Dopo l'utero c'è anche la famiglia in affitto - DIVORZIO DAI FIGLI? EDITORIALI 03-04-2021

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Dopo l'utero c'è anche la famiglia in affitto - DIVORZIO DAI FIGLI? EDITORIALI 03-04-2021
DIVORZIO DAI FIGLI?

Dopo l'utero c'è anche la famiglia in affitto

 EDITORIALI   03-04-2021

Tommaso
Scandroglio
Dopo l'utero c'è anche la famiglia in affitto - DIVORZIO DAI FIGLI? EDITORIALI 03-04-2021
Piccoli inconvenienti della pandemia. La statunitense Emily Crislips ha 25 anni, è sposata
ed ha un bimbo. Come volontariato (oppure per arrotondare) non serve alla mensa dei
poveri, non regala coperte ai senzatetto, non dona il sangue, bensì «dona» il proprio
utero a quelle coppie che non possono avere un bambino o che non vogliono avere un
bambino come Dio comanda.

Ecco allora che Emily ospita nel proprio grembo una bambina, che chiameremo
Lin, di una coppia cinese. L’ovocita infatti ha «gli occhi a mandorla». Poi scoppia la
pandemia e per fortuna non sono stati ancora istituiti lockdown per impedire il
trasferimento dei bambini dall’utero alla luce del sole e quindi Lin nasce. Problema:
proprio a causa del Coronavirus, la coppia cinese non può venire a prendersi il «pacco»
nel punto di ritiro presso la famiglia di Emily, né Amazon è ancora abilitata alla consegna
di esseri umani vivi. Da qui la decisione comune dei «tre» genitori: aspettiamo e nel
frattempo Lin crescerà presso la family a stelle e strisce.

Emily commenta davanti alle telecamere di Good Morning America: «Abbiamo
avuto la sensazione che questa fosse la soluzione più giusta. Non ci piaceva l'idea che la
bambina venisse affidata ad un'agenzia di Babysitting, mentre per noi non sarebbe stato
un problema occuparci di lei. Abbiamo una famiglia armoniosa e io l'ho tenuta dentro di
me. Insomma, ci siamo detti: possiamo occuparcene!». La coppia cinese guarda sullo
schermo del Pc la bimba crescere, come se stesse guardando una soap opera ritagliata
su misura, una fiction on demand. Ogni giorno qualcosa di nuovo da commentare, una
sorpresa, un colpo di scena: il peso che aumenta, i vagiti che cambiano, le coliche. I
genitori biologici diventano spettatori della crescita della figlia, l’educazione diventa
virtuale. Una situazione paradossale che nel suo paradosso mette in evidenza quanto la
maternità surrogata sia, in realtà, una maternità virtuale.

Emily si è autoimposta un distanziamento affettivo e fiduciario: «La considero
come se fosse la figlia di una cugina. Mi occupo di lei. La amo e sarò sempre disponibile
per lei, ma so che non appartiene a me, ma ai suoi genitori».

Tutti e tre guardano al futuro, a quando la coppia cinese potrà venire a ritirare Lin.
La gestante così descrive quel momento: «Cerco di immaginare tutti i possibili scenari e
mi lascio prendere dalle emozioni quando ci penso. Posso soltanto ipotizzare cosa potrà
significare per loro vedere la piccola per la prima volta. Sarebbe come incontrare il
proprio figlio dopo un anno dal parto». Insomma per la madre biologica sarebbe un
parto differito, a scoppio ritardato, senza il pre-parto, ossia la gestazione.
Questa vicenda, che risponde perfettamente alla teoria seconda la quale disordine
chiama disordine, ci permette di affermare che se è moralmente lecito l’utero in affitto
lo dove essere anche la famiglia in affitto. In questo caso abbiamo visto che è parsa cosa
buona e giusta che l’artigiana che ha forgiato nel suo corpo il piccolo vaso di nome Lin,
possa tenerlo presso di sé finchè i committenti non potranno venire a ritirarlo. Da qui la
domanda: ma se è giusto che una famiglia cresca la figlia di un’altra coppia a seguito di
maternità surrogata, perché non fare questa scelta anche in altre occasioni? Non stiamo
parlando di adozioni e affido quando i genitori biologici risultino essere incapaci di
educare la prole – lecito e doveroso – ma di altre circostanze che nulla hanno a che
vedere con l’incapacità genitoriale.

