Democrazia dentro il partito: perché guardare il dito, invece della luna? - di Giampiero di Plinio

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PAPER – 3 MAGGIO 2021

Democrazia dentro il partito: perché
 guardare il dito, invece della luna?

             di Giampiero di Plinio
    Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico
   Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara
Democrazia dentro il partito: perché guardare il
          dito, invece della luna?*
                                           di Giampiero di Plinio
                         Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico
                        Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara

Sommario: 1. Illusioni. 2. Moderno Principe, Parte Totale. 3. Egemonia in mille pezzi. 4. Alla ricerca della Luna.

1. Illusioni.
In un elzeviro di Emanuele Severino apparso sul Corriere della Sera del 20 settembre 1998, dal titolo
L'illusoria sicurezza dei nostri politici, c’è in particolare un passo che, quando lo lessi la prima volta, mi colpì
molto, perché mi irritava non averne potuto seguire le suggestioni e sviluppato le implicazioni in un libro
che avevo pubblicato all’inizio di quell’anno1.
Rileggendolo oggi mi rendo conto di quanto siano attuali e infinite quelle implicazioni: «Ora, i politici
tendono oggi a identificare la loro attività con la democrazia. Tendono cioè - ecco il loro abbaglio - a
confondere il rapporto tra la loro attività e gli scopi che essa si prefigge, col rapporto tra la democrazia e
i contrastanti scopi politici che intendono servirsi di essa come mezzo (e che sono invece essi a diventare
dei mezzi logorabili). La democrazia sta diventando lo scopo dei valori politici; ma i politici si illudono
che sia la loro attività , che ha come scopo quei valori, a dover diventare lo scopo della vita sociale. Un
sogno. E i mass media lo prendono sul serio»2.
All’ombra di queste riflessioni dense come il nucleo del sole, la domanda da un milione di dollari non è
soltanto se i tempi siano ormai maturi perché la democrazia interna dei partiti possa essere imposta per
legge3. Sebbene, come proverò a dire, si tratti di una questione praticamente innocua, anche se non
inutile, quella domanda guarda il dito mentre l’intuizione di Severino spinge a chiedere la luna, nella misura
in cui lacera il velo sul rapporto tra partiti, democrazia e potere, mettendo al microscopio la realtà di
partiti avvolti «nell’illusione che sia la loro attività … a dover diventare lo scopo della vita sociale».

* Paper non sottoposto a referaggio.
1 Si tratta di Diritto pubblico dell’economia, Giuffrè, 1998, in cui tentavo di approfondire tra l’altro le relazioni tra partiti e
governo dell’economia nella dialettica storico evolutiva della costituzione economica interventista. La chiarezza lapidaria
dell’elzeviro di Severino mi avrebbe fatto dannatamente comodo, un anno prima.
2 L’articolo è stato ripubblicato da poco nell’antologia Il dito e la luna, uscito a gennaio 2021 ne I saggi del Corriere della Sera,

che mi ha fatto così un doppio regalo, non solo la memoria , ma pure il titolo di questo scritto.
3 Se lo chiede, tra gli altri, in un compatto e denso intervento, S. Ceccanti, Non è il tempo per la democrazia nei partiti, in Il

Riformista, 8 luglio 2020 (disponibile in https://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2020/07/non-%C3%A8-il-tempo-
per-la-democrazia-nei-partiti-ceccanti-ilriformista.pdf).

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Alzando il tiro, essa mette a nudo l’illusione che democratizzando i partiti si possa oggi democratizzare il
potere.
Alla luce di questa luna, appare arduo, se non impossibile, dare una risposta sensata alla domanda di se,
come e perché introdurre ‘dentro’ l’organizzazione dei partiti il ‘metodo democratico’, che la Costituzione
richiede soltanto per la loro ‘azione’, senza mettere prima le mani sulle chiavi di nucleo non solo di ogni
prospettiva di riforma dei partiti4, ma della configurazione stessa del concetto di partito nella evoluzione
costituzionale.
Tali difficoltà non derivano da carenza di letteratura, di cui abbiamo disponibile una sovraproduzione, né
da ragioni pratiche, perché di strumenti utilizzabili pure ne avremmo, e nemmeno dalla storica ostilità dei
partiti stessi all’introduzione ‘per legge’ di questi strumenti. Il fatto è che pure tale ostilità non è una causa,
ma un effetto delle stesse condizioni che rendono, oggi, complicata quella risposta.
A questo punto, allora, invece di discettare direttamente sul se e sul come inseguire il mito della
democrazia interna, cercherò di indagare intorno a quelle condizioni, che attengono alla reale dislocazione
del potere nell’era attuale, perché democratizzare i partiti non implica nemmeno per un bit che si stiano
davvero introducendo i metodi e i congegni della democrazia politica dentro le stanze reali in cui il potere
si è dislocato nel corso del tempo e nelle pieghe del mutamento costituzionale.

