Omelia per la Solennità di Pasqua 2019

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Omelia per la Solennità di Pasqua 2019
Omelia per la Solennità di
Pasqua 2019

                       AGNUS REDÉMIT OVES

                Omelia per la solennità di Pasqua

                         21 aprile 2019

INDIZIONE DELLA VISITA PASTORALE

Christus vivit: è l’annuncio pasquale che Papa Francesco ha
consegnato al cuore dei giovani e a tutto il popolo di Dio con
la sua Esortazione apostolica post-sinodale. “Cristo vive.
Egli è la nostra speranza e la più bella giovinezza di questo
mondo…accanto a te c’è il Risorto, che ti chiama e ti aspetta
per ricominciare” (n. 2). L’Agnello ha redento il suo gregge,
e il Pastore risorto riprende in pienezza la vita donata sulla
croce. Il masso rimosso dal sepolcro, segna la caduta del muro
più triste, quello della morte. D’ora in poi si potrà passare
dall’altra parte senza paura!

Io dò la vita

 Gesù Risorto inaugura un’esistenza umana risplendente di luce
e di bellezza divina, piena di vita: “Io do loro la vita
eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla
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mia mano.” (Gv 10, 27-30). Il contesto nel quale Gesù
pronuncia questo insegnamento è quello della festa di
Hanukkàh, della Dedicazione, che celebrava la riconsacrazione
del nuovo tempio. Per tale festa, venivano portati nel Tempio
gli agnelli allevati per il sacrificio e l’olocausto.
Nell’intimità del Cenacolo, Gesù annuncia il sacrificio del
suo corpo e il versamento del suo sangue, sostituendo
all’agnello dell’antica pasqua ebraica l’offerta della sua
vita: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua
vita per i propri amici” (Gv 15,12-13). Oggi la lode della
Chiesa canta l’amore del Pastore che preserva il suo gregge
dal pericolo della distruzione e dalla minaccia della morte
pagando in prima persona il prezzo più alto.

Amare è servire

Si coglie facilmente la duplice missione svolta da Gesù:
quella del pastore che guida e nutre le sue pecore, e quella
dell’ agnello sacrificato sull’altare della croce:
“Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era
come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte
ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). Il
pastore, a differenza del mercenario che davanti ad un
pericolo imminente sacrifica la vita delle pecore per mettere
in salvo la sua, mette a repentaglio la propria vita per
difendere e custodire quella del gregge. Noi siamo stati
riscattati da ogni forma di illusione e di schiavitù “con il
sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza
macchia…predestinato già prima della creazione del mondo» (1Pt
1, 19-20). L’amore autentico è sempre di natura “sacrificale”,
comporta sempre la sofferenza personale: chi ama è disponibile
a sacrificare qualcosa di sé. Gesù merita la fiducia
dell’uomo, il suo amore è credibile perché ha pagato con la
vita e ha confermato con il sangue la credibilità delle sue
promesse. La vita di troppa gente oggi viene illusa da
mercenari senza scrupoli, pronti a promettere ciò che non
potranno mai compiere, pur di ingannare, per poi condannare le
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persone al delirio del tradimento di ogni speranza. Agnello
crocifisso, con il suo sangue ha scritto i nostri nomi in
Cielo. E’ questa la verità, unica fonte di vera gioia, pascolo
e cibo di vita eterna che ci dona il nutrimento del perdono
divino. Gesù è il Pastore vero, che distrugge nella sua morte
la menzogna e la falsità degli idoli terreni e delle promesse
insensate, e ci consegna l’esempio di un’esistenza spesa per
amare e per servire. Oggi il sepolcro è rimasto vuoto: i teli
e i lini che avvolgevano il cadavere di Gesù, sono al loro
posto, non manomessi, come l’involucro di una crisalide volata
via. L’altro discepolo, corso insieme a Pietro, entrò nel
sepolcro, e vide e credette. Credere: sì, perché il sepolcro
lasciato vuoto dà ragione alle parole con le quali Gesù aveva
promesso di riprendere nuovamente la sua vita (Gv 10,17).

Ero morto, ora vivo per sempre

Gesù, vero Pastore, oggi vive e opera nel ministero dei suoi
Pastori.

