Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...
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Questo quaderno di ricordi nasce dall’incontro online che è stato promosso da Sabrina Cela e Nicoletta Pennella con la creazione di una chat nata in periodo di quarantena Covid - il 31 marzo 2020 - e denominata “Formichine al lavoro”. L’incontro è stato un grande atto di obbedienza. Obbedire significa in primo luogo ascoltare e in quell’incontro noi, prima di tutto, abbiamo ascoltato e ci siamo ascoltate. Questo sunto di vita viene per me dopo due mesi di spinte e resistenze. La pandemia e la quarantena hanno provocato un emergere ed un fondersi delle nostre parti belle e di quelle ombrose e negative. La natura ci ha ricordato che siamo un ramo marginale in un processo al quale non interessa il nostro destino, rispetto al quale siamo anzi un peso sempre più opprimente e distruttivo. Saremo più belli, più buoni, più bravi, dopo questa prova che ha visto ancora una volta il confronto atroce fra le solidarietà e gli egoismi? Se saremo migliori dipenderà soltanto da quello che sapremo fare e non da quello che crediamo di aver fatto. Questa che propongo è una testimonianza di vita che arriva alimentata anche dal percorso che ho fatto in questi undici anni nel metodo alla salute, portato avanti dal dottor Mariano Loiacono e che ha portato alla Fondazione Nuova Specie di Troia, in provincia di Foggia. Volevo raccontare almeno un po’ di quello che tanti non conoscono di me e che ho cercato di rappresentare nel faro che illustra queste pagine. Lo faccio con un misto di leggerezza, di emozione e di sottile paura provando a snocciolare questa sorta di mia favola esistenziale e rendendomi conto di quanto sia difficile parlare di noi stessi, tanta è l’indeterminazione che nasce dall’intreccio della storia con i sentimenti. Raccontarmi - e continuerò a farlo perché la storia non finisce qui - per certi versi mi ha risollevato, mi ha dato fiducia, a conferma di quanto sia terapeutico anche il valore della narrazione personale. Ho provato a descrivere il senso di questo viaggio che non finisce mai e che può essere ripercorso sempre con occhi nuovi. Senza paura, con il timore di non riuscire a fare quello che l’ottimismo ci spinge a compiere. Provando a naufragare nell’infinito (Indico). Ringrazio Mariano, Sabrina, Francesco, Maurizio e tutto il Circostormo. Lucia Marinelli Jesi, 23 maggio 2020 5
Il 10 giugno, a Modena Sono nata il 10 giugno del 1960, sono prossima al mio sessantesimo compleanno. Figlia di Giorgio (figlio unico) e di Vea (aveva tre fratelli, Aureo, Anna e Sandrino e portava il medesimo nome di una sorella nata in precedenza e morta a nove mesi in un incidente domestico). Sono nata a Modena dove mio padre si era trasferito per lavoro, nata in viaggio, in uno dei viaggi fisici e interiori dei miei genitori. Un viaggio che ritorna e si ripete, quasi un filo conduttore della mia vita. Sono la terza di quattro figli, Roberto, il più grande, ha 65 anni ed è titolare di una azienda attiva nel settore della termotecnica, Sergio è architetto, di anni ne ha 63, io, come ho già detto, sono la terza, la quarta è Silvia che ha sei anni meno di me e lavora nell’aministrazione del monopolio. Siamo tutti nati in viaggio, Sergio come me a Modena, Roberto a Lucca, Silvia a Venezia, quasi figli di un involontario pellegrinaggio che ci ha portato a percorrere tutta la penisola. Fino ad oggi ho fatto dodici traslochi. Mio padre era direttore di manifattura tabacchi, veniva mandato a dirigere uno di questi impianti industriali dove una volta si producevano sigari, sigarette e anche tabacco da fiuto, ma sapeva sempre che il trasferimento non sarebbe stato definitivo. Era prassi corrente del ministero che, dopo qualche anno, i dirigenti venissero spostati ad un altro impianto di produzione, cambi dettati anche dalla necessità di evitare permanenze troppo lunghe nello stesso luogo. Ho vissuto in un ambiente protetto dalla cultura del 7
tempo, quella del dopoguerra, quella degli anni del boom economico che stava per arrivare al suo culmine, i gloriosi anni Sessanta, l’ottimistica premessa e l’anticamera di tutto quello che sarebbe successo dopo. Erano principi di vita abbastanza rigidi che, fra l’altro, imponevano di frequentare solo persone di pari stato sociale, la permeabilità verticale della società era ancora per molti versi limitata. Mio padre, peraltro uomo di mentalità aperta, di estrazione urbana (era un bolognese), di formazione tecnico-scientifica (era un ingegnere meccanico) era molto ligio a queste regole. Mia madre, casalinga, soffriva queste limitazioni. Io l’ho conosciuta perennemente afflitta da quello che, con una definizione a quel tempo abbastanza diffusa, si chiamava esaurimento nervoso. Quando nacqui a Modena - così mi raccontava mio padre - si presentò in ospedale a mia madre una suora dicendo che una coppia facoltosa era in cerca di una bambina da acquistare e da adot- tare. Mia madre rispose che avrebbe dovuto chiederlo anche a mio padre. Quando la suora lo fece mio padre le rispose di “impiccarsi con le proprie budella”. Non sapevo allora come definire mia madre, oggi, alla luce del mio percorso, parlerei di disagio, a volte prendeva farmaci e andava a consulto da psicologi e neurologi. Era dunque, la mia, una famiglia, al pari di tante altre, con chiusure mentali determinate dalle influenze culturali dell’epoca seppure già allora in rapida e profonda trasformazione. Paradossalmente, anche quelle reli- giose. Mio padre era sostanzialmente ateo ma questo non gli ha impedito di sposarsi in chiesa e di accompagnare ogni tanto 9
