Comunicazione 2022 - Tutto è Comunicazione 2022,Vanity Fair

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La Copertina d'Artista - Tutto è
Comunicazione 2022
É uno strano cartello quello che vediamo sulla Copertina d’Artista di questo infuocato giugno del
nostro magazine.

Alla pensilina di una fermata del pullman, sul pannello laterale leggiamo la scritta: “Non leggete
questo cartello!” con tanto di firma del presunto autore, Paul Watzlawick.

Si tratta di una “affermazione paradossale”, una di quelle di cui Watzlawick, grande psicologo e
filosofo austriaco naturalizzato statunitense (nonché eminente esponente della statunitense Scuola
di Palo Alto, seguace del costruttivismo e tra i fondatori e tra i più importanti esponenti della
psicologia sistemica), si serviva per spiegare alcune insidie e paradossi della comunicazione umana.
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2022 realizzata da POP Invader.
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Forse è questa una delle Copertine d’Artista più “parlanti” di sempre apparse sul nostro magazine,
l’artista non ha voluto dare spazio alcuno ai fraintendimenti e/o ambiguità e per rappresentare la sua
idea di “Tutto è Comunicazione” si è avvalso di una fotografia con un bel manifesto in primo piano
e una scritta bella grande e chiara.

          Scopri il nuovo numero: “Tutto è Comunicazione”
    In 20 anni è cambiato tutto. Ai media tradizionali si è affiancato internet. Lo smartphone ci ha
   portati nel futuro. Con le applicazioni si sono creati nuovi modelli di business. I social hanno fatto
                                   il resto. Oggi tutto è comunicazione!

Ovviamente non possiamo sapere se questa fermata del pullman con questo manifesto esiste
davvero, o se piuttosto si tratta di una semplice elaborazione grafica, certo è che l’artista di questo
mese ci consegna non solo una copertina, ma pure una dichiarazione di intenti, un vero e proprio
manifesto della sua idea di comunicazione, e per fugare qualsiasi dubbio residuo intitola la sua opera
“Watzlawick docet”.

A confezionare questo omaggio a Paul Watzlawick ed alla scuola di comunicazione e psicologia di
Palo Alto è lo sfuggente artista POP Invader, che già ha collaborato con il nostro magazine
realizzando le Copertine d’Artista dell’Agosto 2019 “Moda in Italy” e dell’Agosto 2020 “Turista
per Covid”.

  Chissà se a voi sarà mai capitato di leggere lungo le strade o nelle città cartelli, segnali e
  manifesti con scritte paradossali, con indicazioni che smentivano quello che affermavano.
  Secondo la “Pragmatica della Comunicazione Umana” di Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e
  Don D. Jackson, la comunicazione paradossale si basa sulla teoria del “doppio legame”, si tratta in
  sintesi di un messaggio che è codificato in modo che:

  1) Asserisca qualcosa;

  2) Asserisca qualcosa sulla propria asserzione;

  3) Queste due asserzioni si escludano a vicenda.

  POP Invader è uno pseudonimo, un nickname dietro cui si nasconde un
  artista di cui non sappiamo sesso, età e provenienza, un artista, ma
  potrebbe essere anche un collettivo, che fa delle vere e proprie sortite
  artistiche all’interno del web, sottraendo, rubando alle volte, delle
  immagini esistenti che poi elabora in maniera creativa e sorprendente.
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Vanity Fair: una bella lezione di libertà,
ispirazione e giornalismo
Fra i compiti che un giornalista dovrebbe svolgere per fare al meglio il suo lavoro, il più importante,
e spesso il più trascurato, è quello di leggere per tenersi aggiornato. Leggere libri, quotidiani, siti
online di news, politica e costume, riviste specializzate dei settori più di tendenza e, in particolare,
quelle della concorrenza.

Leggere insomma è, secondo la mia particolare esperienza e gli insegnamenti che ho avuto durante
la mia gavetta da apprendista giornalista, non solo utile ma fondamentale, e lo è diventato ancora di
più da quando nel marzo 2014 sono diventato direttore responsabile di questo magazine online.

Riviste come Millionaire e Capital, quotidiani come ilSole24ore e Repubblica, siti come The
Vision e Lettera 43, settimanali come La lettura e Il Domenicale, sono stati, negli anni, fonte
inesauribile di spunti ed ispirazione oltre che vere palestre di giornalismo.