Carissimi, esattamente sei anni fa il Signore mi ha chiamato a
diventare Pastore di questa nostra Chiesa diocesana di Sora-
Aquino-Pontecorvo, in seguito mutata Sora-Cassino-Aquino-
Pontecorvo. Oggi, inizio del settimo anno del mio ministero in
mezzo a voi, in tutte le comunità parrocchiali verrà portata a
conoscenza la Lettera con la quale decreto l’Indizione della
prima Visita Pastorale in tutta la nostra Chiesa particolare.
Il significato ecclesiale della Visita è molto forte: sarà
Cristo, nella persona e nel ministero del Vescovo, a visitare
e ad “abitare” le comunità che formano la nostra Chiesa
particolare. A tutti voi l’ invito: Apri, e ascolta Colui che
bussa alla porta di Casa! Nel libro dell’Apocalisse si legge
che il Signore Risorto si è reso presente nelle prime sette
chiese dell’Asia Minore. Ad una di queste (Laodicea) annuncia:
“Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi
apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”
(Ap 3,20). Nel rito di ordinazione episcopale il celebrante
si rivolge con queste parole al nuovo Vescovo: “Ricevi il
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pastorale, segno del tuo ministero di pastore: abbi cura di
tutto il gregge, nel quale lo Spirito Santo ti ha posto come
vescovo a reggere la Chiesa di Dio”. Percorrendo le strade
delle nostre comunità con il segno del pastorale, il Vescovo
busserà al cuore dei credenti e dei non credenti. Apriamo la
porta, accogliamo il Signore risorto, ascoltiamo nella voce
del Vescovo le parole del Pastore buono, accogliamo l’invito
alla mensa della sua Parola e del suo Corpo, e crescere come
suo Corpo vivo, la Chiesa: Corpo mistico, reale, visibile,
divino e umano, santo e sempre bisognoso di purificazione,
vivente nella storia ma orientato verso il compimento della
Pasqua eterna nel suo Regno.

                         + Gerardo Antonazzo

Omelia Venerdì Santo 2019

       La passione che purifica le
                passioni
Meditazione per il Venerdì Santo

                Sora, 14 aprile 2019
Venerdì santo. Passione del Signore

Così recita il calendario liturgico. E lo indica come giorno
di astinenza e di digiuno. Per meditare con cuore puro la
Passione del Signore, e interiorizzare il suo prezioso
insegnamento, il credente si esercita nell’arte di amare
superando ogni forma di egoismo e di ingordigia che contamina
e corrompe il cuore umano. La considerazione devota della
Passione del Signore, se meditata spiritualmente in modo
sapiente, purifica il cuore dalle passioni mondane. La
Passione di Cristo diventa “passione vivente” se la sua
Crocifissione è vissuta come criterio di discernimento
spirituale per cambiare il cuore. Lo spiega bene l’apostolo:
“Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso
con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di
peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato” (Rm
6,6). “Le passioni sono cattive se l’amore è cattivo, buone se
l’amore è buono” (Agostino, De civitate Dei, 14, 7).

Passione, non passioni

Le passioni cattive ci affossano e ci rendono schiavi dei
nostri istinti, soddisfano l’egoismo, l’istinto, il
trascinamento dell’irrazionale, il mancato dominio di sé.
“Tutte le attività umane che son messe in pericolo
quotidianamente dalla superbia e dall’amore disordinato di se
stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo
della croce e della risurrezione di Cristo. Redento, infatti
da Cristo, l’uomo può e deve amare…Il Verbo di Dio ci rivela
che «Dio è amore» (1Gv 4, 8), e insieme ci insegna che la
legge fondamentale della umana perfezione, è il nuovo
comandamento della carità” (Gaudium et Spes 37).

Passioni ingannatrici
Nel Nuovo Testamento sono più numerosi i casi in cui il
termine viene utilizzato con una accezione negativa indicando
concupiscenza, un desiderio di qualcosa che cattura la nostra
attenzione fino a soggiogarci completamente, come ad esempio
l’impazienza, la ricerca di autosoddisfazione, la parzialità,
la ricerca di posizioni di prestigio o potere… Ammonisce il
Siracide: “Non seguire il tuo istinto e la tua forza,
assecondando le passioni del tuo cuore” (5,2).