mia madre a messa. Una persona estranea alla religione come pratica e come credenza, ma non per questo meno rispettoso nei confronti del modo di pensare degli altri. Ripensandoci adesso mi sento di dire che se, da un lato, mio padre non mi ha compreso, dall’altro il suo agnosticismo, la sua formazione da ingegnere e la sua sensibilità di pittore ci hanno aiutato. Dirigeva fabbriche che davano da mangiare a sette-ottocento persone e cercava di esprimere le sue emozioni attraverso le tele - non so quanti quadri abbia fatto - con i colori ad olio e l’acquerello. Era colto e curioso e amante della musica clas- sica che ascoltava, anche per poco, ogni giorno L’elemento di contatto interiore con mia madre era invece la musica. Lei era una soprano che da giovane non aveva potuto realizzare il suo sogno di darsi al canto, una attività poi ripresa in età matura. Per quanto riguarda me, una cosa che mi ha fatto soffrire dall’età di cinque sei anni è stata la balbuzie. Vive- vamo, a quel tempo, a Venezia in una abitazione incastonata in una calle, in un antico palazzo di dogi, di proprietà del monopolio di stato e assegnato al direttore della manifat- tura tabacchi. Stanze grandi, alte, una dentro l’altra, carta alle pareti, tendaggi, un ambiente anche un po’ spettrale.Un palazzo anfibio, come, per storia e cultura, è anfibio tutto quel territorio, con l’acqua davanti casa. 11
Lucia, a Venezia, chiesa dei Tolentini, prima comunione... 12
... e cresima con mio fratello Sergio. Dietro di noi, zia Elide, sorella di mia nonna, e mio fratello Roberto. Notare il broncio, non volevo il velo 13
Venezia, comunione e cresima, sono con nonna Pasqualina, la mamma di mia madre
A Venezia, con mia sorella Silvia Prima elementare con mio fratello Sergio 15
Foto mitica, da sinistra, le cugine Angelica, Rossana e Isabella. In prima fila Sergio, io e Roberto. Jesi, località Ponte Pio 16
Due sorelle. Da sinistra, zia Elide con sua sorella, mia nonna Debora, e mio padre Giorgio Venezia fra corde, ancore e carrucole Di Venezia serbo un ricordo molto forte. Quando, undici anni fa, sentii Mariano parlare di balbuzie quasi mi sentii sprofondare, perché quello che percepivo come un difetto è stato mio compagno di vita per molti anni, al liceo, e anche quando mi sono sposata: un motivo di rammarico per mia madre che, da bambina, mi invitava a a cantare, così la balbuzie spariva. Ma io non volevo cantare, volevo essere quella che ero. Mi sono comunque sforzata o hanno cercato in qualche modo di farmi esprimere. Mia madre mi mandava a fare la 17
spesa da sola nell’intrico delle calli veneziane e questo muoversi alla cappuccetto rosso in un ambiente che non sapevo se defi- nire amico o ostile, mi terrorizzava. A Venezia stavo molto con i miei fratelli e sentivo il loro accompagnamento: si giocava insieme, era un crea e distruggi continuo, giochi su barconi e chiatte, ci divertivamo, in quel mondo di corde, ancore e carrucole, a saltare da un barcone all’altro senza cadere in mezzo quando il moto ondoso li faceva allontanare e richiudere. E intanto mia madre stava a casa e stava male. A Venezia nacque Silvia, non ricordo di avere avuto con lei contatti materni o protettivi in quei primi anni della sua vita. Una nonna di nome Debora A Venezia viveva con noi la nonna Debora, la madre di mio padre, sigaraia in manifattura a Bologna, che parlava il dialetto stretto di quella città. Anche lei (come me, dico oggi) si era sposata due volte, anche lei aveva un unico figlio maschio. Mio padre in realtà fu cresciuto da due donne, la madre e la zia. Rimasta vedova quando mio padre aveva tre anni - il padre di mio padre morì di tetano all’età di trentatré anni - Debora era una donna dalla mentalità aperta nella quale vedevo un riferimento al punto che per un certo periodo della mia vita anche io mi sono fatta chiamare Debora. Una nonna che per me è stata un faro, mi ha insegnato tanto e mi ha 18
anche protetto quando combinavo qualcosa. Si era sposata nuovamente - quando mio padre aveva tredici anni - con un caporeparto della manifattura d tabacchi. Alla morte del suo secondo marito mia nonna venne a vivere con noi. Malgrado non andasse d’accordo con mia madre la aiutò molto a crescere questi quattro figli. Un atto di generosità che mi ha aiutato a sentirla vicina, protettiva e consolatrice nei momenti di severità e durezza da parte di mia madre. Succedeva anche che, per punirmi, mia madre mi chiudesse in una delle grandi stanze buie del palazzo dogale in cui vivevamo. Segnata in rosso mia nonna Debora con un gruppo di sigaraie ricamatrici a Bologna Inizia la musica Fu così che mi avvicinai alla musica, avevo una insegnante di pianoforte, Rosilde Zen, persona piuttosto severa ma anche d molto materna. Sono stata a trovarla tanti anni dopo e sono venuto a sapere che mia madre si confidava con lei. Ho una foto del 2003 quando l’ho incontrata nuovamente nella sua casa veneziana rimasta intatta dopo tanti anni, con la stessa disposizione dei mobili e dei quadri, immutato anche il giardino. Le sigaraie della Manifattura tabacchi di Bologna, primi anni Venti del Novecento, in rosso nonna Debora in attesa di mio padre 19
