Omelia per la Solennità di Pasqua 2019
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Omelia per la Solennità di Pasqua 2019 AGNUS REDÉMIT OVES Omelia per la solennità di Pasqua 21 aprile 2019 INDIZIONE DELLA VISITA PASTORALE Christus vivit: è l’annuncio pasquale che Papa Francesco ha consegnato al cuore dei giovani e a tutto il popolo di Dio con la sua Esortazione apostolica post-sinodale. “Cristo vive. Egli è la nostra speranza e la più bella giovinezza di questo mondo…accanto a te c’è il Risorto, che ti chiama e ti aspetta per ricominciare” (n. 2). L’Agnello ha redento il suo gregge, e il Pastore risorto riprende in pienezza la vita donata sulla croce. Il masso rimosso dal sepolcro, segna la caduta del muro più triste, quello della morte. D’ora in poi si potrà passare dall’altra parte senza paura! Io dò la vita Gesù Risorto inaugura un’esistenza umana risplendente di luce e di bellezza divina, piena di vita: “Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla
mia mano.” (Gv 10, 27-30). Il contesto nel quale Gesù pronuncia questo insegnamento è quello della festa di Hanukkàh, della Dedicazione, che celebrava la riconsacrazione del nuovo tempio. Per tale festa, venivano portati nel Tempio gli agnelli allevati per il sacrificio e l’olocausto. Nell’intimità del Cenacolo, Gesù annuncia il sacrificio del suo corpo e il versamento del suo sangue, sostituendo all’agnello dell’antica pasqua ebraica l’offerta della sua vita: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,12-13). Oggi la lode della Chiesa canta l’amore del Pastore che preserva il suo gregge dal pericolo della distruzione e dalla minaccia della morte pagando in prima persona il prezzo più alto. Amare è servire Si coglie facilmente la duplice missione svolta da Gesù: quella del pastore che guida e nutre le sue pecore, e quella dell’ agnello sacrificato sull’altare della croce: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). Il pastore, a differenza del mercenario che davanti ad un pericolo imminente sacrifica la vita delle pecore per mettere in salvo la sua, mette a repentaglio la propria vita per difendere e custodire quella del gregge. Noi siamo stati riscattati da ogni forma di illusione e di schiavitù “con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia…predestinato già prima della creazione del mondo» (1Pt 1, 19-20). L’amore autentico è sempre di natura “sacrificale”, comporta sempre la sofferenza personale: chi ama è disponibile a sacrificare qualcosa di sé. Gesù merita la fiducia dell’uomo, il suo amore è credibile perché ha pagato con la vita e ha confermato con il sangue la credibilità delle sue promesse. La vita di troppa gente oggi viene illusa da mercenari senza scrupoli, pronti a promettere ciò che non potranno mai compiere, pur di ingannare, per poi condannare le
persone al delirio del tradimento di ogni speranza. Agnello crocifisso, con il suo sangue ha scritto i nostri nomi in Cielo. E’ questa la verità, unica fonte di vera gioia, pascolo e cibo di vita eterna che ci dona il nutrimento del perdono divino. Gesù è il Pastore vero, che distrugge nella sua morte la menzogna e la falsità degli idoli terreni e delle promesse insensate, e ci consegna l’esempio di un’esistenza spesa per amare e per servire. Oggi il sepolcro è rimasto vuoto: i teli e i lini che avvolgevano il cadavere di Gesù, sono al loro posto, non manomessi, come l’involucro di una crisalide volata via. L’altro discepolo, corso insieme a Pietro, entrò nel sepolcro, e vide e credette. Credere: sì, perché il sepolcro lasciato vuoto dà ragione alle parole con le quali Gesù aveva promesso di riprendere nuovamente la sua vita (Gv 10,17). Ero morto, ora vivo per sempre Gesù, vero Pastore, oggi vive e opera nel ministero dei suoi Pastori. Carissimi, esattamente sei anni fa il Signore mi ha chiamato a diventare Pastore di questa nostra Chiesa diocesana di Sora- Aquino-Pontecorvo, in seguito mutata Sora-Cassino-Aquino- Pontecorvo. Oggi, inizio del settimo anno del mio ministero in mezzo a voi, in tutte le comunità parrocchiali verrà portata a conoscenza la Lettera con la quale decreto l’Indizione della prima Visita Pastorale in tutta la nostra Chiesa particolare. Il significato ecclesiale della Visita è molto forte: sarà Cristo, nella persona e nel ministero del Vescovo, a visitare e ad “abitare” le comunità che formano la nostra Chiesa particolare. A tutti voi l’ invito: Apri, e ascolta Colui che bussa alla porta di Casa! Nel libro dell’Apocalisse si legge che il Signore Risorto si è reso presente nelle prime sette chiese dell’Asia Minore. Ad una di queste (Laodicea) annuncia: “Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Nel rito di ordinazione episcopale il celebrante si rivolge con queste parole al nuovo Vescovo: “Ricevi il
pastorale, segno del tuo ministero di pastore: abbi cura di tutto il gregge, nel quale lo Spirito Santo ti ha posto come vescovo a reggere la Chiesa di Dio”. Percorrendo le strade delle nostre comunità con il segno del pastorale, il Vescovo busserà al cuore dei credenti e dei non credenti. Apriamo la porta, accogliamo il Signore risorto, ascoltiamo nella voce del Vescovo le parole del Pastore buono, accogliamo l’invito alla mensa della sua Parola e del suo Corpo, e crescere come suo Corpo vivo, la Chiesa: Corpo mistico, reale, visibile, divino e umano, santo e sempre bisognoso di purificazione, vivente nella storia ma orientato verso il compimento della Pasqua eterna nel suo Regno. + Gerardo Antonazzo Omelia Venerdì Santo 2019 La passione che purifica le passioni
Meditazione per il Venerdì Santo Sora, 14 aprile 2019 Venerdì santo. Passione del Signore Così recita il calendario liturgico. E lo indica come giorno di astinenza e di digiuno. Per meditare con cuore puro la Passione del Signore, e interiorizzare il suo prezioso insegnamento, il credente si esercita nell’arte di amare superando ogni forma di egoismo e di ingordigia che contamina e corrompe il cuore umano. La considerazione devota della Passione del Signore, se meditata spiritualmente in modo sapiente, purifica il cuore dalle passioni mondane. La Passione di Cristo diventa “passione vivente” se la sua Crocifissione è vissuta come criterio di discernimento spirituale per cambiare il cuore. Lo spiega bene l’apostolo: “Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato” (Rm 6,6). “Le passioni sono cattive se l’amore è cattivo, buone se l’amore è buono” (Agostino, De civitate Dei, 14, 7). Passione, non passioni Le passioni cattive ci affossano e ci rendono schiavi dei nostri istinti, soddisfano l’egoismo, l’istinto, il trascinamento dell’irrazionale, il mancato dominio di sé. “Tutte le attività umane che son messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall’amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo. Redento, infatti da Cristo, l’uomo può e deve amare…Il Verbo di Dio ci rivela che «Dio è amore» (1Gv 4, 8), e insieme ci insegna che la legge fondamentale della umana perfezione, è il nuovo comandamento della carità” (Gaudium et Spes 37). Passioni ingannatrici