Non mi è mai capitato di provare invidia per nessun editore, rivista o direttore di giornale, anzi,
quanto più i loro scoop, i loro reportage, le loro inchieste avevano successo, tanto più mi spronavano
a migliorare la mia scrittura, ad approfondire le mie conoscenze, a verificare le mie fonti ed a
riorganizzare le mie idee, in una parola a fare meglio il mio lavoro di giornalista.
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air con bellissima modella transgender Roberta De Titta Graziano.

Quanto detto sull’invidia, però, in tutta franchezza, nelle ultime due settimane, fra la fine di
settembre e l’inizio di ottobre, è stato messo a dura prova. Infatti mai come in questo lasso di tempo
avrei voluto che il nostro magazine fosse Vanity Fair ed io il brillante e creativo direttore
responsabile dello stesso, Simone Marchetti.

Il perché è presto detto: gli ultimi due numeri del noto settimanale di moda e tendenze, il 39°, uscito
a fine settembre, ed il 40°, all’inizio di ottobre, con le relative cover, sono diventati due degli
argomenti più discussi e divisivi non solo nel web ma anche del dibattito politico e culturale.

Se siete fra quei pochi che non sapete di cosa io stia parlando, facciamo un breve riassunto: il 39°
numero di Vanity Fair (in edicola il 23 settembre) è stato un vero esperimento, l’editore Condé
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Nast ed il già citato direttore Simone Marchetti hanno affidato la direzione artistica dell’intero
numero al notissimo artista italiano Francesco Vezzoli.

Il numero era dedicato a “Le donne italiane”, con una copertina che ritraeva, già questa una
dichiarazione programmatica, la bellissima modella transgender Roberta De Titta Graziano, che
però, nonostante il bigottismo e l’omofobia dilaganti nel nostro Paese, è “stranamente” passata quasi
inosservata. Il perché è presto detto: all’interno del settimanale realizzato da Vezzoli, immaginato
come una grande galleria d’arte di ritratti femminili, fra le donne chiamate ad impersonare famose
icone della storia figurava anche la nota fashion blogger e imprenditrice italiana Chiara Ferragni,
che l’artista ha ritratto, in un riuscitissimo mashup, come la Madonna con il bambino dipinta da
Giovanni Battista Salvo detto il Sassoferrato.

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rancesco Vezzoli.

Ed allora apriti cielo, l’immagine della Ferragni è subito diventata virale, spaccando il web, e
l’opinione pubblica più in generale, fra chi gridava allo scandalo se non alla blasfemia e chi invece
apprezzava l’operazione culturale e sovversivamente creativa realizzata dalla testata. Il polverone
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mediatico è stato immenso ed il numero di Vanity Fair, visto l’autore già da collezione, è andato
letteralmente a ruba. Altri lettori ha significato altre polemiche che hanno causato una reazione a
catena di commenti e condivisioni sia sul web che sugli altri organi di informazione. Molti, la
maggior parte dei commentatori, ha gridato allo scandalo, dichiarando il proprio imbarazzo e
sconcerto per la scelta dell’artista di ritrarre Chiara Ferragni come una Madonna, perché il
personaggio non sarebbe “degno”, stando a queste critiche, di essere raffigurato come la Santa
Vergine della Cristianità.

                     Scopri il nuovo numero: #ripartItalia
   Mai come ora, in questo settembre 2020, un numero come #ripartItalia sembra utile e necessario
   perché, mai come adesso, in questo nefasto anno bisestile, abbiamo bisogno di fare il punto sulle
                      cose, su noi stessi, sui nostri obbiettivi e sulle nostre vite.

Eppure basta farsi una passeggiata a Roma per arrivare alla Basica di Sant’Agostino ed ammirare
la famosa “Madonna dei pellegrini” di un certo Caravaggio per scoprire che le modelle che
hanno ispirato ed impersonato la Santa Vergine nella storia dell’arte erano assai più “chiacchierate”
di Chiara Ferragni. Nell’opera in questione, ad esempio, è noto che Caravaggio utilizzò come
modella una famosa “cortigiana” d’alto bordo, Maddalena Antognietti, detta Lea, che intratteneva
una relazione anche con lo stesso pittore. Ora, una escort, seppur di alto bordo, è sicuramente meno
“adatta” di una fashion blogger, imprenditrice capace, madre amorevole e moglie devota come
Chiara Ferragni ad impersonare la Madonna. Forse l’unica colpa della Ferragni è quella di avere un
successo strepitoso nella vita e negli affari che un certo “pubblico meschino” non può e non vuole
perdonarle.