Ad esempio Matteo ed Giulia vogliono affittare una famiglia dove depositare i figli
durante le vacanze, oppure in un periodo di forte stress lavorativo, oppure per trovare
tempi e spazi al fine di non divorziare, oppure semplicemente per tirare il fiato, oppure
per far sperimentare ad una coppia gioie e affanni della paternità e maternità, un
affido/affitto samaritano. Perché vietarlo?

Voi direte: già capita con nonni e amici. E questo va bene proprio a motivo dei
legami familiari o di amicizia che vi sono, ma il suggerimento che viene dalla vicenda
sino-americana è quello di istituzionalizzare il fenomeno ed estenderlo a locatori
sconosciuti ai locatari. In breve se si può affittare l’utero perché non si può affittare una
famiglia? Se è lecito far crescere biologicamente il figlio di un’altra coppia dentro il
proprio utero, perché non dovrebbe essere lecito far crescere dal punto di vista
educativo e della cura dei bisogni essenziali il figlio di un’altra coppia all’interno della
propria famiglia?

L’analogia tra le due realtà, una attuale l’altra eventuale, mette in evidenza il
significato post moderno della genitorialità ed apre a scenari deliranti. Il figlio diventa un
benefit che si pretende, al netto delle responsabilità. Se il figlio è diventato on demand,
potendo scegliere se averlo (provetta) o non averlo (aborto), opzionando il sesso, il
colore degli occhi e dei capelli, non si comprende perché tale formula non potrebbe
essere applicata anche dopo il parto. Tengo il figlio finchè non mi appaga, non mi è utile.
Poi lo deposito da qualche parte, per un certo periodo di tempo oppure per sempre.
Così dall’affitto dell’utero siamo passati all’affitto della famiglia e infine all’affitto del figlio
stesso.

L’ipotesi potrebbe essere sostenuta con mille ragionamenti. Ad esempio, cosa è
questa storia che il matrimonio non è più indissolubile da tempo e invece la genitorialità
sì? La genitorialità, già liquefatta in moltissimi modi («famiglie» arcobaleno,
fecondazione omologa ed eterologa, doppia maternità biologica, etc.), spinge per
diventare a tempo determinato. Se ti stanchi del figlio lo restituisci. Un famigerato
slogan abortivo non è «la maternità deve essere una scelta»? Allora, come si può
scegliere di non volere più quel figlio che ti occupa il ventre da qualche settimana, così
dovrà essere consentito di non voler più quel figlio che ti occupa casa da qualche anno.
Senza ucciderlo, per carità, ma trasferendolo in un altro nucleo familiare. Oppure, altra
soluzione, avremo una genitorialità «stop and go»: in alcuni periodi cresci tuo figlio e in
altri no. Una genitorialità flessibile, sostenibile, a basso impatto di stress emotivo.

Oppure si potrà optare per un figlio in «buy back», quella formula di acquisto che
prevede di versare una certa somma di denaro per l’acquisto di un’auto (ricordiamoci
che per delocalizzare la produzione di un figlio occorre sborsare quattrini), con l’opzione
di saldare la quota rimanente e diventare proprietario dell’auto oppure ridare indietro la
vettura. Tradotto: la coppia richiedente paga una quota alla gestante, tiene in prova il
figlio qualche anno e poi decide se tenerlo oppure ridarlo indietro all’agenzia che,
volendo, potrà consegnare alla stessa un nuovo modello di figlio. Ovviamente la
formula, per non discriminare nessuno, si potrà applicare anche ai figli che vengono al
mondo alla vecchia maniera, consegnando, in questo caso, i pargoli a qualche istituto.
Insomma, restituzione del figlio quando si vuole. Lo si fa con mariti e mogli tramite il
divorzio, perché non applicare la medesima ratio anche ai figli? Perché non divorziare
anche da loro?
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