DOV'È LA GUERRA? DOV'È LA TRAGEDIA? PAROLE E IMMAGINI DA UNA SCUOLA AL TEMPO DEL COVID-19 - Università Ca' Foscari Venezia

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DOV'È LA GUERRA? DOV'È LA TRAGEDIA? PAROLE E IMMAGINI DA UNA SCUOLA AL TEMPO DEL COVID-19 - Università Ca' Foscari Venezia
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        DOV’È LA GUERRA? DOV’È LA TRAGEDIA?
         PAROLE E IMMAGINI DA UNA SCUOLA
               AL TEMPO DEL COVID-19

                                ANDREA CERICA
             Liceo Artistico Michelangelo Guggenheim Venezia-Mestre

    Guerra è una delle metafore più ricorrenti in questi giorni, con tutta la sua ricca
rete semantica (prima linea, battaglia, «resistere resistere resistere», etc.). Questa
retorica bellica si diffonde attraverso i canali del potere: dalle gazzette alle tv, dalle
radio ai discorsi di potenti di orientamento vario (Trump, Macron, Conte, Iglesias).
C’è chi la utilizza per esortare la popolazione al rispetto delle misure restrittive, alla
coesione, chi per creare consenso – come già in altre emergenze sanitarie, a esempio
il consumo di sostanze stupefacenti. Ancorché sia possibile trovare analogie tra
conflitti militari e l’attuale pandemia, il sottoscritto, come Gino Strada e tante e tanti
altri, la reputa ingiuriosa sia soprattutto per ogni persona oggi e in passato vittima o
reduce di una vera guerra sia per tutti gli uomini e tutte le donne oggi e ieri operative
sulle cosiddette prime linee: perché chi sceglie convintamente di fare il medico,

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l’infermiere, il volontario, sceglie di donare e tutelare la vita: la vita di chiunque;
non di tutelare quelle di una parte – altrimenti non potrebbe giurare su Ippocrate,
servire chi ha giurato su Ippocrate o indossare una qualsivoglia divisa di volontario.
Anche le guerre hanno i loro codici ed esiste pure la croce rossa, che ha il compito
di curare feriti di ambo gli schieramenti, tuttavia le regole di un conflitto sono sempre
deteriori rispetto a quelle della via stretta della pace e del dialogo.
    La reputo sconveniente e nociva, però, non solo perché imprecisa e ingiuriosa,
ma anche perché mendace; in tanti casi quella retorica ci distrae dalla verità di una
guerra – non sempre condotta con armi visibili – che ci accompagna da lunghi anni:
quella dei padroni contro gli sfruttati, guerra disastrosa e drammatica già prima che
il virus la accentuasse ulteriormente come sta facendo ora. È inconfutabile che
nell’ultimo secolo la storia umana ha contato numerosi progressi tangibili, tuttavia
quelli sono ancora piccole gocce in un oceano perché per numerosi versi viviamo
ancora l’età della pietra; è vero che nel diffondersi il Covid-19 non fa distinzioni di
censo, però la ricchezza materiale e culturale possono fornire alcune protezioni – sia
pur precarie – delle quali una persona sottopagata, disoccupata o poco istruita non
ha la possibilità di avvalersi. Insomma, credo che la guerra e le prime linee stiano
altrove: non banalmente negli ospedali, negli ospizi o nelle case contagiate, ma negli
ospedali, negli ospizi e nei domicili già piagati dalla millenaria guerra del più forte
contro il più debole e, da ultima, del capitale (cioè, fuori di metafora, sottofinanziati
e sottostimati negli ultimi decenni perché la salute, la vecchiaia, la povertà e altre
fragilità che sono beni della vita paiono beni non computabili nel prodotto interno
lordo). E quindi, oltre che nella sanità depauperata, le prime linee si trovano anche
ben lungi dai luoghi del contagio: sono pure nelle case umili risparmiate dall’ultimo
coronavirus ma colpite da politiche esclusive, e nei tuguri di senza tetto o migranti:
tutti e tutte, in vario modo, combattenti o reduci di guerre ‘vere’. Mi suona invece
‘falso’ parlare di una pandemia come di una guerra da combattere e da vincere per
tornare presto alla presunta pace preesistente; ‘falso’ definire il coronavirus un
nemico subdolo perché meno visibile di un soldato armato: ma, oltre che falso,
nocivo (!), perché ci distrae dal fatto che (A) i virus sono inevitabili come un
terremoto o una eruzione vulcanica mentre una guerra è sempre evitabile – benché
con immensi sforzi di buona volontà –, e che (B) il Covid-19 non ci è nemico né
amico, bensì è creatura naturale – che Giove, se vogliamo credere alla favola
cosmogonica che apre le Operette morali di Leopardi, ci ha donato per farci meglio
apprezzare i beni. Nemiche all’essere umano sono invece, più ancora della stupidità,
le sue passioni e i suoi istinti più dannosi (come l’avidità o la sete di potere), che
sminuiscono la ragione, la salute, la poesia e molti altri beni necessari come beni
accessori, beni accantonabili, perché quelle, quando autentiche, difficilmente
possono essere sfruttate all’interno di un ciclo di produzione. Negli ultimi decenni
si è preferito stordire le generazioni con festini e ballonzolamenti, spese e viaggi-
spesa e altro; e già molti e molte di noi hanno notato che questo edonismo dei
consumi e delle reti sociali ha accantonato la fragilità, la vecchiaia, la morte, il
dolore. Eppure si sèguita in tali rimozioni perché dopo appena qualche settimana di
confinamento si sogna la dolce vita di presunte metropoli della felicità o la cosiddetta
ricostruzione; perché si sopporta di malanimo l’isolamento come se si trattasse di un
bombardamento o della prigionia in un lager e non invece di un atto di cura, di
protezione (e, si sa, non esiste atto di cura che non sia vincolante); e anche perché si
attribuisce al virus la pericolosità e la distruttività del Nemico, quando invece

