Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...

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Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...
Lucia Marinelli

Coraggio sono io,
non ho paura
del mio viaggio
Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...
Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...
Lucia Marinelli

Coraggio sono io,
  non ho paura
 del mio viaggio

    Jesi, maggio 2020
Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...
Lucia Marinelli, “Il faro”

In copertina:
Lucia Marinelli, “Luce dal buio”, acquerello, 2020

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Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...
Questo quaderno di ricordi nasce dall’incontro online che è stato promosso
da Sabrina Cela e Nicoletta Pennella con la creazione di una chat nata
in periodo di quarantena Covid - il 31 marzo 2020 - e denominata
“Formichine al lavoro”.
    L’incontro è stato un grande atto di obbedienza. Obbedire significa in
primo luogo ascoltare e in quell’incontro noi, prima di tutto, abbiamo
ascoltato e ci siamo ascoltate. Questo sunto di vita viene per me dopo due
mesi di spinte e resistenze. La pandemia e la quarantena hanno provocato
un emergere ed un fondersi delle nostre parti belle e di quelle ombrose e
negative. La natura ci ha ricordato che siamo un ramo marginale in un
processo al quale non interessa il nostro destino, rispetto al quale siamo anzi
un peso sempre più opprimente e distruttivo. Saremo più belli, più buoni, più
bravi, dopo questa prova che ha visto ancora una volta il confronto atroce
fra le solidarietà e gli egoismi? Se saremo migliori dipenderà soltanto da
quello che sapremo fare e non da quello che crediamo di aver fatto. Questa
che propongo è una testimonianza di vita che arriva alimentata anche dal
percorso che ho fatto in questi undici anni nel metodo alla salute, portato
avanti dal dottor Mariano Loiacono e che ha portato alla Fondazione Nuova
Specie di Troia, in provincia di Foggia. Volevo raccontare almeno un po’
di quello che tanti non conoscono di me e che ho cercato di rappresentare
nel faro che illustra queste pagine. Lo faccio con un misto di leggerezza,
di emozione e di sottile paura provando a snocciolare questa sorta di mia
favola esistenziale e rendendomi conto di quanto sia difficile parlare di
noi stessi, tanta è l’indeterminazione che nasce dall’intreccio della storia
con i sentimenti. Raccontarmi - e continuerò a farlo perché la storia non
finisce qui - per certi versi mi ha risollevato, mi ha dato fiducia, a conferma
di quanto sia terapeutico anche il valore della narrazione personale. Ho
provato a descrivere il senso di questo viaggio che non finisce mai e che
può essere ripercorso sempre con occhi nuovi. Senza paura, con il timore di
non riuscire a fare quello che l’ottimismo ci spinge a compiere. Provando a
naufragare nell’infinito (Indico).
    Ringrazio Mariano, Sabrina, Francesco, Maurizio e tutto il Circostormo.

    							Lucia Marinelli
    Jesi, 23 maggio 2020

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Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...
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Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...
Il 10 giugno, a Modena

   Sono nata il 10 giugno del 1960, sono prossima al mio
sessantesimo compleanno. Figlia di Giorgio (figlio unico) e
di Vea (aveva tre fratelli, Aureo, Anna e Sandrino e portava il
medesimo nome di una sorella nata in precedenza e morta a
nove mesi in un incidente domestico). Sono nata a Modena
dove mio padre si era trasferito per lavoro, nata in viaggio, in
uno dei viaggi fisici e interiori dei miei genitori. Un viaggio che
ritorna e si ripete, quasi un filo conduttore della mia vita. Sono
la terza di quattro figli, Roberto, il più grande, ha 65 anni ed
è titolare di una azienda attiva nel settore della termotecnica,
Sergio è architetto, di anni ne ha 63, io, come ho già detto,
sono la terza, la quarta è Silvia che ha sei anni meno di me e
lavora nell’aministrazione del monopolio. Siamo tutti nati in
viaggio, Sergio come me a Modena, Roberto a Lucca, Silvia
a Venezia, quasi figli di un involontario pellegrinaggio che
ci ha portato a percorrere tutta la penisola. Fino ad oggi ho
fatto dodici traslochi. Mio padre era direttore di manifattura
tabacchi, veniva mandato a dirigere uno di questi impianti
industriali dove una volta si producevano sigari, sigarette e
anche tabacco da fiuto, ma sapeva sempre che il trasferimento
non sarebbe stato definitivo. Era prassi corrente del ministero
che, dopo qualche anno, i dirigenti venissero spostati ad
un altro impianto di produzione, cambi dettati anche dalla
necessità di evitare permanenze troppo lunghe nello stesso
luogo. Ho vissuto in un ambiente protetto dalla cultura del

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Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...
Lucia, un anno, a Modena
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Coraggio sono io, non ho paura del mio viaggio - Lucia Marinelli - Fondazione ...
tempo, quella del dopoguerra, quella degli anni del boom
economico che stava per arrivare al suo culmine, i gloriosi anni
Sessanta, l’ottimistica premessa e l’anticamera di tutto quello
che sarebbe successo dopo. Erano principi di vita abbastanza
rigidi che, fra l’altro, imponevano di frequentare solo persone
di pari stato sociale, la permeabilità verticale della società era
ancora per molti versi limitata. Mio padre, peraltro uomo di
mentalità aperta, di estrazione urbana (era un bolognese), di
formazione tecnico-scientifica (era un ingegnere meccanico)
era molto ligio a queste regole. Mia madre, casalinga, soffriva
queste limitazioni. Io l’ho conosciuta perennemente afflitta
da quello che, con una definizione a quel tempo abbastanza
diffusa, si chiamava esaurimento nervoso. Quando nacqui
a Modena - così mi raccontava mio padre - si presentò in
ospedale a mia madre una suora dicendo che una coppia
facoltosa era in cerca di una bambina da acquistare e da adot-
tare. Mia madre rispose che avrebbe dovuto chiederlo anche
a mio padre. Quando la suora lo fece mio padre le rispose di
“impiccarsi con le proprie budella”. Non sapevo allora come
definire mia madre, oggi, alla luce del mio percorso, parlerei
di disagio, a volte prendeva farmaci e andava a consulto da
psicologi e neurologi. Era dunque, la mia, una famiglia, al
pari di tante altre, con chiusure mentali determinate dalle
influenze culturali dell’epoca seppure già allora in rapida e
profonda trasformazione. Paradossalmente, anche quelle reli-
giose. Mio padre era sostanzialmente ateo ma questo non gli
ha impedito di sposarsi in chiesa e di accompagnare ogni tanto

