BOLLETTINO - CAMERA PENALE VENEZIANA "ANTONIO POGNICI" II NUMERO SPECIALE 2020 - Amazon AWS

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BOLLETTINO - CAMERA PENALE VENEZIANA "ANTONIO POGNICI" II NUMERO SPECIALE 2020 - Amazon AWS
II NUMERO SPECIALE 2020

CAMERA PENALE VENEZIANA
   “ANTONIO POGNICI”

 BOLLETTINO
BOLLETTINO - CAMERA PENALE VENEZIANA "ANTONIO POGNICI" II NUMERO SPECIALE 2020 - Amazon AWS
CAMERA PENALE VENEZIANA
                                                               “ANTONIO POGNICI”

   Soroptimist International
        Club di Venezia

                        PREMIO “LORA BIGA” Edizione – 2018

              CONTRASTO ALLA VIOLENZA DI GENERE
                       GIOVANI RISORSE
                              E
                       AZIONI POSITIVE

                                    Saluti istituzionali

                          Ringraziamenti Dott. Federico Kujawska

                             On.le Avv. Lucia Annibali
                Violenza di genere: le proposte a tutela della vittima

                  Dott. Paolo Guglielmo Giulini - criminologo
       Il campo del trattamento per gli autori di reati sessuali e relazionali

                  Avv. Federica Bassetto - Cons. Dr. Daniela Perdibon
                Gli obiettivi del Bando e la scelta della Commissione

                                 Interventi dei Candidati

                                 Dibattito e Conclusioni

           Venerdì 22 marzo 2019 - ore 16.00 / 19.00
ATENEO VENETO - Aula Magna - Campo S. Fantin - VENEZIA

L’evento è stato accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia con il
riconoscimento di n. 3 crediti formativi di cui 1 in deontologia - Le iscrizioni
dovranno essere effettuate tramite il portale della Fondazione “Feliciano Benvenuti”
ELABORATI PRESENTATI IN OCCASIONE DEL PREMIO “LORA BIGA” – EDIZIONE
                                                   2018

Dopo la positiva esperienza dell’edizione 2018 del Premio “Lora Biga” - Bando di Concorso per note
di commento a sentenze relative al tema del contrasto penale alla violenza di genere, l’edizione 2019
è “inciampata” nell’emergenza sanitaria in atto, costringendo al doppio rinvio della cerimonia per la
presentazione delle note e l’attribuzione dei premi finanziati dal Soroptimist Club di Venezia.
In attesa di poter riproporre in idonea cornice la giornata già programmata per il 13 marzo e poi per
il 5 maggio, con piacere proponiamo, nel frattempo, la lettura delle note consegnate per l’edizione
2018.
Con l’entusiasmo di sempre e la forza dei nostri giovani Colleghi, vero motore della nostra
Associazione.
Buona lettura!
                                                                                        Annamaria Marin

La Commissione Diritti Fondamentali della Camera Penale Veneziana, creata nel 2018, ha tra i suoi
tratti fondanti un’attenzione particolare per la violenza di genere. Con i convegni “Islam, diritto
penale e questione femminile” del 18 giugno 2018, “L’esperienza giudiziaria veneziana nel contrasto
alla violenza di genere” del 26 novembre 2018 e “Hate speech e questione femminile – Dalla violenza
verbale alla violenza agita” del 25 novembre 2019, abbiamo cercato di offrire spunti di riflessione e
conoscenza attraverso interventi multidisciplinari dell’Avvocatura, Magistratura e Università.
Da tempo, poi, stiamo lavorando per portare nelle scuole primaria e secondaria del veneziano moduli
informativi e formativi su violenza di genere, bullismo, sessismo, discorsi d’odio. La mera
repressione normativa non è in grado di modificare i comportamenti sociali e familiari, se non è
accompagnata da percorsi culturali, soprattutto per i più giovani. La sopravvenuta emergenza
sanitaria ha bloccato l’attivazione del progetto, ma confidiamo di poterlo presto riprendere,
eventualmente anche con modalità a distanza.
In questo contesto, la Commissione Diritti Fondamentali ha aderito da subito con entusiasmo alla
richiesta di collaborazione per il premio Lora Biga tra l’associazione Soroptimist di Venezia e la
Camera Penale Veneziana. Siamo ora felici di questa pubblicazione, che consente la divulgazione e
conoscenza di tanti pregevoli lavori di giovani Avvocati veneziani, elaborati a partire da statuizioni
della Magistratura veneta. Un ampio spettro di casi – la straniera costretta a prostituirsi in un contesto
di totale reificazione, il discrimen tra violenza sessuale singola e violenza sessuale di gruppo, l’attività
persecutoria posta in essere dall’ex, la violenza sessuale intrafamigliare – che interrogano l’interprete
sui parametri ermeneutici e applicativi degli istituti sostanziali e processuali del nostro sistema penale.
Tutti i commenti a sentenza pervenuti, e qui pubblicati, affrontano le diverse tematiche con grande
sensibilità giuridica e umana – ossia applicando quel connubio inscindibile tra tecnicismo e apertura
empatica, che rende la nostra Professione così difficile ma anche così entusiasmante.
Un grazie riconoscente alle Colleghe e ai Colleghi che hanno partecipato, all’associazione
Soroptimist di Venezia, al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia e alla Collega e amica
Annamaria Marin, che in allora come Presidente e oggi quale Presidente Onoraria della Camera
Penale Veneziana ha consentito tutto questo.
                                                                                          Monica Gazzola

LUCA BARON – Udine

La reificazione della vittima nel prisma della violenza di genere

Tribunale di Padova - Corte D'assise - sentenza n. 1/2017 del 22/12/2017 (dep. il 15/2/2018) - Pres.
Dott.ssa De Nardus

Attendibilità e credibilità della persona offesa – Violenza sessuale - Violenza sessuale di gruppo –
Riduzione o mantenimento in schiavitù – Sfruttamento della prostituzione - Procurato aborto

“Le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento
dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa rigorosa verifica della credibilità del
dichiarante e dell’attendibilità intrinseca della dichiarazione resa, da valutarsi alla luce degli ulteriori
riscontri esterni. In presenza di multipli episodi, sviluppatisi in un arco temporale apprezzabile, il
giudice può procedere a una valutazione frazionata della narrazione, dovendosi escludere che
eventuali discrasie o incertezze specifiche, relative a uno o più episodi singolarmente considerati,
possano minare l’attendibilità complessiva della dichiarazione.”