Mia madre Vea, adolescente 20
Il trasporto della farina dai molini degli Urbani, famiglia di mia madre 21
Guerra finita, mia madre con le cugine al fiume. Si nota il ponte provvi- sorio in legno in sostituzione di quello distrutto dai bombardamenti vicino alla loro casa 22
Mia madre e mio padre fidanzati, sulla spiaggia di Palombina 23
Il matrimonio dei miei genitori nel duomo di Jesi 24
L’altalena. Mia madre 25
Il trio. Da sinistra, zia Anna (sorella di mia madre), mia madre e zia Mirella (cugina) 2003, a Venezia con Rosilde Zen. Ricontattarmi con la musica 26
2003, a Venezia, sotto la casa in cui abbiamo abitato in calle delle Burchielle Quando avevo otto anni per mio padre si prospettò un nuovo trasferimento, questa volta a Cagliari. Mia madre, marchigiana, figlia di mugnai, assolutamente non ci voleva andare, troppo lontano. Mi raccontò la Zen che mia madre si recò da lei di nascosto da mio padre - che ligio al dovere come era non avrebbe mai permesso una cosa del genere - chieden- dole, lei che aveva fatto solo le elementari e l’avviamento, di aiutarla a scrivere una lettera al Ministero per cercare di evitare il trasferimento in Sardegna. La lettera ebbe qualche effetto, il trasferimento ci fu, ma con destinazione Trieste. 27
Si parte per Trieste Non erano proprio le Marche, desiderate da mia madre, dove la manifattura di Chiaravalle, una delle più grandi d’Italia, era ritenuta non adeguata rispetto alla ancora limitata esperienza dirigenziale di mio padre. Era comunque una bellissima città dove continuai con la musica, con il pianoforte. Abitavamo nella zona industriale di Trieste, a poche centinaia di metri dal confine con la Slovenia. In un appartamento all’interno di una palazzina contigua alla manifattura tabacchi, dove vivevano anche altre figure dirigenziali dello stabilimento. Trovai nuove amiche, con alcune delle quali - Tiziana, Paola e Cinzia - sono ancora in contatto. A Trieste mia madre, nei momenti in cui si acutizzava il Abetone, anni Cinquanta, mio padre sugli sci 28
Un mio disegno tratto da Modigliani 29
Mi sono sempre sentita una piccola fiammiferaia Lucia Marinelli E sì, caro limax, sei tornato ed è grande festa Visto che avete dedicato la copertina al mio disegno, aggiungerò due righe. Rappresenta la piccola fiammiferaia, la protagonista della fiaba di Andersen. Dopo che Mariano l’ha commentata, si sono riaperti dei buchi neri della mia infanzia e adolescenza che ancora mi creano molti disagi. Feci quel quadro a tredici anni e poi lo regalai alla Signora Anna, che io considero una mia seconda mamma ed è la mamma di una carissima amica e coetanea. Molti anni della mia vita, dell’infanzia e dell’adolescenza sono trascorsi al freddo, un “freddo vita” che ancora mi porto dentro. Qualche strumento per vivere la mia povera mamma me lo aveva fornito, ma, come accade alla piccola fiammiferaia durante il tragitto, per esigenze altrui me lo hanno rubato e mi sono trovata spesso a piedi nudi per la strada. In molte situazioni non sono riuscita ad uscire di casa perché avevo paura. Io, avevo sì tanti fiammiferi ma nessuno poteva accogliermeli perché ognuno era occupato a fare la propria festa. Non mancò neanche il giudizio dei miei genitori che mi dissero che non avevo concluso niente nella mia vita, anzi, avevo sempre sbagliato. Ci sono state due persone che in quegli anni mi hanno “visto”: mia nonna e la signora Anna. Mia nonna Debora era una donna molto energica, viveva con noi dalla nascita di mio fratello Roberto (il più grande di noi quattro figli) e aiutò mia madre - lei diceva di avere gli esaurimenti nervosi - a crescerci. Quando mia nonna morì, avevo allora 26 anni, fu il mio primo grande dolore. Fui io ad accompagnare mio padre al suo capezzale. La signora Anna è una mamma-mamma molto comprensiva, accogliente e determinata; ora ha 85 anni. Ricordo che dall’età di tredici anni di fiammiferi ne ho accesi parecchi e per fortuna queste due impor- tanti donne sono state una presenza positiva. Mia nonna negli anni della fanciullezza, la signora Anna negli anni dell’adolescenza e anche dopo, 30
anche oggi. è stata quest’ultima che mi ha accolto nella sua casa quando ne ho avuto bisogno, senza mai chiedermi niente. Proprio a lei avevo regalato, prima di sposarmi, il quadro. Ora, ancora una volta, sono tornata da lei con le lacrime agli occhi a riprendere un’altra mia parte. (da Limax edizione online, 1.2011) 31
Trieste, teatro “Rossetti”, il mio saggio di pianoforte 32
