Game of Thrones, ovvero la serie degli eroi imbecilli

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Game of Thrones, ovvero la serie degli eroi imbecilli
Game of Thrones, ovvero la serie degli eroi
imbecilli

Uno dei motivi dell’enorme successo di Game of Thrones, che manda in onda in queste settimane la
sua ultima e definitiva stagione, è la messa in scena di una qualità che di norma riteniamo
appartenere sempre agli altri, ma che invece ci riguarda tutti: l’imbecillità. In fondo, Game of
Thrones è la serie degli eroi imbecilli.

Ovviamente, in Game of Thrones non tutti sono imbecilli, ci mancherebbe: non sono imbecilli tutti i
Lannister (qualcuno sì), non è imbecille Daenerys Targaryen, non sono imbecilli molti altri
personaggi come le sorelle Stark, Varys o Ditocorto (almeno prima del suo amore adolescenziale per
Sansa, che l’ha condotto alla morte). Imbecilli sono però i tre Stark maschi che, nelle varie stagioni,
sono i protagonisti principali della serie, gli eroi con cui tutti noi (compreso chi scrive) ci
identifichiamo: Ned Stark, Robb Stark e, soprattutto, il più imbecille di tutti, Jon Snow. “Imbecille”
va ovviamente inteso in senso tecnico. Come vedremo, l’imbecille non è lo stupido, non è il cretino e
non è l’idiota. L’imbecille è colui che è cieco ai valori cognitivi e agisce quindi in base ad altri valori.

L’imbecillità è infatti il rifiuto, la svalutazione o l’indifferenza verso valori cognitivi come il sapere,
l’intelligenza o il pensiero razionale. Quando nella prima puntata della nuova e ultima stagione, con
aria di superiorità canzonatoria e cercando approvazione, Jon Snow dice ad Arya Stark che la loro
sorella Sansa “si crede la persona più intelligente del mondo”, ci introduce perfettamente al nostro
problema.

Perché ci immedesimiamo e tifiamo per dei
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completi imbecilli come gli Stark?
Da qui la prima domanda: perché ci immedesimiamo e tifiamo per dei completi imbecilli come gli
Stark, che vediamo fare errori continui e che, date le regole del loro mondo, vediamo continuamente
meritare le tragedie che accadono loro? Perché l’intelligenza e la capacità di comprendere le regole
del gioco sono così svalorizzate rispetto ad altre qualità? Perché ci viene naturale tifare più per uno
“buono e idiota”, piuttosto che per chi dimostra di comprendere perfettamente quali regole
governano il mondo in cui vive, dimostrando di sapersi adattare a esse e di saperle piegare a
vantaggio suo e delle persone che ama, mostrando sempre intelligenza? Non è scontato ovviamente.
Perché questa svalorizzazione dell’intelligenza, questa indifferenza ai valori cognitivi? C’è una specie
di gerarchia delle passioni che presiede alle nostre azioni che pulsa nell’enciclopedia della nostra
cultura? C’è una gerarchia secondo cui la lealtà vale di più della conoscenza e giustifica la stupidità?
C’è una gerarchia delle qualità, secondo cui la coerenza vale più dell’intelligenza e giustifica
l’imbecillità? O ci sono dei motivi ancora più profondi per cui ci identifichiamo con degli imbecilli e
tifiamo per loro? Certamente viviamo in un’epoca di svalorizzazione diffusa del sapere, ma forse,
smettendo di pensare che l’imbecille sia sempre l’altro, si manifesteranno le ragioni profondissime
che fanno sì che l’imbecillità degli Stark, con cui tutti ci identifichiamo, è qualcosa che ci riguarda
tutti.

Ma qui c’è una seconda domanda interessante. Se è vero che c’è una gerarchia delle qualità che
circola nella nostra cultura e che deprezza l’intelligenza e la mette in secondo piano rispetto ad altri
valori, è altrettanto vero che Game of Thrones è diventato famoso per ignorare e ribaltare questa
gerarchia di valori, così comune nelle nostre società contemporanee.