San Paolo con particolare concretezza e lucidità descrive il
trascinamento delle passioni: “Sono ben note le opere della
carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria,
stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi,
divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del
genere (Gal 5,19-21). La passione provoca eccitazione,
urgenza, irruenza, e può arrivare a dominare l’intera persona:
“Da dove vengono le guerre e le contese tra di voi? Non
derivano forse dalle passioniche si agitano nelle vostre
membra?”(Gc 4,1). Le passioni uccidono l’anima, offuscano
l’alterità, fino a sfruttare la vita degli altri per la
soddisfazione dei proprio bisogni.

“Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con
le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5,24).     Ciò che
arricchisce, migliora e risponde ai nostri veri bisogni di
umanità piena e vera non è l’asservimento alle passioni che ci
schiavizzano, ma la Passione di Cristo che libera l’animo da
ogni dominio.

La “grande bellezza”

Le passioni cattive ci degradano, ci avviliscono, abbrutiscono
e abbruttiscono. L’uomo può recuperare la sua         “grande
bellezza” grazie all’amore della Passione, nel fatto che muore
il Figlio di Dio per tutti, così mostrando un’altra gloria,
quella dell’amore generativo, l’amore-agape che sa donare
tutto all’altro, anche la vita nella morte. La Passione di
Cristo rivela l’amore più grande: sofferto, puro,
disinteressato, libero, gratuito, senza risparmio, senza
riserve. Chi ama davvero deve essere capace anche di soffrire
amando e di amare soffrendo: “Quelli che sono di Cristo hanno
crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi
desideri” (Gal 5,24). Pertanto, solo la Passione di Cristo ci
salva dall’io: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo
più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel
corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e
ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,19-20).       Muore il
Figlio di Dio perché l’altro viva, altri risorgano dalla loro
morte, anche i nemici. Straordinaria generatività di Gesù che,
in questo modo, dona l’esempio e anche la grazia per essere
generativi come lui e vincere il narcisismo universale,
presente nel cuore di tutti i “figli di Adamo”. Il narcisismo
è “la stoffa dell’essere umano”, sostiene Eugenio Scalfari.
C’è da crederci per davvero. Il suo pensiero è condivisibile.

Maria vive di Passione

Partecipe del dolore del Figlio, condivide la sua Passione
d’amore con una completa compostezza del suo animo umano
femminile. Ai piedi della Croce poteva essere tentata dalla
passione della ribellione, della contestazione, della
disperazione, dell’egoismo materno. Con il suo esempio Maria
ci mostra come stare non dalla parte delle passioni, ma della
“Passione”, ci insegna d amare “sino alla fine”, come il
Figlio. Maria sul Golgota si trova di fronte alla smentita
totale delle promesse di Dio a Nazareth: suo Figlio agonizza
su una croce come un malfattore. Soprattutto la passione del
trionfalismo e del narcisismo, distrutti dall’umiliazione di
Gesù, non contaminano il cuore della Madre; entrambi hanno
saputo tacere. Maria, Madre Addolorata, non soccombe, non cade
nella trappola della disperazione, della rabbia, della
ribellione. Anche Lei sente che Dio nel momento della Croce
del Figlio, nel momento dell’odio dei nemici, del disprezzo
degli avversari del suo Figlio, Le chiede di amare di più;
impara ad amare ancora di più credendo nella Passione del
Figlio con lo stesso amore con cui Lui muore. Ed è questo che
la rende nuovamente madre: “Donna, ecco tuo figlio…”.

Ai giovani

“Cari giovani, non vergognatevi di manifestare il vostro
entusiasmo per Gesù, di gridare che Lui vive, che è la vostra
vita. Ma nello stesso tempo non abbiate paura di seguirlo
sulla via della croce. E quando sentirete che vi chiede di
rinunciare a voi stessi, di spogliarvi delle vostre sicurezze,
di affidarvi completamente al Padre che è nei cieli, allora,
cari giovani, rallegratevi ed esultate! Siete sulla strada del
Regno di Dio” (Papa Francesco, 14 aprile 2019) .

                                        + Gerardo Antonazzo

Omelia Giovedì Santo 2019

                  La grande crisi
   Omelia per la Messa “In Coena Domini”
Pontecorvo-Chiesa Concattedrale, 18
                 aprile 2019
Il racconto della “cena del Signore” è caratterizzato da una
duplice crisi: le divisioni all’interno della comunità (1Cor
11, 17-22); e la drammatica confusione tra i Dodici nel
Cenacolo (Gv 13, 1-15). Entrambi sono crisi tremende, ma
quella avvenuta nel Cenacolo è senza dubbio la più grave, dal
momento che rischia di minare alla radice la missione del
Maestro. Tuttavia, ogni crisi può sempre diventare una bella
opportunità: quella nella comunità dei Corinzi provoca nei
membri l’urgenza della comunione nella vita della Chiesa;
quella consumata nel Cenacolo, provoca una straordinaria
lezione riguardo al compito educativo.