Era già successo un paio di mesi fa, quando la fashion blogger realizzò un tour prima agli Uffizi di
Firenze ed a Palazzo Barberini di Roma ma anche al Museo MarTa di Taranto: da tutte le parti si
erano scatenate le critiche e le proteste, anche dal mondo accademico ed intellettuale, che pareva
diviso circa la positività dell’operazione di promozione. Ma questa volta si è andati decisamente
oltre, per la foto di Vanity Fair si è mobilitata addirittura la Codacons con un esposto legale
presentato alla Procura della Repubblica e al Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini.
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ggio.

Ma non è finita qui: se un successo così strepitoso può bastare per un anno o più a qualunque
magazine ed editore, la settimana successiva Vanity Fair è riuscita a fare il bis ed ha capitalizzato
nuovamente l’attenzione mediatica con un altro numero strepitoso dedicato sempre alle donne, con
una cover questa volta, che ha causato un secondo boom di vendite e commenti.

Il 40° numero della rivista infatti ritraeva sulla copertina una splendida Vanessa Incontrada senza
veli e ritocchi digitali che si è spogliata letteralmente di tutti gli orpelli per raccontarsi in una lunga
ed appassionata intervista. L’intento era quello di mostrare una bellezza non allineata ai canoni
“attuali” che vogliono modelle e bellezze fotocopia che difficilmente superano i 40 kg di peso e la
taglia 38-40. La Incontrada invece è meravigliosa nella sua bellezza burrosa di quarantenne che
finalmente, come dichiara nell’intervista, è scesa a patti con il suo corpo e, soprattutto, con le
opinioni degli altri, che in passato hanno profondamente condizionato la sua vita. Il messaggio ed il
titolo del magazine era “Nessuno mi può giudicare (nemmeno tu)” ed esplorava un nuovo modo
di intendere la bellezza, soprattutto quella femminile.

Ma questi, che possono sembrare due colpi di fortuna, sono invece il risultato di una precisa scelta
editoriale che sta portando il magazine di punta dell’editore Condé Nast a diventare leader di
mercato, soprattutto da quando nel dicembre 2018 la direzione è stata affidata a Simone
Marchetti, 47 anni, una laurea in Filosofia alla Statale di Milano, con una lunga gavetta in
quotidiani e riviste e con una grande passione ed una conoscenza della moda e degli strumenti
social.

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ero di Vanity Fair con la splendida Vanessa Incontrada.

In poco più di un anno la linea editoriale del settimanale si è concentrata nello sradicare il
bigottismo, l’intolleranza di genere, l’omofobia e la violenza sulle donne con articoli, reportage e
copertine coraggiose, di cui questi ultimi due numeri rappresentano finora le vette più alte. Inoltre,
Vanity Fair ha deciso di ibridare ancora di più il mondo della moda e dello style con tutti quei mondi
attigui e complementari, come la cultura, l’architettura e, soprattutto, l’arte contemporanea, e
quest’ultima scelta in particolare è la stessa che anche il nostro magazine ha abbracciato da 6 anni,
quando lanciò la sua “Copertina D’Artista”, nel gennaio 2015 (qui trovate la prima realizzata
dall’artista Giulio Giancaspro).

Ma allora, dove voglio andare a parare?

Due sono i motivi che mi hanno portato a scrivere questo articolo.
Il primo è quello di raccontare due capolavori editoriali incasellati dallo stesso settimanale in due
uscite consecutive, che sono frutto, come già detto, non di fortuna, ma di metodo, ricerca e una
precisa strategia, che, in un mercato editoriale pigro, poco coraggioso e paludato, come spesso è
quello italiano, acquista ancora più valore, diventando, ne sono convinto, punto di riferimento per
l’intero settore.

