"Equità significa maggiore resilienza delle comunità": parla Alessandro Melis
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“Equità significa maggiore resilienza delle comunità”: parla Alessandro Melis Intervistiamo Alessandro Melis, Architetto e curatore del Padiglione Italia alla 17. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia. Distinguished Professor presso la Facoltà di Architettura di Portsmouth, nel Regno Unito, Melis traccia una importante correlazione tra architettura e biologia dell’evoluzione per dare una risposta efficace al tema della crisi ambientale e sistemica delle nostre società. Ci parla di sistemi complessi ed adattativi, dell’importanza della creatività come driver per stimolare la resilienza, sia dell’individuo, sia sociale, così come dell’importanza della tecnologia. Per finire con una visione ottimistica del futuro che ci aspetta, se sapremo farci responsabili nell’accettare e lavorare sulle sfide dell’oggi e di domani. In anteprima per noi di Teknoring, gli schizzi concettuali disegnati da Melis utili alla preparazione del Padiglione Italia, intitolato “Comunità resilienti”. Nella tua biografia su Wikipedia, si afferma che, insieme a Telmo Pievani, ti è riconosciuta l’introduzione del concetto di Esattamento in Architettura. Partendo dalle ricerche di Stephen Jay Gould ed Elisabeth Vrba nel 1982 sull’exaptation, cosa avete scoperto a riguardo? In realtà non abbiamo scoperto niente, se non il valore euristico della ricerca transdisciplinare che riguarda l’architettura e la biologia evolutiva. Mi spiego: la grande rivoluzione della biologia evolutiva, tra gli anni Sessanta e Duemila, riguarda l’estensione della tassonomia convenzionale
con l’introduzione del concetto di exaptation. Ma già Darwin, nella seconda edizione de “L’Origine della Specie”, aveva capito che la selezione naturale operava con meccanismi anche diversi da quelli dell’adattamento. Allo stesso modo, le osservazioni di Telmo e mie ci hanno consentito di rilevare che esiste un grande serbatoio di possibilità nei meccanismi progettuali non deterministici, che riflettono, in architettura, il principio dell’exaptation. Questi meccanismi, in architettura, sono noti. Tuttavia, si considerano ancora marginali. Noi riteniamo che invece essi possano offrire significative opportunità di impatto. Per citare Michel Foucault: “dammi la tua tassonomia e ti dirò come pensi”.
Alessandro Melis – Padiglione Italia – courtesy Alessandro Melis Rispetto ai concetti che ci illustri, quale prospettiva verrà fornita ai visitatori del tuo Padiglione Italia per rispondere fattivamente alla Decade of Action invocata dall’ONU nel 2019, utile al raggiungimento dei pressanti obiettivi di sostenibilità attraverso l’azione globale, locale e delle persone? In effetti, si potrebbe dire che il motto del Padiglione Italia “lo status quo non è più un’opzione” sia un richiamo alla Decade of Action. Ciò significa che, in questa fase storica, il cambiamento è necessario e deve essere immediato. Gli obiettivi delle Nazioni Unite, ovviamente, fanno parte del percorso e della narrativa del Padiglione Italia, ma sono declinati in maniera ancora più radicale. Il Padiglione Italia ribadisce la necessità di rispondere urgentemente agli obiettivi delle Nazioni Unite poiché, se lo facessimo tra 10 anni, forse sarebbe troppo tardi e, probabilmente, bisognerebbe essere ancora più estremi. Quindi, non solo ci allineiamo a tali obiettivi, ma diciamo anche che dobbiamo andare incontro a necessità o a obiettivi ancora più radicali. Ad esempio, come la necessità non più di discutere delle città, ma dell’esigenza di avere città intrinsecamente ecologiche. Forse la cosa più interessante dell’Agenda 2030 che può essere reiterata nel Padiglione Italia, al di là del fatto che le 14 sezioni riflettono questi obiettivi, è il concetto di integrazione. Il Padiglione Italia dice che questi obiettivi non possono essere più raggiunti in modo separato, o indipendente, ma devono essere integrati gli uni agli altri. Tra gli aspetti importanti del Padiglione vi sono la necessità