suo disagio mi chiedeva di cucinarle qualcosa da mangiare e, nel pomeriggio, prima di andare a riposare mi chiedeva di raccontarle una favola per aiutarla a rilassarsi. Io, mentre le parlavo, potevo giocare con i suoi piedi e con le sue mani che rivestivo di guanti ed anelli. Una volta addormentata uscivo dalla stanza buia cgiudevo la porta e, finalmente, potevo correre a giocare con le mie amiche. E qui si aprì un nuovo capitolo della mia sensibilità. Comin- ciai, con l’assistenza di mio padre, a prendere in mano matite e pennelli, c’era anche Sergio con noi che già a Venezia aveva iniziato a disegnare e dipingere. Dipingevo con mio padre e condividevo l’esperienza del colore. Devo dire che, dal punto di vista dello sviluppo della manualità, un contributo importante venne da mio fratello Roberto uno che l’ho visto sempre intento a smontare e rimontare macchinari e motori di ogni genere, rinchiuso nella sua officina impenetrabile ed intoccabile. I pattini e il pianoforte... Nel frattempo mi avevano iscritto al conservatorio dove completai anche le scuole medie. Passai poi a lezione con un’insegnante privata - la stessa di Sergio - la signora Edda Calvano, concertista triestina di valore. Si facevano dei saggi a teatro e per me furono momenti molto difficili: arrivare sul palcoscenico con il mio pezzo di Mozart, di Clementi o di 33
Trieste, via Malaspina, in prossimità della manifattura con i miei fratelli e mia sorella Tiziana Lucia Paola Trieste, scuola media 34
2018, Trento, con Paola (da sinistra) e Tiziana 2015, Trieste, con Cinzia, con la quale ho condiviso una parte del mio percorso musicale. Cantante lirica, è oggi docente al conservatorio di Trieste 35
Beethoven mi faceva paura, non era semplice, vista la fatica che facevo nel parlare. Sergio, nel frattempo, poiché dicevano non avesse più di tanto voglia di studiare (secondo me era già un piccolo artista), fu mandato in collegio dai salesiani a Gorizia. Da mio padre oltre alla passione per il colore ho ereditato quella per l’attività fisica, non quella professionale e organizzata, ma quella casalinga fai da te. Mi piaceva patti- nare, mio padre ci portava nel Carso a camminare, a Venezia mi insegnò a nuotare. Non sapevo nuotare, mi scaraventa- rono letteralmente dal trampolino agonistico nello specchio d’acqua di una calle appositamente adibito a scuola di nuoto, con gli istruttori che aspettavano sotto. A Trieste si andava a camminare e nuotare, il mare era scoglioso, ci andavo con i miei fratelli, con la mamma - che nel frattempo aveva preso la patente - e con la nonna Debora. A Trieste ho passato buona parte dell’adolescenza. In quella città ho pattinato molto e questo mi dava un grande senso di libertà. I primi pattini a quattro ruote mi furono regalati per la befana poi arrivarono quelli con lo stivaletto. Non mi hanno mai permesso di andare a scuola di pattinaggio che, unitamente alla danza, era una mia grande aspirazione. La musica sì, pattinaggio e danza non mi erano consentiti. Un altro bel ricordo che ho di quel periodo è quello delle colonie estive, al mare a Cervia e in montagna a Coredo. Mia madre ci mandava anche per alleggerirsi in po’, io ci andavo rassicurata perché sapevo che c’era anche mio fratello Sergio. 36
Trieste, tredici anni, dipingo “Pattini d’argento” 37
Destinazione Marche Un ultimo trasloco e, finalmente, almeno per mia madre, destinazione Marche, Chiaravalle dove ho trascorso gran parte della mia vita. Ma, prima di Chiaravalle, è necessario che accenni ad altre due tappe del nostro viaggio in Italia. A Modena, dove sono nata e dove ho ancora dei parenti, ci sono tornata spesso anche ai tempi di Vasco Rossi, delle discoteche, della “gioventù bruciata”. Fra le tante destinazioni della mia famiglia ci fu anche quella di Palermo, una piccola parentesi che io ricordo molto poco perché ero piccola e la permanenza fu molto breve. Il salto nelle Marche fu molto sofferto e comportò un bel taglio nella mia adolescenza, perché a Trieste avevo la mia cerchia e le mie amicizie. Partimmo per Chiaravalle che mio padre peraltro già conosceva per aver frequentato la manifat- tura nel corso della sua attività lavorativa, già all’inizio della sua carriera, lo stesso periodo in cui aveva conosciuto mia madre sulla spiaggia di Palombina. Lui partì per primo, quasi in avanscoperta, e poi ci è tornò a prendere. Eravamo in tanti sulla “Bianchina”, io stavo sulle gambe di mia nonna, mio fratello incastrato dietro, avevamo con noi anche la gabbietta con i porcellini d’India. In famiglia, a dire il vero, avevamo anche una Fiat 125, ma non si poteva toccare tanta era la venerazione maniacale che mio fratello Roberto aveva per quell’auto. E così, divertendoci anche, arrivammo a Chia- ravalle dove ho passato i miei 15 anni ma anche questo è 38
Mia madre nel giardino della Manifattura tabacchi di Chiaravalle stato molto difficile per me. Mi sono trovata ad attraversare il fiume dell’adolescenza con tutti i miei bisogni scoperti che si scontravano con le proibizioni molto forti da parte dei miei genitori. Mio padre, come ho già detto, uomo di cultura urbana bolognese, manteneva la sua mentalità di chiusura soprattutto nei confronti miei come prima figlia femmina. Non potevo frequentare chi volevo, non potevo avere un “filarino”, dovevo stare a casa dove i miei fratelli potevano fare tutto, mentre io ero sotto la loro tutela. Paradossalmente potevo frequentare gli amici di mio fratello Sergio. Lì, nella foresteria della manifattura, nacque la prima radio libera di Chiaravalle - Radio Attiva -, trasmettevamo attraverso una 39
Venti anni, al mare nelle Marche 40
Lungomare di Senigallia, pattinare in libertà A Fermo, in collegio 41