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Lucia a Modena, un anno poco più
mia madre a messa. Una persona estranea alla religione come
pratica e come credenza, ma non per questo meno rispettoso
nei confronti del modo di pensare degli altri. Ripensandoci
adesso mi sento di dire che se, da un lato, mio padre non mi
ha compreso, dall’altro il suo agnosticismo, la sua formazione
da ingegnere e la sua sensibilità di pittore ci hanno aiutato.
Dirigeva fabbriche che davano da mangiare a sette-ottocento
persone e cercava di esprimere le sue emozioni attraverso le
tele - non so quanti quadri abbia fatto - con i colori ad olio e
l’acquerello. Era colto e curioso e amante della musica clas-
sica che ascoltava, anche per poco, ogni giorno L’elemento
di contatto interiore con mia madre era invece la musica. Lei
era una soprano che da giovane non aveva potuto realizzare
il suo sogno di darsi al canto, una attività poi ripresa in età
matura. Per quanto riguarda me, una cosa che mi ha fatto
soffrire dall’età di cinque sei anni è stata la balbuzie. Vive-
vamo, a quel tempo, a Venezia in una abitazione incastonata
in una calle, in un antico palazzo di dogi, di proprietà del
monopolio di stato e assegnato al direttore della manifat-
tura tabacchi. Stanze grandi, alte, una dentro l’altra, carta
alle pareti, tendaggi, un ambiente anche un po’ spettrale.Un
palazzo anfibio, come, per storia e cultura, è anfibio tutto
quel territorio, con l’acqua davanti casa.

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Lucia, a Venezia, chiesa dei Tolentini, prima comunione...
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... e cresima con mio fratello Sergio. Dietro di noi, zia Elide, sorella di mia
nonna, e mio fratello Roberto. Notare il broncio, non volevo il velo
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Venezia, comunione e cresima, sono con nonna Pasqualina, la mamma
di mia madre
A Venezia, con mia sorella Silvia

Prima elementare con mio fratello Sergio
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Foto mitica, da sinistra, le cugine Angelica, Rossana e Isabella. In prima
fila Sergio, io e Roberto. Jesi, località Ponte Pio
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Due sorelle. Da sinistra, zia Elide con sua sorella, mia nonna Debora, e
mio padre Giorgio

   Venezia fra corde, ancore e carrucole

   Di Venezia serbo un ricordo molto forte. Quando, undici
anni fa, sentii Mariano parlare di balbuzie quasi mi sentii
sprofondare, perché quello che percepivo come un difetto è
stato mio compagno di vita per molti anni, al liceo, e anche
quando mi sono sposata: un motivo di rammarico per mia
madre che, da bambina, mi invitava a a cantare, così la balbuzie
spariva. Ma io non volevo cantare, volevo essere quella che ero.
   Mi sono comunque sforzata o hanno cercato in qualche
modo di farmi esprimere. Mia madre mi mandava a fare la

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spesa da sola nell’intrico delle calli veneziane e questo muoversi
alla cappuccetto rosso in un ambiente che non sapevo se defi-
nire amico o ostile, mi terrorizzava.
    A Venezia stavo molto con i miei fratelli e sentivo il loro
accompagnamento: si giocava insieme, era un crea e distruggi
continuo, giochi su barconi e chiatte, ci divertivamo, in quel
mondo di corde, ancore e carrucole, a saltare da un barcone
all’altro senza cadere in mezzo quando il moto ondoso li
faceva allontanare e richiudere. E intanto mia madre stava
a casa e stava male. A Venezia nacque Silvia, non ricordo di
avere avuto con lei contatti materni o protettivi in quei primi
anni della sua vita.

     Una nonna di nome Debora

   A Venezia viveva con noi la nonna Debora, la madre di
mio padre, sigaraia in manifattura a Bologna, che parlava
il dialetto stretto di quella città. Anche lei (come me, dico
oggi) si era sposata due volte, anche lei aveva un unico figlio
maschio. Mio padre in realtà fu cresciuto da due donne, la
madre e la zia. Rimasta vedova quando mio padre aveva tre
anni - il padre di mio padre morì di tetano all’età di trentatré
anni - Debora era una donna dalla mentalità aperta nella quale
vedevo un riferimento al punto che per un certo periodo della
mia vita anche io mi sono fatta chiamare Debora. Una nonna
che per me è stata un faro, mi ha insegnato tanto e mi ha

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anche protetto quando combinavo qualcosa. Si era sposata
nuovamente - quando mio padre aveva tredici anni - con un
caporeparto della manifattura   d tabacchi. Alla morte del suo
secondo marito mia nonna venne a vivere con noi. Malgrado
non andasse d’accordo con mia madre la aiutò molto a crescere
questi quattro figli. Un atto di generosità che mi ha aiutato a
sentirla vicina, protettiva e consolatrice nei momenti di severità
e durezza da parte di mia madre. Succedeva anche che, per
punirmi, mia madre mi chiudesse in una delle grandi stanze
buie del palazzo dogale in cui vivevamo.