Nel Nuovo Testamento sono più numerosi i casi in cui il termine viene utilizzato con una accezione negativa indicando concupiscenza, un desiderio di qualcosa che cattura la nostra attenzione fino a soggiogarci completamente, come ad esempio l’impazienza, la ricerca di autosoddisfazione, la parzialità, la ricerca di posizioni di prestigio o potere… Ammonisce il Siracide: “Non seguire il tuo istinto e la tua forza, assecondando le passioni del tuo cuore” (5,2). San Paolo con particolare concretezza e lucidità descrive il trascinamento delle passioni: “Sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere (Gal 5,19-21). La passione provoca eccitazione, urgenza, irruenza, e può arrivare a dominare l’intera persona: “Da dove vengono le guerre e le contese tra di voi? Non derivano forse dalle passioniche si agitano nelle vostre membra?”(Gc 4,1). Le passioni uccidono l’anima, offuscano l’alterità, fino a sfruttare la vita degli altri per la soddisfazione dei proprio bisogni. “Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5,24). Ciò che arricchisce, migliora e risponde ai nostri veri bisogni di umanità piena e vera non è l’asservimento alle passioni che ci schiavizzano, ma la Passione di Cristo che libera l’animo da ogni dominio. La “grande bellezza” Le passioni cattive ci degradano, ci avviliscono, abbrutiscono e abbruttiscono. L’uomo può recuperare la sua “grande bellezza” grazie all’amore della Passione, nel fatto che muore il Figlio di Dio per tutti, così mostrando un’altra gloria, quella dell’amore generativo, l’amore-agape che sa donare tutto all’altro, anche la vita nella morte. La Passione di Cristo rivela l’amore più grande: sofferto, puro,
disinteressato, libero, gratuito, senza risparmio, senza riserve. Chi ama davvero deve essere capace anche di soffrire amando e di amare soffrendo: “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5,24). Pertanto, solo la Passione di Cristo ci salva dall’io: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,19-20). Muore il Figlio di Dio perché l’altro viva, altri risorgano dalla loro morte, anche i nemici. Straordinaria generatività di Gesù che, in questo modo, dona l’esempio e anche la grazia per essere generativi come lui e vincere il narcisismo universale, presente nel cuore di tutti i “figli di Adamo”. Il narcisismo è “la stoffa dell’essere umano”, sostiene Eugenio Scalfari. C’è da crederci per davvero. Il suo pensiero è condivisibile. Maria vive di Passione Partecipe del dolore del Figlio, condivide la sua Passione d’amore con una completa compostezza del suo animo umano femminile. Ai piedi della Croce poteva essere tentata dalla passione della ribellione, della contestazione, della disperazione, dell’egoismo materno. Con il suo esempio Maria ci mostra come stare non dalla parte delle passioni, ma della “Passione”, ci insegna d amare “sino alla fine”, come il Figlio. Maria sul Golgota si trova di fronte alla smentita totale delle promesse di Dio a Nazareth: suo Figlio agonizza su una croce come un malfattore. Soprattutto la passione del trionfalismo e del narcisismo, distrutti dall’umiliazione di Gesù, non contaminano il cuore della Madre; entrambi hanno saputo tacere. Maria, Madre Addolorata, non soccombe, non cade nella trappola della disperazione, della rabbia, della ribellione. Anche Lei sente che Dio nel momento della Croce del Figlio, nel momento dell’odio dei nemici, del disprezzo degli avversari del suo Figlio, Le chiede di amare di più; impara ad amare ancora di più credendo nella Passione del
Figlio con lo stesso amore con cui Lui muore. Ed è questo che la rende nuovamente madre: “Donna, ecco tuo figlio…”. Ai giovani “Cari giovani, non vergognatevi di manifestare il vostro entusiasmo per Gesù, di gridare che Lui vive, che è la vostra vita. Ma nello stesso tempo non abbiate paura di seguirlo sulla via della croce. E quando sentirete che vi chiede di rinunciare a voi stessi, di spogliarvi delle vostre sicurezze, di affidarvi completamente al Padre che è nei cieli, allora, cari giovani, rallegratevi ed esultate! Siete sulla strada del Regno di Dio” (Papa Francesco, 14 aprile 2019) . + Gerardo Antonazzo Omelia Giovedì Santo 2019 La grande crisi Omelia per la Messa “In Coena Domini”
Pontecorvo-Chiesa Concattedrale, 18 aprile 2019 Il racconto della “cena del Signore” è caratterizzato da una duplice crisi: le divisioni all’interno della comunità (1Cor 11, 17-22); e la drammatica confusione tra i Dodici nel Cenacolo (Gv 13, 1-15). Entrambi sono crisi tremende, ma quella avvenuta nel Cenacolo è senza dubbio la più grave, dal momento che rischia di minare alla radice la missione del Maestro. Tuttavia, ogni crisi può sempre diventare una bella opportunità: quella nella comunità dei Corinzi provoca nei membri l’urgenza della comunione nella vita della Chiesa; quella consumata nel Cenacolo, provoca una straordinaria lezione riguardo al compito educativo. Lo scandalo delle divisioni San Paolo passa dall’elogio (1Cor 11,2) al biasimo (1Cor 11,17): quando i Corinzi si radunano per compire questo rito, si riuniscono “non per il meglio, ma per il peggio” (v. 17). Riprovevole paradosso! Il radunarsi nello stesso luogo per prendere la cena del Signore diventa motivo di inaccettabili divisioni (v. 18). L’apostolo è scandalizzato dalle notizie riferitegli, secondo le quali, in concomitanza con il prendere la cena del Signore, alcuni membri della comunità di Corinto mangiavano fino alla sazietà, mentre altri erano lasciati nell’indigenza. Appare chiaro che la condivisione del pane e del calice eucaristici avveniva nel contesto di un pasto vero durante il quale, secondo le consuetudini dell’epoca, ogni membro consumava le proprie provviste, abbondanti o magre, a seconda del rango e della condizione sociale. La partecipazione alla cena del Signore poteva diventare gravemente “indegna” e dichiaratamente “colpevole” (cfr. v. 27), per il fatto che l’assemblea manteneva le consolidate divisioni sociali, mentre nella logica cristiana tutti i membri dovevano essere considerati uguali. Non userà toni più teneri l’apostolo Giacomo, dovendo anche lui fronteggiare la
