiettivi: infatti, come è noto, nella funzio- ne logistica il parametro r rappresenta l’intensità della crescita e a seconda del valore assunto, tale crescita può essere più o meno accentuata e, pertan- to, anticipata nel tempo. Orbene, tale impostazione si muove nella direzio- ne di favorire i territori, i settori economici e le persone più produttive, nel senso che una felice combinazione dei tre suddetti fattori (territorio, settore di attività e capacità del lavoratore, lo ripetiamo) porterebbe la remunera- zione a crescere relativamente in maniera più vigorosa nella prima parte del percorso lavorativo, per poi rallentare la crescita nella parte finale del per- corso, mentre una bassa produttività determinerebbe una crescita retributiva 12 In verità la linea salariale più considerata in letteratura è del tipo: St=S0[1+k-k[(T-t)/T]] dove con t si indica l’anzianità anagrafica, con T quella massima (intorno ai 40 anni), con S0 la retribuzione annuale iniziale, con St la retribuzione annua relativa alla generica età t e con k la quantità St/S0. Sulle problematiche inerenti alla determinazione di opportune curve sala- riali si veda Orrù G., (1995), “Metodi di previsione della retribuzione”, in AA.VV., Tecni- che attuariale per la collettività, Vol. II, Edizione Kappa, Roma. 13 Per quanto riguarda la dinamica salariale riferita agli anni Novanta, si consulti Del Colle E. (1998), La disuguaglianza retributiva, FrancoAngeli, Milano. 14 La funzione logistica è del tipo: St =[S0 + k/(1+Ce–rt)]. Applicata al nostro caso, St rap- presenta la retribuzione riferita all’anno di anzianità di servizio t, S0 la retribuzione iniziale, K la differenza tra la retribuzione finale e quella iniziale, C una costante, e la base logaritmi- ca, r l’intensità della crescita e t gli anni di servizio. 19
alquanto lenta sia nella fase iniziale che in quella finale, con un monte re- tributivo complessivamente accantonato più ridotto rispetto alla situazione precedente15. Una siffatta costruzione porta una serie di vantaggi da non sottovalutare: per l’impresa, perché se la produttività è alta e tende ad aumentare, essa può investire e riorganizzarsi meglio; per il lavoratore che, oltre ad avere una stabilità retributiva, più è “produttivo” più è alta la retribuzione nella parte iniziale della vita lavorativa (finalmente la retribuzione cresce non so- lo per effetto dell’anzianità di servizio ma anche per la capacità dell’individuo e, quindi, aiuta i giovani in maniera meritocratica), più ele- vati saranno i contributi che verranno accumulati negli anni di lavoro (con grande beneficio ai fini pensionistici, ma di questo parleremo nella prossi- ma sezione); per la finanza pubblica, perchè si attenuano notevolmente le risorse da dedicare alla Cassa integrazione guadagni. Naturalmente l’impianto ora presentato deve essere ulteriormente perfe- zionato: ad esempio, i territori possono riguardare le singole regioni o, di- saggregandoli, altri ritagli territoriali (come i distretti) fino, al limite, alla singola azienda; per quanto riguarda i settori, gli accordi possono avvenire per comparti, per categorie, per singole aziende (e, a questo riguardo, si po- trebbero inserire i contratti di secondo livello che, come illustrato in prece- denza, consisterebbero in una serie di servizi). Oltre a ciò, il livello di produttività può non essere riferito ad un solo valore ma, a secondo dei casi, a “forchette” di valori opportunamente con- cordati tra lavoratori, aziende e parti sociali. È anche evidente come, ad in- tervalli temporali periodici (3-5 anni), debba essere valutata un’eventuale variazione della produttività da applicare (e quindi rivedere) al modello re- tributivo logistico utilizzato. Si tratta, quindi, di un modo di agire che tiene conto di quanto ci chiede l’Europa (maggiore attenzione alla produttività) che premia l’azienda e il lavoratore che con la loro attività producono in misura crescente e, soprat- tutto, aiuta i giovani migliori compensandoli con retribuzioni più alte. Al lavoratore, inoltre, nel periodo di non lavoro, occorre, come già detto, offri- re un’indennità salariale la quale, sempre utilizzando il modello logistico, 15 Nell’appendice, a titolo esemplificativo, è stata effettuata una simulazione per dimo- strare gli effetti dell’operare del modello logistico applicato alla retribuzione. I territori sono rappresentati dalle tre grandi ripartizioni, i settori dall’agricoltura, dall’industria in senso stretto, dalle costruzioni e dai servizi e la capacità del lavoratore dal livello di produttività del lavoro calcolato come rapporto tra valore aggiunto e unità di lavoro. I risultati ottenuti, come si può vedere, sembrano incoraggiare la nostra tesi, fermo restando l’esigenza di ulte- riori verifiche e approfondimenti. 20