Lo scandalo delle divisioni

San Paolo passa dall’elogio (1Cor 11,2) al biasimo (1Cor
11,17): quando i Corinzi si radunano per compire questo rito,
si riuniscono “non per il meglio, ma per il peggio” (v. 17).
Riprovevole paradosso! Il radunarsi nello stesso luogo per
prendere la cena del Signore diventa motivo di inaccettabili
divisioni (v. 18). L’apostolo è scandalizzato dalle notizie
riferitegli, secondo le quali, in concomitanza con il prendere
la cena del Signore, alcuni membri della comunità di Corinto
mangiavano fino alla sazietà, mentre altri erano lasciati
nell’indigenza. Appare chiaro che la condivisione del pane e
del calice eucaristici avveniva nel contesto di un pasto vero
durante il quale, secondo le consuetudini dell’epoca, ogni
membro consumava le proprie provviste, abbondanti o magre, a
seconda del rango e della condizione sociale. La
partecipazione alla cena del Signore poteva diventare
gravemente “indegna” e dichiaratamente “colpevole” (cfr. v.
27), per il fatto che l’assemblea manteneva le consolidate
divisioni sociali, mentre nella logica cristiana tutti i
membri dovevano essere considerati uguali. Non userà toni più
teneri l’apostolo Giacomo, dovendo anche lui fronteggiare la
medesima questione: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore
nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da
favoritismi personali” (Gc 2,1). Tali “favoritismi” restano
sempre causa di discordie disonorevoli per l’assemblea
cristiana. I testi sottolineano la necessità irrinunciabile
dell’accoglienza reciproca, senza alcun riferimento alla
condizione sociale, culturale, economica. E’ la condizione
categorica perché la partecipazione eucaristica celebri
degnamente la cena del Signore. Ogni forma di ”individualismo”
contraddice il principio di una comunità che, grazie alla
partecipazione all’unico pane e all’unico calice, si
costituisce come “corpo del Signore” nella condizione reale e
nel segno concreto dell’unità. La “cena del Signore”, mentre
da una parte mette a nudo la fragilità delle divisioni,
dall’altra interpella la responsabilità di ogni membro della
comunità nel dovere dell’accoglienza e della ricomposizione
della comunione fraterna. Il problema dei Corinzi è anche
quello di tanti cristiani di oggi: un credente che pratica la
cena del Signore non può lasciare indietro o abbandonare altri
fratelli, anche non cristiani; la cena del Signore forma
cristiani dei “porti aperti”, dei ponti abbassati, per non
lasciare morire di fame o affogare nel mare i tanti disperati
della storia, i quali non hanno nessuna colpa per essere tali.
Questa è la grande lezione che la comunità cristiana deve
sempre apprendere dalla celebrazione della cena del Signore.

Nella notte del tradimento

“Il centro della nostra vita cristiana è una grande crisi:
l’ultima cena” (T. Radcliffe). Tale crisi si rivelerà una
grande lezione rivolta soprattutto all’arte di educare. Faccio
riferimento anche al programma pastorale della nostra Chiesa
diocesana, improntato sul tema “Giovani in famiglia.
L’orgoglio e la fatica di crescere”. Cosa ha da dirci in
merito il racconto della crisi scoppiata nel Cenacolo?
Risponde ancora Radcliffe: “Tutto stava crollando. Giuda aveva
tradito Gesù, Pietro era sul punto di rinnegarlo, gli altri
rimuginavano le loro strategie di uscita. Fu il momento più
oscuro nella storia della Chiesa. Non c’era altra prospettiva
che sofferenza e morte. Sembrava che l’intera vita di Gesù
fosse un enorme fallimento”.