Il successo di Game of Thrones, nei libri e nelle prime stagioni che li seguono, è dipeso innanzitutto
dal fatto che i suoi eroi morivano in modi orrendi, nonostante fossero i buoni. Proprio perché erano
imbecilli, erano destinati alla morte e alla sconfitta (la guerra dei cinque re è vinta dai Lannister e
non dagli Stark) e il fatto di essere gli eroi con cui tutto il pubblico si identificava non li salvava da
morti terribili: Ned Stark muore con la testa mozzata a seguito di un processo farsa, dopo aver
confessato cose non commesse. Robb Stark muore massacrato assieme alla sua famiglia (madre,
moglie e bambino nel grembo della moglie) a un banchetto a cui era stato invitato con l’inganno dai
suoi vecchi alleati, che aveva in precedenza tradito e ignorato.
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Il Trono di spade è certamente la serie degli eroi imbecilli, ma è anche la serie dove gli eroi imbecilli
muoiono male, come spesso succede agli imbecilli. Il lettore conoscerà forse il Darwin Award, una
cinica classifica delle morti più imbecilli dell’anno, come quella del ricco professionista ansioso di
mostrare agli amici i nuovi vetri antisfondamento del suo attico all’ultimo piano di un grattacielo
newyorchese: presa una rincorsa dall’ingresso della casa fino alla finestra, contro cui è stato visto
gettarsi con tutta la sua forza fino a frantumarla, il nostro professionista è morto precipitando nel
vuoto. I vetri antisfondamento sono infatti antisfondamento dall’esterno. Perché, ovviamente, di
norma nessuno ci si getta contro con tutta la sua forza dal salone del proprio appartamento.

Gli Stark competono con il nostro professionista dell’antisfondamento. Nella prima stagione, Ned
Stark scopre a un certo punto che i tre figli del re – il suo amico Robert Baratheon – sono in realtà i
figli dell’incesto tra sua moglie Cersei Lannister e il fratello Jamie, membro della sua guardia reale.
Cosa decide di fare al posto di farli arrestare entrambi per alto tradimento? Pensa bene di andare
loro a dire che lo sa.

Peccato che Cersei Lannister controlli assieme al padre e al fratello l’intera guardia reale. E,
ovviamente, sapendo perfettamente di essere morta nel momento stesso in cui il marito tornerà a
casa, Cersei combatte per la sua sopravvivenza e per quella dei suoi figli, riuscendo a far uccidere il
marito (prima) e a imprigionare Ned Stark (poi).

Di tale padre è degno figlio il primogenito Robb, che, nella seconda e nella terza stagione, colleziona
un campionario di imbecillità che conduce alla sua morte, a quella di sua madre e a quella di tutti gli
alfieri del suo esercito rimastigli ancora fedeli. Prima, innamoratosi della sconosciuta Talisa, tradisce
tutte le promesse fatte in cambio di importanti favori a uno dei suoi più importanti alleati, Walder
Frey, nonostante tutti i suoi più stretti collaboratori lo preghino di non farlo.

In seguito, convinto di essere nel giusto e di non doversi piegare a mezzi poco nobili nonostante stia
conducendo una guerra sanguinosa, ignora continuamente gli ottimi consigli che riceve dal suo
alfiere Roose Bolton (che infatti poi lo tradirà). Infine, capolavoro finale, decide di tagliare di
persona la testa all’alleato che controllava la metà del suo esercito, Lord Rickard Karstark,
nonostante tutti, sua madre compresa, lo implorassero di non farlo. Risvegliatosi senza mezzo
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esercito, in tutta questa esclation di imbecillità che lo conduce all’esito tragico del massacro delle
“nozze rosse”, Robb Stark crede che l’amore, l’etica e l’obbedienza alle regole[1] siano tutti valori
più importanti rispetto a quello di un comportamento intelligente.
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Da qui tre tratti della sua (e della nostra) imbecillità: i) l’imbecille non ascolta gli altri. Sebbene non
lo sia, si crede autosufficiente: per questo, nonostante in moltissimi punti i sui amici e alleati gli
dicano esplicitamente quale sia la cosa giusta da fare in quel momento, l’imbecille decide sempre di
ignorarli; ii) l’imbecille crede di sapere a priori dov’è il bene e quindi non solo non ascolta gli altri,
ma si comporta sempre uguale, non adattando la sua azione alla situazione del momento; iii)
l’imbecille non impara dal suo passato e dai propri errori, ripetendoli sempre uguali.

Per questo, di solito, muore male. Dentro e fuori Game of Thrones.