Muovendo da una sintetica disamina della locuzione “violenza di genere” – intesa come espressione
riassuntiva di una variegata fenomenologia di comportamenti radicati su di una visione patriarcale
della donna come res nel dominio dell’uomo – l’elaborato trae spunto da una drammatica vicenda
giudiziaria per svolgere alcune riflessioni sia di carattere processuale che di rilievo sostanziale.
Quanto alla dimensione processuale, il focus è dedicato al problema della attendibilità e credibilità
delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nel contesto di reati gender oriented.
Con riferimento al profilo sostanziale, la sentenza annotata offre uno spaccato tragicamente
esaustivo delle plurime morfologie delittuose attraverso le quali può manifestarsi la “violenza di
genere”, consentendo di osservare come la perpetrazione di taluni reati – in una escalation di
brutalità – sia strumentale rispetto all’obiettivo dell’annientamento della dignità della vittima e della
sua progressiva reificazione.

NOTA

1. Introduzione. Note minime sul concetto di violenza di genere
Nel corso del 2007 T.I., giovane donna rumena, dopo essere stata ricoverata presso l’Ospedale di
Dolo in precarie condizioni di salute, veniva sentita dalla Squadra Mobile della Questura di Venezia.
Dalla narrazione – ripetuta successivamente in sede di incidente probatorio – emergeva un quadro
delittuoso estremamente cupo e articolato, i cui tratti essenziali possono essere riassunti come segue.
Indotta ad abbandonare il paese d’origine – ove viveva in condizioni di povertà – con la promessa di
lavorare come cameriera, nell’estate del 2006 la ragazza veniva trasportata da G.C., un connazionale,
in Italia. Qui giunta, veniva immediatamente condotta dinanzi a C.C. il quale, alla presenza di altri
tre uomini, lungi dall’offrirle il lavoro prospettato, la informava che avrebbe dovuto prostituirsi in
strada, consegnando a lui i proventi del meretricio: per “introdurla” al mestiere, e per annientarne la
volontà, C.C. la costringeva ad avere rapporti sessuali con tutti gli uomini presenti,
contemporaneamente. Nei mesi successivi, T.I. veniva costretta non solo a esercitare la prostituzione,
sotto il continuo controllo di C.C., ma altresì a subire violenze sessuali da parte dei singoli membri
del gruppo che faceva capo a C.C. – previo benestare di quest’ultimo, in quanto proprietario della
donna – e, dopo essere rimasta incinta, ad abortire in modo a tal punto violento e raccapricciante da
dover essere ricoverata in Pronto Soccorso1.
Il quadro fattuale conduceva l’Autorità giudiziaria a contestare, nei confronti di molteplici soggetti
facenti parte del gruppo capeggiato da C.C., il delitto di associazione per delinquere (art. 416 c.p.)
finalizzato all’induzione – anche con inganno –, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione,
con previa violazione della normativa in materia di immigrazione, di tratta di persone (art. 601 c.p.)
e con riduzione delle vittime in schiavitù (art. 600 c.p.). Oltre a ciò, venivano contestati plurimi
episodi di violenza sessuale (art. 609-bis), un episodio di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies)
e il delitto di procurato aborto (art. 18, co. 1 e co. 4, l. 194/1978).
Il caso qui sinteticamente riassunto e che la Corte d’Assise di Padova ha avuto modo di esaminare
nella sentenza annotata, costituisce una rappresentazione singolarmente e drammaticamente efficace,
sul piano fattuale ancor prima che su quello giuridico, del fenomeno violenza di genere. Una
premessa definitoria pare peraltro doverosa, posto che qualsivoglia tentativo di affrontare il problema

1
         L’attività d’indagine, avviata a seguito delle dichiarazioni della donna, consentiva di rivelare inoltre una vera e
propria associazione criminale finalizzata al reclutamento di giovani dell’Est, anche minorenni, trasportate in Italia con
la prospettiva di lavoro ma poi costrette a prostituirsi in strada: tale dinamica, che ha costituito oggetto di analisi nella
“seconda parte” della sentenza (p. 50 s.), non viene qui analizzata per esigenze di spazio.
della violenza di genere impone preliminarmente di fissare talune coordinate concettuali minime, che
possano orientare e delimitare lo sviluppo dell’approfondimento tematico.
Coniata nella prassi ma presto importata nel linguaggio istituzionale, sia internazionale che
domestico, l’espressione “violenza di genere” riassume al proprio interno una eterogenea
fenomenologia di violenze fisiche, psicologiche e finanche economiche, il cui tratto comune – vero e
proprio fil rouge che vale a fornire pregnanza contenutistica alla locuzione – è rappresentato dalla
differenza di genere che connota i due poli della vicenda violenta: tanto che, di regola, la locuzione
violenza di genere è comunemente considerata sovrapponibile rispetto a quella di violenza sulle
donne.
Un’indagine che s’arrestasse agli approdi definitori fin qui raggiunti risulterebbe inguaribilmente
incompleta, nella misura in cui finirebbe per focalizzare l’attenzione solo su uno dei due versanti del
fenomeno: coglie e descrive l’effetto (violenza fisica, psicologica, economica etc. dell’uomo sulla
donna) ma nulla chiarisce in ordine alla causa.
In tale prospettiva – e pur al netto di un certo tasso di approssimazione – può osservarsi che la violenza
di genere trova origine nella disparità di potere tra uomini e donne, a sua volta retaggio di
un’organizzazione patriarcale della società, veicolata da rappresentazioni collettive stereotipate,
sessiste e, in definitiva, riconducibili a una visione reificatrice della donna: concepita come cosa, non
come persona; oggetto di dominio dell’uomo, non soggetto di diritti. Una visione, questa, che ancora
s’annida nella quotidianità contemporanea e che rappresenta il sostrato socio-culturale in cui prolifera
la violenza di genere. Una visione, inoltre, ben nota al legislatore e che traspare dall’analisi della
maggior parte dei più gravi reati gender oriented: si pensi ai reati di violenza sessuale (in particolar
modo quella commessa in gruppo), di tratta con finalità di prostituzione, di sfruttamento del
meretricio etc., il cui trait d’union si coglie proprio nella mercificazione della vittima, degradata da
persona a res.
Una visione, in definitiva, che offre la necessaria chiave interpretativa per poter adeguatamente
cogliere la portata dei fatti analizzati nella sentenza che qui si annota.
2. Sul versante processuale: l’attendibilità e la credibilità del racconto della vittima
Prima di esaminare le tematiche sostanziali che la Corte ha affrontato, pare opportuno effettuare una
rapida incursione nel terreno del diritto processuale. Come emerge ictu oculi dalla stessa
configurazione strutturale della sentenza, il giudicante si è infatti preliminarmente incaricato di
risolvere il nodo dell’attendibilità e credibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa: questione
di rilevanza cruciale, in quanto logicamente prodromica rispetto all’analisi nel merito di tutte le
contestazioni formulate.
E’ ben noto infatti che, in ragione della “fisiologica” dinamica bipolare che connota i reati a sfondo
sessuale, per la quale il fatto normalmente coinvolge due soli soggetti – la vittima e l’agente (o gli
agenti, portatori del medesimo interesse a non rivelare l’accaduto: si pensi a una violenza sessuale di
gruppo) –, spesso l’intero compendio accusatorio poggia su di unico elemento probatorio: le
dichiarazioni rese dalla persona offesa. In mancanza di espresse indicazioni normative, si è ben presto
manifestato il busillis giuridico: tali dichiarazioni sono da sole sufficienti a fondare un giudizio di
colpevolezza in ordine al reato o ai reati contestati?
Chiamata a pronunciarsi in molteplici occasioni sul punto, la Suprema Corte ha fornito una soluzione
che, a oggi, sembra sufficientemente stabile da poter essere considerata ius receptum: le dichiarazioni
della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di
penale responsabilità dell'imputato, previa rigorosa verifica della credibilità del dichiarante e
dell’attendibilità intrinseca della dichiarazione resa2.
Se pure tale principio di diritto pare oramai consolidato, sorgono tuttavia due ulteriori questioni.
Innanzitutto, occorre interrogarsi in ordine alla necessità – o meno – che le dichiarazioni della persona
offesa siano valutate anche alla luce di eventuali riscontri esterni che possano corroborarne
l’attendibilità.
A fronte di talune pronunce di legittimità che avevano optato per la tesi più rigorosa, imponendo al
giudice di ricercare degli elementi oggettivi che riscontrassero le dichiarazioni della persona offesa3,
alcuni più recenti arresti della Suprema Corte sembrano prescindere dalla necessità che le
dichiarazioni trovino conforto in riscontri esterni, a condizione ovviamente che risultino di per sé
credibili e attendibili4.
Il secondo quesito interpretativo riguarda la portata dell’eventuale giudizio di inattendibilità parziale
della dichiarazione resa: ci si chiede, in altri termini, se l’inattendibilità di una parte del racconto
possa o meno travolgere l’intera dichiarazione. Problema particolarmente stringente, non solo in
ragione dell’ampiezza quantitativa della narrazione offerta dalla persona offesa – potendo questa
riguardare, ad esempio, più episodi – ma soprattutto in considerazione dell’inevitabile gap temporale
che separa il momento del fatto dal momento dell’audizione.