Cosa ha dire la crisi del Cenacolo alle famiglie di oggi,
spesso in preda ad ansie e insicurezze nei confronti dei
figli? E’ la paura del fallimento che attanaglia e spaventa
tanti genitori nel turbinio della crescita dei figli. È la
paura di sbagliare…tutto. Da qui, tanti sensi di colpa,
mortificazioni e rimorsi. Il modo in cui Gesù domina la crisi
del Cenacolo insegna a non avere paura delle crisi nel
rapporto con i figli. Nel Cenacolo Gesù si comporta da grande
educatore: non si perde d’animo, non va in panico, non muta il
suo pensiero, non cambia progetto. Invece, cosa fa? Rincara
la dose del suo amore, e in quel momento terribile, prende il
pane e dice: “Questo è il mio corpo che è per voi…Questo
calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue”.

Educare al coraggio di vivere

 Gesù non si dispera, pur avendone i motivi. Non perde la
calma, pur conoscendo il disordine che attraversa il cuore
degli apostoli. Non impedisce loro il coraggio di vivere e il
rischio di sbagliare: scegliere, decidere…fallire! Nel cuore
della crisi, Gesù parla di amore; anzi dice le parole più
grandi dell’amore. Non si tira indietro: nel segno del pane e
del calice, e con le parole pronunciate su questi elementi
della convivialità, intensifica come non mai il suo amore,
donandosi nel sacrificio della propria vita con      un amore
estremo, “li amò sino alla fine”.

Alcune domande ci bruciano dentro. Cosa succede nelle nostre
famiglie quando i figli “sbandano”, sbagliano strada? Come
dovrebbe comportarsi un genitore davanti al figlio
”scapestrato”? Gesù lo aveva già insegnato a tutti i genitori
con la parabola del padre misericordioso (Lc 15). Il padre
della parabola non proibisce al figlio di partire, lo lascia
scegliere e lo lascia decidere. Educare al coraggio di vivere
comporta anche il coraggio di mettere in conto, soffrendo, gli
errori dei figli. Ogni educatore deve rispettare “l’orgoglio e
fatica di crescere” dei figli, continuando ad amare, anzi
amando ancora di più. Solo l’amore aiuta a superare il
conflitto e la crisi, e a ritornare “a casa”.

Gesù si rivela un grande educatore che non limita la libertà
dei suoi apostoli. Il padre della parabola non fa un dramma
per l’allontanamento da casa del figlio ribelle. E la cosa più
sorprendente: non spende una sola parola per convincere il
figlio a rimanere. E’ il dramma universale di ogni figlio che
cresce. La vita del figlio seguirà il suo corso: ha veramente
voglia di vivere! Quando si troverà nella difficoltà, si
ricorderà che suo padre non ha mai smesso di amarlo,
nonostante tutto. Il Cenacolo ci insegna ad andare oltre ogni
crisi. Per questa resta straordinario il fatto che tutte le
domeniche, e non solo la sera del Giovedì Santo, ci raduniamo
per celebrare la peggiore crisi della storia cristiana, e
imparare ad amare ancora di più e poter andare oltre ogni
crisi.

+ Gerardo Antonazzo

“L’adesso di Dio, l’oggi
della Chiesa” – Omelia per la
Messa Crismale 2019
l’adesso di Dio, l’oggi
            della Chiesa
                  Omelia per la Messa Crismale
         Cassino-Chiesa Concattedrale, 17 aprile 2019
                ANNUNCIO DELLA VISITA PASTORALE

All’inizio della Quaresima abbiamo accolto   dalla voce del
profeta l’invito forte di Dio: “Ritornate a me con tutto il
cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore
e non le vesti” (Gl 2,12-13). Se il segno delle ceneri è stato
sparso sulla nostra testa, era perché potesse raggiungere e
toccare il cuore. Sappiamo bene come le cose che non vengono
fatte con il cuore, non hanno vita facile perché non ci fanno
“cambiare testa”. Le ceneri poi si sono ben presto alleate con
la sabbia arida del deserto della purificazione, dell’ascolto
onesto e obbediente della Parola. Oggi il Signore ci convoca
così come ci troviamo spiritualmente dinanzi a Lui al termine
del cammino quaresimale, e ci invita ad entrare con il cuore
in questa assemblea liturgica per celebrare nella gioia e
nell’esultanza dello Spirito il suo sommo ed eterno
sacerdozio. Tutti noi consacrati nel battesimo con l’unzione
dello Spirito, siamo corresponsabili della medesima missione
della Chiesa nel mondo e per il mondo: “Con l’unzione dello
Spirito Santo hai costituito il Cristo tuo Figlio Pontefice
della nuova ed eterna alleanza, e hai voluto che il suo unico
sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa. Egli comunica il
sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti…” (Prefazio
Messa Crismale).