antenna installata sul tetto da mio fratello Roberto, il grande tecnico tuttofare. Anche in quel contesto cercai di farmi forza con la voce. Era nato in quei locali anche un club, ma, nel frattempo io volevo frequentare Adriano. In libertà controllata Era la mia una libertà controllata che portò ad un taglio molto forte con la mia famiglia e generò un clima di vera e propria segregazione nei miei confronti. Arrivarono a chiu- dermi a chiave per non farmi frequentare Adriano, quello che sarebbe stato il futuro padre di mio figlio Diego. Fu allora che cominciai a rifiutare il cibo che mia madre preparava. Quello che mi salvò in quel momento fu l’inserimento in collegio a Fermo quando i miei genitori, proprio per asse- condare le mie capacità artistiche, mi iscrissero alla scuola d’arte di quella città. Così presi la mia valigia per Fermo dove risiedevo da esterna al collegio gestito dalle suore del Bambin Gesù. A scuola andavo molto bene c’erano diversi indirizzi, non molti per la verità, io ho scelsi ceramica. Le suore erano molto severe, ma io avevo la fortuna di non stare più di tanto a contatto con loro perché gran parte della giornata la passavo all’istituto d’arte. Con Adriano avevo un rapporto epistolare e una sporadica frequentazione quando veniva a trovarmi a Fermo. Stavo bene, fu un un bel periodo, a Fermo avevo le mie amiche - Stefania e Grazia con le quali mi rivedo e 42
Lilli a Chiaravalle 1980, con Lilli a Chiaravalle 43
1979, Chiaravalle, la mia camera 2019, Chiaravalle, con Anna, la mia seconda mamma 44
Saggio di pianoforte al teatro di Chiaravalle mi ci sento ancora - , i primi amori, ero molto esuberante e furono proprio la mia esuberanza e la mia bravura a indurre i miei genitori a portarmi via da Fermo. Tornai così a Chia- ravalle dove mi misero di fronte a tre possibili scelte: andare a lavorare, iscrivermi all’istituto magistrale, andare al liceo scientifico di Jesi dove c’era già mio fratello Sergio al quale ero molto legata. Scelsi il liceo. Lilli, la prima amica C’era anche Lilli, la mia storica amica, la prima che avevo incontrato a Chiaravalle. Lei viveva nella palazzina di fianco 45
I miei compagni di classe al liceo alla manifattura tabacchi, dove abitavano altri funzionari della “Fabbrica” (a Chiaravalle la chiamavano così) e dove tuttora abita sua madre. Lilli, mia coetanea, è stata anche grande compagna di adolescenza. Liceale anche lei, ma in un’altra sezione, era una ragazza affettuosa e vivace, molto semplice come la sua famiglia. Ha una sorella più grande, Gabriella, che aveva, anche lei, il compito di controllarci. Chiesi a Lilli di accompagnarmi da mio padre perché avrei voluto parlare con lui della mia situazione. Ci ricevette, con un certo disap- punto da parte mia, nel suo ufficio, dove mi ascoltò per riba- 46
Con Gabriella (a sinistra) e Lilli dire comunque che certe regole c’erano e andavano rispettate. Dopo quell’incontro lo battezzai “cuore di pietra”. Durante il liceo Adriano partì per il servizio militare nei paracadutisti a Pisa e mantenemmo un rapporto epistolare. Vista la mia situazione le sue lettere arrivavano a casa di sua madre Annamaria e della sua famiglia. Fu in quel periodo che, per protestare contro quello stato di segregazione fuggii ad Urbino da mia cugina Isabella che studiava all’università. Fui colpita positivamente dal clima studentesco libertario che trovai nella casa dove risiedeva. Musica dei Pink Floyd, ragazzi che fumavano, bevevano e ridevano. Chiamai casa dopo qualche giorno, mi rispose mia madre e, senza rivelare dove fossi, le dissi che sarei tornata 47
a casa solo se le cose fossero cambiate. Lei mi chiuse il tele- fono e questo mi provocò un dolore fortissimo. I genitori mi trovarono, vennero a prendermi ad Urbino e mi portarono via trascinandomi come una carcerata. In auto - la Fiat 125 - dovettero trattenermi perché mi volevo buttare fuori. Fu un momento in cui rimasi attanagliata dal non senso della vita. Tornata a casa mi accorsi che la situazione non era cambiata, al punto che un giorno mia madre, dopo una litigata, buttò tutte le mie cose dalla finestra e mi scacciò fuori di casa. Mi ospitò Anna, la mamma di Lilli e Gabriella. Ancora oggi dopo tanti mi ripete che la sua casa per me è sempre aperta e ricorda di quando in quei giorni incontrò i miei genitori e mio padre le disse: “Signora, lei mi ha rotto le uova nel paniere”. Anna La madre di Lilli, Anna, oggi ha 95 anni, è stata una donna dal carattere forte, oggi direi maschile, preponderante, ma, nello stesso tempo, comprensiva. La loro famiglia aveva sofferto molto quando il padre di Lilli se n’era andato da casa perché si era innamorato di una cara amica della moglie. A quei tempi fu uno scandalo. Anna si rimboccò le maniche e, con molti sacrifici, ricominciò la sua vita con le due figlie. La loro casa era sempre aperta. “Aggiungi un posto a tavola” era solita dire Anna. Il padre di Lilli aveva mantenuto la latitanza nei suoi confronti anche dopo l’uscita dalla famiglia e io mi vissi 48