2
           Ex multiis, limitando i riferimenti ai più recenti arresti giurisprudenziali di legittimità, v. Cass., sez. III, 14
novembre 2018, n. 56117; Cass., sez. III, 19 maggio 2016, n. 38496; Cass., sez. II, 24 settembre 2015, n. 43278; Cass.,
sez. un., 19 luglio 2012, n. 41461. Nella giurisprudenza di merito, pur con riferimento al reato di usura, v. Trib. Pescara,
13 febbraio 2018, n. 44.
3
           V. Cass., sez. IV, 18 ottobre 2011, n. 44644.
4
           A titolo d’esempio, v. Cass., sez. III, 3 dicembre 2010, n. 1818. Si noti peraltro che la Suprema Corte ha
recentemente avuto modo di precisare, in relazione a un fatto di violenza sessuale, che l’attendibilità e la credibilità della
dichiarazione resa dalla persona offesa non è di per sé minata dalla circostanza che essa contrasti con altre prove: Cass.,
sez. III, 3 ottobre 2017, n. 52051.
Sulla scorta di tali osservazioni, la giurisprudenza di legittimità sembra attestarsi su una posizione
ermeneutica di favore – verso la persona offesa –, stabilendo che, laddove la narrazione sia piuttosto
articolata e relativa a vicende risalenti nel tempo, il giudice ben possa procedere a una valutazione
frazionata della dichiarazione: un eventuale giudizio di inattendibilità su alcune circostanze non
necessariamente inficia la credibilità delle altre parti del racconto, sempre che non esista
un'interferenza fattuale e logica tra gli aspetti del narrato per i quali non si ritiene raggiunta la prova
della veridicità e quelli che siano intrinsecamente attendibili ed adeguatamente riscontrabili5.
Nel caso qui esaminato, la Corte, a fronte delle plurime contestazioni sollevate dai difensori degli
imputati avverso l’attendibilità e credibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, si è
prontamente confrontata con il panorama interpretativo poc’anzi tratteggiato, non solo provvedendo
a scrutinare con attenzione i profili della credibilità della teste e dell’attendibilità della
rappresentazione da questa offerta (cfr. p. 12-14), ma altresì a verificare – in ossequio
all’orientamento “restrittivo” in punto di riscontri esterni – se il compendio probatorio
complessivamente disponibile consentisse di individuare delle evidenze oggettive ulteriori, idonee a
corroborare la narrazione della teste (v. p. 15 s.): giungendo, all’esito di tale valutazione, a ritenere le
dichiarazioni della persona offesa credibili e attendibili.
Occorre peraltro sottolineare che il giudicante ha dato puntuale applicazione anche all’indirizzo
interpretativo sviluppatosi in tema di inattendibilità parziale delle dichiarazioni della persona offesa,
escludendo che eventuali discrasie o incertezze, emerse dalla narrazione della teste con riguardo a
uno o più episodi singolarmente considerati, possano minare l’attendibilità complessiva della
dichiarazione. Nel caso di specie, osserva infatti la Corte, «si tratta di vicende protrattesi lungo un
arco temporale in cui la [teste] è stata vittima di una serie di fatti ripetutisi nel tempo simili ma non
uguali (le violenze sessuali e la prostituzione in strada) ed è pertanto più che comprensibile che su
qualche punto possa fare confusione, tanto più se richiesta di raccontarlo a distanza di anni» (p. 29).
Opportunamente calato nel contesto dello specifico caso esaminato, l’approdo decisionale cui
perviene la Corte d’Assise – a ben vedere – finisce per assumere un significato che trascende il piano
meramente tecnico-processuale. Tenuto conto infatti della notevolissima gravità delle condotte
perpetrate nei confronti della persona offesa, consapevolmente volte ad annichilirne la personalità e
a renderla una cosa di proprietà del “capo gruppo” C.C. – tema su cui si ci soffermerà a breve –, il
giudizio della Corte circa l’attendibilità e la credibilità del racconto da lei offerto costituisce una
prima, fondamentale, ri-attestazione processuale del suo status di persona: narrando il fatto, la persona
offesa riafferma la propria personalità dinanzi allo stesso e dimostra di non essere stata “annullata”
dall’enormità delle violenze patite; attestando la credibilità e l’attendibilità del racconto, come di per