2. Moderno Principe, Parte Totale.
In primo luogo, il partito politico e le sue proprietà storiche. Probabilmente sia Gramsci che Mussolini
avevano “Il Principe” del Machiavelli sempre a portata di mano, facendone ovviamente un uso differente.
Così è avvenuto per tante altre costruzioni scientifiche5. Del resto, la proprietà fondamentale di ogni
teoria ‘vera’, cioè scientificamente fondata, oggettiva, falsificabile e dunque sincera è quello di prescindere
dalle intenzioni di chi la usa, e perfino da quelle di chi la formula. Questa è la ragione per cui “Il Principe”
resiste ancora, nei suoi lineamenti essenziali, dopo cinquecento anni, mentre il teorema gramsciano del
partito come “moderno principe” è andato in pezzi, dopo un batter di ciglia della storia, negli ultimi anni
del secondo millennio.
Infatti, per Gramsci il Principe non è solo la nascita della scienza politica come autonoma e separata da
etica, morale o religione, ma è anche e soprattutto un manuale di praxis rivoluzionaria funzionalizzabile
alle esigenze di specifici interessi (quelli del proletariato operaio) in un preciso momento storico. Gramsci

4 Per una intelligente e condivisibile sintesi delle possibilità e dei presupposti v. G. Amato (e F. Clementi), Nota su una
legge sui partiti in attuazione dell’art. 49 della Costituzione, in Rass. Parl., n. 4/2012, 777 ss.
5 Un esempio vistoso è il materialismo storico/dialettico, metodo formidabile utilizzabile da chiunque, perfino, forse

soprattutto, dai ‘borghesi’. Mi sia consentito il rimando a Il “finto” effetto Marx. Resistibile ascesa, deriva keynesiana e irresistibile
declino del marxismo giuridico italiano, in Federalismi.it, n. 22/2018.

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nel libro del Principe vede, più che la pietra di fondazione della scienza della politica, una piattaforma politica
con cui Machiavelli si rivolgeva alla «classe rivoluzionaria del tempo, il "popolo", la "nazione italiana", la
democrazia cittadina che esprime dal suo seno i Savonarola e i Pier Soderini...»6. In questa logica,
attraverso modelli come ‘filosofia della praxis’, ‘egemonia’, ‘blocco sociale” la presunta funzione
rivoluzionaria del Principe di Machiavelli viene reincarnata nel “moderno Principe”, nuovo soggetto
politico collettivo capace di cavalcare la praxis e conquistare il potere. Il partito politico, appunto, al quale
occorre costruire l’arma adatta, non solo una nuova teoria politica che generi una fusione tra la “volontà
collettiva” della classe e i ritmi dei cambiamenti e delle riforme nella società e nello stato necessari alla
sua rivoluzione, ma uno strumento di potere di ultima istanza, un mezzo, capace di incidere sulla prassi.
Quell’arma è appunto l’egemonia. Non solo intesa come il ‘comando’ tra gli Stati disegnato da Triepel7, né
l’imperialismo al terzo stadio di Schmitt, ma è egemonia “dentro” lo Stato. Come scrive Francesco
Bilancia8, la riflessione di Triepel sull’egemonia «riceverà … una declinazione proiettata nella struttura
interna dell’organizzazione statale ad opera di Antonio Gramsci, … con esplicito riferimento alla
posizione e al ruolo dei partiti nel sistema politico. E’, infatti, il partito politico a consentire l’ingresso
nella dimensione statale della politica delle grandi masse; masse che, guidate attraverso il “consenso”
divengono fondamento e sostegno del potere politico, dell’egemonia nelle relazioni istituzionali e nella
dimensione politica interna».
L’intuizione di Gramsci, che una nuova teoria della politica poteva effettivamente essere scritta nella
misura in cui si erano venute costituendo volontà collettive capaci di manifestarsi e operare dentro la
dinamica generale della lotta di classe, costituisce dunque il dorso del partito del Novecento, cioè il partito
come Parte Totale, in cui l’interesse “di parte” è legato indefettibilmente a una propria concezione
globalizzante, “costituzionale”, dello Stato9. E se gli anni Trenta costituirono un po’ dappertutto il
laboratorio di analisi di questo nuovo soggetto della storia, il ciclo costituzionale del secondo dopoguerra
ne fu la realizzazione operativa10.