sarà più alta per coloro che lavoravano in settori e territori più produttivi. Appare chiaro che si tratta di una proposta da valutare in maniera più ap- profondita, ma l’assetto metodologico e anche i risvolti economici e sociali, appaiono a chi scrive, condivisibili e, pertanto, percorribili. 4. L’occupazione, fonte primaria di finanziamento del sistema pensionistico italiano Attualmente in Italia, lo abbiamo già detto, le persone con più di 65 anni sono oltre il 20% della popolazione, saranno secondo stime affidabili circa il 24% tra dieci anni ed il 35% nel 2050. Quindi, a metà di questo secolo un cittadino su tre avrà più di 65 anni. Tale progressivo invecchiamento della popolazione avrà sicuramente due conseguenze: un aumento del costo della Sanità16 e un incremento della spesa pensionistica, cioè delle due funzioni più importanti (e più costose) della spesa sociale. Ma, mentre il costo della sanità ha come sappiamo una copertura universalistica, affidata alla leva fiscale, la spesa per le pensioni ha una copertura occupazionale (cioè finan- ziata dai contributi provenienti dal mondo del lavoro) e basta questo per spiegare l’importanza dei versamenti contributivi dei lavoratori a fini pen- sionistici. Non è questa la sede per approfondire il funzionamento del sistema pen- sionistico italiano anche perché l’obiettivo di questo paragrafo è orientato a riflettere sullo stretto legame tra lavoro e pensioni e non soltanto sui possi- bili interventi volti prevalentemente a ridurre la spesa pensionistica. Qui ci limitiamo ad osservare che il sistema a ripartizione di tipo retributivo (il monte contributi versato dai lavoratori in un anno viene utilizzato nello stesso anno per pagare le pensioni, le quali sono collegate con le ultime re- tribuzioni della vita lavorativa) con il quale sono pagate le pensioni attual- mente terminerà i suoi effetti (salvo modifiche che però sembrano immi- nenti) nel 2017, anno dal quale inizierà ad operare un sistema misto cioè in parte retributivo ed in parte contributivo17. Tale sistema contributivo, ecco 16 Si pensi soltanto ai costi dell’assistenza che gravano principalmente sulle famiglie. Non è facile quantificare tale costo ma basti sapere che gli anziani disabili che vivono in famiglia sono più di due milioni e che la spesa per retribuire le badanti (in Italia sono circa 800mila) ammonta a circa 9 miliardi di euro all’anno. 17 La legge Dini (l. 335/1995), introducendo il sistema contributivo, ha stabilito che tutti i lavoratori che alla fine del 1995 avevano versato almeno 18 anni di contributi potevano andare in pensione con il metodo retributivo, mentre i lavoratori con minore anzianità di servizio avranno le pensioni calcolate con un sistema misto (retributivo fino al 1995 e con- 21
la diversità, lega le pensioni ai contributi versati dal lavoratore e all’aspettativa di vita dello stesso. Tale criterio diventerà completamente operativo nel 2037. Il metodo contributivo, come è noto, è meno generoso (cioè comporta minori spese) di quello retributivo e pertanto si dibatte vi- vacemente se anticipare o meno (al 2012?) sempre nella forma mista, l’agire del suddetto metodo. Altro modo per ridurre la spesa pensionistica è quello dell’innalzamento dell’età al pensionamento, disincentivando chi vuole uscire prima dal mercato del lavoro ed eliminando, quindi, progressi- vamente le pensioni cosiddette di anzianità. Su quest’ultimo aspetto, cioè sull’innalzamento dell’età alla pensione, sono stati adottati negli anni alcuni interventi che porteranno a 67 anni tale età, tra poco più di un decennio. Come detto sono tutti interventi volti a ridurre la spesa per arrivare ad equilibrare entrate ed uscite e rendere più equo il rapporto tra le generazio- ni. Gli esperti più accreditati incoraggiano, è noto, il passaggio immediato al sistema contributivo e anche noi siamo tra questi ma con alcune avver- tenze: a) il meccanismo del sistema contributivo definisce per ciascun “pensionando” un monte contributi ottenuto dai versamenti effettuati du- rante la propria vita lavorativa. Questo insieme di contributi viene moltipli- cato per un coefficiente cosiddetto di trasformazione che tende a premiare coloro che vanno in pensione con età più avanzata. L’ammontare ottenuto viene “spalmato” per la vita