medesima questione: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali” (Gc 2,1). Tali “favoritismi” restano sempre causa di discordie disonorevoli per l’assemblea cristiana. I testi sottolineano la necessità irrinunciabile dell’accoglienza reciproca, senza alcun riferimento alla condizione sociale, culturale, economica. E’ la condizione categorica perché la partecipazione eucaristica celebri degnamente la cena del Signore. Ogni forma di ”individualismo” contraddice il principio di una comunità che, grazie alla partecipazione all’unico pane e all’unico calice, si costituisce come “corpo del Signore” nella condizione reale e nel segno concreto dell’unità. La “cena del Signore”, mentre da una parte mette a nudo la fragilità delle divisioni, dall’altra interpella la responsabilità di ogni membro della comunità nel dovere dell’accoglienza e della ricomposizione della comunione fraterna. Il problema dei Corinzi è anche quello di tanti cristiani di oggi: un credente che pratica la cena del Signore non può lasciare indietro o abbandonare altri fratelli, anche non cristiani; la cena del Signore forma cristiani dei “porti aperti”, dei ponti abbassati, per non lasciare morire di fame o affogare nel mare i tanti disperati della storia, i quali non hanno nessuna colpa per essere tali. Questa è la grande lezione che la comunità cristiana deve sempre apprendere dalla celebrazione della cena del Signore. Nella notte del tradimento “Il centro della nostra vita cristiana è una grande crisi: l’ultima cena” (T. Radcliffe). Tale crisi si rivelerà una grande lezione rivolta soprattutto all’arte di educare. Faccio riferimento anche al programma pastorale della nostra Chiesa diocesana, improntato sul tema “Giovani in famiglia. L’orgoglio e la fatica di crescere”. Cosa ha da dirci in merito il racconto della crisi scoppiata nel Cenacolo? Risponde ancora Radcliffe: “Tutto stava crollando. Giuda aveva tradito Gesù, Pietro era sul punto di rinnegarlo, gli altri
rimuginavano le loro strategie di uscita. Fu il momento più oscuro nella storia della Chiesa. Non c’era altra prospettiva che sofferenza e morte. Sembrava che l’intera vita di Gesù fosse un enorme fallimento”. Cosa ha dire la crisi del Cenacolo alle famiglie di oggi, spesso in preda ad ansie e insicurezze nei confronti dei figli? E’ la paura del fallimento che attanaglia e spaventa tanti genitori nel turbinio della crescita dei figli. È la paura di sbagliare…tutto. Da qui, tanti sensi di colpa, mortificazioni e rimorsi. Il modo in cui Gesù domina la crisi del Cenacolo insegna a non avere paura delle crisi nel rapporto con i figli. Nel Cenacolo Gesù si comporta da grande educatore: non si perde d’animo, non va in panico, non muta il suo pensiero, non cambia progetto. Invece, cosa fa? Rincara la dose del suo amore, e in quel momento terribile, prende il pane e dice: “Questo è il mio corpo che è per voi…Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue”. Educare al coraggio di vivere Gesù non si dispera, pur avendone i motivi. Non perde la calma, pur conoscendo il disordine che attraversa il cuore degli apostoli. Non impedisce loro il coraggio di vivere e il rischio di sbagliare: scegliere, decidere…fallire! Nel cuore della crisi, Gesù parla di amore; anzi dice le parole più grandi dell’amore. Non si tira indietro: nel segno del pane e del calice, e con le parole pronunciate su questi elementi della convivialità, intensifica come non mai il suo amore, donandosi nel sacrificio della propria vita con un amore estremo, “li amò sino alla fine”. Alcune domande ci bruciano dentro. Cosa succede nelle nostre famiglie quando i figli “sbandano”, sbagliano strada? Come dovrebbe comportarsi un genitore davanti al figlio ”scapestrato”? Gesù lo aveva già insegnato a tutti i genitori con la parabola del padre misericordioso (Lc 15). Il padre della parabola non proibisce al figlio di partire, lo lascia
scegliere e lo lascia decidere. Educare al coraggio di vivere comporta anche il coraggio di mettere in conto, soffrendo, gli errori dei figli. Ogni educatore deve rispettare “l’orgoglio e fatica di crescere” dei figli, continuando ad amare, anzi amando ancora di più. Solo l’amore aiuta a superare il conflitto e la crisi, e a ritornare “a casa”. Gesù si rivela un grande educatore che non limita la libertà dei suoi apostoli. Il padre della parabola non fa un dramma per l’allontanamento da casa del figlio ribelle. E la cosa più sorprendente: non spende una sola parola per convincere il figlio a rimanere. E’ il dramma universale di ogni figlio che cresce. La vita del figlio seguirà il suo corso: ha veramente voglia di vivere! Quando si troverà nella difficoltà, si ricorderà che suo padre non ha mai smesso di amarlo, nonostante tutto. Il Cenacolo ci insegna ad andare oltre ogni crisi. Per questa resta straordinario il fatto che tutte le domeniche, e non solo la sera del Giovedì Santo, ci raduniamo per celebrare la peggiore crisi della storia cristiana, e imparare ad amare ancora di più e poter andare oltre ogni crisi. + Gerardo Antonazzo “L’adesso di Dio, l’oggi della Chiesa” – Omelia per la Messa Crismale 2019
l’adesso di Dio, l’oggi della Chiesa Omelia per la Messa Crismale Cassino-Chiesa Concattedrale, 17 aprile 2019 ANNUNCIO DELLA VISITA PASTORALE All’inizio della Quaresima abbiamo accolto dalla voce del profeta l’invito forte di Dio: “Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti” (Gl 2,12-13). Se il segno delle ceneri è stato sparso sulla nostra testa, era perché potesse raggiungere e toccare il cuore. Sappiamo bene come le cose che non vengono fatte con il cuore, non hanno vita facile perché non ci fanno “cambiare testa”. Le ceneri poi si sono ben presto alleate con la sabbia arida del deserto della purificazione, dell’ascolto onesto e obbediente della Parola. Oggi il Signore ci convoca così come ci troviamo spiritualmente dinanzi a Lui al termine del cammino quaresimale, e ci invita ad entrare con il cuore in questa assemblea liturgica per celebrare nella gioia e nell’esultanza dello Spirito il suo sommo ed eterno sacerdozio. Tutti noi consacrati nel battesimo con l’unzione dello Spirito, siamo corresponsabili della medesima missione della Chiesa nel mondo e per il mondo: “Con l’unzione dello Spirito Santo hai costituito il Cristo tuo Figlio Pontefice della nuova ed eterna alleanza, e hai voluto che il suo unico sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa. Egli comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti…” (Prefazio