6 Quaderno XIII, 20. La citazione è tratta, insieme ad altre importanti considerazioni sviluppate nel testo, da A Tortorella.
Partito come moderno principe, in https://www.enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-
moderno-principe.
7 Hegemonie. Ein Buch von führenden Staaten, Verlag von W. Kohlhammer, Stuttgart; tr. it. L'egemonia, Sansoni, Firenze 1949.
8 Nel saggio La Costituzione dello Stato e i partiti politici: l’attualità del noto saggio di Heinrich Triepel, in Costituzionalismo.it, 1/2015.

I passi dei Quaderni del carcere (nell’edizione a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975) richiamati da Bilancia sono
i seguenti: I, Quaderni 1-5, (1929-1932), 56 ss.; II, 6-11, (1930-1933), 1056; III, 12-29, (1932-1935), 1603 s., 1754 s.,
1809.
9 Sviluppi in M. Gregorio, Parte Totale. Una ricostruzione del partito politico in Italia tra l’Otto e il Novecento, Giuffrè, Milano

2013.
10 Come testimonia la splendida ricostruzione di Francesco Bonini, La democrazia dei (e nei) partiti: l’approccio dei costituenti,

in corso di pubblicazione su DPCE online.

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I partiti, dunque, autogeneratisi come portatori di dottrine costituzionali in quanto ‘parti’ e ‘totali’ insieme,
non solo le scrivono, le Costituzioni, ma, variamente, si auto-costituzionalizzano, senza tuttavia
convertire sé stessi in organi costituzionali. Senza, soprattutto, attribuire a sé medesimi alcuna funzione
costituzionale. Come e anche perché ciò sia avvenuto non sono affatto un mistero11, ma forse il “segreto
efficiente” sta soprattutto in una chiave di lettura tanto semplice da rasentare il semplicismo: perché
assumermi qualche funzione costituzionale o pubblica in genere, quando posso condizionarle, dall’esterno,
tutte? Cariche, nomine, governi, gruppi, e poi uno sbalorditivo sistema di centinaia di migliaia di enti,
agenzie, partecipazioni statali, e poi Casse di risparmio e Fondazioni, Università, strutture di ricerca, reti
ospedaliere, acquedotti, servizi pubblici, istituti previdenziali, e poi sindaci, Province, Regioni e tutti i
mille altri luoghi del potere.
Una rete infinita in cui la “Parte Totale” non può fisicamente stare direttamente dentro, ma che può
agevolmente controllare dall’esterno, creando un grosso e complesso meccanismo di osmosi e di simbiosi
tra partiti, società civile, sistema economico e pubblici poteri. Davanti agli occhi di quei tempi, e per
decenni, si era materializzato un sistema estremamente più efficiente, ed estremamente più legittimato,
della personificazione statuale del partito, che segna anche la data di avvio della crisi dei totalitarismi.
Egemonia, what else?
E come può volere, una macchina del genere, incorporarsi nella Costituzione o comunque ingessarsi dentro
una regolazione giuridica dei suoi meccanismi interni, dei suoi movimenti, dei suoi affari?12
Ovvio, di conseguenza, che le forze politiche alla Costituente, o meglio alle Costituenti13, al di là delle
discussioni e dei balletti sui vincoli alla forma organizzativa, si siano auto-scritte in Costituzione, ma
lasciandosi le mani pienamente libere, all’interno di richiami variamente colorati al metodo democratico
nell’azione politica che, malgrado gli ingenui sforzi in alcune dottrine, non sono, almeno fino ai ‘90,
riusciti a conformare i modelli decisionali non solo interni alla struttura-partito, ma a fortiori nemmeno del
partito come signore della sua rete, del partito come, appunto, Parte Totale.
In altre parole, la necessità biologica di afferrare e mantenere l’egemonia implica non solo e non tanto
“come” una decisione sia presa dentro il partito, quanto “quale” decisione sia presa, e come questa arrivi a
condizionare, o almeno a tentare di farlo, i punti terminali della rete interessati, siano essi un ministro, un
emendamento opaco a una finanziaria, un manager pubblico, un sindaco, una giunta regionale, ma anche