Segnata in rosso mia nonna Debora con un gruppo di sigaraie ricamatrici
a Bologna

   Inizia la musica

    Fu così che mi avvicinai alla musica, avevo una insegnante
di pianoforte, Rosilde Zen, persona piuttosto severa ma anche
                d
molto materna. Sono stata a trovarla tanti anni dopo e sono
venuto a sapere che mia madre si confidava con lei. Ho una
foto del 2003 quando l’ho incontrata nuovamente nella
sua casa veneziana rimasta intatta dopo tanti anni, con la
stessa disposizione dei mobili e dei quadri, immutato anche
il giardino.
Le sigaraie della Manifattura tabacchi di Bologna, primi anni Venti del
Novecento, in rosso nonna Debora in attesa di mio padre

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Mia madre Vea, adolescente

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Il trasporto della farina dai molini degli Urbani, famiglia di mia madre

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Guerra finita, mia madre con le cugine al fiume. Si nota il ponte provvi-
sorio in legno in sostituzione di quello distrutto dai bombardamenti vicino
alla loro casa
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Mia madre e mio padre fidanzati, sulla spiaggia di Palombina
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Il matrimonio dei miei genitori nel duomo di Jesi
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L’altalena. Mia madre
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Il trio. Da sinistra, zia Anna (sorella di mia madre), mia madre e zia
Mirella (cugina)

2003, a Venezia con Rosilde Zen. Ricontattarmi con la musica

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2003, a Venezia, sotto la casa in cui abbiamo abitato in calle delle Burchielle

    Quando avevo otto anni per mio padre si prospettò un
nuovo trasferimento, questa volta a Cagliari. Mia madre,
marchigiana, figlia di mugnai, assolutamente non ci voleva
andare, troppo lontano. Mi raccontò la Zen che mia madre si
recò da lei di nascosto da mio padre - che ligio al dovere come
era non avrebbe mai permesso una cosa del genere - chieden-
dole, lei che aveva fatto solo le elementari e l’avviamento, di
aiutarla a scrivere una lettera al Ministero per cercare di evitare
il trasferimento in Sardegna. La lettera ebbe qualche effetto,
il trasferimento ci fu, ma con destinazione Trieste.

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Si parte per Trieste

   Non erano proprio le Marche, desiderate da mia madre, dove
la manifattura di Chiaravalle, una delle più grandi d’Italia, era
ritenuta non adeguata rispetto alla ancora limitata esperienza
dirigenziale di mio padre. Era comunque una bellissima città
dove continuai con la musica, con il pianoforte. Abitavamo
nella zona industriale di Trieste, a poche centinaia di metri
dal confine con la Slovenia. In un appartamento all’interno
di una palazzina contigua alla manifattura tabacchi, dove
vivevano anche altre figure dirigenziali dello stabilimento.
Trovai nuove amiche, con alcune delle quali - Tiziana, Paola
e Cinzia - sono ancora in contatto.
   A Trieste mia madre, nei momenti in cui si acutizzava il

Abetone, anni Cinquanta, mio padre sugli sci

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Un mio disegno tratto da Modigliani

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Mi sono sempre sentita una piccola fiammiferaia

    Lucia Marinelli E sì, caro limax, sei tornato ed è grande festa
    Visto che avete dedicato la copertina al mio disegno, aggiungerò due
righe. Rappresenta la piccola fiammiferaia, la protagonista della fiaba di
Andersen.
    Dopo che Mariano l’ha commentata, si sono riaperti dei buchi neri della
mia infanzia e adolescenza che ancora mi creano molti disagi. Feci quel
quadro a tredici anni e poi lo regalai alla Signora Anna, che io considero una
mia seconda mamma ed è la mamma di una carissima amica e coetanea.
    Molti anni della mia vita, dell’infanzia e dell’adolescenza sono trascorsi
al freddo, un “freddo vita” che ancora mi porto dentro. Qualche strumento
per vivere la mia povera mamma me lo aveva fornito, ma, come accade alla
piccola fiammiferaia durante il tragitto, per esigenze altrui me lo hanno
rubato e mi sono trovata spesso a piedi nudi per la strada. In molte situazioni
non sono riuscita ad uscire di casa perché avevo paura. Io, avevo sì tanti
fiammiferi ma nessuno poteva accogliermeli perché ognuno era occupato
a fare la propria festa. Non mancò neanche il giudizio dei miei genitori
che mi dissero che non avevo concluso niente nella mia vita, anzi, avevo
sempre sbagliato. Ci sono state due persone che in quegli anni mi hanno
“visto”: mia nonna e la signora Anna. Mia nonna Debora era una donna
molto energica, viveva con noi dalla nascita di mio fratello Roberto (il
più grande di noi quattro figli) e aiutò mia madre - lei diceva di avere gli
esaurimenti nervosi - a crescerci. Quando mia nonna morì, avevo allora 26
anni, fu il mio primo grande dolore. Fui io ad accompagnare mio padre al
suo capezzale. La signora Anna è una mamma-mamma molto comprensiva,
accogliente e determinata; ora ha 85 anni. Ricordo che dall’età di tredici
anni di fiammiferi ne ho accesi parecchi e per fortuna queste due impor-
tanti donne sono state una presenza positiva. Mia nonna negli anni della
fanciullezza, la signora Anna negli anni dell’adolescenza e anche dopo,

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anche oggi. è stata quest’ultima che mi ha accolto nella sua casa quando ne
ho avuto bisogno, senza mai chiedermi niente. Proprio a lei avevo regalato,
prima di sposarmi, il quadro. Ora, ancora una volta, sono tornata da lei
con le lacrime agli occhi a riprendere un’altra mia parte.