5
       Cfr. Cass., sez. III, 22 dicembre 2017, n. 24979; nonché Cass., sez. III, 18 ottobre 2012, n. 3256.
sé sufficiente a far emergere la verità – quantomeno processuale –, la Corte implicitamente riconosce
l’esistenza di quella personalità.
3. Nel merito. Da persona a cosa: percorsi criminosi di reificazione della donna
In premessa si è anticipato che la notevole articolazione fattuale della vicenda è stata giuridicamente
trasposta in una pluralità di capi d’imputazione, concernenti reati tra loro strutturalmente diversi (artt.
609-bis, 609-octies, 600, 601-bis c.p.), ma accomunati da un medesimo schema di fondo che ne
informa la ratio incriminatrice. Come variazioni tonali del medesimo leitmotiv, le violenze sessuali
subite da T.I., la sua traduzione in Italia con finalità di prostituzione, la sua riduzione in schiavitù e
persino il costringimento ad abortire, altro non sono infatti che epifanie fenomeniche del medesimo
retroterra criminologico: quello della pretesa affermazione di un dominio maschile sulla donna,
risultato finale di un percorso comportamentale che, attraverso le commissione dei delitti supra citati,
priva la vittima della sua personalità, riducendola a mera cosa, oggetto del capriccio degli imputati.
La stessa analisi svolta dalla Corte, del resto, pare condotta alla luce di tale chiave di lettura, come
emerge dai continui richiami alla condizione di cosa, di mera proprietà del C.C., in cui versava la
persona offesa.
Ebbene, laddove si esaminasse la vicenda da tale angolo prospettico, potrebbe agevolmente
evidenziarsi un andamento parallelo, tra perpetrazione dei singoli delitti contestati e le diverse “fasi”
del percorso di oggettivizzazione della vittima: una prima fase, della negazione della dignità e
personalità della donna, con contestuale affermazione di un diritto di proprietà su di essa (le violenze
sessuali, singole e di gruppo; il procurato aborto); una seconda fase, di sfruttamento della donna
reificata (la riduzione in schiavitù e costringimento alla prostituzione). Seguendo tale schema di
lettura, non pare affatto singolare che la Corte d’Assise – dopo aver risolto la questione processuale
supra trattata – abbia affrontato in primis la contestazione di violenza sessuale di gruppo: episodio
fondamentale, autentico crocevia dell’escalation criminale della vicenda.
La scelta legislativa di prevedere un’autonoma fattispecie delittuosa di violenza sessuale di gruppo
(art. 609-octies), presidiata con un corredo sanzionatorio più severo di quello stabilito per la forma
“monosoggettiva” di violenza sessuale (art. 609-bis) o per la forma concorsuale della stessa (artt. 110
e 609-bis), riflette sul piano normativo non solo il maggior grado di offensività della condotta, ma
altresì la maggiore intensità di degradazione personale della vittima. Sul piano criminologico, può
evidenziarsi infatti che il compimento dell’atto sessuale (non consensuale) non è finalizzato al (solo)
soddisfacimento della libido, ma è volto alla realizzazione di un obiettivo diverso e ulteriore: quello
dell’affermazione di un potere assoluto sulla vittima, considerata alla stregua di mero oggetto
fungibile, utile a «dare collettivamente sfogo ad un atteggiamento aggressivo e a un culto della
violenza, segnatamente sulla donna, discordanti con l’atto sessuale posto in essere e, perciò, ancor
più umiliante per la vittima»6.
Tale matrice criminologica – in cui la violenza sessuale non è fine a sé stessa, ma risulta funzionale
a realizzare un quid ulteriore – trova puntuale conferma nella vicenda in esame ed è altrettanto
puntualmente evidenziata dalla Corte d’Assise. Lo stupro di gruppo si è verificato una sola volta,
appena la T.I. era giunta in Italia, e con uno scopo ben preciso: per piegarne la volontà, per farle
intendere «chi comandava e farle perdere ogni residuo ritegno e senso di dignità», cosicché fosse
«pronta a scendere in strada» (v. p. 22). In altri termini, per annullarne la personalità e renderla un
oggetto nella disponibilità degli imputati: in una parola, per reificarla.
Trattasi, come detto, di uno snodo cruciale della vicenda, presupposto indispensabile per le successive
condotte delittuose. A partire dai singoli episodi di violenza sessuale “monosoggettiva” (art. 609-bis),
contestati ad alcuni imputati. Preme ancora una volta evidenziare il contesto complessivo nel quale
le violenze venivano commesse, dal quale emerge la chiara percezione che della donna avevano gli
imputati.
Il problema del consenso della vittima – osserva correttamente la Corte – nemmeno si poneva7 , in
quanto il compimento dell’abuso sessuale era subordinato esclusivamente al placet del “proprietario”
della T.I., ossia l’imputato C.C.: della persona offesa, già mercificata per il tramite dello stupro di
gruppo, costui disponeva a proprio completo piacimento. Emblema di questo potere di utendi et
abutendi vantato dall’imputato sulla vittima, è la circostanza che quest’ultimo, per ripagare un debito
contratto con un membro del proprio “gruppo”, avesse ordinato alla T.I. di intrattenere un rapporto
sessuale con lui: un episodio paradigmatico «che ben esemplifica come la donna fosse una merce,
privata di ogni connotazione umana e asservita al profitto» (v. p. 34).
D’altra parte, il ricorso all’atto sessuale violento e non consensuale non era limitato alla realizzazione
di un “fisiologico” soddisfacimento erotico, né costituiva solo una merce di scambio all’interno di
rapporti “sinallagmatici” intra-gruppo, ma veniva utilizzato anche alla stregua di uno strumento di
punizione, come lucidamente evidenziato dal giudicante (p. 32). Immediatamente dopo essere stata
costretta ad abortire (su cui infra), l’imputato C.C. aveva intimato alla vittima di tornare in strada ma,
a fronte delle difficoltà fisiche in cui versava, quest’ultima aveva fatto resistenza. Una sorta di
ribellione, di ri-affermazione del proprio io, che l’imputato non poteva certo tollerare: egli ordina
pertanto a un coimputato di abusare sessualmente della donna e di picchiarla se si fosse opposta.