11 Lo spiegano in gran parte Bonini, op. ult. cit., e S. Curreri, La democrazia nei partiti politici: nuovi spunti per un tema vecchio, in
corso di pubblicazione su DPCE online.
12 Ma probabilmente è la stessa Costituzione costruita in modo da escludere l’incorporazione: «Se, dunque, stiamo al

diritto positivo e vediamo il contenuto delle nostre norme costituzionali, a me sembra ch’esso impedisca la riconduzione
dei partiti all’interno della vera e propria organizzazione costituzionale» (M. Luciani, Partiti e forma di governo, in Nomos,
3/2018, p. 6).
13 Vedi la citazione di A.C. Jemolo in Bonini, La democrazia dei (e nei) partiti, cit., nt. 1.

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le stesse istituzioni che qualcuno chiama controforze14, da un singolo magistrato alla Corte costituzionale,
dai media al CSM, dal Governatore della Banca Centrale fino allo stesso Capo dello Stato.
La storia della Repubblica, qua da noi, diventava così una storia di balene bianche, pentapartiti, e
convenzioni per escludere, ma in ogni caso, per un buon trentennio, una storia di egemonia dei partiti.
Chiamiamola, se volete, partitocrazia. Ma è, semplicemente, la forma evoluta dell’attributo fondamentale
del Principe di Machiavelli, di Triepel e di Gramsci, in un ambiente nuovo generato dal mix tra
complessità crescente della società e controllo del potere nelle istituzioni, mix che diventa, per dirla con
una efficace immagine15, «teatro di esercizio dell’egemonia»16.
In questo contesto, il problema della modellizzazione ex lege della forma interna dei processi decisionali
del partito assume una luce particolare perché «tutte le forze politiche, seppure in misura diversa, temono
… che una legge sulla democrazia nei partiti possa favorire l’attivismo di organi giudiziari (specie di
pubblici ministeri) o autorità indipendenti, chiamati in tal modo chiamate a pronunciarsi sulle loro
dinamiche interne»17, e, mi permetterei di aggiungere, attivare un controllo, attraverso la disciplina di
queste ultime, sulle decisioni relative a ogni punto terminale della rete partito-società-istituzioni. Un controllo di
questo tipo è la fine dell’egemonia del partito. Il suo trasferimento nelle mani di altre posizioni di potere,
di diritto o di fatto, è la frammentazione del nucleo politico dello Stato costituzionale.
Questo spiega l’accuratezza con cui le forze politiche identificabili nella Parteiendemokratie hanno fin dai
primi vagiti accuratamente evitato di far ‘incorporare’ la sostanza della loro area di egemonia nelle
Costituzioni, probabilmente anche quando sono arrivate a imporsi regole mirate per circondare di paletti
robusti l’inquilino della porta accanto18, ma, pure accettando varie innocue regolazioni di aspetti della
input legitimacy, hanno comunque altrettanto accuratamente respinto ogni penetrazione normativa
sull’output19, cioè sulla propria rete egemonica e sui propri strumenti di manipolazione e controllo della
stessa, per i quali hanno avuto fra le mani, senza bisogno di conferma legislativa, piena legittimazione
materiale per tutto il tempo in cui sono stati Parte Totale, signori dell’egemonia.