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dovremmo attribuirla al nostro lato più oscuro, quello delle passioni illogiche e dei
vizi, che la società del ventunesimo secolo ha alimentato. È questa civiltà della non-
ragione – che Vittorino Andreoli ha ben ritratto in Homo stupidus stupidus (2018) –
a essere la responsabile delle miriadi di tragedie in atto; senza dubbio non lo è il
nuovo coronavirus, il quale anzi, ben istruito da Giove, fa il suo solito mestiere come
lo fanno i vulcani o le placche tettoniche.
    Altre metafore ricorrenti sono quelle della tragedia e del dramma e queste ultime,
al contrario di quella bellica, sono appropriate: perché ogni singola morte – anche di
un padrone – è una tragedia, è la fine di un mondo. Tuttavia, poiché tra i doni di
Giove si contano non solo i virus e i terremoti ma anche la ragione, dovremmo
spingerci più in là del pur necessario senso del tragico e provare a relativizzare la
pandemia odierna grazie alla disciplina storica. Leggendo le prime pagine del
Decameron, che descrivono accuratamente, per testimonianza oculare, il diffondersi
della Peste Nera in Firenze e nel suo contado; o leggendo saggi storici quale La peste
nella storia di William McNeill (1976) oppure il primo volume di Civiltà materiale
di Fernand Braudel (1979) o persino, più semplicemente, articoli di giornale come
quello apparso sulla Lettura di domenica 5 aprile1 o anche un qualsiasi manuale di
storia antica, medievale o moderna: alla luce di queste letture la pandemia in atto
non ci dovrebbe sembrare più drammatica o più sterminatrice di altre: è una
questione sia di numeri del contagio e di morti sia di forme del dolore, di vite.
Potremmo ravvisare tremende analogie come quelle segnalate da Ugolini nel blog
del sito Visioni del tragico2, oppure formidabili novità come la velocità e
l’estensione eccezionali della pandemia odierna; ma potremmo scoprire anche alcuni
beni: come la letalità molto inferiore del Covid-19 rispetto a quella delle pesti o del
vaiolo; o come la cura che nonostante gli immensi sforzi, le diverse mancanze e le
tragiche morti il personale sanitario, i preti, i volontari e i militari stanno comunque
garantendo alla maggioranza degli italiani e delle italiane (cura più efficace di quelle
garantite o non garantite durante le epidemie dell’antichità, del medioevo o dell’età
moderna e persino contemporanea); o come la transitorietà del corrente fenomeno
epidemico: è verosimile che, per quanto lunga, la pandemia da Covid-19 prima o poi
finirà, mentre Braudel ci ha insegnato che le epidemie dell’età moderna erano
sistemiche. Però relativizzare la pandemia in atto non significa solo confrontare gli
attuali dati e le attuali tragedie con quelli della Spagnola, delle epidemie portate dagli
Europei nelle Americhe pre-colombiane, della peste trecentesca o del morbo
giustinianeo; significa anche epoche, ossia sospensione del giudizio, e per rispetto
della scienza storica, che non si può mai esercitare in diretta, e più in generale per
rispetto della nostra razionalità: la storia erodotea di Creso e Solone ci ricorda che
«di ogni cosa bisogna vedere la fine». Razionalità di cui oggi, come sempre, abbiamo
tanta urgenza.
    Un’altra inesattezza di queste giornate è l’idea che le scuole siano chiuse. Non è
così soprattutto perché la scuola non coincide con quattro mura; è anzi, nel profondo,
un incontro immateriale: e oggi, grazie alla tecnologia, il cuore della scuola
(gioventù e insegnanti) può continuare a pulsare nel pieno della pandemia ‒ altro