Dio non è bugiardo

Il nostro essere Chiesa oggi si manifesta nella sua visibile e
organica unità. La comunione nella Chiesa è di natura
gerarchica, ed   è dono trinitario, grazia soprannaturale e
divina; pertanto, non può essere immaginata come la risultanza
di sintonie orizzontali e di accordi puramente umani. Siamo
membra vive del corpo mistico di Cristo nella santità dello
Spirito. Un Corpo santo perché Santo è il suo Capo, Cristo, e
al contempo un Corpo ferito da gelosie, egoismi, chiusure
settarie ed esclusioni ingiustificate, antipatie, ingiuste
sentenze, condanne improvvisate dettate da giudizi sommari,
protagonismi anacronistici di stampo elitario e narcisistico.
Siamo un Corpo umanamente infermo, che ha sempre bisogno di
essere curato con l’olio della carità, per guarire soprattutto
con la forza umile del reciproco perdono.

Ci consola e ci incoraggia la Parola che stiamo celebrando,
con la quale Gesù, dopo aver annunciato il compimento della
promessa profetica del “lieto annuncio ai poveri, ai
prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere
in libertà gli oppressi…”,    dichiara che “(lo Spirito del
Signore) mi ha consacrato con l’unzione…”; e specifica: per
questo sono stato inviato. Scopriamo ben presto che il per
questo     significa il per questi: la ragione della
consacrazione del Messia e i destinatari della sua missione
sono i poveri, quanti sono privati di libertà e dignità, i
ciechi, gli oppressi… La Parola oggi parla di noi per
raggiungere le nostre povertà e miserie umane. Negare o
sorvolare sulla nostra condizione             di fragilità,
significherebbe deridere la missione del Messia e ritenere Dio
un bugiardo (cfr. 1Gv 1,10).

Credo giusto che oggi ognuno si chieda cosa può significare la
consolazione del Messia nell’intimo turbolento di una
coscienza contaminata, confusa, turbata, sfregiata dal peccato
e forse persino corrotta dalla malizia. La mano del Messia
oggi si posa su ogni forma di disagio, per ricucire le
relazioni, addolcire le parole, far rinascere la fiducia
spirituale di tutti nei confronti di ciascuno.

Stare nell’adesso di Dio

Ci conforta la predicazione tenuta da Gesù nella sinagoga del
suo villaggio. Terminata la lettura del brano di Isaia, Gesù
fa seguire l’omelia più breve e più efficace della storia:
“Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete
ascoltato”.    Gesù annuncia l’adesso di Dio. Così Papa
Francesco a Panama: “Gesù rivela l’adesso di Dio che ci viene
incontro per chiamare anche noi a prendere parte al suo
adesso, in cui «portare ai poveri il lieto annuncio»”
(cfr Lc 4,18-19). I fedeli della sinagoga, dopo aver
ascoltato con entusiasmo l’omelia di Gesù, passano
repentinamente dalla meraviglia allo scandalo, dallo scandalo
alla contestazione, fino al tentato omicidio del Maestro.
Anche l’uomo contemporaneo rischia di non cogliere quest’oggi
di salvezza (ricorre 11 volte in Lc 2,11;4,21; 5,26; 13,32-33;
19,5.9; 23,43). È l’adesso di Dio che con Gesù diventa l’ oggi
del suo volto, della sua carne umana, del suo amore di
misericordia.

Carissimi presbiteri, consacrati, sorelle e fratelli, tutto
questo non è annunciato per domani, ma per oggi; non altrove,
ma qui; non nel “frattempo”, ma adesso! Arda nel cuore di
ciascuno il desiderio di sperimentare, concreto e reale,
l’oggi di Gesù proprio in questa nostra assemblea, l’oggi
della sua azione rigeneratrice nell’intera Chiesa diocesana!