Il secondo è un motivo un po’ più articolato: per l’ennesima volta delle immagini geniali, sovversive e
coraggiose, diventano motivo per una profonda spaccatura dell’opinione pubblica e politica e, cosa
assai più grave, anche in questa occasione i social network hanno radicalizzato, inasprito e
amplificato a dismisura da un lato l’immancabile ignoranza di buona parte dei commentatori
occasionali e dall’altro l’estrema violenza verbale degli haters che, purtroppo è triste rilevarlo, sono
sempre in aumento.
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bre 2018 è alla guida di Vanity Fair.

Credo da direttore di un magazine di “addetti ai lavori”, come Smart Marketing, che forse l’unico
rimedio per contrastare questa deriva di odio nei social sia quella di educare, fin dalla scuola
elementare se non da quella dell’infanzia, le nuove generazioni ad un uso consapevole e responsabile
dei social network e della rete più in generale. Se per noi adulti è probabilmente troppo tardi
imparare un codice di condotta etico della rete, dovremmo concentrarci sulle prossime generazioni.

Si è parlato in passato ed a più riprese di istituire una sorta di “patentino” per navigare in internet, e
l’idea, per quanto radicale ed estrema, non è del tutto perniciosa. Pensiamoci, anche per guidare
una moto è richiesta la frequentazione di una scuola e il superamento di esami teorici e pratici, e
credo sinceramente che un profilo social nelle mani sbagliate possa causare molti e più gravi
incidenti di un ragazzo in moto.

Infine, permettetemi una chiusura delle mie: chi ha tacciato la rivista Vanity Fair di aver trattato gli
argomenti della bellezza, delle donne e dell’arte con superficialità, e fra questi ci sono stati molti
intellettuali, dovrebbe ricordarsi il monito del grande filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich
Hegel quando disse:
“Non c’è niente di più profondo di ciò che appare in superficie.”

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Tutto è comunicazione - L’editoriale di
Raffaello Castellano

Dove eravamo rimasti???

Gli ultimi 4 mesi hanno visto l’Italia ed il Mondo intero sprofondare nell’incubo della pandemia da
SARS-CoV-2 che tra le altre cose ha monopolizzato e verticalizzato totalmente la comunicazione e
l’informazione. Ne è un esempio anche questo magazine, che, a partire dal numero di febbraio
“Virale” fino al numero di maggio “Upgrade”, ha dipanato un racconto del quotidiano che si è
concentrato interamente sulle problematiche, ma pure le opportunità che un cambio di paradigma
così radicale come una pandemia virale porta insite in sé.

L’agenda politica, sociale, economica e culturale ha visto l’adozione di un lessico nuovo, di nuovi
linguaggi e soprattutto di nuovi comunicatori.

Le parole nuove le conosciamo bene, sono: quarantena, lockdown, coronavirus, Covid-19,
emergenza sanitaria, zona rossa, contagio, infetti, terapia intensiva, etc..

Il linguaggio nuovo è stato quello dei bollettini della Protezione Civile, delle Conferenze
Stampa del Governo a tarda notte, delle dirette Facebook, delle stanze di Zoom, delle
videochat di Skipe, degli innumerevoli webinar, videoconferenze e corsi online che si sono
susseguiti senza soluzione di continuità.

I nuovi comunicatori sono stati un po’ a sorpresa gli scienziati, soprattutto epidemiologi, virologi,
biologi, medici, veterinari, esperti di statistica e giornalisti scientifici, che hanno spopolato su tutti i
media, soprattutto la televisione, che è passata con “estrema” naturalezza da prime serate animate
da Panzironi e il Mago Otelma direttamente a virologi di fama come Ilaria Capua e Roberto
Burioni.

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o Burioni e Ilaria Capua

Insomma, la scienza, quella ufficiale e rigorosa, ha goduto di uno spazio e di un’attenzione mai viste
prima. Vuoi per paura, vuoi per disperazione, tutti noi, all’inizio della pandemia, perfino
terrapiattisti, no-vacs e complottisti vari, ci siamo rivolti alla scienza per avere una qualche
indicazione, una parola di speranza, un conforto, un’informazione sicura.
Ma tutto questo è durato poco, sono stati diversi i fattori che ci hanno piano piano allontanato dalla
scienza. Due su tutti, secondo chi scrive, i motivi principali: da una parte la diffusa ignoranza del
pubblico generalista sul funzionamento del metodo scientifico, e dall’altro gli scienziati stessi, che,
ubriacati dall’attenzione mediatica e abbagliati dalla luce dei riflettori, hanno per la maggior parte
sprecato questa occasione d’oro che il virus gli aveva offerto.