14 F. Bonini, La democrazia dei (e nei) partiti, cit.
15 F. Bilancia, op. cit.
16 Il paragone con il modello ungherese attuale (disegnato efficacemente da S. Gianello, Il sistema-partito come specchio della

concezione democratica di Fidesz, in corso di pubblicazione su DPCE online), arriva automaticamente alla penna. L’egemonia di
DC e Pentapartito, in Italia, ha caratteristiche di ‘Parte totale’ sostanzialmente simili all’egemonia di Fidesz, con la
differenza che, al tempo attuale, Fidesz sta resistendo, finora con successo, pare, all’assorbimento del potere sui punti
di rete istituzioni-società da parte di altre sedi. Cosa che il sistema italiano dei partiti non ha saputo, o potuto, fare.
17 S. Curreri, Nuovi spunti, cit.
18 Vedi U. Haider-Quercia, I profili costituzionali della democrazia interna ai partiti in Austria ed in Germania, in corso di

pubblicazione su DPCE online, la quale conclude: «sia nel caso della Germania sia in quello dell’Austria, spetta ai partiti e ai
loro iscritti esaurire il quadro giuridico e riempire di vita il concetto di democrazia infrapartitica».
19 Ciò spiega anche perché da sempre «continua a restare sullo sfondo quel vasto campo di indagine che invece riguarda

l’output legitimacy» (si veda al riguardo P. Logroscino, M. Salerno, Metodo democratico e qualità della classe politica, in Corso di
pubblicazione su DPCE online.

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3. Egemonia in mille pezzi
Intorno al passaggio di secolo e di millennio si verifica un paradosso cubista: l’effetto di perdita
dell’egemonia, temuto e sempre fino allora immaginato conseguente alla “giuridificazione” dei partiti, più
o meno demo-strutturale o nell’output, si verifica comunque, anche senza leggi ad hoc. Si autogenera da
sé, con vario grado e per svariate vie, ma inesorabilmente, in tutti gli stati: un pezzo alla volta ai partiti
iniziano a sfuggire di mano i fili di controllo sulla polpa del potere, quella rete egemonica tra società,
economia e istituzioni.
Corre qui l’obbligo di chiarire che la perdita dell’egemonia non è avvenuta “a causa” della degenerazione
dell’azione politica in corruzione e frode, come pensava semplicemente  ma è ovvio che allora non
poteva nemmeno immaginare quello che sarebbe avvenuto nei successivi cinquant’anni  Gramsci20. È
al contrario la degenerazione o meglio la certificazione ufficiale in mille sentenze, da Mani Pulite in poi,
di degenerazione, corruzione e frode, che avviene a causa della perdita di egemonia. Senza forza, niente
legittimità, per parafrasare a rovescio una suggestiva espressione21.
La crisi dei partiti ha in realtà le sue radici più profonde nella crisi fiscale dello stato sociale interventista, e nella
corrispondente, progressiva emarginazione dei partiti stessi dall’area del potere di bilancio (di deficit,
debito e spesa) che aveva costituito per lungo tempo l’hard core del modello spartitorio che caratterizzava
il principale strumento di controllo della loro rete egemonica, con le ulteriori, conseguenti e inevitabili,
crisi di razionalità e di legittimazione della politica in quanto tale22.
Anche se da qualche tempo si avvertivano sintomi di velate diaspore23, il presagio più forte della
frantumazione dell’egemonia fiscale dei partiti fu il mutamento dell’ordine economico europeo e globale,
che assumeva da noi di volta in volta le fattezze del divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, poi del galoppo
fino a Maastricht, poi Tangentopoli, poi moneta unica e vincoli di bilancio, con il diritto materiale europeo

20 F. Bilancia, op. loc. cit.: «La crisi dell’ ”apparato egemonico” materiale determinando la crisi del principio di autorità
(istituzionale), quindi la crisi del sistema politico e costituzionale, con la dissoluzione del regime parlamentare. Il crollo
di un sistema egemonico riduce in crisi il sistema istituzionale di riferimento, nel nostro caso concorrendo alla distruzione
del parlamentarismo. Sembrano pagine scritte oggi. La crisi interna permanente degli stessi partiti politici, che si fa crisi
“morale”. Che, peggio, concorre alla dissoluzione della “morale comune” e che conduce ad una crisi delle istituzioni
statali, ad una crisi dello Stato e del suo apparato egemonico. Quindi ad una perdita di effettività e, poi, di fondamento
del proprio apparato giuridico ed istituzionale, del proprio diritto formale, e ad una conseguente trasformazione
profonda della dinamica politica».
21 P. Ignazi, Forza senza legittimità: Il vicolo cieco dei partiti, il Mulino, Bologna 2012.
22 Devo necessariamente rinviare a miei lavori precedenti, tra cui segnalo qui il saggio Costituzione economica e vincoli