Messa Crismale). Dio non è bugiardo Il nostro essere Chiesa oggi si manifesta nella sua visibile e organica unità. La comunione nella Chiesa è di natura gerarchica, ed è dono trinitario, grazia soprannaturale e divina; pertanto, non può essere immaginata come la risultanza di sintonie orizzontali e di accordi puramente umani. Siamo membra vive del corpo mistico di Cristo nella santità dello Spirito. Un Corpo santo perché Santo è il suo Capo, Cristo, e al contempo un Corpo ferito da gelosie, egoismi, chiusure settarie ed esclusioni ingiustificate, antipatie, ingiuste sentenze, condanne improvvisate dettate da giudizi sommari, protagonismi anacronistici di stampo elitario e narcisistico. Siamo un Corpo umanamente infermo, che ha sempre bisogno di essere curato con l’olio della carità, per guarire soprattutto con la forza umile del reciproco perdono. Ci consola e ci incoraggia la Parola che stiamo celebrando, con la quale Gesù, dopo aver annunciato il compimento della promessa profetica del “lieto annuncio ai poveri, ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi…”, dichiara che “(lo Spirito del Signore) mi ha consacrato con l’unzione…”; e specifica: per questo sono stato inviato. Scopriamo ben presto che il per questo significa il per questi: la ragione della consacrazione del Messia e i destinatari della sua missione sono i poveri, quanti sono privati di libertà e dignità, i ciechi, gli oppressi… La Parola oggi parla di noi per raggiungere le nostre povertà e miserie umane. Negare o sorvolare sulla nostra condizione di fragilità, significherebbe deridere la missione del Messia e ritenere Dio un bugiardo (cfr. 1Gv 1,10). Credo giusto che oggi ognuno si chieda cosa può significare la consolazione del Messia nell’intimo turbolento di una coscienza contaminata, confusa, turbata, sfregiata dal peccato
e forse persino corrotta dalla malizia. La mano del Messia oggi si posa su ogni forma di disagio, per ricucire le relazioni, addolcire le parole, far rinascere la fiducia spirituale di tutti nei confronti di ciascuno. Stare nell’adesso di Dio Ci conforta la predicazione tenuta da Gesù nella sinagoga del suo villaggio. Terminata la lettura del brano di Isaia, Gesù fa seguire l’omelia più breve e più efficace della storia: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Gesù annuncia l’adesso di Dio. Così Papa Francesco a Panama: “Gesù rivela l’adesso di Dio che ci viene incontro per chiamare anche noi a prendere parte al suo adesso, in cui «portare ai poveri il lieto annuncio»” (cfr Lc 4,18-19). I fedeli della sinagoga, dopo aver ascoltato con entusiasmo l’omelia di Gesù, passano repentinamente dalla meraviglia allo scandalo, dallo scandalo alla contestazione, fino al tentato omicidio del Maestro. Anche l’uomo contemporaneo rischia di non cogliere quest’oggi di salvezza (ricorre 11 volte in Lc 2,11;4,21; 5,26; 13,32-33; 19,5.9; 23,43). È l’adesso di Dio che con Gesù diventa l’ oggi del suo volto, della sua carne umana, del suo amore di misericordia. Carissimi presbiteri, consacrati, sorelle e fratelli, tutto questo non è annunciato per domani, ma per oggi; non altrove, ma qui; non nel “frattempo”, ma adesso! Arda nel cuore di ciascuno il desiderio di sperimentare, concreto e reale, l’oggi di Gesù proprio in questa nostra assemblea, l’oggi della sua azione rigeneratrice nell’intera Chiesa diocesana! Vivere nell’oggi della Chiesa L’oggi di Gesù ispira e si attua nell’oggi della Chiesa, diventa l’oggi del nostro essere Chiesa qui convocata, chiamata ad annunciare l’anno di grazia in questa porzione di territorio. L’oggi di Gesù brucia nel mio cuore di Pastore.
Sento oggi il peso della mia responsabilità, e non posso sottrarmi alle parole del Maestro: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato…”. Non posso non rispondere, io per primo, ai doveri della mia consacrazione con cui lo Spirito mi ha reso partecipe della pienezza del sacerdozio di Cristo e della sua medesima missione. Sento e vivo questo momento della nostra Chiesa particolare come il tempo favorevole per ravvivare la missione per una ritrovata e rinnovata opera di evangelizzazione. Per questo oggi annuncio, tra gioia e trepidazione, l’Indizione per la nostra diocesi della mia Prima Visita Pastorale. Tale Visita coincide storicamente anche con la Prima Visita Pastorale per la Diocesi di Sora- Cassino-Aquino-Pontecorvo, costituita dalla Santa Sede il 23 ottobre 2014. In tutto questo mi sento serenamente ispirato da Dio grazie ad una silenziosa, orante, e prolungata riflessione, con la quale ho cercato di fare attento discernimento su eventi, colloqui, visite nelle comunità parrocchiali, incontri con le Istituzioni locali. Se non ascoltassi oggi la mia coscienza di pastore, sentirei di sottrarmi ai miei doveri e di tradire i bisogni e le attese di questa Chiesa. Se non ascoltassi oggi la voce dello Spirito, sentirei la gravosa responsabilità di non amarvi con tutte le mie forze. Il testo di Apocalisse ci ha ricordato che l’Onnipotente è “Colui che è, che era e che viene”. La Visita Pastorale incarna la preziosa Visita di Gesù Pastore nella nostra Chiesa. Il discernimento di questi mesi mi ha portato a riconoscere la necessità di incarnare in maniera speciale e in azioni straordinarie l’adesso salvifico di Dio a beneficio spirituale di credenti, di non praticanti e di non credenti. In Fines Terrae Ritorno brevemente sulla parola-chiave del mio ministero episcopale: In fines terrae. Stemma e motto episcopale non rimandano a nessun casato nobiliare né a privilegi baronali