6
          Così MANTOVANI, Diritto penale. I delitti contro la persona, V ed., 2013, 439.
7
          E, in ogni caso, precisa il giudicante che tutti i correi «erano consapevoli di approfittare delle condizioni di
inferiorità fisica e psichica in cui si trovava la [donna], e che quelli da loro consumati non erano ordinari rapporti sessuali
con una prostituta a ciò liberamente dedita»: cfr. p. 34.
Quest’ultimo esegue con particolare zelo il dictum del C.C., praticando dei tagli sulla schiena della
donna e versandovi sopra del sale: il tutto, mentre la costringeva a consumare il rapporto sessuale.
Il Pubblico Ministero contesta – correttamente – l’aggravante di cui all’art. 61, n. 4, c.p. («l’avere
adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone»), eppure tale figura circostanziale non
pare sufficiente a esprimere appieno quella totale assenza di compassione e di pietà che trasuda dalla
condotta perpetrata, né a cogliere la sua funzionalità rispetto all’obiettivo di ribadire la condizione di
non-essere umano in cui gli imputati intendevano mantenere la donna. Si è trattato «sostanzialmente
di tortura» – ritiene la Corte –, di una «violenza inflitta con dichiarati scopi punitivi» (p. 32).
La vittima (rectius: la non-persona reificata) è utile fintanto che è produttiva, id est finché può lavorare
in strada e generare profitti. Nell’episodio dell’aborto (capo F), la devianza criminologica tipica della
violenza di genere s’intreccia con la logica del profitto, confermando in tal modo il postulato
definitorio dal quale muove l’analisi: la violenza di genere può manifestarsi con tratti differenti,
difficili da preconizzare, ma di cui è agevole cogliere la matrice, ossia l’affermazione del potere
dell’uomo sulla donna.
Il giudicante non sottolinea in modo esplicito la declinazione “economica” che la criminalità di genere
– nel cui paradigma certamente può rientrare anche la costrizione all’aborto – assume nel caso di
specie, ma ne coglie i tratti, ponendo in relazione il procurato aborto con la diminuzione dei profitti
dell’attività di prostituzione, a sua volta cagionata dallo stato interessante in cui si trovava la T.I. (p.
36).
All’esito della trattazione delle condotte ora esaminate – violenze sessuali, di gruppo e singole;
procurato aborto –, la Corte sembra quasi arrestarsi un istante e trarre un bilancio complessivo: il
panorama delittuoso che il compendio probatorio ha consegnato al giudicante rivela che i reati
perpetrati sono stati strumentalmente per realizzare «una totale reificazione» della vittima. Di qui la
logica conseguenza sul piano giuridico: la persona offesa si trovava in uno stato di schiavitù, ai sensi
dell’art. 600 c.p.
Sul punto, pare meritevole di attenzione la circostanza che il Collegio abbia inteso aderire a
quell’orientamento interpretativo per il quale, ai fini della sussistenza del reato in parola, non è
necessaria una integrale negazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa
compromissione della capacità di autodeterminazione della persona offesa8: tale cioè che, pur potendo
la vittima compiere singoli atti in autonomia, quest’ultima continua a subire quella condizione di
coartazione psicologica in cui si sostanzia il predominio fattuale del soggetto agente. A voler
diversamente opinare si finirebbe per giungere a esiti applicativi inaccettabili: per quanto privata del

8
        V. Cass., sez. V, 5 novembre 2013, n. 25408; più di recente, nello stesso senso, Cass., sez. V, 16 maggio 2017,
n. 42751.
passaporto, vessata fisicamente, annichilita psicologicamente e costretta a prostituirsi, dovrebbe
escludersi la sussistenza del reato allorché la donna potesse, ad esempio, muoversi liberamente in
strada ovvero andare a gettare la spazzatura.
La criminalità di genere – si accennava poc’anzi – non è necessariamente fine a sé stessa, ma può
costituire il mezzo per finalità ulteriori che, nel caso in esame, si compendiano nell’obiettivo del
profitto. Ritornando allo schema “bifasico” proposto per procedere all’analisi della vicenda, può
osservarsi che la reificazione della vittima costituiva una prima, fondamentale, tappa del più ampio
progetto criminale degli imputati, il quale ha trovato compimento nello sfruttamento economico della
donna-oggetto. Il vertice della parabola delittuosa coincide infatti con il costringimento della vittima
– oramai ridotta in schiavitù – a prostituirsi in strada, consegnando tutti i proventi del meretricio
all’imputato C.C. Proprio la funzionalizzazione della donna rispetto al profitto, del resto, induce la
Corte – in piena aderenza rispetto a un condivisibile orientamento di legittimità9 – a ritenere che nel
caso di specie sussistesse un concorso materiale tra le condotte di favoreggiamento della prostituzione
(consistite nell’accompagnamento della donna in strada) e di sfruttamento del meretricio: solo
quest’ultima tipologia di condotta racchiude in sé quel fine di profitto che, per contro, difetta nel
semplice favoreggiamento (v. p. 50).
4. Osservazioni conclusive
La pronuncia del Collegio padovano costituisce un autentico manifesto giurisprudenziale in tema di
violenza di genere, fenomeno proteiforme e capillare di cui la Corte ha saputo lucidamente cogliere
le essenziali dinamiche: degradazione della vittima a res; asservimento della stessa al dominio
dell’agente; funzionalizzazione della violenza rispetto a scopi disparati, ora prettamente erotici, ora
punitivi, ora economici. Certo, nel suo percorso ricognitivo e decisorio la Corte è stata “aiutata” dalla
peculiare connotazione della vicenda sottoposta al suo vaglio e dalla contestazione delle plurime
fattispecie di reato che ne ha costituito pendant giuridico.
Sul versante del fatto, l’articolata e dolorosa vicenda umana descrive infatti non solo uno spaccato
brutalmente esaustivo delle plurime morfologie in cui può manifestarsi la violenza sulle donne, ma
offre altresì una conferma ulteriore in ordine al fattore, più o meno latente, che si colloca alla base
della criminalità di genere: la concezione della donna come proprietà dell’uomo, corollario di una
morbosa Weltanschaung vetero-paternalistica che ancora alligna nella cultura contemporanea.
All’articolazione fattuale corrisponde una altrettanto complessa stratificazione giuridica, posto che i
singoli episodi che concorrono a delineare la vicenda risultano sussumibili in diverse fattispecie
criminose, imponendo all’interprete di affrontare alcuni tra i delitti più emblematici che concorrono

9
         Sul punto, recentemente, Cass., sez. III, 24 ottobre 2018, n. 741. Conforme Cass., sez. III, 9 dicembre 2015, n.
15069.
a delineare il genus descrittivo “violenza di genere”. Molteplici sono infatti le quaestiones, sia
sostanziali che processuali, che la Corte è stata chiamata a risolvere nel caso di specie. Per quanto
tutte meritevoli di attenzione, ovvie ragioni di sintesi hanno imposto di limitare l’analisi a quelle sole
tematiche che appaiono maggiormente significative, nella prospettiva di far emergere il fondamentale
nucleo di disvalore – sociale e culturale, ancor prima che penale – che costituisce il minimo comun
denominatore delle varie fattispecie criminose contestate agli imputati e il clou della criminalità di
genere: la sistematica vessazione del corpo della vittima, in quanto funzionale all’annientamento della
sua dignità e, in ultima analisi, all’asservimento della donna stessa, ridotta così a mera res e sottoposta
all’uso e all’abuso degli imputati.