quantitativi. Per un costituzionalismo non keynesiano, in Federalismi, n. spec. 5/2019.
23 Verso burocrazie pubbliche, sistema per enti. Verso le Corti, in particolare, dentro le quali si stava sviluppando la

gestazione di un peculiare stile italiano della giurisdizionalizzazione del potere. P. Pederzoli & C. Guarnieri, The Judicialization
of Politics, Italian Style, in J. of Modern Italian Studies, 2/1997, 321 ss. Ma v. anche A. Barbera, Costituzione della Repubblica
italiana, in Enc. dir., Annali VIII, Milano 2015, in particolare 339 ss. Una analisi degli effetti sulla costituzione economica
nel mio Giustizia costituzionale e costituzione finanziaria, in L. Mezzetti e E. Ferioli (cur.), Giustizia e Costituzione agli albori del
XXI secolo, Bonomo, Bologna, 2018, 367 ss.

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che intanto dilagava, chiudendo ai partiti e trasferendo in altre sedi, progressivamente, miriadi di spazi di
potere discrezionale e di manovra politica24.
Con o senza legge di regolazione interna, e persino laddove la democrazia strutturale si è
costituzionalizzata25, l’effetto di contrazione del potere dei partiti si è verificato lo stesso, cosicché oggi la
discussione sulla democrazia nei partiti per legge assume un tono differente. Non c’è più il rischio o, a
seconda dei punti di vista, la necessità o l’opportunità di smantellare, controllare, ridurre, l’egemonia dei
“moderni principi”, semplicemente perché i partiti non sono più principi, perché la polpa, cioè la stessa
egemonia, è trasmigrata in gran parte in altre molteplici sedi, non sempre chiaramente visibili. Certamente
è sostenibile (entro i confini teorici che ho enunciato sopra) che il modellino novecentesco della
«istituzionalità cosiddetta esterna» resta in piedi26, confermato anche a livello dell’Unione Europea27, ma
del partito-principe e delle sue reti resta solo un fragile simulacro28.

24  Forse vale la pena di ricordare che nell’era dell’egemonia i modelli di controllo partitico sulla spesa pubblica erano
molto, davvero molto efficaci (mi sia consentito riportare qualche passo di un mio lavoro): «Di fronte a una crisi
industriale, mettiamo, in val di Sangro, la soluzione, per il grande ‘Zio’ dell’Abruzzo (e mi scuso del tono ‘leggero’ che
vuol essere tutt’altro che irriguardoso nei confronti di una classe politica di altri tempi, ma comunque con la C e la P
maiuscole) era semplice. In elicottero o in auto, lui piombava a Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia, prendeva di
petto il Governatore e gli chiedeva di stampare i due, tremila miliardi necessari per tamponare la crisi, mediante
l’oliatissima macchina del conto corrente di tesoreria e della creazione di debito pubblico. Era dappertutto così, non
solo in Abruzzo. La GEPI e la Cassa per il Mezzogiorno, con un’altra miriade di enti, organi, uffici, tutti generosi centri
di costo, facevano il resto del lavoro … La legge elettorale proporzionale, la duplicazione a specchio di Camera e Senato,
i governi di coalizione e quelli di compromesso, storico o meno, il dosaggio da ‘Manuale Cencelli’ di forze politiche e
correnti dentro Cipe, comitati di settore, enti pubblici economici, banche pubbliche, erano tutti ingredienti perfettamente
compatibili, anzi in un certo senso conseguenziali, di una costituzione economica puramente keynesiana, materna,
amorevole, assistenziale, e di una costituzione finanziaria in cui un capitolo di bilancio, alla fine, non si negava a nessuno.
Erano i tempi in cui la politica non aveva bisogno di scegliere tra un uso o un altro del denaro pubblico, perché il pozzo
del denaro pubblico era, appunto, inesauribile. O almeno così appariva. Il brusco risveglio da questo meraviglioso sogno,
negli anni novanta della di Tangentopoli e della globalizzazione e negli anni duemila dei bilanci scritti da Bruxelles, nei
nuovi tempi della installazione di una novella, dolorosa, costituzione economica non più interventista né assistenziale, ha buttato
il paese, le sue forze politiche, le sue istituzioni, i suoi meccanismi costituzionali scritti per un altro tempo dal Costituente,
in mezzo a un inferno personale tipicamente italiano» (Costituzione economica, costituzionalismo multilivello e ‘leale conflittualità’
nel nuovo Senato (delle autonomie, in Diritti regionali, III/2016).
25 Alludo ad esempio al Portogallo, su cui l’ampio sviluppo critico di F. Masci, R. Orrù, La democrazia nei partiti de iure