Ma analizziamo più approfonditamente entrambi i motivi.
Per quale motivo l’ignoranza su come funziona la scienza ha portato lentamente ma inesorabilmente
le persone a disaffezionarsi agli scienziati?

La scienza, al contrario di quello che pensa la gente comune, non fornisce certezze, ma anzi va
avanti per tentativi ed errori, teorie e confutazioni, successi e fallimenti. Fra i postulati
fondamentali del metodo scientifico ci sono: che una teoria possa essere falsificata, che un
esperimento possa essere replicato da un altro gruppo di scienziati, che un articolo
scientifico, prima della pubblicazione, debba essere validato da una comunità di pari.
Quindi la scienza, nelle migliori condizioni, propone teorie, ipotesi e studi che hanno una funzione
pratica, temporanea e possibile di verifiche future. Spingendo più in là il nostro ragionamento,
potremmo dire che se qualcuno propone una certezza inconfutabile, assoluta ed immutabile,
possiamo stare certi che non si tratta di scienza, ma di qualcos’altro.

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Quindi, alla luce del funzionamento del metodo scientifico, abbiamo capito che chiedere certezze alla
scienza è non solo sbagliato ma addirittura bizzarro, perché la scienza non è un dogma immutabile,
ma un processo dinamico ed in continua evoluzione.
Ma veniamo al secondo motivo: è indubbio che la maggior parte degli scienziati passati per la radio,
le dirette web e soprattutto la TV, abbiano peccato di narcisismo, finendo molto spesso per litigare
fra loro, urlando e contribuendo alla confusione e disaffezione del pubblico, che invece era alla
ricerca di rassicurazioni e di qualche parola di speranza. La colpa di questo purtroppo risiede nella
natura degli esseri umani, che, posti sotto i riflettori e la ribalta mediatica, spesso perdono la
bussola e dimenticano il loro ruolo. A discolpa della categoria si potrebbe addurre il fatto che,
ignorati per anni, mai ascoltati, sottopagati e frustrati, gli scienziati si siano fatti prendere la mano e
non abbiano saputo gestire un processo comunicativo così ampio, articolato e complesso come quello
mediatico, nel quale non ci si rivolge a pochi ricercatori sparsi per il mondo, che in definitiva parlano
la stessa lingua, ma ad un pubblico generalista, a digiuno di sapere scientifico e bisognoso di un
linguaggio più divulgativo, piano e chiaro.

             Scopri il nuovo numero: Tutto è Comunicazione
      La comunicazione è diventata centrale nella vita di tutti noi ed è cambiata molto nell’ultimo
   periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                          incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.

Ma, come ho ribadito all’inizio di questo editoriale, una cosa è l’informazione, altra cosa è la
comunicazione, saper divulgare è una capacità che bisogna saper imparare, coltivare ed esercitare,
e gli esempi di semplificazione e potabilizzazione di termini e discipline complesse abbondano.
Pensiamo al lavoro di divulgatori scientifici come Piero ed Alberto Angela, Mario Tozzi, Luca
Mercalli, di quelli storici come Alessandro Barbero o Paolo Mieli, o di quelli economici come
Carlo Cottarelli o Francesco Specchia, quest’ultimo fautore di un comunicazione economica non
solo divulgativa, ma addirittura pop, come il fortunato esperimento del canale multipiattaforma
POP Economy dimostra.

Ed è proprio il giornalista e direttore di POP Economy, Francesco Specchia, che abbiamo
intervistato sul tema di “tutto è comunicazione” e che ci ha aiutato ad orientarci meglio in questo
particolare periodo storico, congestionato ed intasato di parole, informazioni contraddittorie,
dichiarazioni politiche e fake news.
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ore di POP Economy, Francesco Spechhia

Prima di concludere, permettetemi un’ultima digressione, che come mia
abitudine sarà “laterale”.
Quale è, se c’è, la forma di comunicazione che meglio ci può aiutare a comprendere, filtrare e
classificare meglio l’immensa quantità di informazione e comunicazione che quotidianamente ci
sommerge?