CINZIA DE GRANDIS - Venezia

Violenza sessuale di gruppo o concorso di persone nel reato di violenza sessuale?

Tribunale di Venezia – Giudice per le Indagini Preliminari - sentenza n.922/2016 del 10/03/2016
(dep.30/05/2016) – Dott.ssa Marchiori

Violenza sessuale – Violenza sessuale di gruppo – configurabilità – Esclusione - Partecipazione
rilevante – Concorso di persone nel reato di violenza sessuale

“Non integra il reato di cui all’art. 609octies la condotta di colui che, dopo aver segregato e ridotto in
schiavitù la vittima del reato, conceda il suo benestare ad altro soggetto affinché, abusando delle
condizioni di inferiorità fisica e psichica della stessa, la costringa o comunque induca a subire un
rapporto sessuale completo, limitandosi ed attendere il compimento della violenza fuori dalla stanza”

Con la Legge 66/96 di riforma del codice penale i reati sessuali assumono la dignità di delitti contro
la persona ed in particolare contro la libertà individuale, grazie all’acquisita consapevolezza che la
libertà sessuale costituisca un insopprimibile corollario della libertà individuale medesima.
All’originaria previsione del solo reato di violenza sessuale, trasfuso nell’attuale art. 609bis che
persegue la condotta di “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe
taluno a compire o subire atti sessuali…”, la consapevolezza della maggior portata offensiva della
condotta di più persone ha portato all’introduzione dell’art. 609octies c.p. che punisce la violenza
sessuale di gruppo quale “partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale
di cui all’art. 609bis c.p.”.
La sentenza in commento si pone in posizione antitetica rispetto all’orientamento giurisprudenziale
dominante che riterrebbe configurabile il reato di violenza sessuale di gruppo e non invece di
concorso di persone nel reato di violenza sessuale nella condotta di colui che, dopo aver segregato
e ridotto in schiavitù la vittima del reato, conceda il suo benestare ad altro soggetto affinché,
abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della stessa, la costringa o comunque induca
a subire un rapporto sessuale.

NOTA

La sentenza che si ha il pregio di commentare si pone in posizione critica rispetto all’orientamento
giurisprudenziale dominante in tema di configurabilità della fattispecie di reato di violenza sessuale
di gruppo, così come previsto dall’art.609 octies c.p.p., e di esclusione del concorso di persone nel
reato di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis c.p..
La vicenda processuale definita dalla pronuncia de qua trae origine dalla denuncia querela di una
giovane donna, di nazionalità rumena, che nell’aprile 2007, denunciava di essere stata vittima di una
serie di gravi reati a partire dall’estate precedente, quando si era lasciata convincere da un
connazionale a lasciare il paese di origine alla volta dell’Italia sulla falsa promessa di un lavoro
regolare come cameriera. Giunta in Italia la donna veniva avviata alla prostituzione e costretta a subire
reiterati episodi di violenza sessuale per mano di un gruppo di connazionali.
La copiosa attività di indagine condotta dalla Squadra Mobile della Questura di Venezia,
concretizzatasi in intercettazioni telefoniche e servizi di osservazione, ha consentito di acquisire
fondamentali riscontri a sostegno della credibilità della denunciante; si è giunti quindi ad appurare
l’esistenza di un sodalizio criminoso che vedeva coinvolti un gruppo di cittadini rumeni dediti alla
recluta di giovani connazionali da destinare alla prostituzione in Italia.
Al vertice del sodalizio si è accertato esservi il cittadino rumeno che aveva indotto la persona offesa
a seguirlo in Italia riducendola in schiavitù, coordinando e controllando il lavoro in strada, facendola
abusare sessualmente dai “suoi uomini” e inducendole violentemente un aborto quando ella non
riusciva a rendergli i guadagni sperati a causa dello stato di avanzata gravidanza.
E’ emerso che la persona offesa viveva in Romania in situazione di disagio economico e con un figlio
piccolo gravemente malato, per cui la prospettiva di un guadagno le si rappresentava come l’unica
possibilità per salvare il figlio.
Emergeva anche, che per un breve periodo la donna veniva condotta a prostituirsi in Francia insieme
ad un’altra ragazza per assecondare la necessità di chi l’aveva reclutata ad allontanarsi dall’Italia per
motivi di giustizia.
Riuscita finalmente a scappare con l’aiuto di un cliente e ricoverata all’ospedale, per problemi di
salute conseguenti all’aborto subito, veniva messa in contatto con i servizi sociali e riusciva a
denunciare.
Contribuiva all’individuazione dei luoghi descritti in denuncia mediante partecipazione diretta ai
sopralluoghi e individuava fotograficamente gli individui che riteneva autori delle condotte perpetrate
nei suoi confronti.
All’esito delle Indagini Preliminari il Pubblico Ministero traeva a giudizio i soggetti così identificati
per i delitti di associazione per delinquere aggravata a vario titolo (artt. 416 commi 1, 2, 3 e 6 c.p.,
con le aggravanti di cui all’art.12 comma 3 lett. a), c), d), 3bis e 3ter del D.P.R. 25 luglio 1998 n.
286), tratta di persone in concorso (artt. 110 e 601 c.p.), violenza sessuale e violenza sessuale di
gruppo aggravate continuate ed in concorso (artt. 81 cpv., 110, 61 n.4, 609bis e 609octies c.p.),
violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo (artt. 609bis e 609octies c.p.), sfruttamento della
prostituzione in concorso (artt. 110 c.p., 3 n.8) e 4 n.7) L. 20/02/1958 n.75), procurato aborto in
concorso (artt. 110 c.p. e 18 comma 1 e 4 L. 194/1978), riduzione in schiavitù in concorso (artt. 110
e 600 comma 1 c.p.), lesioni personali aggravate in concorso (artt. 110, 582, 583 comma 1, nn. 1) e
2), 585 c.p.), sequestro di persona (art. 605 c.p.), e prostituzione minorile in concorso (artt. 100,
600bis comma 1 c.p.).
Due degli imputati, tra i quali il capo del sodalizio, sceglievano di definire la propria posizione
all’Udienza Preliminare e all’esito del giudizio abbreviato, il giudicante, ritenuta provata la penale
responsabilità, lo condannava per i reati a vario titolo allo stesso ascritti e tra questi di concorso in
violenza sessuale e di violenza sessuale di gruppo.
A chiarificazione dell’orientamento fatto proprio nella sentenza in commento, risulta particolarmente
interessante approfondire la distinzione tra le due fattispecie di reato di violenza sessuale e di violenza
sessuale di gruppo così come contemplate nel codice penale.
Vale la pena ricordare che il codice Rocco inizialmente annoverava i reati sessuali tra i reati contro
la moralità pubblica ed il buon costume. Con la riforma introdotta dalla Legge 15 febbraio 1996 n.
66, i reati sessuali vengono connaturati da una oggettività giuridica nuova ed assumono la dignità di
delitti contro la persona ed in particolare contro la libertà individuale, grazie all’acquisita
consapevolezza che la libertà sessuale costituisca un insopprimibile corollario della libertà
individuale medesima.
All’originaria previsione del solo reato di violenza sessuale, trasfuso nell’attuale art. 609bis che
persegue la condotta di “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe
taluno a compire o subire atti sessuali…”, la consapevolezza della maggior portata offensiva della
condotta di più persone ha portato all’introduzione dell’art. 609octies c.p. che punisce la violenza
sessuale di gruppo quale “partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale
di cui all’art. 609bis c.p.”.
La ratio dell’introduzione di una figura autonoma di reato a natura necessariamente plurisoggettiva
va ricondotta alla volontà del legislatore di stigmatizzare e reprimere una condotta illecita, purtroppo
sempre più diffusa, avente un maggiore disvalore sociale e legata quindi ad un sensibile inasprimento
sanzionatorio.
L’introduzione del reato di violenza sessuale di gruppo ha suscitato un vivace dibattito
giurisprudenziale considerato che in precedenza le condotte cosiddette “di gruppo” venivano punite
a titolo di concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p. e, pertanto, si rendeva necessario comprendere
quando poteva dirsi configurata un’ipotesi di concorso morale o materiale nel reato di cui all’art.
609bis e quando invece fosse configurabile la violenza di gruppo.
Dottrina e giurisprudenza hanno individuato alcuni criteri differenziali limitando l’applicazione del
combinato disposto di cui agli artt. 110 e 609bis c.p. ai casi in cui non vi sia una contestuale presenza
degli imputati sul luogo del fatto e un accordo tra gli autori della violenza, essendo sufficiente la
consapevolezza di agire con altri soggetti. Attraverso detta interpretazione può quindi ritenersi
assorbito il concorso materiale nel reato di violenza sessuale in quello di violenza sessuale di gruppo,
con un margine di configurabilità del concorso in violenza sessuale alle sole ipotesi di concorso
morale. Così come ha sostenuto la Suprema Corte quindi, si avrebbe concorso di persone nel reato di
violenza sessuale solo nell’ipotesi in cui “un terzo, pur non partecipando ad atti di violenza sessuale
e pur non essendo presente sul luogo del delitto, abbia istigato, consigliato, aiutato o agevolato il
singolo autore materiale della violenza 10”.
Al contrario invero, per la sussistenza della violenza sessuale di gruppo non sarebbe necessario che i
componenti del gruppo assistano al compimento degli atti di violenza sessuale, essendo sufficiente la
loro presenza nel luogo e nel momento in cui detti atti vengono compiuti, anche da uno solo dei
compartecipi, atteso che la determinazione di quest’ultimo viene rafforzata dalla consapevolezza
della presenza del gruppo e dalla portata intimidatoria che la presenza di più persone riunite esercita
sulla vittima della violenza; sarebbe quindi necessario e sufficiente un contributo causale
all’esecuzione del reato e la presenza fisica sul luogo, intesa come possibilità di intervenire in
qualsiasi momento durante l’iter criminis11.
Quanto poi all’elemento costitutivo del fatto tipico della necessaria partecipazione di una pluralità di
soggetti agenti, racchiuso nella locuzione “più persone riunite” dell’art. 609octies, la Corte di
Cassazione è concorde nel ritenere integrata la presenza di più persone “tutte le volte in cui al
momento e nel luogo di commissione della violenza siano presenti almeno due persone la cui
contemporanea presenza è assicurata anche da colui che non assista o non compia materialmente