Tuttavia, in Game of Thrones c’è un’eccezione a tutto questo: Jon Snow. Non perché Jon Snow sia
meno imbecille del fratello, anzi. Jon Snow mette in scena una serie di imbecillità molto peggiore
rispetto a Ned e Robb Stark. Ma, nonostante questo, Jon Snow sopravvive sebbene non lo meriti,
perché è “il buono” o “l’eroe”, mentre il finto padre e il finto fratellastro avevano entrambi perso la
loro vita e le loro battaglie a causa dei loro errori e delle loro cecità ai valori cognitivi. Ma è davvero
così?

C’è qualcosa che non convince nelle ultime due stagioni del Trono di Spade e temo che nulla
cambierà in quella appena cominciata. Nei libri, Jon Snow attualmente è morto, accoltellato dai suoi
confratelli dei guardiani della notte, in seguito a una delle azioni più razionali e intelligenti che si
potessero compiere all’interno dell’intera storia di Westeros: salvare i Bruti facendoli passare al di
qua della barriera, impedendo così al re della notte di trasformarli in soldati del suo esercito (e
contemporaneamente arruolandoli nel proprio).

Un’azione così razionale e così poco imbecille da meritare niente meno che la resurrezione, già
avvenuta nella serie e prossima in The Winds of Winter di George R. R. Martin. Nei libri, Jon Snow è
infatti sempre molto diverso dal finto padre e dai suoi fratelli: è razionale, cambia il suo
comportamento in funzione della situazione, sa addirittura fingersi altro da quello che è e sa mentire
quando la situazione lo richiede (come quando finge di tradire i Guardiani della notte per affiliarsi ai
Bruti e conquistare la fiducia di Mance Rayder).

Per molti decenni gli esseri umani si sono
autorappresentati come razionali, tanto da
definire la “razionalità” come quella
differenza che li distingueva dagli altri
animali, rappresentandone l’essenza. La
realtà però è che quello razionale è un
comportamento estremamente raro
Tuttavia, nelle ultime due stagioni della serie, quelle non scritte da George R. R. Martin, Jon Snow è
l’imbecille per eccellenza. Nonché la vera causa dell’invasione degli estranei al di qua della barriera,
che non ce l’avrebbero mai fatta senza il suo decisivo contributo.

In un momento in cui Daenerys Targaryen sta vincendo la guerra, gli estranei sono tutti al di là di
una barriera che non possono oltrepassare e Cersei Lannister è in una situazione militare disperata,
Jon Snow riceve infatti un messaggio da Bran e, completamente cieco ai valori cognitivi, pensa bene
di aver bisogno dell’aiuto di Cersei Lannister per combattere un re della notte, che, come gli dirà
esplicitamente Varys, “non può oltrepassare una barriera che l’ha tenuto lontano per migliaia di
anni”.

Tuttavia, completamente sordo ai buoni consigli degli amici crede, consigliato da un Tyrion
Lannister troppo stupido per non essere sospetto, di potersi fidare delle promesse di Cersei.

Decide quindi di ritornare a Nord oltre la barriera per portarle uno scheletrino, che lei ovviamente
ignorerà. Finito in trappola in una situazione disperata, non solo non accetta la sua sconfitta e la
giusta morte che dovrebbe seguirne, ma pensa bene di chiedere aiuto a Daenerys che, per quanto
perfettamente conscia che non sia la decisione razionalmente giusta, decide di correre comunque in
suo aiuto, in quanto ormai innamorata di lui.

Come un cavallo che corre cieco incontro al suo tragico destino, Jon Snow porta con sé la totalità del
popolo di Westeros ed è il vero responsabile dell’invasione da parte degli estranei: proprio con uno
dei draghi con cui Daenerys ha tentato di salvare Jon, il re della notte abbatterà infatti quella
barriera che non avrebbe mai potuto oltrepassare altrimenti.

Questa serie di imbecillità, che mettono in pericolo la sopravvivenza dell’intera Westeros, è davvero
troppo per chiunque. Che ci sia quindi nell’imbecillità di Jon Snow qualcosa che ci riguarda tutti?

Per molti decenni gli esseri umani si sono autorappresentati come razionali, tanto da definire la
“razionalità” come quella differenza che li distingueva dagli altri animali, rappresentandone
l’essenza. La realtà però è che quello razionale è un comportamento estremamente raro: di norma,
noi agiamo in preda a passioni, emozioni, ansie, cecità e impulsi di tipo del tutto non razionale.