residua del pensionato. Orbene, tale vita resi- dua è significativamente influenzata dal sesso del pensionato e dal territorio di riferimento18, mentre il coefficiente utilizzato è unico e, pertanto, non è influenzato dalla diversità delle due suddette caratteristiche. Conseguente- mente, se il coefficiente viene applicato sic et simpliciter si penalizzerebbe- ro i maschi (che vivono meno delle donne) e le persone residenti nel mez- zogiorno (che vivono meno di quelle del centro-nord). Infatti, non tenendo conto del sesso e del territorio si tende a distribuire l’ammontare accantona- to sulla stessa vita residua uniformando, a parità di altre condizioni, il trat- tributivo per gli anni successivi); coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995 saranno sottoposti totalmente al regime contributivo. Sul tema delle riforme che hanno interessato negli anni il sistema pensionistico italiano la letteratura disponibile è sterminata, qui ricor- diamo Somaini E. (1996), Equità e riforma del sistema pensionistico, Il Mulino, Bologna; Gronchi S. (1997), “Un’ipotesi di correzione e completamento della riforma delle pensioni del 1995”, in Studi e note di Economia, n. 2; Boeri T., Brugiavini A. (a cura di) (2000), Il muro delle pensioni, Ed. Il Sole 24Ore, Milano; Peracchi F. (a cura di) (2000), Le pensioni in Italia e in Europa, Ediesse, Roma; Del Colle E. (2002), La pensione flessibile, Franco- Angeli, Milano. 18 A tale riguardo è sufficiente consultare i dati Istat concernenti la speranza di vita alle varie età e riferita ai diversi territori italiani. 22
tamento pensionistico, quando invece andrebbe personalizzato per essere più equo; b) con l’operare del sistema contributivo la pensione misurata ri- spetto all’ultima retribuzione (tasso di sostituzione) sarà molto più contenu- ta rispetto ad oggi (dove è vigente, lo ribadiamo, il sistema retributivo) e, quindi, occorre intervenire per far decollare la previdenza complementare (cosa che ancora non è accaduta in Italia); c) il metodo contributivo agisce sempre nell’ambito di un sistema a ripartizione e non a capitalizzazione, ovvero l’erogazione della pensione è sempre “condizionata” dai contributi di tutti e non soltanto del singolo, come avviene invece in un sistema assi- curativo a capitalizzazione; d) di conseguenza è bene monitorare la base contributiva e quindi occupazionale nel senso che, se la massa contributiva è prevalentemente “nelle mani” di lavoratori con età avanzata (come accade oggi in Italia), si corre il rischio di ridurre nel tempo il flusso contributivo anche a parità della base occupazionale (i giovani hanno retribuzioni più basse e quindi versano contributi inferiori); e) l’occupazione in Italia è più bassa che altrove e, per quanto detto sopra, deve essere alimentata soprat- tutto nella componente femminile e giovanile; f) la nostra proposta di istitu- ire una retribuzione flessibile legata alle variazioni di produttività del lavo- ro esalta il sistema contributivo, nel senso che “personalizza” i contributi e quindi le future pensioni19. Sono queste semplici considerazioni che si basano su valutazioni ri- guardanti fenomeni che generalmente hanno andamenti stabili; ci stiamo riferendo alle persone che andranno in pensione nei prossimi 10, 20 o 30 anni, i quali sono già nati e possono essere seguiti facilmente nella loro vita lavorativa e soprattutto ci riferiamo ai giovani nuovi assunti se sarà applica- to un contratto unico a tempo indeterminato, come precedentemente avan- zato. Proprio questa facilità di poter seguire le dinamiche future, ci ha convin- to che il vero problema non è quello di scegliere un dato sistema pensioni- stico (pubblico, privato o misto, come è quello esistente in quasi tutto il mondo occidentale e che si sta affermando anche in Italia) ma è il mercato del lavoro. Oggi i rapporti di lavoro sono meno fissi, più precari e meno ga- rantiti e con flussi contributivi della componente giovanile instabili e poco 19 Infatti basta osservare quanto riportato in appendice: con le nostre ipotesi e la nostra proposta un lavoratore medio operante nel settore dell’agricoltura nel mezzogiorno accumu- lerebbe, senza ulteriori variazioni di produttività, poco più di 800mila euro nell’arco di 40 anni, mentre un lavoratore del nord inserito nel settore dei servizi accantonerebbe oltre 1,3 milioni di euro, traendo quest’ultimo evidenti vantaggi nel periodo da vivere in pensione, visto che i suoi contributi versati sono maggiori. 23
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