   (da Limax edizione online, 1.2011)

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Trieste, teatro “Rossetti”, il mio saggio di pianoforte
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suo disagio mi chiedeva di cucinarle qualcosa da mangiare
e, nel pomeriggio, prima di andare a riposare mi chiedeva di
raccontarle una favola per aiutarla a rilassarsi. Io, mentre le
parlavo, potevo giocare con i suoi piedi e con le sue mani che
rivestivo di guanti ed anelli. Una volta addormentata uscivo
dalla stanza buia cgiudevo la porta e, finalmente, potevo
correre a giocare con le mie amiche.
   E qui si aprì un nuovo capitolo della mia sensibilità. Comin-
ciai, con l’assistenza di mio padre, a prendere in mano matite
e pennelli, c’era anche Sergio con noi che già a Venezia aveva
iniziato a disegnare e dipingere. Dipingevo con mio padre
e condividevo l’esperienza del colore. Devo dire che, dal
punto di vista dello sviluppo della manualità, un contributo
importante venne da mio fratello Roberto uno che l’ho visto
sempre intento a smontare e rimontare macchinari e motori
di ogni genere, rinchiuso nella sua officina impenetrabile ed
intoccabile.

  I pattini e il pianoforte...

   Nel frattempo mi avevano iscritto al conservatorio dove
completai anche le scuole medie. Passai poi a lezione con
un’insegnante privata - la stessa di Sergio - la signora Edda
Calvano, concertista triestina di valore. Si facevano dei saggi
a teatro e per me furono momenti molto difficili: arrivare sul
palcoscenico con il mio pezzo di Mozart, di Clementi o di

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Trieste, via Malaspina, in prossimità della manifattura con i miei fratelli
e mia sorella

               Tiziana
                                           Lucia

                             Paola

Trieste, scuola media
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2018, Trento, con Paola (da sinistra) e Tiziana

2015, Trieste, con Cinzia, con la quale ho condiviso una parte del mio
percorso musicale. Cantante lirica, è oggi docente al conservatorio di Trieste

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Beethoven mi faceva paura, non era semplice, vista la fatica
che facevo nel parlare. Sergio, nel frattempo, poiché dicevano
non avesse più di tanto voglia di studiare (secondo me era
già un piccolo artista), fu mandato in collegio dai salesiani
a Gorizia. Da mio padre oltre alla passione per il colore ho
ereditato quella per l’attività fisica, non quella professionale
e organizzata, ma quella casalinga fai da te. Mi piaceva patti-
nare, mio padre ci portava nel Carso a camminare, a Venezia
mi insegnò a nuotare. Non sapevo nuotare, mi scaraventa-
rono letteralmente dal trampolino agonistico nello specchio
d’acqua di una calle appositamente adibito a scuola di nuoto,
con gli istruttori che aspettavano sotto. A Trieste si andava a
camminare e nuotare, il mare era scoglioso, ci andavo con i
miei fratelli, con la mamma - che nel frattempo aveva preso la
patente - e con la nonna Debora. A Trieste ho passato buona
parte dell’adolescenza. In quella città ho pattinato molto e
questo mi dava un grande senso di libertà. I primi pattini a
quattro ruote mi furono regalati per la befana poi arrivarono
quelli con lo stivaletto. Non mi hanno mai permesso di andare
a scuola di pattinaggio che, unitamente alla danza, era una
mia grande aspirazione. La musica sì, pattinaggio e danza
non mi erano consentiti.
   Un altro bel ricordo che ho di quel periodo è quello delle
colonie estive, al mare a Cervia e in montagna a Coredo. Mia
madre ci mandava anche per alleggerirsi in po’, io ci andavo
rassicurata perché sapevo che c’era anche mio fratello Sergio.

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Trieste, tredici anni, dipingo “Pattini d’argento”

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Destinazione Marche

   Un ultimo trasloco e, finalmente, almeno per mia madre,
destinazione Marche, Chiaravalle dove ho trascorso gran
parte della mia vita.
   Ma, prima di Chiaravalle, è necessario che accenni ad altre
due tappe del nostro viaggio in Italia. A Modena, dove sono
nata e dove ho ancora dei parenti, ci sono tornata spesso anche
ai tempi di Vasco Rossi, delle discoteche, della “gioventù
bruciata”. Fra le tante destinazioni della mia famiglia ci fu
anche quella di Palermo, una piccola parentesi che io ricordo
molto poco perché ero piccola e la permanenza fu molto breve.
   Il salto nelle Marche fu molto sofferto e comportò un bel
taglio nella mia adolescenza, perché a Trieste avevo la mia
cerchia e le mie amicizie. Partimmo per Chiaravalle che mio
padre peraltro già conosceva per aver frequentato la manifat-
tura nel corso della sua attività lavorativa, già all’inizio della
sua carriera, lo stesso periodo in cui aveva conosciuto mia
madre sulla spiaggia di Palombina. Lui partì per primo, quasi
in avanscoperta, e poi ci è tornò a prendere. Eravamo in tanti
sulla “Bianchina”, io stavo sulle gambe di mia nonna, mio
fratello incastrato dietro, avevamo con noi anche la gabbietta
con i porcellini d’India. In famiglia, a dire il vero, avevamo
anche una Fiat 125, ma non si poteva toccare tanta era la
venerazione maniacale che mio fratello Roberto aveva per
quell’auto. E così, divertendoci anche, arrivammo a Chia-
ravalle dove ho passato i miei 15 anni ma anche questo è

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Mia madre nel giardino della Manifattura tabacchi di Chiaravalle

stato molto difficile per me. Mi sono trovata ad attraversare
il fiume dell’adolescenza con tutti i miei bisogni scoperti che
si scontravano con le proibizioni molto forti da parte dei miei
genitori. Mio padre, come ho già detto, uomo di cultura
urbana bolognese, manteneva la sua mentalità di chiusura
soprattutto nei confronti miei come prima figlia femmina.
Non potevo frequentare chi volevo, non potevo avere un
“filarino”, dovevo stare a casa dove i miei fratelli potevano
fare tutto, mentre io ero sotto la loro tutela. Paradossalmente
potevo frequentare gli amici di mio fratello Sergio. Lì, nella
foresteria della manifattura, nacque la prima radio libera di
Chiaravalle - Radio Attiva -, trasmettevamo attraverso una

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Venti anni, al mare nelle Marche
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Lungomare di Senigallia, pattinare in libertà

A Fermo, in collegio
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antenna installata sul tetto da mio fratello Roberto, il grande
tecnico tuttofare. Anche in quel contesto cercai di farmi forza
con la voce. Era nato in quei locali anche un club, ma, nel
frattempo io volevo frequentare Adriano.