   1
       Guido Alfani, La storia dei contagi dall’antichità al Covid-19, «La Lettura», 5 aprile 2020, pp.
8-9.
   2
      Gherardo Ugolini, I riti funebri ai tempi della pandemia (Tucidide e noi), «Visioni del tragico»,
29 marzo 2020:  (ultima consultazione: 29 aprile 2020).

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bene, questo, negato al tempo di Giustiniano o della Peste Nera; impossibile anche
oggi, sfortunatamente, in molte scuole, eppure non ovunque. Infatti le riflessioni qui
presenti nascono da un percorso di conoscenza di un umile fra gli umili: cioè il
sottoscritto professore precario e alcune alunne e alcuni alunni di un ex istituto d’arte
del veneziano dove già da inizio anno scolastico (e ancor prima) si sperimenta
quotidianamente ciò che la società dei consumi rifiuta: la disabilità, la fragilità, la
povertà. Anche in questa vera prima linea è stato possibile avviare una presa di
coscienza sul presente a partire dalle due discipline che mi trovo a insegnare: italiano
e storia; è stato possibile, pur tra le incertezze del presente e le difficoltà della
teledidattica, condividere conoscenze ed esperienze. Fin dai primi giorni del
confinamento ho proposto, oltre al prosieguo dell’insegnamento tradizionale, un
esperimento ulteriore, facoltativo: quello di cambiare occhi; cioè di trovare uno
sguardo in parte differente da quello proposto dai media e dal potere.
    Ho estrapolato quegli occhi dall’ottavo libro dell’Odissea: libro in cui Odisseo,
scampato al carcere aureo di Ogigia, è ospite di una popolazione ‘altra’, liminare: i
Feaci. Persino nella grandiosa festa organizzata da quel popolo semidivino per il re
d’Itaca ricompare la nostra fragilità umana; non è unicamente Odisseo a portarla,
bensì pure il cantore Demodoco, che allieta il suo pubblico in virtù di un intreccio di
male e di bene: «Arrivò l’araldo con l’amato aedo, il diletto dalla Musa: che bene e
male gli diede, gli diede il dolce canto ma lo privò degli occhi» (vv. 62-64). Ho
richiesto a una mia classe dell’indirizzo di grafica la fatica e la responsabilità di una
nuova presa di coscienza per il tramite del medesimo esempio che tanto piacque al
Pascoli autore del poemetto Il cieco di Chio. Ho chiesto loro di essere ambiziose e
ambiziosi e di praticare lo sguardo altro della poesia: prima che attraverso la
creazione, attraverso la cecità, ossia mediante l’apertura di occhi interiori. A tutte e
tutti ho chiesto di prendere cognizione di tutti quei beni che abbiamo avuto e che
continuiamo ad avere e di assaporarli fino in fondo, senza dimenticare al contempo
i molti mali che la pandemia sta esacerbando; e ho specificato che non si tratta tanto
di raggiungere l’apatheia stoica né l’ataraxia epicurea, quanto invece di vivere la
vita con più consapevolezza e profondità: non solo per il sé, ma anche per provare a
cambiare il mondo. Ho chiesto loro di nutrirsi del silenzio e delle pause che ci son
date, di lasciarsi privare della comune vista e, a scorno di Pascoli – che reputava il
dono della poesia un dono di pochissimi –, di puntare tutte e tutti a «delle cose
l’ombra lunga, immensa»:

   Allora io vidi, o Deliàs, con gli occhi,
   l’ultima volta. O Deliàs, la dea
   vidi, e la cetra della dea: con fila
   sottili e lunghe come strie di pioggia
   tessuta in cielo; iridescenti al sole.
   E mi parlò, grave, e mi disse: Infante!
   qual dio nemico a gareggiar ti spinse,
   uomo con dea? Chi con gli dei contese,
   non s’ode ai piedi il balbettio dei bimbi,
   reduce. Or va, però che mite ho il cuore:
   voglio che il male ti germogli un bene.
   Sarai felice di sentir tu solo,
   tremando in cuore, nella sacra notte,

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parole degne de’ silenzi opachi.
   Sarai felice di veder tu solo,
   non ciò che il volgo víola con gli occhi,
   ma delle cose l’ombra lunga, immensa,
   nel tuo segreto pallido tramonto3.

   A questo esercizio preliminare di meditazione e conoscenza, richiesto all’intera
classe, è seguita la proposta – discrezionale – di dar voce alla loro creatività di
studenti di un ex istituto d’arte oggi liceo: liberare quella vena artistica che ebbi la
gioia di apprezzare fin dalle prime lezioni dell’anno. Del primo esercizio cito di
seguito un saggio esemplificativo, una lista di alcuni mali e di alcuni beni visti dalla
classe; del secondo potete vedere due disegni a corredo di questo elenco.

                                         Alcuni beni di oggi

   SOFIA Dovendo passare davvero molto tempo dentro casa, riscopriamo il valore
della famiglia.
   GRETA Lontani dalle persone che si vedevano abitualmente, capiamo chi è
davvero importante.
   MATHIAS Possiamo passare più tempo – in video-conferenza – con i nonni.

                                         Alcuni mali di oggi

   SOFIA Le persone che non abitano con qualcuno, rimangono oggi ancora più sole.
   GRETA I cani sfruttati dai padroni per fare il giro del quartiere più volte al giorno.
   MATHIAS Non possiamo più andare fisicamente a scuola.

    La presa di coscienza sul presente non è passata soltanto per questo tramite, quasi
ludico, ma pure per quello del dialogo continuato in video-conferenza: c’è chi, come
Alessia, ha segnalato l’oppressione che ingenera in lei e nella famiglia l’ossessiva
onnipresenza del tema epidemico nei media; chi, come Giada, ha invece ipotizzato
che Giove si sia arrabbiato contro un genere umano sempre più incurante
dell’intelligenza concessagli. Nonostante questo intervento dia unicamente un
saggio frammentario della mia gioventù mestrina, le loro opere e i loro pensieri sono
molto importanti non solo per ricordare che la scuola, pur tra grandi difficoltà,
continua ancora oggi la sua missione di condivisione della ricchezza immateriale,
ma anche perché ci testimonia che gli occhi di Demodoco, ossia lo sguardo ‘altro’
della cecità, sono alla portata di tutte e tutti noi.
    È presto per dire se la pandemia in corso segnerà una svolta epocale (tanto nella
storia quanto nella nostra vita personale); certo è che non ci potrà essere alcuna svolta
o alcuna vittoria sia dentro a noi sia nel mondo se non faremo tutte e tutti un maggiore
uso delle facoltà razionali forniteci da Giove, se non sceglieremo di privarci degli
occhi abituali. Ancora adesso si fanno guerre, si specula, si ricavano enormi profitti
dai nostri dati più e meno privati e, soprattutto, ancora oggi si nega la redistribuzione
della ricchezza immateriale depauperando l’intero sistema scolastico e formativo.
   3
       Il cieco di Chio, vv. 109-126.

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Esercizi come i due proposti alla III N sono meritevoli dell’attenzione degli
internauti perché ci ricordano infine questo: che se sbaglia un chirurgo o lo si
ostacola impoverendo la sanità, muoiono “solo” una o più persone, se invece sbaglia
o si ostacola un insegnante periscono intere generazioni: anche se il più delle volte
invisibili, queste ultime morti sono la tragedia più grande, la vera guerra alla quale
assistiamo e partecipiamo da molti anni; la vera guerra contro la quale alcune e alcuni
giovani stanno combattendo, prive e privi del male più grande: l’odio.

    Al presente intervento hanno contribuito una parte della III N del liceo artistico
Michelangelo Guggenheim di Venezia-Mestre e una giovane di un’altra scuola mestrina (il
liceo classico Franchetti): rispettivamente, Alessia, Chiara (in arte Hederis), Giada (artefice
del ritratto del professore), Greta, Mathias e Sofia.

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