Penso, ma sono molto sicuro, che la forma di comunicazione migliore per comprendere il presente
sia l’arte, soprattutto contemporanea. Come sapete, quasi dall’inizio della sua nascita questo
magazine affida ogni mese il tema alla sensibilità di un artista sempre diverso, scelto proprio per le
sue caratteristiche di stile e linguaggio. Lo sappiamo benissimo che un’immagine ci dice molte più
cose di un articolo: è più immediata, più interessante, più seducente, certo non sempre risulta facile,
o di univoca o rapidissima lettura, però l’arte (come tutta la cultura) ci costringe in un mondo
scandito da tempi sempre più concitati, come questi della ripartenza da Fase 3, a fermarci,
guardare, ammirare e riflettere, insomma l’arte, come ho detto altrove, ci aiuta a concentrare la
nostra attenzione, affinare il nostro pensiero ed ad approfondire il nostro senso critico.

Pensate che stia esagerando?
Allora vi propongo un piccolo e veloce test, proponendovi le tre Copertine d’Artista che il nostro
magazine ha dedicato negli anni al macro-tema della comunicazione: la prima, del giugno 2015,
realizzata da Michele Petrelli, dall’iconico titolo “Enforced Silence” (Silenzio Forzato); la
seconda, del giugno 2019, realizzata da Vincenzo Maraglino, dal lapidario titolo “Atrofizzati”, e
la terza, quella di questo 74° numero, del giugno 2020, realizzata da Paola Montanaro,
dall’emblematico titolo “Urlo”, e vi sfido a trovare tre “sintesi” migliori per raccontare l’attualità, il
contemporaneo, la nostra stessa vita.

L’arte, e la cultura in generale, ci aiutano a comprendere il presente, immaginare il futuro e ad
addestrarci al cambiamento, ed è anche per questi motivi che questo magazine si sforza di avere un
approccio laterale ed originale al contemporaneo, proponendovi rubriche come quelle del cinema,
della musica e quella della Copertina d’Artista, perché, all’apparenza, potrebbero sembrare
superflue od off topic in un mensile di marketing ed innovazione come il nostro, ma in realtà sono
quelle che più caratterizzano la nostra natura, il nostro stile, la nostra linea editoriale, e che voi, i
nostri lettori, numeri alla mano, sembra apprezziate particolarmente.

Buona lettura

                                                                               Raffaello Castellano

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Tutto è Comunicazione: intervista a
Francesco Specchia direttore di POP
Economy
Parafrasando una celebre massima di Emily Dickinson, dedicata all’amore, potremmo azzardare e
dire: “Che la comunicazione è tutto, è tutto ciò che sappiamo della comunicazione”.

E, benché un po’ tirata, questa massima calza a pennello al concetto di comunicazione, ancora di più
oggi che, nel mondo iperconnesso, digitalizzato e virtualizzato in cui ci muoviamo, abbiamo
compreso da tempo che la comunicazione, insieme all’informazione ed ai dati ad essa strettamente
connessi, sono i tre asset strategici più importanti non solo per il nostro futuro, ma anche adesso,
per il nostro presente.

Questo numero di giugno di Smart Marketing dal titolo “Tutto è Comunicazione” vuole fare il
punto sullo stato dell’arte della comunicazione interpersonale, politica, economica, sociale, culturale
e virtuale nel nostro Paese e nel Mondo, dopo, ma meglio sarebbe dire durante, la pandemia e
l’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus.

Si è ripetuto come un mantra “nulla sarà come prima”, od ancora “cambierà tutto”, e noi abbiamo
visto come la comunicazione sia profondamente cambiata durante questa emergenza, sia nelle
modalità, nei mezzi, negli strumenti, nelle tematiche che soprattutto nella “natura stessa” dei
comunicatori.
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ore di POP Economy, Francesco Spechhia

Per aiutarci a districarci in questo “assembramento” caotico di dati, informazioni e comunicazioni,
noi di Smart Marketing abbiamo intervistato un comunicatore doc, il dott. Francesco Specchia,
giornalista, scrittore e conduttore radiofonico e televisivo di lungo corso, noto soprattutto per “POP
Economy – Il luna park dell’economia”, famoso ed innovativo format televisivo che approccia il
complicato mondo dell’economia con un linguaggio fresco, divulgativo e al contempo approfondito.