     In libertà controllata

    Era la mia una libertà controllata che portò ad un taglio
molto forte con la mia famiglia e generò un clima di vera e
propria segregazione nei miei confronti. Arrivarono a chiu-
dermi a chiave per non farmi frequentare Adriano, quello che
sarebbe stato il futuro padre di mio figlio Diego. Fu allora
che cominciai a rifiutare il cibo che mia madre preparava.
Quello che mi salvò in quel momento fu l’inserimento in
collegio a Fermo quando i miei genitori, proprio per asse-
condare le mie capacità artistiche, mi iscrissero alla scuola
d’arte di quella città. Così presi la mia valigia per Fermo dove
risiedevo da esterna al collegio gestito dalle suore del Bambin
Gesù. A scuola andavo molto bene c’erano diversi indirizzi,
non molti per la verità, io ho scelsi ceramica. Le suore erano
molto severe, ma io avevo la fortuna di non stare più di tanto
a contatto con loro perché gran parte della giornata la passavo
all’istituto d’arte. Con Adriano avevo un rapporto epistolare
e una sporadica frequentazione quando veniva a trovarmi
a Fermo. Stavo bene, fu un un bel periodo, a Fermo avevo
le mie amiche - Stefania e Grazia con le quali mi rivedo e

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Lilli a Chiaravalle

1980, con Lilli a Chiaravalle

                                43
1979, Chiaravalle, la mia camera

2019, Chiaravalle, con Anna, la mia seconda mamma

44
Saggio di pianoforte al teatro di Chiaravalle

mi ci sento ancora - , i primi amori, ero molto esuberante e
furono proprio la mia esuberanza e la mia bravura a indurre
i miei genitori a portarmi via da Fermo. Tornai così a Chia-
ravalle dove mi misero di fronte a tre possibili scelte: andare
a lavorare, iscrivermi all’istituto magistrale, andare al liceo
scientifico di Jesi dove c’era già mio fratello Sergio al quale
ero molto legata. Scelsi il liceo.

   Lilli, la prima amica

   C’era anche Lilli, la mia storica amica, la prima che avevo
incontrato a Chiaravalle. Lei viveva nella palazzina di fianco

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I miei compagni di classe al liceo

alla manifattura tabacchi, dove abitavano altri funzionari della
“Fabbrica” (a Chiaravalle la chiamavano così) e dove tuttora
abita sua madre. Lilli, mia coetanea, è stata anche grande
compagna di adolescenza. Liceale anche lei, ma in un’altra
sezione, era una ragazza affettuosa e vivace, molto semplice
come la sua famiglia. Ha una sorella più grande, Gabriella,
che aveva, anche lei, il compito di controllarci. Chiesi a Lilli
di accompagnarmi da mio padre perché avrei voluto parlare
con lui della mia situazione. Ci ricevette, con un certo disap-
punto da parte mia, nel suo ufficio, dove mi ascoltò per riba-

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Con Gabriella (a sinistra) e Lilli

dire comunque che certe regole c’erano e andavano rispettate.
Dopo quell’incontro lo battezzai “cuore di pietra”.
   Durante il liceo Adriano partì per il servizio militare nei
paracadutisti a Pisa e mantenemmo un rapporto epistolare.
Vista la mia situazione le sue lettere arrivavano a casa di sua
madre Annamaria e della sua famiglia.
   Fu in quel periodo che, per protestare contro quello stato
di segregazione fuggii ad Urbino da mia cugina Isabella che
studiava all’università. Fui colpita positivamente dal clima
studentesco libertario che trovai nella casa dove risiedeva.
Musica dei Pink Floyd, ragazzi che fumavano, bevevano e
ridevano. Chiamai casa dopo qualche giorno, mi rispose mia
madre e, senza rivelare dove fossi, le dissi che sarei tornata

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a casa solo se le cose fossero cambiate. Lei mi chiuse il tele-
fono e questo mi provocò un dolore fortissimo. I genitori mi
trovarono, vennero a prendermi ad Urbino e mi portarono
via trascinandomi come una carcerata. In auto - la Fiat 125 -
dovettero trattenermi perché mi volevo buttare fuori. Fu un
momento in cui rimasi attanagliata dal non senso della vita.
Tornata a casa mi accorsi che la situazione non era cambiata,
al punto che un giorno mia madre, dopo una litigata, buttò
tutte le mie cose dalla finestra e mi scacciò fuori di casa.
   Mi ospitò Anna, la mamma di Lilli e Gabriella. Ancora oggi
dopo tanti mi ripete che la sua casa per me è sempre aperta e
ricorda di quando in quei giorni incontrò i miei genitori e mio
padre le disse: “Signora, lei mi ha rotto le uova nel paniere”.