di strategie nexus, per esempio, così come la convergenza, come prevista anche dalle Nazioni Unite. Queste idee, però, sono esplicitate in ogni sezione, adottando una convergenza tra questioni sociali ed ambientali. Le questioni del gender balance, della diversità e dell’equità non sono puramente etiche o morali, ma piuttosto una necessità di ampliamento della piattaforma della resilienza attraverso la diversità. Ed è la biologia dell’evoluzione a darci proprio questa indicazione, in cui il tema della giustizia sociale non va dibattuto solo perché sia giusto, ma perché è qualcosa che va al di là della dell’aspetto etico. In sintesi, il concetto è questo: l’equità equivale anche alla maggiore resilienza delle comunità. Alessandro Melis – schizzi Padiglione Italia – courtesy Alessandro Melis Adolf Behne, nel 1923, affermava come “Mentre il funzionalista cerca il massimo
possibile adeguamento ad un fine il più possibile specifico, il razionalista cerca l’adattamento al più grande numero di possibilità.” Se la resilienza di un sistema sembra essere proporzionale alle molteplicità di opzioni ed opportunità che è in grado di offrire, la forma sembra essere oggetto di un rinnovato interesse. Pertanto, come la forma può rispondere alle urgenze contemporanee di riconfigurazione dell’autopoiesi del sistema, con il fine di realizzare efficacemente una resilienza locale e sistemica? Non sono d’accordo con questa affermazione semplicemente perché, in realtà, la biologia dell’evoluzione usa i termini ‘funzionalista’ e ‘razionalista’ esattamente in senso opposto. Il razionalista è colui che prevede uno scenario e ad esso fa corrispondere delle precise funzioni ed usi, ai quali sono in relazione, a loro volta, delle forme. Quindi, dal punto di vista della biologia dell’evoluzione, il funzionalista è in realtà aperto alle possibilità, mentre il razionalista non lo è poiché si rivolge ad un fine il più possibile specifico. Funzionalismo vuol dire anche considerare l’evoluzione come un serbatoio di possibilità, senza necessariamente avere un obiettivo specifico. Il razionalismo è invece la lettura del funzionalismo in chiave deterministica, quindi le funzioni si riferiscono ad usi specifici. Questa è un po’ la differenza che esiste tra exaptation ed adaptation. Ovviamente, Behne non poteva saperlo perché nel 1923 eravamo lontanissimi dalle ricerche degli anni Sessanta, ma fino ad un certo punto. Stephen J. Gould disse che, in realtà, lo stesso Darwin, nella
seconda edizione de “L’Origine della Specie”, cominciò a capire che c’era qualcosa di non deterministico nell’evoluzione naturale. Sono però d’accordo che la resilienza sia proporzionale alla molteplicità di opzioni ed opportunità, quindi dipendente da un sistema indeterministico e non deterministico. Infatti, nel momento in cui abbiamo un’idea deterministica di scenario, rischiamo che, se quello scenario non si verifica, ogni forma disegnata in modo razionalmente funzionale per esso sia pericolosa. Pericolosa nel senso che non è sufficientemente resiliente. Mentre è vero esattamente il contrario, ossia che disegnare forme più diverse, ridondanti e variabili, come diceva Gould, ci dà la possibilità di avere forme che sono sufficientemente versatili da potersi adattare a scenari che, al momento, non siamo in grado di definire in modo razionale e quindi deterministico. Sono anche d’accordo con te su questa idea della riconfigurazione e della autopoiesi, che in realtà deriva da ricerche sempre della biologia dell’evoluzione ma un po’ di diverse, ossia quelle di Maturana e Varela. Esse vengono corroborate dalle ricerche che riguardano esclusivamente gli organismi, dalla visione o meglio, dalla rinnovata visione dell’evoluzionismo di S. J. Gould. Egli ci dice che, appunto, la resilienza locale e globale dipende dalla possibilità di realizzare forme di questo tipo. Quindi, la sistematicità risiede in queste 3 caratteristiche: la ridondanza, la variabilità e la diversità degli organismi e delle strutture che noi chiamiamo creative.