un po’ anche della loro situazione familiare. Lilli fu poi mia testimone di nozze quando nel 1982 mi sposai con Adriano. Il quadro “La piccola fiamnmiferaia”, dipinto da me a Trieste quando avevo tredici anni, lo donai a Lilli, la quale alcuni anni fa me lo ha restituito in comodato. Dietro a matita e con la grafia di mio padre è annotata la mia età. Torniamo al viaggio. Andai al liceo a Jesi nonostante il mio odio per la matematica. Prendevo l’autobus con mio fratello più grande, ma appena un anno più avanti di me nel corso di studi. Anche lui era stato un po’ esuberante e aveva perso un anno. La contiguità anagrafica con Sergio, me lo rendeva più vicino rispetto agli altri due fratelli. Stessi giochi stesse amicizie, io giocavo con i suoi soldatini, lui con le mie bambole, un bello scambio. A Chiaravalle quando ripresi a frequentare il futuro padre di mio figlio, Adriano, i miei genitori chiusero nuovamente il lucchetto perché erano molto contrari a questa relazione. Avevano chiesto infor- mazioni - prete, sindaco, farmacista, come si fa nei paesi - e ne avevano ricavato la convinzione che il padre di Adriano e la sua famiglia fossero persone da evitare. Adriano faceva parte del gruppo dei fascisti di Chiaravalle, persone abituate a picchiare. Oltre a questo i miei genitori ritenevano che fossi troppo giovane per potermi già scegliere un marito. Io ovviamente continuai a frequentarlo di nascosto aiutato da mio fratello, dalle amiche e amdai avanti così fino all’età di 22 anni quando mi sposai con lui. 49
Il professor Tamburi nel suo studio Jesi, 2019, a casa del professor Tamburi 50
Il professor Tamburi Al liceo avevo un insegnante di materie artistiche, Faliero Tamburi, che, con grande emozione sono stata a trovare poco tempo fa. Un incontro che sentivo di dover fare. Al liceo, dove si fa essenzialmente disegno tecnico, Tamburi, vista la mia insistenza, mi aveva lasciato una inaspettata libertà di espressione fino a consentirmi di portare colori e pennelli. “Disegni classici - si era raccomandato comunque Tamburi - siamo al liceo scientifico non si può fare disegno dal vero”. Tamburi nonostante l’età dipinge ancora alla grande, quando l’ho incontrato mi ha fatto visitare la sua casa e mi ha donato un sasso pitturato, me ne ha fatti vedere tanti e mi ha chiesto di sceglierne uno. Ne ho preso uno a caso in cui è raffigurato un particolare de “La madre e figlio” di Picasso. Appena mi sono accorta del soggetto sono scoppiata a piangere. Dopo questo incontro gli ho scritto una lettera che ho lasciato nella sua cassetta della posta ripromettendomi di tornare a trovarlo. Di nuovo a Venezia? Le tappe artistiche hanno segnato il mio percorso di vita. Finito il liceo mi si prospettava la possibilità di andare all’ac- cademia di Venezia, dove mio fratello era già iscritto alla facoltà di architettura e aveva un appartamento di proprietà. La condizione imposta dai miei genitori per acconsentire 51
Il sasso dipinto donatomi da Tamburi 52
al mio trasferimento a Venezia era che io lasciassi Adriano. Non ho accettai e decisi di sposarmi con lui. Avevo 22 anni. I miei genitori a loro volta non condivisero la mia scelta e non vennero neanche al mio matrimonio. Ero felice, ma stavo male, avevo con me le mie amiche, Liliana a fare da testimone, mio fratello Sergio che mi accompagnò all’altare, mia sorella Silvia. Mio fratello Roberto si schierò dalla parte dei genitori e non venne neanche lui. Ricordo che Lilli pianse e raccomandò ad Adriano di trat- tarmi bene. Il mio matrimonio lo preparammo nell’apparta- mento della manifattura tabacchi, anche questo grandissimo e intricato e con un bel giardino. Vennero le mie amiche che come in una danza mi aiutarono a vestirmi. Quel giorno i miei genitori uscirono di casa per non vedere. La mamma di Lilli, la mia seconda mamma, mi ha aiutò moltissimo. La vado ancora a trovare la signora Anna e ci coccoliamo a vicenda. Lilli al contrario è andata in Africa e ancora vive lì con la sua famiglia africana allargata. Chi è venuto alle mie nozze? Mi sposai e andai a vivere con Adriano. Tornai pochi giorni dopo dai miei genitori per informarli che sarei stata via per qualche giorno, in viaggio di nozze. Al matrimonio venne mio nonno, il padre di mia madre, una persona importante per me. Una persona che ricordo buona, amava me e gli altri 53
1982, Chiaravalle, il giorno del mio matrimonio nipoti e teneva una mia foto sul suo comodino. Mi annunciò che avrebbe partecipato, prese posizione come la presero altri due fratelli di mia madre. Mia madre, al contrario, mi diceva che era un uomo cattivo e manesco e picchiava sua moglie facendola tanto soffrire. Erano una famiglia di mugnai, avevano diversi mulini e anche il forno, lavoravano sodo. Nel frattempo mi accorsi che Adriano era una persona molto arrabbiata con il mondo intero. Dimostrò questa sua 54
Mio fratello Sergio, mia sorella e i miei parenti materni il giorno del matrimonio rabbia già prima del matrimonio picchiando me, sua sorella che, appena poté, si allontanò da casa, e suo fratello. Io me lo sposai così anche con questa sua parte di violenza. Ero total- mente dipendente da lui e del suo negativo, da quel negativo che continuava a perpetuarsi nella mia esistenza. Desiderava un figlio subito, io non mi sentivo pronta per quello che allora veniva visto come un passo obbligato nel matrimonio. Dopo di me si sposarono anche i miei fratelli e sorella. Roberto con Beatrice, una mia compagna di scuola, hanno due figli, Elena e Andrea. Sergio con Lorenza e Silvia con Vildo. 55