10
       Cass. Pen., Sez. III, 27 gennaio 2009, n.7336.
11
       Cass. Pen., Sez. III, 11 marzo 2010, n.15089; Cass. Pen., Sez. III, 5 aprile 2000, n.6464.
gli atti di violenza sessuale allorquando possa agevolmente intervenire in qualsiasi momento della
fase esecutiva del delitto o si limiti a presidiare il luogo dell’esecuzione del crimine12”.
La presenza del soggetto sarebbe di perciò sola sufficiente a configurare il delitto essendo essa stessa
contributo causale al verificarsi dell’evento. Ne deriverebbe, come necessario corollario del
ragionamento fatto proprio dalla giurisprudenza, che non vi sarà quindi concorso di persone nel reato
ex artt. 110, 609bis c.p. ogniqualvolta l’apporto del soggetto agente si traduca in una mera presenza,
sul luogo e nel momento di consumazione della violenza, ma capace di per sé a determinare una
carica intimidatoria sulla vittima, dovendosi ritenere invece integrata la fattispecie più grave di cui
all’art. 609octies c.p..
Dello stesso avviso la dottrina che abbraccia la teoria della “causalità agevolatrice o di rinforzo”13
che ravviserebbe un contributo causale adeguato non soltanto sulle condotte senza le quali il reato
non avrebbe potuto realizzarsi, ma anche su apporti di per sé poco utili da un punto di vista pratico,
ma allo stesso tempo indici della condivisione dell’obiettivo delittuoso.
Alla luce degli orientamenti richiamati e rapportati all’analisi delle condotte contestate nel caso in
commento si giustifica lo spunto di criticità sopra accennato.
Il giudicante ha ritenuto, infatti, sussistente il concorso in violenza sessuale ex artt. 110, 609bis c.p.
rispetto a condotte che si ritiene si sarebbero dovute meglio sussumere ex officio, ai sensi dell’art. 521
c.p.p., nella fattispecie plurisoggettiva di violenza sessuale di gruppo.
La condotta dell’imputato che si limita ad attendere fuori dalla stanza ma che prima acconsente ai
concorrenti la perpetrazione della violenza non può dirsi certo manchi di un contributo causale
rafforzativo o agevolatore dell’azione delittuosa posta in essere dall’autore materiale dell’abuso.
La sentenza annotata suggerisce infine una breve riflessione relativa al complesso tema della violenza
di genere da intendersi comprensiva di qualunque forma di violenza, sessuale ma anche fisica e
psicologica, e in senso lato di ogni discriminazione basata sul sesso.
La violenza sulle donne nel mondo è forse la forma più pervasiva di violenza dei diritti umani
conosciuta oggi, che devasta vite, disgrega comunità e ostacola lo sviluppo.