Vivere nell’oggi della Chiesa

L’oggi di Gesù ispira e si attua nell’oggi della Chiesa,
diventa l’oggi del nostro essere Chiesa qui convocata,
chiamata ad annunciare l’anno di grazia in questa porzione di
territorio. L’oggi di Gesù brucia nel mio cuore di Pastore.
Sento oggi il peso della mia responsabilità, e non posso
sottrarmi alle parole del Maestro: “Lo Spirito del Signore è
sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha
mandato…”. Non posso non rispondere, io per primo, ai doveri
della mia consacrazione con cui lo Spirito mi ha reso
partecipe della pienezza del sacerdozio di Cristo e della sua
medesima missione. Sento e vivo questo momento della nostra
Chiesa particolare come il tempo favorevole per ravvivare la
missione per una ritrovata e rinnovata opera di
evangelizzazione. Per questo oggi annuncio, tra gioia e
trepidazione, l’Indizione per la nostra diocesi della mia
Prima Visita Pastorale. Tale Visita coincide storicamente
anche con la Prima Visita Pastorale per la Diocesi di Sora-
Cassino-Aquino-Pontecorvo, costituita dalla Santa Sede il 23
ottobre 2014.

In tutto questo mi sento serenamente ispirato da Dio grazie ad
una silenziosa, orante, e prolungata riflessione, con la quale
ho cercato di fare attento discernimento su eventi, colloqui,
visite nelle comunità parrocchiali, incontri con le
Istituzioni locali. Se non ascoltassi oggi la mia coscienza di
pastore, sentirei di sottrarmi ai miei doveri e di tradire i
bisogni e le attese di questa Chiesa. Se non ascoltassi oggi
la voce dello Spirito, sentirei la gravosa responsabilità di
non amarvi con tutte le mie forze. Il testo di Apocalisse ci
ha ricordato che l’Onnipotente è “Colui che è, che era e che
viene”. La Visita Pastorale incarna la preziosa Visita di Gesù
Pastore nella nostra Chiesa. Il discernimento di questi mesi
mi ha portato a riconoscere la necessità di incarnare in
maniera speciale e in azioni straordinarie l’adesso salvifico
di Dio a beneficio spirituale di credenti, di non praticanti e
di non credenti.

In Fines Terrae

Ritorno brevemente sulla parola-chiave del mio ministero
episcopale: In fines terrae. Stemma e motto episcopale non
rimandano a nessun casato nobiliare né a privilegi baronali
tantomeno a pretese maniacali di prestigio. L’illusione di un
carrierismo costruito su privilegi e titoli onorifici, è più
o meno finito, più o meno per tutti. Con l’ordinazione
episcopale, il Signore mi ha reso partecipe in pienezza del
suo sacerdozio, che è sempre di natura “sacrificale”;
pertanto, non posso non sentirmi responsabile, nella potenza
del suo Spirito, della missione di evangelizzare.
Nell’orazione iniziale della Colletta abbiamo pregato: “O
Padre…concedi a noi, partecipi della sua consacrazione, di
essere testimoni nel mondo della sua opera di salvezza”. Il
testimone sa di aver ricevuto la grazia della salvezza e sente
l’urgenza di annunciarla: “Guai a me se non annuncio il
Vangelo!” (1Cor 9, 16). Il Vescovo lo deve fare per primo,
perché l’ha promesso quando nel rito dell’ordinazione
episcopale gli è stato domandato: “Vuoi predicare con fedeltà
e perseveranza il Vangelo di Cristo?”.

Carissimi, la Lettera di Indizione della Visita Pastorale sarà
emanata e letta nelle celebrazioni della prossima Domenica di
Pasqua: tutto l’agire della Chiesa deve testimoniare la
certezza incrollabile della fede nel Signore risorto,
vincitore della morte e del peccato. Il 21 aprile inizierò, a
Dio piacendo, il settimo anno del mio ministero episcopale. La
ricorrenza del settimo anno inaugura nella Bibbia un tempo di
speciale grazia del Signore (Dt 15). Preghiamo intensamente
perché Gesù Signore, Sacerdote e Pastore delle nostre anime,
benedica i nostri intendimenti e porti a compimento l’opera
pastorale ispirata dal suo Santo Spirito. Il medesimo Spirito
che ora invocheremo per la consacrazione dell’olio crismale,
trasformi la santa Visita nell’evento di una rinnovata
Pentecoste.

Per questo, recito la preghiera con la quale accompagneremo la
celebrazione della Visita Pastorale:

Signore risorto, pastore misericordioso,
ti preghiamo con fiducia per la Chiesa

che vive in Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo.

Tu ci offri un tempo di speciale consolazione

con la Visita del nostro vescovo Gerardo.

Nel tuo Nome viene a ravvivare la fede,

a distendere le ali della nostra speranza,

a rigenerare l’ottimismo della carità fraterna

in fines terrae.