Lo sapeva bene Aristotele, che studiava infatti le emozioni nella Retorica, e cioè nell’opera in cui si
occupava di come persuadere e influenzare il comportamento degli altri. Per questo, personalmente,
ritengo il premio Nobel del 2017 a Richard Thaler un riconoscimento che va molto al di là del
dominio dell’economia e abbraccia una più generale antropologia filosofica dell’essere umano.
Thaler parte infatti dall’assunto che gli esseri umani ben difficilmente si comportano in modo
razionale, in particolar modo in situazioni di stress dove c’è in gioco qualcosa a cui tengono, come ad
esempio il loro denaro.

Il suo modello di finanza comportamentale si fonda proprio sull’assunto che l’imbecillità riguarda
tutti, nessuno escluso. Da qui la sua celeberrima risposta a un collega in un dibattito presso la
Harvard University: “vede, la differenza tra i nostri due modelli economici è che lei pensa che la
gente che fa azioni e scelte sia tutta intelligente come lei, mentre io penso che siano tutti idioti come
me”. Proprio partendo dal presupposto che l’imbecillità riguarda tutti, Thaler prova allora a mettere
a punto una teoria per affrancarsene.

Questa teoria, che lo porterà al premio Nobel, va sotto il nome di nudge, “pungolo” o “spinta
gentile”. Il nudge è quella spinta che le mamme elefanti danno ai loro cuccioli per provare a farli
camminare sulle loro gambe. Il cucciolo di elefante sa camminare con le proprie gambe, ma non sa
di saperlo fare e ha paura di provare a farlo: la sua azione è bloccata dall’emozione e dipendente da
essa.

Il nudge è allora quella “spinta gentile” che fa passare all’atto ciò che sappiamo fare in potenza, ma
che non riusciamo a fare in quanto la nostra azione è pilotata dall’emozione e non da un’analisi
razionale della situazione. La spinta gentile, il nudge, ci rende meno imbecilli, cioè ci insegna a
camminare sulle nostre gambe. “Imbecille” viene infatti da in-baculum, “colui che è privo di
bastone”, colui che è privo di un supporto esterno a cui appoggiarsi[2] . In latino, imbecillis significa
“debole”, fisicamente o mentalmente. Il cucciolo di elefante è debole e, attraverso il nudge, lo si può
dotare di quel bastone che lo può portare a camminare con le proprie gambe e a essere meno
“imbecille”, e cioè meno debole e dipendente dagli altri.

Per l’essere umano è la stessa identica cosa: nessun cucciolo di uomo sopravvive senza gli altri,
senza che qualcun altro se ne prenda cura e lo accudisca. Anzi, il cucciolo di uomo è in assoluto
quello che impiega più tempo per diventare autosufficiente: un cucciolo di gatto, di cane o di leone
impiega pochissimi mesi per diventare in grado di sopravvivere da solo. Il cucciolo di uomo impiega
invece molti anni e la sua autosufficienza passa dai valori cognitivi che apprende attraverso gli altri,
spesso in istituzioni apposite come la famiglia o la scuola. Ecco perché la condizione di default
dell’uomo è l’imbecillità: l’uomo nasce debole, “imbecille” appunto, senza bastoni a cui appoggiarsi e
deve essere accudito. Il percorso verso la razionalità è lungo e tortuoso e passa attraverso
l’apprendimento e i valori cognitivi. Se la condizione di default dell’essere umano non è la
razionalità, che è una conquista, ma proprio l’imbecillità[3], contro cui lottiamo per elevarci e per
affrancarci dalla nostra condizione di partenza, il comportamento intelligente diventa un mezzo, che
passa spesso attraverso un aiuto esterno, per diventare meno deboli.

La vita, la nostra vita, è un grande tentativo
di fuga dall’imbecillità che nella stragrande
maggioranza dei casi non riesce
Il sapere e il comportamento intelligente operano quella spinta gentile che attraverso la ragione ci
aiuta a comportarci in modo meno stupido, rendendo più razionali le nostre azioni. Ma di sicuro
l’uomo non nasce razionale, libero o indipendente: nasce assoggettato, dipendente dagli altri e
bisognoso di mille bastoni d’appoggio. La fuga dall’imbecillità è il tentativo di costruirsi questi mille
bastoni di appoggio che ci affranchino quanto più ci è possibile da una situazione di
assoggettamento e di bisogno. La vita, la nostra vita, è un grande tentativo di fuga dall’imbecillità
che nella stragrande maggioranza dei casi non riesce, se è vero, come diceva Umberto Eco, che
siamo il pubblico di “legioni di imbecilli” di cui facciamo parte.