condito: il caso portoghese, in Corso di pubblicazione su DPCE online, che in un plastico passaggio fotografano ciò che neppure
una regolazione costituzionale può risolvere: «La democrazia interna ai partiti politici, così come disciplinata in books, è
stata anche garantita in action? Detto altrimenti: è stato ricomposto l’ontologico cleavage tra enunciazione di un principio
e inveramento dello stesso? La dimensione teorico/astratta dell’eccedenza assiologica ha ceduto il passo a quella
pratico/concreta dell’esperienza? In sintesi: la formale costituzionalizzazione della democrazia interna ai partiti politici
si è risolta in una sostanziale tutela avverso la (ri)affermazione di forze militari, partiti unici e leadership personaliste?».
26 Bonini, op. cit., che sottolinea come esso sia confermato «dal dettato dell’articolo 10 paragrafo 4 del testo consolidato

attualmente vigente del TUE, che riprende e conclude (completato dall’articolo 224 del TFUE) un percorso
costituzionale che attraversa tutte le stagioni successive del costituzionalismo democratico europeo. Iniziato appunto
con la decisione costituente italiana».
27 Sulla relativa problematica v. l’accurata ricerca di C. Ranalli, I partiti politici a livello europeo: verso una complessa

genesi dell’organizzazione interna democratica, in corso di pubblicazione su DPCE online.
28 Come scrive Salvatore Curreri «Un tempo, vi erano partiti di massa (c.d. pesanti), fortemente ideologizzati, rigidamente

organizzati e radicati nel territorio, corrispondenti a blocchi sociali stratificati e dai contorni ben definiti che garantivano
loro uno “zoccolo duro” elettorale. La struttura politica, articolata in “correnti” e organizzazioni collaterali, garantiva

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Ma allora che resta da disciplinare nello spazio interno dei partiti? Solo cose leggiadre come trasparenza,
pluralismo, inclusione29? O anche delicate come tutte le problematiche che derivano dall’impatto delle
nuove tecnologie e dei nuovi diritti30?
È dunque solo per cose come queste  certamente importanti, ma confinate in un terreno differente 
che oggi si torna a invocare la disciplina di struttura e democrazia interna dei partiti per legge,
dimenticando che se esiste qualcosa da limitare e democratizzare, quello è il potere egemonico, che i
partiti non hanno più tra le mani? A sommesso avviso di chi scrive, sarebbe, al contrario, utile e logico
andare oltre i partiti, alla ricerca delle sedi verso cui l’egemonia è fuggita, per disciplinare quelle,
riconducendole nell’alveo della catena sovranità popolare / principio democratico / centralità del
Parlamento.

4. Alla ricerca della Luna
Ma a questo punto, la domanda vera non è tanto se i tempi siano maturi per la disciplina per legge dei
partiti, ma se questa serva davvero a qualcosa, se è vero che la funzione ‘giuridica’ dei partiti politici si
risolve essenzialmente nell’organizzazione della lista e nella sua presentazione, mentre la sua funzione
politica è stata erosa dall’assorbimento delle frazioni di egemonia da parte di altri soggetti.
Senza essere eccessivamente riduzionisti, è ovvio che ci sono aspetti degni di essere presi in
considerazione in riforme legislative (ma anche in self-regulations), primo fra il desiderabile risultato di
rendere trasparenti ed efficienti i meccanismi di selezione della leadership e delle posizioni nelle liste