     Anna

   La madre di Lilli, Anna, oggi ha 95 anni, è stata una donna
dal carattere forte, oggi direi maschile, preponderante, ma,
nello stesso tempo, comprensiva. La loro famiglia aveva sofferto
molto quando il padre di Lilli se n’era andato da casa perché si
era innamorato di una cara amica della moglie. A quei tempi
fu uno scandalo. Anna si rimboccò le maniche e, con molti
sacrifici, ricominciò la sua vita con le due figlie. La loro casa
era sempre aperta. “Aggiungi un posto a tavola” era solita
dire Anna. Il padre di Lilli aveva mantenuto la latitanza nei
suoi confronti anche dopo l’uscita dalla famiglia e io mi vissi

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un po’ anche della loro situazione familiare. Lilli fu poi mia
testimone di nozze quando nel 1982 mi sposai con Adriano.
   Il quadro “La piccola fiamnmiferaia”, dipinto da me a
Trieste quando avevo tredici anni, lo donai a Lilli, la quale
alcuni anni fa me lo ha restituito in comodato. Dietro a matita
e con la grafia di mio padre è annotata la mia età.
   Torniamo al viaggio. Andai al liceo a Jesi nonostante il
mio odio per la matematica. Prendevo l’autobus con mio
fratello più grande, ma appena un anno più avanti di me
nel corso di studi. Anche lui era stato un po’ esuberante e
aveva perso un anno. La contiguità anagrafica con Sergio,
me lo rendeva più vicino rispetto agli altri due fratelli. Stessi
giochi stesse amicizie, io giocavo con i suoi soldatini, lui con
le mie bambole, un bello scambio. A Chiaravalle quando
ripresi a frequentare il futuro padre di mio figlio, Adriano, i
miei genitori chiusero nuovamente il lucchetto perché erano
molto contrari a questa relazione. Avevano chiesto infor-
mazioni - prete, sindaco, farmacista, come si fa nei paesi - e
ne avevano ricavato la convinzione che il padre di Adriano
e la sua famiglia fossero persone da evitare. Adriano faceva
parte del gruppo dei fascisti di Chiaravalle, persone abituate
a picchiare. Oltre a questo i miei genitori ritenevano che
fossi troppo giovane per potermi già scegliere un marito. Io
ovviamente continuai a frequentarlo di nascosto aiutato da
mio fratello, dalle amiche e amdai avanti così fino all’età di
22 anni quando mi sposai con lui.

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Il professor Tamburi nel suo studio

Jesi, 2019, a casa del professor Tamburi

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Il professor Tamburi

    Al liceo avevo un insegnante di materie artistiche, Faliero
Tamburi, che, con grande emozione sono stata a trovare poco
tempo fa. Un incontro che sentivo di dover fare. Al liceo,
dove si fa essenzialmente disegno tecnico, Tamburi, vista la
mia insistenza, mi aveva lasciato una inaspettata libertà di
espressione fino a consentirmi di portare colori e pennelli.
“Disegni classici - si era raccomandato comunque Tamburi
- siamo al liceo scientifico non si può fare disegno dal vero”.
Tamburi nonostante l’età dipinge ancora alla grande, quando
l’ho incontrato mi ha fatto visitare la sua casa e mi ha donato
un sasso pitturato, me ne ha fatti vedere tanti e mi ha chiesto
di sceglierne uno. Ne ho preso uno a caso in cui è raffigurato
un particolare de “La madre e figlio” di Picasso. Appena mi
sono accorta del soggetto sono scoppiata a piangere. Dopo
questo incontro gli ho scritto una lettera che ho lasciato nella
sua cassetta della posta ripromettendomi di tornare a trovarlo.

  Di nuovo a Venezia?

   Le tappe artistiche hanno segnato il mio percorso di vita.
Finito il liceo mi si prospettava la possibilità di andare all’ac-
cademia di Venezia, dove mio fratello era già iscritto alla
facoltà di architettura e aveva un appartamento di proprietà.
La condizione imposta dai miei genitori per acconsentire

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Il sasso dipinto donatomi da Tamburi

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al mio trasferimento a Venezia era che io lasciassi Adriano.
Non ho accettai e decisi di sposarmi con lui. Avevo 22 anni.
I miei genitori a loro volta non condivisero la mia scelta e
non vennero neanche al mio matrimonio. Ero felice, ma
stavo male, avevo con me le mie amiche, Liliana a fare da
testimone, mio fratello Sergio che mi accompagnò all’altare,
mia sorella Silvia. Mio fratello Roberto si schierò dalla parte
dei genitori e non venne neanche lui.
   Ricordo che Lilli pianse e raccomandò ad Adriano di trat-
tarmi bene. Il mio matrimonio lo preparammo nell’apparta-
mento della manifattura tabacchi, anche questo grandissimo
e intricato e con un bel giardino. Vennero le mie amiche che
come in una danza mi aiutarono a vestirmi. Quel giorno i
miei genitori uscirono di casa per non vedere. La mamma di
Lilli, la mia seconda mamma, mi ha aiutò moltissimo. La vado
ancora a trovare la signora Anna e ci coccoliamo a vicenda.
Lilli al contrario è andata in Africa e ancora vive lì con la sua
famiglia africana allargata.

  Chi è venuto alle mie nozze?

  Mi sposai e andai a vivere con Adriano. Tornai pochi giorni
dopo dai miei genitori per informarli che sarei stata via per
qualche giorno, in viaggio di nozze. Al matrimonio venne
mio nonno, il padre di mia madre, una persona importante
per me. Una persona che ricordo buona, amava me e gli altri

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1982, Chiaravalle, il giorno del mio matrimonio

nipoti e teneva una mia foto sul suo comodino. Mi annunciò
che avrebbe partecipato, prese posizione come la presero altri
due fratelli di mia madre. Mia madre, al contrario, mi diceva
che era un uomo cattivo e manesco e picchiava sua moglie
facendola tanto soffrire. Erano una famiglia di mugnai, avevano
diversi mulini e anche il forno, lavoravano sodo.
   Nel frattempo mi accorsi che Adriano era una persona
molto arrabbiata con il mondo intero. Dimostrò questa sua

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Mio fratello Sergio, mia sorella e i miei parenti materni il giorno del
matrimonio

rabbia già prima del matrimonio picchiando me, sua sorella
che, appena poté, si allontanò da casa, e suo fratello. Io me lo
sposai così anche con questa sua parte di violenza. Ero total-
mente dipendente da lui e del suo negativo, da quel negativo
che continuava a perpetuarsi nella mia esistenza. Desiderava
un figlio subito, io non mi sentivo pronta per quello che
allora veniva visto come un passo obbligato nel matrimonio.
   Dopo di me si sposarono anche i miei fratelli e sorella.
Roberto con Beatrice, una mia compagna di scuola, hanno due
figli, Elena e Andrea. Sergio con Lorenza e Silvia con Vildo.