Domanda: Dott. Specchia, per cominciare, quanto ha inciso nella sua formazione ed esperienza il
fatto che lei abbia iniziato i suoi primi passi da giornalista e comunicatore nel mondo della carta
stampata in quotidiani come “Libero” e soprattutto “La Voce” di Indro Montanelli?

Risposta: “Ha inciso parecchio. Sono stato molto fortunato a vivere, come ragazzo di bottega,
l’esperienza di quel covo di spiriti folli che era la Voce, nel ’94. Montanelli era riuscito nell’impresa
di riunire sotto la sua ala grandi innovatori grafici e giornalistici come Vittorio Corona,
giovanissimi talentuosi come Travaglio e Gomez, firme che avevano fatto la storia della carta
stampata come Sergio Saviane. Ha reso il giornalismo libero, è stato gambizzato per questo; e ci ha
instillato un senso della scrittura, della notizia e dell’onore inarrivabili. Il mio primo figlio si chiama
Gregorio Indro non a caso. Libero, invece, l’ho vissuto da padre fondatore: rispetto alla Voce è
meno geniale ma più solido, e Feltri è la naturale prosecuzione – anche se animato da sentimenti
opposti – di Montanelli, solo più bravo nel dirigere l’orchestra”.

             Scopri il nuovo numero: Tutto è Comunicazione
      La comunicazione è diventata centrale nella vita di tutti noi ed è cambiata molto nell’ultimo
periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.

Domanda: A proposito di Indro Montanelli, cosa pensa della recente ondata di sdegno anti
razzista e politicamente corretto che sta travolgendo l’opinione pubblica mondiale, al seguito
dell’omicidio da parte della polizia americana di George Floyd, e che si sta abbattendo anche, e
soprattutto, sulle statue di personaggi storici del passato?

Risposta: “Il caso della sposa bambina è ciclico e alimentato da avversari politici che a Montanelli
non son degni di lustrare le scarpe. Indro spiegò bene quali erano le condizioni storiche e giuridiche
di quel matrimonio. Non tirerò fuori tutte le eccezioni del caso, dalle unioni con ultraminorenni di
Maometto al concetto storico di “maggiore età” che cambia nella storia. E l’attacco alla sua statua
non ha nulla a che vedere con George Floyd. Dovrebbero prendere quei quattro idioti vandali e
spiegar loro di un signore che è stato condannato a morte dai nazisti, a cui hanno sparato le Brigate
Rosse, che è stato cacciato sia dal giornale di cui era il campione sia da quello che egli stesso aveva
fondato. Il vecchio Cilindro ha rifondato il nostro mestiere, dovremmo amarlo in silenzio solo per
questo”.

Domanda: Come è cambiata, se lo ha fatto, la comunicazione politica, scientifica, sociale ed
economica durante questa pandemia?

Risposta: “Quella politica si è spinta in modo ossessivo sugli annunci e sulle promesse non
mantenute (Alex Zanardi diceva che se un allenatore facesse quelle promesse sarebbe licenziato, i
politici invece li rieleggono). Quella scientifica, specie dei virologi, ha occupato tutti gli interstizi
della comunicazione, sostituendosi pericolosamente a quella politica. Le comunicazioni sociale ed
economica sono diventate una fastidiosa appendice della realtà nel mondo descritto dalla
comunicazione politica. E’ un circolo vizioso che prima o poi dovrà rompersi. E allora andremo alle
elezioni”.

Domanda: Durante il lockdown abbiamo assistito a due fenomeni comunicativi in antitesi fra loro.
Da una parte abbiamo avuto la prepotente ascesa degli scienziati, soprattutto virologi, biologi ed
epidemiologi, su tutti i media, dalla radio alle dirette facebook, dalla carta stampata alla tv, dove mai
prima d’ora si era visto un tale spazio dedicato alla scienza. Dall’altra parte, nel clima di paura ed
incertezza, è esplosa la produzione e circolazione di fake news e bufale che hanno intossicato il
dibattito pubblico e, cosa assai più grave, anche quello politico. Come possono stare insieme le due
cose, scienza e fake news, scienziati e complottisti? Sono davvero il sintomo di un’arteriosclerosi
della comunicazione?