una dialettica e un controllo reciproco al loro interno. Oggi, invece, vi sono partiti di opinione (c.d. piglia-tutto o catch-
all), di elettori più che d’iscritti, post-ideologici e più pragmatici (ma non per questo privi di ideali e valori), socialmente
più eterogenei e interclassisti, con un apparato organizzativo e burocratico più leggero ma guidati da leadership molto
forti e talora carismatiche (modello presidenziale), a loro volta fondate più sulla capacità comunicativa mediatica che su
quella di sintetizzare le aspettative ed i sentimenti dell’elettorato, in sintonia con le esigenze di mass media e social
network che impongono alla politica una comunicazione sempre più semplificata e una competizione sempre più
personalizzata (c.d. partiti digitali). Talora l’identificazione del partito con il capo e fondatore è tale da determinare la
creazione di partiti non personalizzati ma personali – e talora padronali –, vere e proprie “macchine elettorali” al servizio
del leader che nascono per sua iniziativa e muoiono al tramonto della sua parabola politica. Infine, vi sono i c.d. partiti
parlamentari, nati da gruppi politici costituiti da deputati e (ancora oggi) da senatori, privi d’identità politico-elettorale
perché espressione di eletti ancor prima che di elettori» . Dove non sono in sintonia con Curreri è quando prosegue:
«Modelli di partito diversi ma accomunati dall’avere mantenuto il loro potere nel sistema di governo. Si rischia così di
avere partiti presenti nelle istituzioni e in grado d’influenzarne i processi decisionali ma dalla ridotta capacità
rappresentativa: in sintesi, una partitocrazia senza partiti». Questo è il punto. La partitocrazia, semplicemente, non esiste
più. I partiti restano, e sono legittimi, ma hanno perso il potere di fatto, il potere materiale. Altro che “forza senza
legittimazione”. Si tratta di “legittimazione senza forza”.
29 V. la suggestiva ricostruzione di A.M. Poggi, La democrazia nei partiti, in Rivista AIC n. 4/2015.
30 Si veda ampiamente G. Bellomo, Metodo democratico, partiti politici, nuove tecnologie e basi giuridiche per il

trattamento dei dati personali: alcuni spunti di riflessione, in Corso di pubblicazione su DPCE online.

9                                                      federalismi.it - paper                                  3 maggio 2021
elettorali31, ovviamente a qualsiasi livello di proiezione rappresentativa, dal più piccolo Comune alla
dimensione europea.
Ma non si deve perdere la consapevolezza che qualsiasi nuova regolazione procedurale o strutturale dei
partiti non smuoverà di un millimetro le condizioni attuali del controllo egemonico sul diritto e sul
bilancio, da tempo fuori dell’area dei partiti stessi, e in buona misura anche fuori del dominio
costituzionale dello stesso Parlamento, non solo perché annichilito da parametri quantitativi imposti dal
multilivello, ma anche e soprattutto perché è il controllo del potere è scivolato dentro gli spazi di
egemonia, formalizzati o di fatto, conquistati nel tempo da altri, non sempre “democratici”, soggetti.
E dunque non resta che scattare un’istantanea del ‘che fare’: se la democrazia dei partiti è divenuta un
debole problema, è su quegli altri spazi, sugli altri poteri verso cui i frammenti di egemonia sono scivolati,
che è necessario indagare, ricostruire e agire con riforme  non solo e non tanto dei partiti ma  di quegli spazi e di
quei poteri, per riportare nella sfera di centralità del Parlamento (dove, altrimenti?) potere e responsabilità,
egemonia e democrazia, sovranità e decisione, e si tratta di un compito ineludibile per il costituzionalismo
liberal democratico, specie oggi che si ritrova costretto a navigare nel mare dell’era Day After Cutting32.

31 Preferibilmente, mi pare, lavorando sul modello britannico. Ma sul punto si deve rinviare alla pregevole disamina di
P. Logroscino e M. Salerno, Metodo democratico e qualità della classe politica, cit., in part. §§ 3 e 4.
32 Cfr. Interventi al Seminario a porte chiuse sulle prospettive post referendum (12 ottobre 2020), in Federalismi.it, n. 29/2020, tra

cui il mio Dopo il referendum: le riforme e i loro presupposti, ove ulteriori riferimenti.

10                                                       federalismi.it - paper                                     3 maggio 2021
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