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Nasce Diego

   E fu così che nel 1985 nacque Diego, Adriano era felicissimo
anche se mi aveva picchiato perfino durante la gravidanza.
Trascorsi la gravidanza facendo di tutto anche il pattinaggio,
fino agli ultimi giorni, con la valigia pronta in macchina.
Quando nacque Diego arrivò Anna, la mia seconda mamma
e anche la mamma di Adriano. Al mattino, Diego era nato
di notte, avvisarono i miei genitori. Mia madre non venne
perché aveva paura di mettere piede in qualsiasi ospedale, arrivò
mio padre, a casa aveva lasciata sulla porta un cartello con su
scritto “È nato Diego”. Furono con me me in ospedale le mie
amiche, mia sorella, Adriana, la sorella di Adriano. Tornai a
casa con quel fagottino, ma mi sentivo male perché ero sola.
Mia madre mandò una donna per aiutarmi ma lei non venne,
Diego glielo portai io per farglielo vedere. Mi furono vicini
Sergio e Silvia che ha scambiato molto con Diego.
   Negli anni della prima infanzia di Diego mia sorella è stata
importante, non tanto come sorella con la quale scambiarmi
alla pari, quanto come sostegno, soprattutto per mio figlio.
Quando poteva lo prendeva e trascorreva del tempo con lui.
È stata l’unica persona che, fedele alla sua missione, non lo
ha mai lasciato.
   Io cominciai a stare male, attacchi di panico. Psicologo,
psichiatra, neurologo, un tragitto di sofferenza.

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Chiaravalle, parco Primo maggio, nono mese di gravidanza
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Con mia sorella Silvia

Con mio fratello Sergio

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Diego

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Diego il giorno del battesimo
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Al mare con Diego

Diego con me e suo padre il giorno del suo primo compleanno

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Senigallia, al mare in braccio alla zia Silvia

In braccio alla nonna paterna Debora

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Diego a carnevale con la zia Silvia

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Due sorelle e due sorelle: a sinistra Silvia e io (incinta di pochi mesi), a
destra Anna e mia madre

     Le cugine più care, Rossana e Angelica

   Le mie più care cugine, con le quali ho condiviso parti
importanti della mia vita sono state Angelica e Rossana,
purtroppo entrambe prematuramente scomparse. Angelica,
un anno più piccola di me, era figlia di una sorella di mia
madre, Anna, persona che io adoravo. La zia che sapeva
giocare, comprendere, accogliere, Abitavano a Modena, ogni
tanto prendevo il treno per andarle a trovare. Fin da piccola,
da sola, mi mettevano sul vagone affidandomi al capotreno
e così con il mio vestitino rosa a quadretti arrivavo dalla zia
moderna e sorridente e dalla cuginetta che godeva già di una

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Da sinistra, Angelica, Rossana ed io

Con Rossana

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Con Angelica

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certa libertà. La zia mi fece togliere gli orecchini e mi comperò
un costume due pezzi. Anche nel vestire i miei genitori mi
avevano sempre bloccato.
   Angelica era intelligente, bella, apparentemente libera,
piena di amicizie. Scriveva molto, forse, come figlia unica,
era un po’ viziata ma soffriva a causa di un padre alcolista che
non l’aveva mai accolta.
   Rossana, figlia di un fratello mugnaio di mia madre, aveva
un anno più di me e abitava da sempre in una casa nella
campagna circostante Jesi, vicino al fiume Esino, dove, in
occasione delle festività, ci ritrovavamo anche noi, con la
nostra famiglia viaggiante. Anche con lei, prima, durante
e dopo la mia separazione, si instaurò un bel rapporto. Mi
aiutò molto fino a diventare per me un punto di riferimento
e di protezione. Aveva un forte maschile che mi attirava e
così ci siamo scambiate e sorrette a vicenda. I nostri figli
sono nati nello stesso anno, nel 1985, lo stesso anno in cui
lei perse sua madre, donna ancora giovane. Poi lei ha avuto
una bambina, Sara, che nel periodo della malattia è stata la
sua “infermiera”. È stata lei, fisioterapista, ad accompagnarmi
nella pratica della massoterapia con un indirizzo marcata-
mente olistico. Un settore di attività completamente diverso
da quelli in cui ero stata fino a quel momento, che all’inizio
mi ha spaventato, ma poi mi ha affascinato. Lei non aveva
goduto di quelle parti adolescenziali che io avevo vissuto con
Angelica ed io con lei rivivevo volentieri momenti di legge-
rezza. Eravamo come due adolescenti, quando potevamo

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Padre...

... e figlia. Dipingono insieme
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La pittura, l’altra parte di mio padre

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lasciavamo i figli a sua suocera e andavamo a ballare. E poi i
viaggi con la moto che lei adorava e guidava e con il camper
insieme con i nostri figli. Dormivamo spesso insieme a casa
sua, quella in campagna, univamo i lettini dei bambini per
farci compagnia. Il marito tornava tardissimo dal lavoro e i
bambini dormivano insieme su un lettone matrimoniale. Ed
io mi lasciavo trascinare in questa fiaba. Il fiume ogni tanto
straripava e, quando pioveva molto, lei andava con suo padre
a controllare il livello dell’acqua. Amava la caccia e, una volta
aperta la stagione venatoria, andava con mio zio a fare battute.