Risposta: “Più che arteriosclerosi io parlerei di cortocircuito. Le fake sono il vero dramma del
secolo, perché con questo giornalismo “a rete”, conseguenza nefasta del web e dei social, è sempre
più difficile distinguerle dalla verità; mentre i virologi sono un fenomeno temporaneo ma che sta
anchilosando, come dicevo, la nostra comunicazione. In Italia, oggi, i virologi hanno una voce
oracolare, qualsiasi boiata dicano. Mentre in Usa, per dire, sono già diventati una caricatura. Si
tratta di aspettare e ancorarsi, come una volta, alla veridicità delle fonti”.

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ologo e filosofo austriaco Paul Watzlawick e il giornalista e politologo statunitense Walter
Lippman

Domanda: A proposito di arteriosclerosi della comunicazione, concetto caro alle teorie di Paul
Watzlawick, come si concilia, secondo lei, il primo assioma della comunicazione: “è impossibile non
comunicare”, postulato dallo psicologo e filosofo austriaco, principale esponente della Scuola di Palo
Alto, nel mondo iperconnesso e virtualizzato di oggi? Questo assioma ha perso vigore, o è più valido
che mai?

Risposta: “Nel mondo iperconnesso si sprecano le teorie e le definizioni: Walter Lippmann, per
esempio, dice che le notizie formano una sorta di pseudo-ambiente, ma le nostre reazioni a tale
ambiente non sono affatto pseudo-azioni, bensì azioni reali. Si comunica sempre, forsennatamente,
anche se in modo sempre diverso. Nel mio mestiere ora si staglia perfino la moda del “robot
journalism”, una definizione che viene associata all’uso di software in grado di realizzare testi di
senso compiuto senza l’intervento dell’uomo. Credo che passerà anche questa. Ma, certo, così com’è
messa la società, non puoi evitare di esprimerti…”.

Domanda: Per concludere, lei è un esperto riconosciuto di comunicazione, soprattutto economica,
che attraverso i suoi vari programmi, in particolare con POP Economy, ha reso divulgativa e chiara;
secondo lei, guardando agli ultimi mesi, come si è comportata la comunicazione scientifica sul web
ed in tv? Gli scienziati hanno avuto un approccio divulgativo, sono ancora troppo complicati, o hanno
sprecato un’occasione, anche per eccesso di vanità e protagonismo? E, alla luce della pandemia di
Covid-19, quanto è e sarà importante la “comunicazione scientifica” nelle nostre vite?

Risposta: “La comunicazione scientifica del Covid, volgarizzandosi, diventando seriale e
adeguandosi alle esigenze televisive, ha senz’altro perso un po’ in autorevolezza, spesso rendendo
narcisi personaggi di un’austerità di solito invincibile. Ma tornerà a riacquisire i propri spazi e le
propria ineluttabilità quando passerà il Coronavirus e gli Italiani torneranno ad essere – a secondo
dei momenti – soltanto un popolo di poeti, santi, navigatori, allenatori di calcio, costituzionalisti,
espertoni di fondi europei…”.

  Francesco Specchia, fiorentino di nascita,
  veronese d’adozione è giornalista, scrittore e autore
  tv.

  Ha una laurea in legge e una specializzazione in comunicazioni di massa e antropologia criminale,
  ma non gli sono servite a nulla. Tra i fondatori del quotidiano “Libero” dove scrive di politica,
  cultura, tv e mass media, ha lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Angese
  assieme ai grandi satirici italiani. Per anni titolare del “Telebestiario” sul TgCom, in radio ha
  firmato trasmissioni per Radio Monte Carlo e R101 e “Prima pagina” su Radio3 Rai; e partecipato
  alla fondazione di “Agorà” su Raitre. Ha scritto e condotto programmi televisivi disparati e
  disperati, tra cui i talk show politici “Iceberg”, “Alias” , “Versus”, e “I Tartassati- Storie di fisco e
  dintorni”. Tra i suoi libri: saggi tra cui “Diario inedito del Grande Fratello” (Gremese), “Gli
  Inaffondabili” (Marsilio), “Terrorismo -L’altra storia” e “Giulio Andreotti-Parola di Giulio”
  (Aliberti). Bazzica spesso la tele, in programmi seriosissimi.

  Tifa per la Fiorentina, i film di genere e i fumetti d’autore. Ha due figli; il suo primogenito si
  chiama Gregorio Indro (e ancora si chiede il perché, ma quando sarà grande capirà…).
Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.

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