Nasce Diego E fu così che nel 1985 nacque Diego, Adriano era felicissimo anche se mi aveva picchiato perfino durante la gravidanza. Trascorsi la gravidanza facendo di tutto anche il pattinaggio, fino agli ultimi giorni, con la valigia pronta in macchina. Quando nacque Diego arrivò Anna, la mia seconda mamma e anche la mamma di Adriano. Al mattino, Diego era nato di notte, avvisarono i miei genitori. Mia madre non venne perché aveva paura di mettere piede in qualsiasi ospedale, arrivò mio padre, a casa aveva lasciata sulla porta un cartello con su scritto “È nato Diego”. Furono con me me in ospedale le mie amiche, mia sorella, Adriana, la sorella di Adriano. Tornai a casa con quel fagottino, ma mi sentivo male perché ero sola. Mia madre mandò una donna per aiutarmi ma lei non venne, Diego glielo portai io per farglielo vedere. Mi furono vicini Sergio e Silvia che ha scambiato molto con Diego. Negli anni della prima infanzia di Diego mia sorella è stata importante, non tanto come sorella con la quale scambiarmi alla pari, quanto come sostegno, soprattutto per mio figlio. Quando poteva lo prendeva e trascorreva del tempo con lui. È stata l’unica persona che, fedele alla sua missione, non lo ha mai lasciato. Io cominciai a stare male, attacchi di panico. Psicologo, psichiatra, neurologo, un tragitto di sofferenza. 56
Chiaravalle, parco Primo maggio, nono mese di gravidanza 57
Con mia sorella Silvia Con mio fratello Sergio 58
Diego 59
Diego il giorno del battesimo 60
Al mare con Diego Diego con me e suo padre il giorno del suo primo compleanno 61
Senigallia, al mare in braccio alla zia Silvia In braccio alla nonna paterna Debora 62
Diego a carnevale con la zia Silvia 63
Due sorelle e due sorelle: a sinistra Silvia e io (incinta di pochi mesi), a destra Anna e mia madre Le cugine più care, Rossana e Angelica Le mie più care cugine, con le quali ho condiviso parti importanti della mia vita sono state Angelica e Rossana, purtroppo entrambe prematuramente scomparse. Angelica, un anno più piccola di me, era figlia di una sorella di mia madre, Anna, persona che io adoravo. La zia che sapeva giocare, comprendere, accogliere, Abitavano a Modena, ogni tanto prendevo il treno per andarle a trovare. Fin da piccola, da sola, mi mettevano sul vagone affidandomi al capotreno e così con il mio vestitino rosa a quadretti arrivavo dalla zia moderna e sorridente e dalla cuginetta che godeva già di una 64
Da sinistra, Angelica, Rossana ed io Con Rossana 65
Con Angelica 66
certa libertà. La zia mi fece togliere gli orecchini e mi comperò un costume due pezzi. Anche nel vestire i miei genitori mi avevano sempre bloccato. Angelica era intelligente, bella, apparentemente libera, piena di amicizie. Scriveva molto, forse, come figlia unica, era un po’ viziata ma soffriva a causa di un padre alcolista che non l’aveva mai accolta. Rossana, figlia di un fratello mugnaio di mia madre, aveva un anno più di me e abitava da sempre in una casa nella campagna circostante Jesi, vicino al fiume Esino, dove, in occasione delle festività, ci ritrovavamo anche noi, con la nostra famiglia viaggiante. Anche con lei, prima, durante e dopo la mia separazione, si instaurò un bel rapporto. Mi aiutò molto fino a diventare per me un punto di riferimento e di protezione. Aveva un forte maschile che mi attirava e così ci siamo scambiate e sorrette a vicenda. I nostri figli sono nati nello stesso anno, nel 1985, lo stesso anno in cui lei perse sua madre, donna ancora giovane. Poi lei ha avuto una bambina, Sara, che nel periodo della malattia è stata la sua “infermiera”. È stata lei, fisioterapista, ad accompagnarmi nella pratica della massoterapia con un indirizzo marcata- mente olistico. Un settore di attività completamente diverso da quelli in cui ero stata fino a quel momento, che all’inizio mi ha spaventato, ma poi mi ha affascinato. Lei non aveva goduto di quelle parti adolescenziali che io avevo vissuto con Angelica ed io con lei rivivevo volentieri momenti di legge- rezza. Eravamo come due adolescenti, quando potevamo 67
Padre... ... e figlia. Dipingono insieme 68
La pittura, l’altra parte di mio padre 69
lasciavamo i figli a sua suocera e andavamo a ballare. E poi i viaggi con la moto che lei adorava e guidava e con il camper insieme con i nostri figli. Dormivamo spesso insieme a casa sua, quella in campagna, univamo i lettini dei bambini per farci compagnia. Il marito tornava tardissimo dal lavoro e i bambini dormivano insieme su un lettone matrimoniale. Ed io mi lasciavo trascinare in questa fiaba. Il fiume ogni tanto straripava e, quando pioveva molto, lei andava con suo padre a controllare il livello dell’acqua. Amava la caccia e, una volta aperta la stagione venatoria, andava con mio zio a fare battute. Tempo di pellicce Nel frattempo avevo cominciato a lavorare come modellista e stilista da mia zia che aveva una azienda che confezionava pellicce. A me piaceva disegnare, nel frattempo avevo frequen- tato anche un corso da modellista. La zia in questione, che gestiva l’azienda con le sue sorelle, aveva sposato un fratello di mia madre ed era venuta al mio matrimonio. All’inizio mi misero in negozio, poi, quando le manifestai il mio desiderio di lavorare nel disegno e creazione prototipi delle pellicce, mi spostarono in laboratorio. Diego non era ancora nato. Modellazione, disegno, sfilate a Milano e Firenze, mia nonna mi aveva insegnato a cucire, ho cucito un po’ di tutto. In pellicceria facevo un lavoro creativo: disegnavo i bozzetti che poi portavo su carta modello per la creazione del capo. 70