Ecco allora che l’eroe Stark, che corre cieco verso l’autodistruzione ignorando ogni aiuto esterno, è
la rappresentazione di chi in questa fuga non riesce. Per questo amiamo gli Stark: vi ritroviamo la
nostra stessa essenza. C’è nella cieca e folle corsa di Jon Snow verso l’autodistruzione qualcosa che
pulsa in tutte le storie più belle della nostra cultura: come Ettore, che non ha nessuna ragione
razionale per affrontare Achille in duello, Jon decide di andare incontro ciecamente al suo tragico
destino, che in questa ultima stagione ci verrà rivelato. E questo nonostante il suo tragico destino
possa essere evitato attraverso un comportamento intelligente.

Come la cecità di Ettore ha portato alla caduta di Troia e alla morte di tutti i suoi cari, così la cecità
di Jon porterà all’ovvia caduta di Grande Inverno e alla distruzione di quel Nord che si curava tanto
di difendere. Se Jon avesse ascoltato Sansa senza tentare di salvare Rickon, non si sarebbe ritrovato
circondato nella trappola di Ramsey e non avrebbe costretto sua sorella a doverlo salvare chiedendo
aiuto ai cavalieri della valle. Se Jon avesse ascoltato Varys, non sarebbe mai partito per la missione
suicida al di là della barriera e non avrebbe costretto Daenerys a venirlo a salvare coi suoi draghi.

Eppure degli altri non ci fidiamo: diventati adulti crediamo ci ingannino, mentano, abbiano piani
strani. Crediamo banalmente di essere più intelligenti di loro. Per questo corriamo ciechi verso il
nostro destino, confondendo questa folle corsa con il pensare con la nostra testa, credendo di sapere
a priori qual è la parte giusta da percorrere. Forse la vera tragedia del nostro tempo sta proprio
nella retorica a priori del “pensare con la propria testa”, quando l’essenza stessa dell’intelligenza
umana consiste nel pensare con la testa degli altri che ne sanno più di noi: per questo deleghiamo
tante nostre decisioni alla scienza o alla società. “The lone wolf dies, but the pack survives”, dice una
Sansa Stark molto lontana dall’imbecillità dei suoi fratelli. Questo rifiuto cieco degli altri per seguire
ciò che crediamo essere la strada giusta, senza la paura di sacrificare così tutto ciò che abbiamo di
più caro, è ciò che caratterizza il comportamento di Ned Stark, Robb Stark e Jon Snow.

Per questo ci identifichiamo con gli Stark: nella loro saga vediamo rappresentato quel tragico cieco
coraggio che porta a sacrificare tutto quello che abbiamo di più caro per seguire ciò che crediamo
essere giusto. Nell’imbecillità degli Stark vediamo rappresentata la nostra, che speriamo non ci
tocchi mai e non ci conduca alle sue disastrose naturali conseguenze. O forse, nell’imbecillità degli
Stark vediamo rappresentata la nostra cinica furbizia: anche noi vorremmo vivere senza la paura di
sacrificare noi stessi e le persone a cui vogliamo più bene per un fine superiore o perché sappiamo a
priori che il bene è lì ed è giusto seguire quella strada. Eppure non lo facciamo e, per catarsi,
adoriamo vederlo fare agli altri, in un cortocircuito in cui non solo l’imbecille è sempre l’altro, ma in
cui è sempre bene che si distrugga lui piuttosto che noi.

1 Roose Bolton consigliava di ricorrere a torture per avere informazioni sull’esercito Lannister. Lord
Karstark aveva invece ucciso due ragazzini Lannister al fine di vendicare la morte di suo figlio da
parte di Jaimie Lannister, nonostante Stark gli avesse proibito di farlo.

2 Su questo ha molto lavorato Maurizio Ferraris nel suo libro L’imbecillità è una cosa seria (Bologna,
Il Mulino).

3 Per questo di fatto viviamo già sempre in quella deliziosa anti-utopia di cui parlava Gianfranco
Marrone nel suo libro sulla Stupidità (Milano, Bompiani): “in un mondo in cui ci sono solo stupidi, lo
stupido non esisterà più poiché nessuno potrà riconoscerlo”. Su questa idea ha poi lavorato Stefano
Bartezzaghi sia nella sua recensione al libro di Marrone, sia nel suo recentissimo Banalità (Milano,
Bompiani).
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