12
         Cass. Pen., Sez. III, 13 gennaio 2015, n.948. Nel caso di specie l’imputato veniva ritenuto responsabile di
violenza sessuale di gruppo per aver condotto la vittima presso la sua abitazione ove la violenza sessuale fu di fatto
commessa da un complice in altra stanza. L’imputato non si era allontanato dall’abitazione e si è ritenuto quindi
sussistente la possibilità di un suo intervento in qualsiasi momento capace di ingenerare nella vittima la convinzione di
non avere alcuna via di fuga.
         Dello stesso indirizzo Cass. Pen., Sez. III, 30 aprile 2015, n.23272; Cass. Pen., Sez. III, 20 aprile 2012, n.15211;
Cass. Pen., Sez. III, 25 marzo 2010, n.11560.
13
         Cfr. sulla tematica in esame ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, Ed. 2003, pp. 553 ss., a
parere del quale la disciplina del concorso di persone nel reato si fonda sul principio della causalità. Cfr. altresì
CAMAIONI, Il concorso di persone nel reato, Collana Teoria e pratica del diritto, Sez. III-170, Diritto e procedura penale,
Milano, 2009, pp. 78 ss.
Il rapporto Unifem (Fondo Onu di sviluppo per le donne) ha osservato che si tratta di una questione
di proporzioni pandemiche14; è emerso che oltre cento paesi non hanno una legislazione specifica
contro la violenza domestica e più del 70% delle donne nel mondo sono state vittime nel corso della
loro vita di violenza fisica e/o sessuale da parte di uomini.
L’Italia con la Legge 27 giugno 2013, n.77 ha ratificato la “Convenzione del Consiglio d’Europa
sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” nota
come Convenzione di Istanbul, primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla
prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. La buona applicazione
della convenzione si ritiene sia però ostacolata dal permanere di una cultura fortemente sessista e
misogina a tutti i livelli e da una generale carenza di educazione che porti al superamento di una
visione stereotipata dei ruoli uomo-donna.
A fronte del dilagare dei fenomeni di violenza di genere sarebbe auspicabile, quale indispensabile
strumento di prevenzione alla violenza e alla discriminazione, sin dai primi livelli di istruzione, la
previsione di forme di educazione interdisciplinare ai principi di rispetto delle differenze nella tutela
delle pari opportunità, di educazione alla parità tra i sessi e di educazione socio-affettiva ma,
purtroppo, in assenza di una specifica normativa in materia, la scelta di avviare nelle scuole dei
percorsi educativi, strumenti di sensibilizzazione, di educazione all’affettività e di lotta agli stereotipi
è troppo spesso lasciata, tristemente, all’iniziativa dei singoli.

MATTIA DONÀ - Venezia

Violenza sessuale nel rapporto di coppia: aggravante de iure, attenuante de facto?

Corte d’Appello di Venezia – Sez. IIIa - sentenza n. 1949/2017 del 18/5/2017 (dep. il 31/5/2017) -
Pres. Dott. Apostoli

Violenza sessuale – Attenuante della minore gravità – Minacce – Legge n. 119/2013

“In tema di violenza sessuale, la circostanza che la stessa si sia consumata nell’ambito di un rapporto
sentimentale tra soggetto attivo e persona offesa caratterizzato da estrema, reciproca e sistematica
conflittualità, unitamente alla valutazione della condotta delle parti successiva al reato, può condurre
ad inquadrare la fattispecie – pur se concretizzatasi in violenza sessuale c.d. completa e/o in una
pluralità di atti sessuali – nell’ipotesi attenuata di cui al terzo comma dell’art. 609-bis c.p. (fattispecie
antecedente l’entrata in vigore del D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito in L. 15 ottobre 2013, n.

14
        In: http://www.un.org/womenwatch/daw/csw/csw49/documents.html
119, che ha introdotto la circostanza aggravante di cui all’art. 609-ter, n. 5-quater c.p. in tema di
violenza sessuale posta in essere nell’ambito di un rapporto di coppia)”

Con il D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito in L. 15 ottobre 2013 n. 119, il Legislatore ha introdotto
uno specifico aumento di pena per la fattispecie di violenza sessuale commessa nel contesto di una
relazione affettiva. Anche la giurisprudenza più recente, tuttavia, dimostra come una valutazione
globale delle specifiche circostanze del caso concreto possa far pervenire a conclusioni
diametralmente opposte, al punto di ricondurre la “violenza sessuale di coppia” nell’ipotesi
attenuata di cui al terzo comma dell’art. 609-bis c.p. Si ripropone, così, l’eterna contrapposizione
tra legge penale manifesto, colpa d’autore e giudizio individualizzante.

NOTA

Con la sentenza in commento, la Corte d’Appello di Venezia ha, in poche righe, preso una netta
posizione in merito a due spinose questioni giuridiche: la possibilità di ricondurre ai “casi di minore
gravità” di cui al terzo comma dell’art. 609-bis c.p. anche ipotesi di violenza sessuale “completa” -
ossia concretizzatesi in congiunzione carnale15 - e, soprattutto, il rilievo che possa avere ai fini della
valutazione dell’eventuale “minor gravità” la circostanza che la violenza sia stata consumata nel
contesto di una relazione di coppia.
Giungendo a una conclusione che, prima facie, potrebbe apparire in aperto contrasto con le esigenze
generalpreventive e repressive collegate al sempre drammaticamente attuale fenomeno della violenza
di genere: è proprio la circostanza che la violenza - pur “completa” ed addirittura tradottasi in una
pluralità di atti sessuali - sia stata consumata all’interno di un rapporto di coppia che può, alla luce di
una valutazione globale del caso concreto, legittimare il giudizio di minor gravità di cui alla
fattispecie attenuata dell’art. 609-bis co. III c.p.
Una sentenza, quella della Corte veneziana, che non può che essere letta in parallelo con i recenti
interventi legislativi volti a contrastare la violenza di genere: il riferimento è, in particolare, al D.L.
14 agosto 2013, n. 93, convertito in L. 15 ottobre 2013 n. 119, recante “disposizioni urgenti in materia
di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di
commissariamento delle province”, il quale è intervenuto anche in tema di violenza sessuale

15
         Questione in realtà ormai pacificamente risolta in senso positivo, nel senso che ai fini della 1 valutazione della
“gravità” la giurisprudenza si è uniformata nel fare riferimento agli ordinari criteri di cui all’art 133 c.p. nell’ottica di una
valutazione globale del fatto: ciò che più rileva in termini di “gravità” non è tanto la tipologia di atto sessuale posto in
essere, bensì l’intensità dell’offesa che tale atto arreca alla libertà sessuale della vittima, “da verificare prendendo in
considerazione le modalità esecutive e le circostanze dell’azione attraverso una valutazione globale che comprenda il
grado di coartazione esercitato sulla persona offesa, le condizioni fisiche e psichiche della stessa, le caratteristiche
psicologiche valutate in relazione all’età, l’entità della lesione alla libertà sessuale ed il danno arrecato, anche sotto il
profilo psichico” (Cass. Pen., Sez. III, 18 novembre 2013 n. 46184).
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