2019, con Silvia 2017, i quattro fratelli e sorelle 71
Qui conobbi la modellista Anna (un nome che si perpetua nella mia storia personale) quasi una mamma per me. Donna generosa e gentile, mi accoglieva a casa sua e mi insegnava con cura il mestiere. Questo lavoro andò avanti per dodici anni durante i quali cambiai anche pellicceria perché la zia - nel frattempo era nato Diego - o meglio le sue sorelle non erano disposte a concedermi il part time. Passai ad un’altra pellicceria vicino casa, sapevano che avevo lavorato in quella che era ritenuta una rinomata pellicceria di Jesi e mi presero subito a lavorare sempre nel settore della modellazione e del disegno. Alcune persone volevano le pellicce con le fodere dipinte, quindi facevo anche un lavoro di personalizzazione delle pellicce. Non solo, qualche cliente mi chiedeva anche di disegnare tende e tessuti. Disegnavo di tutto e stavo male, malissimo, al punto che lasciai il lavoro che ritenevo fosse la causa di tutto quel male. Smisi di suonare e di dipingere. Non ce la facevo ad uscire di casa, attacchi di panico, difficoltà ad accompagnare Diego all’asilo. Mi sentivo e mi trovavo da sola io che da sola ero abituata ad andare dappertutto. Crolla il mondo Questo è stato il periodo in cui ho deciso di separarmi da mio marito, crollata io è crollato anche il rapporto con mio marito. Mi sono consultata con uno psichiatra di Jesi al quale ho chiesto di prescrivermi psicofarmaci. Si è rifiutato dicendo 72
che avrei potuto farcela da solo. La mia voce? Non c’era o, meglio, si stava preparando. Ho avuto due ricoveri in ospedale per percosse da parte di mio marito, con il viso tumefatto e con tutto quello che seguì a livello legale. Anche i miei geni- tori, con i quali non avevo mai parlato della mia situazione familiare e della violenza che subivo, furono concordi nel dirmi che, per evitare guai peggiori, mi dovevo separare. Così, con l’aiuto economico anche dei miei genitori, mi trasferii a Jesi dove avevo anche i parenti, fra i quali mia cugina Rossana. Anche perché in paese il fatto che la figlia del direttore della manifattura tabacchi si era separata sarebbe stata vista come disdicevole. Diego aveva appena cominciato a frequentare la prima media a Chiaravalle, mia madre mi trovò rapidamente un appartamento a Jesi. Era il 1996, mia sorella mi fu vicina e mi aiutò anche nel trasloco. I primi anni sono stata male perché Adriano mi diceva che me l’avrebbe fatta pagare, avrei dovuto guardarmi alle spalle, perché mi avrebbe ammazzato. Una girandola legale con avvocati e tribunale dei minori al quale Adriano si era rivolto perché non l’avevo tempestiva- mente informato del trasferimento mio e di Diego a Jesi. Partì così l’intervento di psicologhe, assistenti sociali e tribunale. Pensavo fosse una mossa di Adriano per cercare di avere l’af- fidamento di Diego. La macchina giudiziaria partì, accettai il consiglio che mi veniva da più parti di lasciarla correre che si sarebbe prima o poi fermata da sola, opporsi avrebbe signi- ficato solo mandarla più per le lunghe. Era il modo in cui Adriano cercava di farmela pagare senza peraltro occuparsi 73
mai più di tanto di Diego, che di fatto ho cresciuto da sola facendogli da madre e da padre. Cinque anni di tutela del tribunale dei minori sono stati molto duri. Uscivo dal tribu- nale in lacrime, dovevo accompagnare Diego e lasciarlo da solo. Salivo in autobus con Diego, io dietro e lui davanti con le due assistenti sociali per evitare che lo influenzassi troppo prima dei colloqui che avrebbe avuto in tribunale. Torna la voce Nel frattempo cercai lavoro. Lo trovai in una agenzia immo- biliare che stava vicino casa. Pensavo che fosse un lavoretto che mi avrebbe lasciato una certa autonomia organizzativa ma come avrei potuto riuscirci io che ancora balbettavo? Decisi di andare. Entrai nell’agenzia presentandomi. Mi dissero che sarei dovuta stare al telefono per chiamare, spiegare, cercare di convincere. Vollero ovviamente sentire come parlavo al telefono. Diventai di mille colori, ma andai al telefono in una stanza separata con una serie di numeri di telefono da chiamare. I titolari dell’agenzia avrebbero ascoltato le mie tele- fonate dalla stanza accanto con un apparecchio comunicante. Provai, feci il primo numero, la mia voce uscì limpida e senza intoppi. Ero così felice. Mi dissero che avevo una bellissima voce, sapevo parlare ero brava a presentarmi e così mi misero in prima fila alla reception dell’agenzia. Io parlo - pensai subito - ho valore, questi il mio valore l’hanno visto. Da quel 74
momento la mia voce è ripartita. Un passaggio fortissimo che è difficile fare da sola. Uscii da quell’ufficio felicissima, quasi non toccavo terra. Stavo male, balbettavo, ero stata picchiata, mi ero separata, i miei mi aiutavano, ma di fatto ero sola. Un passaggio importante sul quale ritorno spesso. ... e il viaggio continua 75
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