tantomeno a pretese maniacali di prestigio. L’illusione di un carrierismo costruito su privilegi e titoli onorifici, è più o meno finito, più o meno per tutti. Con l’ordinazione episcopale, il Signore mi ha reso partecipe in pienezza del suo sacerdozio, che è sempre di natura “sacrificale”; pertanto, non posso non sentirmi responsabile, nella potenza del suo Spirito, della missione di evangelizzare. Nell’orazione iniziale della Colletta abbiamo pregato: “O Padre…concedi a noi, partecipi della sua consacrazione, di essere testimoni nel mondo della sua opera di salvezza”. Il testimone sa di aver ricevuto la grazia della salvezza e sente l’urgenza di annunciarla: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9, 16). Il Vescovo lo deve fare per primo, perché l’ha promesso quando nel rito dell’ordinazione episcopale gli è stato domandato: “Vuoi predicare con fedeltà e perseveranza il Vangelo di Cristo?”. Carissimi, la Lettera di Indizione della Visita Pastorale sarà emanata e letta nelle celebrazioni della prossima Domenica di Pasqua: tutto l’agire della Chiesa deve testimoniare la certezza incrollabile della fede nel Signore risorto, vincitore della morte e del peccato. Il 21 aprile inizierò, a Dio piacendo, il settimo anno del mio ministero episcopale. La ricorrenza del settimo anno inaugura nella Bibbia un tempo di speciale grazia del Signore (Dt 15). Preghiamo intensamente perché Gesù Signore, Sacerdote e Pastore delle nostre anime, benedica i nostri intendimenti e porti a compimento l’opera pastorale ispirata dal suo Santo Spirito. Il medesimo Spirito che ora invocheremo per la consacrazione dell’olio crismale, trasformi la santa Visita nell’evento di una rinnovata Pentecoste. Per questo, recito la preghiera con la quale accompagneremo la celebrazione della Visita Pastorale: Signore risorto, pastore misericordioso,
ti preghiamo con fiducia per la Chiesa che vive in Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo. Tu ci offri un tempo di speciale consolazione con la Visita del nostro vescovo Gerardo. Nel tuo Nome viene a ravvivare la fede, a distendere le ali della nostra speranza, a rigenerare l’ottimismo della carità fraterna in fines terrae. Signore risorto, sorgente di vita nuova, dona al nostro Pastore la sapienza del cuore. Premuroso nell’ascolto e ricolmo di gioia, esprima gesti e parole di lieto annuncio. Riceva da Te forza per affrontare la fatica, conforto e sostegno nelle difficoltà. Riaccenda in tutti la passione del Vangelo, il fuoco e lo slancio della missione in fines terrae. Signore risorto, donaci lo Spirito di fortezza per non cédere alla triste tentazione di tirare i remi in barca e restare rassegnati, a reti vuote, lungo la riva.
Insegnaci ancora a riassettare le reti, e a gettarle nel mare delle nostre delusioni. Tu ci chiami ad essere pescatori di uomini: faremo viva memoria della tua parola, per ascoltare fiduciosi la tua voce suadente e prendere il largo con fiducia e coraggio in fines terrae. Amen. + Gerardo, vescovo Omelia Ordinazione diaconale di Mihai Giuseppe – 19 marzo 2019
svegliarsi dal sonno, custodire i sogni Ordinazione diaconale di Mihai Giuseppe e conferimento dell’Accolitato a Luca Consales Sora-Chiesa Cattedrale, 19 marzo 2019 La liturgia di san Giuseppe, sposo-padre-custode, illumina in modo singolare il rito di ordinazione diaconale di Giuseppe e il conferimento del ministero dell’accolitato a Luca. La sua testimonianza è particolarmente silenziosa, perciò ancor più eloquente per la vita della Chiesa e di ogni credente. “Il silenzio di Giuseppe è abitato dalla voce di Dio e genera quell’obbedienza della fede che porta a impostare l’esistenza lasciandosi guidare dalla sua volontà” (Papa Francesco, 1° maggio 2018). L’assenza di parole attesta la profondità e la serietà di un cordiale ascolto nei confronti di Dio. Nel silenzio cresce la fede e la libertà del cuore; il silenzio è il crogiuolo purificatore del cuore, posto di fronte al mistero di Dio-Santo. Tutto della esemplarità di san Giuseppe sembra dire: nulla senza Dio, nulla diversamente dalla sua Parola. Credere è rispondere La vicenda personale di san Giuseppe è una trama vocazionale che parla di una speciale chiamata alla fede. Proprio come
nella vicenda di Abramo, il quale “per fede, chiamato da Dio, obbedì, partendo…” (Ebr 11,8). Ogni vocazione è una intensa esperienza di fede che invita a cambiare abitudini, programmi, speranze umane, se necessario anche luoghi, per accogliere nuove condizioni ed esperienze esistenziali. Rispondere è obbedire, e l’obbedienza è il frutto dell’ascolto: Dio chiama Abramo a uscire da paure e resistenze, e progettare con Lui il proprio futuro. La vocazione è perciò un’esperienza esodale di alto profilo e di alta qualità interiore. Abramo è invitato ad uscire da se stesso, ad andare oltre se stesso, ad abbandonare la sicurezza della casa paterna e ad osare il passo nella direzione dei sogni di Dio, verso “il paese che ti farò vedere” (Gen 12,1). Dio chiede sempre di muoversi nella fiducia più radicale e nella libertà. Si tratterà per Abram di un cammino di pazienza, di un lento apprendistato che lo porterà ad esplorare lo spazio aperto della relazione con il Dio “che fa uscire” verso la sua promessa. Credere è sognare Quanto difficile è l’uscita da se stessi per lasciare che la vita diventi un sogno. Abramo, come anche san Giuseppe, ci dicono che non sono i nostri sogni a fare della vita un sogno, ma ciò che Dio sogna per noi! Il primo a sognare è Dio. Giuseppe è chiamato nella notte, durante il sonno; è chiamato a sposare i sogni di Dio. Nelle notte, nulla è chiaro! “Giuseppe è l’uomo che sa destarsi e alzarsi nella notte, senza scoraggiarsi sotto il peso delle difficoltà. Sa camminare al buio di certi momenti in cui non comprende fino in fondo, forte di una chiamata che lo pone davanti al mistero, dal quale accetta di lasciarsi coinvolgere e al quale si consegna senza riserve” (Papa Francesco, 1° maggio 2018). Non possiamo rischiare che i sogni di Dio e i nostri sogni si abbraccino solo in apparenza, mentre nella realtà viaggiano in parallelo, per non incontrarsi mai. Di una cosa devi essere certo, Giuseppe: i sogni di Dio non andranno mai contro i nostri desideri più autentici. A san Giuseppe, Dio non dice di