Alessandro Melis – schizzi Padiglione Italia – courtesy Alessandro Melis Nonostante la comunità scientifica sia piuttosto compatta nell’indicare nella specie umana la causa e la soluzione della crisi ambientale che stiamo vivendo, invocando un approccio maggiormente consapevole, per contro la pandemia di COVID-19 sembra invece avere esacerbato le disuguaglianze, la vulnerabilità e la frammentazione sociale, dove l’interesse privato sembra prevalere su quello pubblico. Alla luce
delle necessità del nostro pianeta e delle reali risposte divergenti che invece offre la società globale, ritieni vi sia una speranza per il futuro delle comunità umane nel medio-lungo periodo? Quali prospettive per il 2100? Sì, sono fondamentalmente ottimista. E proprio perché la storia, soprattutto se interpretata in senso di tempo profondo e quindi non quella degli ultimi 2.000 anni, ma degli ultimi 200.000 anni, ci dice che, ogni volta che ci troviamo di fronte ad una crisi globale, la società si sposta dalla parte inerziale verso quella più radicale, più visionaria. Quindi, tutto quello che dici è assolutamente vero, ma questi sono ancora i segni della società inerziale e della sua staticità. Cerco di spiegarmi meglio. È vero che la soluzione delle crisi ambientali risiede nell’uomo e che l’uomo ne è anche la causa ma, in realtà, questa affermazione ancora riproduce il pregiudizio della scacchiera di Huxley, sempre per citare S. J. Gould. In realtà, la crisi ambientale è crisi solo per l’uomo. Per l’ambiente non è nessuna crisi. Quindi, in realtà, è un problema nostro e noi siamo la soluzione, ma non per il pianeta, non per l’ambiente, ma per noi stessi! Cioè, secondo la lettura della biologia dell’evoluzione e del concetto di niche construction, il problema che ci troviamo ad affrontare non è il cambiamento dell’ambiente e che la Terra potrà avere dei problemi, ma che semplicemente non abbiamo gli strumenti evolutivi per poterci adattare ad un cambiamento troppo veloce. Il pianeta se ne farà una ragione: come sappiamo, è andato oltre il 99% delle estinzioni di massa. Quindi, è assolutamente vero che l’uomo è la causa e anche la soluzione della crisi ambientale, ma dobbiamo stare attenti a cosa intendiamo per crisi ambientale. La crisi ambientale è la
crisi dell’umanità, non del pianeta. Che siano 400 ppm o che siano 800 ppm, al pianeta Terra cambierà poco. Semplicemente, non ci saranno più quelle nicchie che consentiranno all’uomo di sopravvivere. Questo occorre precisarlo, perché aiuta anche a rispondere alla seconda parte della domanda. Alessandro Melis – schizzi Padiglione Italia – courtesy Alessandro Melis Non è la pandemia che ha esacerbato le diseguaglianze, ma il modo lineare e razionale in cui noi abbiamo approcciato alla pandemia, anziché in modo funzionale e anti-deterministico. Nella organizzazione della società attuale, stiamo cercando di capire il COVID come se fosse il problema. Il COVID è un sintomo invece! È la questione ambientale ad essere il problema. Quindi, come dici giustamente tu, la questione ambientale si affronta in maniera sistemica, ma se invece affronti il sintomo stai affrontando la questione in modo non sistemico. Se lo affronti in modo sistemico, ovviamente il rischio che hai è che, localmente, quel modo in cui tu
affronti il problema non fa altro che reiterare le strutture di comportamento economiche che sono poi la causa a livello sistemico. Quindi, il problema non è il COVID, ma il fatto che rispondiamo localmente senza avere la visione generale. Come dicevo, sono ottimista perché cominciano a levarsi voci che capiscono l’esistenza di un problema sistemico. E che questo ha una scala globale e la necessità di un avere approccio strategico. Pertanto, occorre un approccio che consideri il COVID come un sintomo e non come la causa. Space Architecture: la prima tesi di ricerca svolta in Italia è al PoliBa Biennale 2020: Alessandro Melis curatore del Padiglione Italia Quali prospettive per il 2100… Guarda, anche su questo, trovo interessante come noi uomini ragioniamo in tali termini. Il 2100 è una data così avanti nel tempo che ci porta ad una condizione, ad uno scenario che siamo totalmente incapaci di leggere. Noi usiamo il 2050 o il 2100 come se fossero riproduzioni, un’evoluzione lineare di quello che sta succedendo ora. Quindi, nel 2100, se saremo sopravvissuti, le città saranno qualcosa di completamente diverso da quello che ci immagiamo oggi. E quindi anche il problema del sollevamento delle acque, per esempio, che vediamo in modo così lineare, non sarà un problema. Se invece, entro 30 anni non andiamo in quella direzione, saremo estinti. Per cui, non posso che essere ottimista per il 2100 e non sono minimamente preoccupato dall’innalzamento delle acque. Stiamo parlando di un lasso di tempo così lontano che l’approccio razionale e deterministico è totalmente insignificante. E quindi anche l’idea di immaginarsi le città di domani come estensione delle città di oggi equivale a dire esattamente quello che S. J. Gould ci ha detto. Ossia, che se tu prendi una variazione di un sistema che dura 200.000 anni e poi tracci una sua mediana con una retta, realizzerai una reificazione. Realizzerai cioè uno scenario che non avrà alcun senso per la realtà.