     Tempo di pellicce

   Nel frattempo avevo cominciato a lavorare come modellista
e stilista da mia zia che aveva una azienda che confezionava
pellicce. A me piaceva disegnare, nel frattempo avevo frequen-
tato anche un corso da modellista. La zia in questione, che
gestiva l’azienda con le sue sorelle, aveva sposato un fratello
di mia madre ed era venuta al mio matrimonio. All’inizio
mi misero in negozio, poi, quando le manifestai il mio
desiderio di lavorare nel disegno e creazione prototipi delle
pellicce, mi spostarono in laboratorio. Diego non era ancora
nato. Modellazione, disegno, sfilate a Milano e Firenze, mia
nonna mi aveva insegnato a cucire, ho cucito un po’ di tutto.
In pellicceria facevo un lavoro creativo: disegnavo i bozzetti
che poi portavo su carta modello per la creazione del capo.

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2019, con Silvia

2017, i quattro fratelli e sorelle

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Qui conobbi la modellista Anna (un nome che si perpetua
nella mia storia personale) quasi una mamma per me. Donna
generosa e gentile, mi accoglieva a casa sua e mi insegnava
con cura il mestiere. Questo lavoro andò avanti per dodici
anni durante i quali cambiai anche pellicceria perché la zia
- nel frattempo era nato Diego - o meglio le sue sorelle non
erano disposte a concedermi il part time. Passai ad un’altra
pellicceria vicino casa, sapevano che avevo lavorato in quella
che era ritenuta una rinomata pellicceria di Jesi e mi presero
subito a lavorare sempre nel settore della modellazione e del
disegno. Alcune persone volevano le pellicce con le fodere
dipinte, quindi facevo anche un lavoro di personalizzazione
delle pellicce. Non solo, qualche cliente mi chiedeva anche
di disegnare tende e tessuti. Disegnavo di tutto e stavo male,
malissimo, al punto che lasciai il lavoro che ritenevo fosse la
causa di tutto quel male. Smisi di suonare e di dipingere. Non
ce la facevo ad uscire di casa, attacchi di panico, difficoltà ad
accompagnare Diego all’asilo. Mi sentivo e mi trovavo da sola
io che da sola ero abituata ad andare dappertutto.

     Crolla il mondo

  Questo è stato il periodo in cui ho deciso di separarmi da
mio marito, crollata io è crollato anche il rapporto con mio
marito. Mi sono consultata con uno psichiatra di Jesi al quale
ho chiesto di prescrivermi psicofarmaci. Si è rifiutato dicendo

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che avrei potuto farcela da solo. La mia voce? Non c’era o,
meglio, si stava preparando. Ho avuto due ricoveri in ospedale
per percosse da parte di mio marito, con il viso tumefatto e
con tutto quello che seguì a livello legale. Anche i miei geni-
tori, con i quali non avevo mai parlato della mia situazione
familiare e della violenza che subivo, furono concordi nel dirmi
che, per evitare guai peggiori, mi dovevo separare. Così, con
l’aiuto economico anche dei miei genitori, mi trasferii a Jesi
dove avevo anche i parenti, fra i quali mia cugina Rossana.
Anche perché in paese il fatto che la figlia del direttore della
manifattura tabacchi si era separata sarebbe stata vista come
disdicevole. Diego aveva appena cominciato a frequentare la
prima media a Chiaravalle, mia madre mi trovò rapidamente
un appartamento a Jesi. Era il 1996, mia sorella mi fu vicina
e mi aiutò anche nel trasloco. I primi anni sono stata male
perché Adriano mi diceva che me l’avrebbe fatta pagare, avrei
dovuto guardarmi alle spalle, perché mi avrebbe ammazzato.
Una girandola legale con avvocati e tribunale dei minori al
quale Adriano si era rivolto perché non l’avevo tempestiva-
mente informato del trasferimento mio e di Diego a Jesi. Partì
così l’intervento di psicologhe, assistenti sociali e tribunale.
Pensavo fosse una mossa di Adriano per cercare di avere l’af-
fidamento di Diego. La macchina giudiziaria partì, accettai
il consiglio che mi veniva da più parti di lasciarla correre che
si sarebbe prima o poi fermata da sola, opporsi avrebbe signi-
ficato solo mandarla più per le lunghe. Era il modo in cui
Adriano cercava di farmela pagare senza peraltro occuparsi

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mai più di tanto di Diego, che di fatto ho cresciuto da sola
facendogli da madre e da padre. Cinque anni di tutela del
tribunale dei minori sono stati molto duri. Uscivo dal tribu-
nale in lacrime, dovevo accompagnare Diego e lasciarlo da
solo. Salivo in autobus con Diego, io dietro e lui davanti con
le due assistenti sociali per evitare che lo influenzassi troppo
prima dei colloqui che avrebbe avuto in tribunale.

     Torna la voce

   Nel frattempo cercai lavoro. Lo trovai in una agenzia immo-
biliare che stava vicino casa. Pensavo che fosse un lavoretto
che mi avrebbe lasciato una certa autonomia organizzativa ma
come avrei potuto riuscirci io che ancora balbettavo? Decisi
di andare. Entrai nell’agenzia presentandomi. Mi dissero che
sarei dovuta stare al telefono per chiamare, spiegare, cercare
di convincere. Vollero ovviamente sentire come parlavo al
telefono. Diventai di mille colori, ma andai al telefono in
una stanza separata con una serie di numeri di telefono da
chiamare. I titolari dell’agenzia avrebbero ascoltato le mie tele-
fonate dalla stanza accanto con un apparecchio comunicante.
Provai, feci il primo numero, la mia voce uscì limpida e senza
intoppi. Ero così felice. Mi dissero che avevo una bellissima
voce, sapevo parlare ero brava a presentarmi e così mi misero
in prima fila alla reception dell’agenzia. Io parlo - pensai
subito - ho valore, questi il mio valore l’hanno visto. Da quel

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momento la mia voce è ripartita. Un passaggio fortissimo che
è difficile fare da sola. Uscii da quell’ufficio felicissima, quasi
non toccavo terra. Stavo male, balbettavo, ero stata picchiata,
mi ero separata, i miei mi aiutavano, ma di fatto ero sola. Un
passaggio importante sul quale ritorno spesso.

  ... e il viaggio continua

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