essersi innamorato della donna sbagliata, né che fosse sbagliato il suo desiderio di perfezionare il matrimonio già avviato con Maria. Le parole dell’angelo spiegano che i desideri del Signore riguardano qualcosa di più grande ancora di quanto Giuseppe stesso potesse immaginare. Caro Giuseppe, se oggi si realizza un “tuo” sogno è perché tu hai sposato i pensieri di Dio. Anche per te, caro Luca, vale la stessa logica. Ogni forma di servizio a favore del popolo di Dio, come oggi è il ministero dell’Accolitato che ti viene affidato, abbraccia e incarna i piani di Dio, non i nostri sterili narcisismi e ostentazioni. Credere è generare La fede di Abramo guarisce la sua sterilità: “Ti ho costituito padre di molti popoli”. La fede con cui Abramo risponde alla chiamata di Dio lo renderà capace, contro ogni speranza umana, di diventare padre di una moltitudine. Anche il tuo celibato, carissimo Giuseppe, non vorrà dire mancanza di fecondità. Si rimane sterili quando manchiamo di fede, quando non rispondiamo ai sogni di Dio. Giuseppe pensava di essere fecondo nel matrimonio con Maria. Dio invece lo rende padre nell’obbedienza della fede. La vocazione che viene realmente da Dio è sempre una chiamata a diventare “padre”. La chiamata è generativa di una discendenza spirituale, perché la chiamata è sempre un servizio di paternità spirituale per coloro ai quali il Signore chiede di impegnare tutta la vita, e per sempre. E’ davvero commovente sentirsi ancora chiamare dalla nostra gente “padre”. Dobbiamo poter meritare questo appellativo generoso e familiare del popolo di Dio! Credere è avere coraggio San Giuseppe è capace di fidarsi, anzi impara a fidarsi grazie a Maria: si fida di lei, di ciò che lei gli racconta, per fidarsi di Dio. “Non temere!” dice l’angelo a san Giuseppe; lo dico a te caro Giuseppe. L’invito a non temere non inibisce la legittimità dei dubbi e delle paure. Anche tu hai il diritto
di chiedere, come san Giuseppe, come Maria: “Come è possibile?”. Dio sceglie per la sua opera le persone e i momenti: le sue scelte sono fondamentalmente sempre “giuste”, e non andranno certo deluse dai nostri singoli fallimenti, legati al rischio della libertà umana che Dio sempre rispetta. San Giuseppe ha il coraggio di assumersi le sue responsabilità nel custodire i beni che Dio gli affida. Anche tu, caro Luca, con il ministero dell’Accolitato che oggi ti viene conferito, diventi custode dei tesori di Dio: la Parola e l’Eucarestia. Sono tesori inestimabili destinati ai tuoi fratelli e sorelle, in un servizio generoso e gratuito. Giuseppe e Luca, sarete “dispensatori” dei divini misteri, non padroni faziosi dei doni di Dio. Le parole dell’angelo oggi vi ricordano che: “…egli salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Dunque, non sarete voi a salvare con la vostra pur lodevole disponibilità e bravura, ma Dio attraverso di voi, non senza di voi, con la sola potenza della sua grazia affidata alle vostre mani e alla vostra fedeltà. Gerardo Antonazzo Omelia per il Mercoledì delle Ceneri
Dalla testa al cuore Omelia per il Mercoledì delle Ceneri Sora-Chiesa Cattedrale, 6 marzo 2019 Quaranta giorni per cambiare vita? La liturgia delle Ceneri celebra l’inizio: “…concedi al popolo cristiano di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione”. Non specifica una durata, tantomeno fissa un termine uguale per tutti. A Pasqua celebriamo la vittoria di Cristo sulla morte, lo sappiamo bene; ma ognuno fa Pasqua nella vita secondo il ritmo della sua docile conversione dal peccato alla grazia. Tra le Ceneri e la Pasqua c’è di mezzo il deserto delle fatiche umane, delle lentezze e ritardi, delle resistenze interiori al pressante invito “convertitevi e credete al Vangelo”. La pedagogia della Chiesa, e in particolare della liturgia, lascia aperta ogni prospettiva, concedendo a ciascuno il tempo necessario per misurarsi con gli elementi complessi e contorti del “combattimento contro lo spirito del male”. Per questa ragione il cammino si fa agonico; e la lotta si affronta con le armi consegnate oggi dal vangelo: la carità, la preghiera, e il digiuno da vivere nel segreto del cuore. Nel deserto della nostra camera Dove può avvenire la nostra conversione a Dio? Nella rivelazione biblica la conversione è favorita dall’esperienza speciale del deserto. Per affrontare la lotta contro ogni male, bisogna familiarizzare con le condizioni del deserto. Il deserto è solitudine, silenzio, ascolto, pericoli, insidie, paure, tentazione, povertà, intimità, attesa, fiducia, purificazione dei desideri, invocazione. Israele si è innamorato di Dio nel deserto. Quando Dio deve correggere Israele, lo invita a rivivere l’esperienza del primo
innamoramento nel deserto. Al tradimento da parte di Israele, Dio annuncia non la punizione e il ripudio, ma la guarigione e il perdono: “Ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16). Il deserto diventa metafora di una straordinaria esperienza spirituale grazie alla quale, dopo la sazietà ingorda di illusioni materiali e di interessi idolatrici, possiamo riscoprire i morsi della fame e della sete di Dio, il desiderio della sua Parola, la fiducia nelle sue promesse, il combattimento e la vittoria nelle tentazioni, il bisogno di pentimento e ravvedimento, la gioia estatica del suo perdono. Il vangelo oggi invita a rientrare nella propria camera (il termine greco indica una stanza interna, riservata, segreta): “Entra nella tua camera, chiudi la porta…”. Il vero deserto è la stanza interiore della nostra coscienza, dove finalmente impariamo a stare soli con noi stessi, con le nostre paure e debolezze, spogliàti di ogni delirio di ipocrisia e di onnipotenza. “Signore, tu mi conosci veramente come sono [ ]. Tuttavia c’è qualcosa nell’uomo che non è conosciuto neppure dallo spirito che è in lui. Tu però, Signore, conosci tutto di lui, perché l’hai creato. Io invece, quantunque mi disprezzi davanti a te e mi ritenga terra e cenere, so di te qualcosa che non so di me” (S. Agostino, Confessioni, Libro X). Se la preghiera liturgica oggi ci sprona ad “un cammino di vera conversione”, è perché vuole salvaguardarci dall’illusione di una conversione non vera, inaffidabile e sterile. Nel segreto del cuore Dio ci osserva nella nostra verità più intima a noi stessi, e più nascosta agli altri: “Stimolato a rientrare in me stesso, sotto la tua guida, entrai nell’intimità del mio cuore [ ]. Tu, infatti, eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta” (S. Agostino, Confessioni, VII, 10, 18: III,6,11). Se non cambia il cuore, non cambia nulla Come cambiare davvero?