In ultimo, una domanda sul rinnovato interesse globale verso lo spazio e la colonizzazione di Marte. A tuo giudizio, quali lezioni e tecnologie potrebbero tornarci indietro da questa missione di lungo periodo per la risoluzione dei problemi che affliggono la Terra, pur essendo consci che la sola tecnologia non sarà sufficiente? Per le spedizioni su Marte, innanzitutto dobbiamo distinguere tra razionalità e funzionalità. Andiamo su Marte per ragioni di funzionalità e non di razionalità. Cioè, è chiaro che se uno pensa che andiamo su Marte perché il pianeta Terra non ha sufficienti risorse e terraformiamo Marte per trasferirci come colonia per sopravvivere, sta facendo esattamente l’errore che dicevo a riguardo del 2100. Sta facendo una reificazione di una ipotesi momentanea, che non ha nessun valore rispetto a tempi e spazi così lunghi. In questo caso, funzionale vuol dire che l’uomo ha necessità funzionale di fare questo perché fa parte della narrativa e della sua spinta evolutiva. E quindi è assolutamente funzionale. Non è razionale, nel senso che non è che serva a qualcosa di specifico in questo momento. Però, volendo trovare dal punto di vista dell’exaptation dei significati, è chiaro che, sulla base dell’esperienza, che quello che ci può essere utile è quello che ci torni indietro, come dici tu. Semplicemente, questa è un’opportunità per imparare nuove tecnologie, per comprendere cose in ambienti estremi che possono essere reinterpretate. Il terraforming del deserto può essere qualcosa che otterrà dei vantaggi dalla comprensione di ciò che vorremmo fare su Marte, ad esempio.
Approfondimenti Disruptive Technologies - eBook Thomas Auer, Alessandro Melis, Fabrizio Aimar Un testo in lingua inglese dedicato all'integrazione tra design e tecnologia nei progetti di architettura, alle metodologie di insegnamento e all'uso di casi di studio all'interno dei corsi di tecnologia. Tra le esperienze raccontate, quelle su Thomas Auer / Transsolar, Carlo Ratti (MIT), Marco Poletto / EcologicStudio, Alessandro Melis (UoP) e Michael Davis (UoA). Wolters Kluwer Acquista su shop.wki.it L’altro aspetto è la spinta verso la tecnologia. Quindi, è chiaro che questa sfida ci spinge verso un certo tipo di creatività e ci costringe ad ipotizzare idee, tecnologie ecc. che poi, secondo il ragionamento dell’exaptation, possono essere cooptate funzionalmente per tante altre cose, anche se non pensate per quello. Quindi, è del tutto funzionale andare su Marte e queste missioni sono estremamente utili, anche se non sappiamo né come, né quando, o meglio lo sappiamo solo in parte. Però sono convinto che, per i principi dell’exaptation, ci saranno in futuro molte opportunità di cooptazione funzionale delle ricerche che vengono fatte per queste missioni. Trovo interessante la nota che fai sulla tecnologia. Abbiamo quest’idea, da una parte, della tecnologia super avanzata e di
una sua idolatria mentre dall’altra, invece, una forma di demonizzazione. Allora, anche questo fa parte della reificazione, cioè del pregiudizio dell’uomo che legge le sue manifestazioni in un certo modo. Dal punto di vista paleoantropologico invece, tra tecnologia, arte e scienza non c’è nessuna differenza. Quindi, è una manifestazione funzionale, ossia indeterministica, del pensiero associativo, che è funzionale e indeterministico per definizione. Come tutte le cose che sono il risultato di una struttura creativa, ossia il cervello (che, a sua volta, è il risultato di un’altra struttura creativa che è il genoma), anche la tecnologia e l’arte sono prodotti della creatività e dunque strutture creative a loro volta. Ciò significa che la tecnologia è anch’essa diversa, ridondante e variabile. E che, quindi, è computabile funzionalmente in situazioni che vanno al di là della nostra possibilità di prevedere il futuro. Ecco perché esistono già studi molto avanzati sul tema dell’exaptation in tecnologia. Pertanto, è chiaro che la mission ha questo tipo di funzionalità e non di razionalità. Per cui, anche se la tecnologia non sarà sufficiente, certamente è uno strumento che è il risultato della manifestazione del pensiero associativo e quindi una manifestazione di questa ridondanza, variabilità e diversità che a noi serve per rafforzare la nostra resilienza. Resilienza che è sia individuale, sia come comunità ristretta che come comunità umana. Photogallery Alessandro Melis - Padiglione Italia - courtesy Alessandro Melis Chiudi Logo Padiglione Italia - courtesy Alessandro Melis e Ercolani Bros. / Dokc Lab
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