Il rito dell’imposizione delle ceneri mi fa venire in mente due espressioni usate nel linguaggio corrente: “Cambiare testa”, per indicare la necessità di un modo diverso di vivere; e “Fare le cose con cuore”, per invitare a crederci sul serio in quello che uno deve impegnarsi a fare. Mettendo insieme le due frasi, si capisce che per cambiare vita bisogna impegnare il cuore: “Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti” (Gl 2,12-13). E se non cambia il cuore non cambiamo testa! Il cambiamento della nostra vita deve partire dalle cose che più ci stanno a cuore, e che spesso rischiano di essere un impedimento per un sincero ritorno al primato di Dio: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente” (Lc 10,27). Nel deserto quaresimale, lasciamo che sia Dio a parlare per primo. Rieduchiamo il cuore all’ascolto attraverso la fatica del silenzio: “Oggi non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore” (Sal 94,8). “Sarebbe utile dedicare una ‘giornata per ascoltare’. Immersi come siamo nella confusione, nelle parole, nella fretta, nel nostro egoismo, nella mondanità, rischiamo infatti di rimanere sordi alla parola di Dio, di far ‘indurire’ il nostro cuore, e di perdere la fedeltà al Signore [ ]. Guai al popolo che si dimentica di quello stupore, di quello stupore del primo incontro con Gesù. È lo stupore apre le porte alla parola di Dio” (Papa Francesco, 23 marzo 2017). Discernimento e lotta Cosa ci aiuta a cambiare? Per cambiare secondo Dio bisogna conoscere e fidarsi della sua volontà. Per questo è necessario imparare l’arte del discernimento. Nel cuore, inteso come coscienza, il credente cerca di valutare la propria vita alla luce della Parola di Dio. Nel cuore dell’uomo succede di tutto, perché tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo…il cuore. S. Paolo, profondo conoscitore dell’animo umano, riesprime così la lotta
interiore nella coscienza: “Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto [ ] …quando voglio fare il bene, il male è accanto a me” (cfr. Rm 7, 15-24). Senza l’esercizio del discernimento interiore la lotta è già sconfitta, e la conversione una disfatta: “Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita. Non si tratta solamente di un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni. Ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via” (Papa Francesco, Gaudete et exultate, 158-159). Invito tutti a fare della quaresima una palestra di discernimento spirituale: nella vita dei presbiteri ravviva la coscienza sacerdotale (a partire dal rito di ordinazione), nella vita laicale illumina la coscienza di fronte alle scelte, nel rapporto di coppia insegna a rigenerare l’alleanza nuziale, per i genitori illumina la delicata responsabilità educativa verso i figli, nelle relazioni familiari edifica la chiesa domestica. Il discernimento ha anche bisogno di tempi di silenzio, di preghiera prolungata, di ascolto della Parola, dell’esame di coscienza quotidiano, della riconciliazione sacramentale, dell’accompagnamento spirituale da parte di una guida saggia e santa. Tutto questo ci aiuterà a cambiare. Buona traversata, buon combattimento, buona quaresima! + Gerardo Antonazzo
LETTERA PASTORALE – INFINESTERRAE – “LUCE SUL MIO CAMMINO” La Chiesa, discepola del suo Signore, è Madre di ogni battezzato e Maestra nella fede. La Chiesa che vive in Sora- Cassino-Aquino-Pontecorvo è “un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef 4,4-5). Questa Chiesa si prende cura dei suoi figli, accompagnandoli nella crescita e nella formazione alla vita cristiana, con la tenerezza di chi comprende limiti e fragilità, e con la sollecitudine di chi incoraggia alla gioia di una vita cristiana pensata e vissuta, matura e adulta “finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13) …[Continua a Leggere] Scarica la lettera Pastorale completa in PDF: >> CLICCA QUI
Telefono: +39 0776831082 MAIL: redazione@diocesisora.it Appunti Paolo Benanti su “Digital Age” Digital Age Paolo Benanti (Convegno Aquino 2019) 1. Una premessa: il Digital Age Viviamo in una società e in un tempo caratterizzato dal digitale, il Digital Age, un periodo complesso a causa dei profondi cambiamenti che queste tecnologie stanno producendo. L’effetto della esponenziale digitalizzazione della comunicazione e della società sta portando, a detta di studiosi come Marc Prensky[1], a una vera e propria trasformazione antropologica: l’avvento dei nativi digitali. Nativo digitale (in inglese digital native) è una espressione che viene applicata ad una persona che è cresciuta con le tecnologie digitali come i computer, internet, telefoni cellulari e MP3. L’espressione viene utilizzata per indicare un nuovo e inedito gruppo di studenti che sta accedendo al sistema dell’educazione. I nativi digitali nascono parallelamente alla diffusione di massa dei computer a
interfaccia grafica nel 1985 e dei sistemi operativi a finestre nel 1996. Il nativo digitale cresce in una società multischermo, e considera le tecnologie come un elemento naturale non provando nessun disagio nel manipolarle e interagire con esse. Per contro, Prensky, conia l’espressione immigrato digitale (digital immigrant) per indicare una persona che è cresciuta prima delle tecnologie digitali e le ha adottate in un secondo tempo. Una delle differenziazioni tra questi soggetti è il diverso approccio mentale che hanno verso le nuove tecnologie: ad esempio un nativo digitale parlerà della sua nuova macchina fotografica (senza definirne la tipologia tecnologica) mentre un immigrato digitale parlerà della sua nuova macchina fotografica digitale, in contrapposizione alla macchina fotografica con pellicola chimica utilizzata in precedenza. Un nativo digitale, per Prensky, è come plasmato dalla dieta mediale a cui è sottoposto: in cinque anni, ad esempio, trascorre 10.000 ore con i videogames, scambia almeno 200.000 email, trascorre 10.000 ore al cellulare, passa 20.000 ore davanti alla televisione guardando almeno 500.000 spot pubblicitari dedicando, però, solo 5.000 ore alla lettura. Questa dieta mediale produce, secondo Prensky, un nuovo linguaggio, un nuovo modo di organizzare il pensiero che modificherà la struttura cerebrale dei nativi digitali. Multitasking, ipertestualità e interattività sono, per Prensky, solo alcune caratteristiche di quello che appare come un nuovo e inedito modo di comprendere e comunicare dell’essere umano. Inoltre Prensky sostiene che, sia pure in modo irregolare e alla nostra personale velocità, ci muoviamo tutti verso un potenziamento digitale che include le attività cognitive[2]. Secondo Prensky gli strumenti digitali già estendono e arricchiscono le nostre capacità cognitive in molti modi. La tecnologia digitale migliora la memoria, per esempio attraverso gli strumenti di acquisizione, archiviazione e restituzione dei dati. La raccolta digitale di dati e gli strumenti di supporto alle decisioni migliorano la
capacità di scelta consentendoci di raccogliere più dati e verificare tutte le implicazioni derivanti da quella domanda. Il potenziamento digitale in ambito cognitivo, reso possibile da laptop, database online, simulazioni tridimensionali virtuali, strumenti collaborativi online, tablet e da una serie di altri strumenti specifici per diversi contesti, è oggi per Prensky una realtà in molte professioni, anche in campi non tecnici come la giurisprudenza e le discipline umanistiche[3]. 2. Digital Age come fenomeno religioso Nella storia del pensiero, al di là dei momenti di discussione accademica e di riflessione che hanno segnato lo sviluppo della filosofia, di fatto si è assistito al ricorso a diverse forme di autorità per sintetizzare dei criteri che fondassero e orientassero le scelte delle persone. Per migliaia di anni gli esseri umani hanno indicato l’autorità come venuta e consegnata agli uomini dagli dei. Poi, durante l’epoca moderna, l’umanesimo ha gradualmente spostato l’autorità dalle divinità alla persona. Jean-Jacques Rousseau nel 1762 ha riassunto questa rivoluzione nell’Émile, il suo trattato sull’educazione. Quando Rousseau parla della ricerca di regole di condotta nella vita dice di averle trovate «nel profondo del mio cuore, tracciate dalla natura in caratteri che nulla può cancellare. Ho bisogno solo di consultare me stesso per quanto riguarda ciò che desidero fare; quello che sento di essere buono è buono, quello che sento di essere cattivo è cattivo». I pensatori umanisti come Rousseau produssero una trasformazione del principio di autorità, convincendoci che non gli dei ma i nostri sentimenti e desideri sono la fonte ultima di significato e che la nostra volontà è, dunque, la più alta fonte di autorità. Ora, in questa epoca di insorgenza di intelligenze
artificiali, una nuova rivoluzione nel principio di autorità e nella comprensione di quali siano le fonti autorevoli sta per avvenire. Se nell’antica Grecia le fonti autorevoli erano gli oracoli, legittimati da mitologie e credenze, a partire dall’umanesimo l’autorità umana è stata legittimata da ideologie umanistiche. Sembrerebbe che i nuovi guru dell’high-tech e i profeti della Silicon Valley stiano creando una nuova narrazione universale che legittima una nuova fonte di autorità: gli algoritmi di intelligenza artificiale e i Big Data. Questo nuovo romanzo, questa nuova fondazione religiosa, questa sorta di mitologia del XXI secolo potremmo chiamarla digitalesimo. Nella sua forma estrema i fautori di questa visione del mondo digitalista percepiscono l’intero universo come un flusso di dati, vedono gli organismi viventi come poco più di algoritmi biochimici e credono che esista una vocazione cosmica per l’umanità: creare un sistema di elaborazione dati onnicomprensivo e poi, nell’eschaton del cosmo, fondersi in esso. Dal punto di vista dell’annuncio della fede ci troviamo di fronte a una inedita e sfidante modalità che cambia le coordinate di riferimento nel processo della fiducia e dell’attribuzione di autorevolezza. Il modo con cui chiediamo a un motore di ricerca, agli algoritmi di un’intelligenza artificiale o a un computer alcune risposte su questioni che riguardano i nostri processi più intimi, si pensi ai software per trovare il partner o l’anima gemella, ha una matrice che potremmo definire di natura religiosa: ci relazioniamo alla macchina e alla sua risposta con un atteggiamento che non è molto differente da quello che avevano quanti, nell’antichità, si rivolgevano ad oracoli e aruspici per conoscere il loro destino. Il digitalesimo, questo nuovo modo di relazionarsi e credere al digitale, assume in alcuni i tratti di un vero e proprio fenomeno religioso e come tale va considerato nel pensare un annuncio di fede.
Il digitalesimo, con queste sue componenti tecniche e religiose, unito alla grandissima pervasività dei mezzi di cui dispone, Internet è una struttura sempre più globale, potrebbe dar luogo a una cultura globale che formerà soprattutto il modo di pensare e credere delle prossime generazioni di giovani. Le nuove generazioni saranno sempre più globalmente digitali e sempre di più presenteranno caratteristiche e modi di pensiero globali. Le grandi piattaforme di condivisione video, i social networks e i sistemi di chat globale sembrano annunciare l’avvento di una generazione di giovani globale grazie al loro potere di diffusione e di istantaneità. Questo oltre che una sfida può essere un’opportunità. Sviluppare forme e strumenti in grado di decodificare le istanze antropologiche che si pongono alla base di questi fenomeni e affinare modi di evangelizzazione per la cultura digitale consente non solo di comprendere il presente ma di offrire azioni evangelizzatrici globali e diffuse come globale e diffuso è il Digital Age. 3. Alcuni punti su cui portare un discernimento illuminato dalla fede Appare così evidente come la questa, specie nella pervasività sociale e culturale del Digital Age, ci cambi, tanto nel modo di comprenderci quanto in quello di comprendere il mondo. Questo risulta particolarmente evidente per le giovani generazioni. Oggi il giovane adulto è un’isola in un arcipelago di relazioni reali, presunte o immaginate e sembra che le nuove generazioni non sempre siano formate e culturalmente attrezzate per affrontare la sfida che la società digitale propone. I media, per loro stessa natura, sono elementi che si interpongono tra noi e il reale: ci forniscono versioni selettive del mondo, più che un accesso diretto ad esso combinando insieme diversi linguaggi in un testo che viene comunicato e diffuso con caratteristiche che oggi assumono i tratti della globalità e dell’istantaneità.
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