Signore risorto, sorgente di vita nuova,

dona   al nostro Pastore la sapienza del cuore.

Premuroso nell’ascolto e ricolmo di gioia,

esprima gesti e parole di lieto annuncio.

Riceva da Te forza per affrontare la fatica,

conforto e sostegno nelle difficoltà.

Riaccenda in tutti la passione del Vangelo,

il fuoco e lo slancio della missione

in fines terrae.

Signore risorto, donaci lo Spirito di fortezza

per    non cédere alla triste tentazione

di tirare i remi in barca e restare

rassegnati, a reti vuote, lungo la riva.
Insegnaci ancora a riassettare le reti,

e a gettarle nel mare delle nostre delusioni.

Tu ci chiami ad essere pescatori di uomini:

faremo viva memoria della tua parola,

per ascoltare fiduciosi la tua voce suadente

e   prendere il largo con fiducia e coraggio

in fines terrae.   Amen.

                                                +   Gerardo,
vescovo

Omelia Ordinazione diaconale
di Mihai Giuseppe – 19 marzo
2019
svegliarsi dal sonno, custodire i
                sogni
             Ordinazione diaconale di Mihai Giuseppe

          e conferimento dell’Accolitato a Luca Consales

              Sora-Chiesa Cattedrale, 19 marzo 2019

La liturgia di san Giuseppe, sposo-padre-custode, illumina in
modo singolare il rito di ordinazione diaconale di Giuseppe e
il conferimento del ministero dell’accolitato a Luca. La sua
testimonianza è particolarmente silenziosa, perciò ancor più
eloquente per la vita della Chiesa e di ogni credente. “Il
silenzio di Giuseppe è abitato dalla voce di Dio e genera
quell’obbedienza della fede che porta a impostare l’esistenza
lasciandosi guidare dalla sua volontà” (Papa Francesco, 1°
maggio 2018). L’assenza di parole attesta la profondità e la
serietà di un cordiale ascolto nei confronti di Dio. Nel
silenzio cresce la fede e la libertà del cuore; il silenzio è
il crogiuolo purificatore del cuore, posto di fronte al
mistero di Dio-Santo. Tutto della esemplarità di san Giuseppe
sembra dire: nulla senza Dio, nulla diversamente dalla sua
Parola.

Credere è rispondere

La vicenda personale di san Giuseppe è una trama vocazionale
che parla di una speciale chiamata alla fede. Proprio come
nella vicenda di Abramo, il quale “per fede, chiamato da Dio,
obbedì, partendo…” (Ebr 11,8). Ogni vocazione è una intensa
esperienza di fede che invita a cambiare abitudini, programmi,
speranze umane, se necessario anche luoghi, per accogliere
nuove condizioni ed esperienze esistenziali. Rispondere è
obbedire, e l’obbedienza è il frutto dell’ascolto: Dio chiama
Abramo a uscire da paure e resistenze, e progettare con Lui il
proprio futuro. La vocazione è perciò un’esperienza esodale di
alto profilo e di alta qualità interiore. Abramo è invitato ad
uscire da se stesso, ad andare oltre se stesso, ad abbandonare
la sicurezza della casa paterna e ad osare il passo nella
direzione dei sogni di Dio, verso “il paese che ti farò
vedere” (Gen 12,1). Dio chiede sempre di muoversi nella
fiducia più radicale e nella libertà. Si tratterà per Abram di
un cammino di pazienza, di un lento apprendistato che lo
porterà ad esplorare lo spazio aperto della relazione con il
Dio “che fa uscire” verso la sua promessa.

Credere è sognare

Quanto difficile è l’uscita da se stessi per lasciare che la
vita diventi un sogno. Abramo, come anche san Giuseppe, ci
dicono che non sono i nostri sogni a fare della vita un sogno,
ma ciò che Dio sogna per noi! Il primo a sognare è Dio.
Giuseppe è chiamato nella notte, durante il sonno; è chiamato
a sposare i sogni di Dio. Nelle notte, nulla è chiaro!
“Giuseppe è l’uomo che sa destarsi e alzarsi nella notte,
senza scoraggiarsi sotto il peso delle difficoltà. Sa
camminare al buio di certi momenti in cui non comprende fino
in fondo, forte di una chiamata che lo pone davanti al
mistero, dal quale accetta di lasciarsi coinvolgere e al quale
si consegna senza riserve” (Papa Francesco, 1° maggio 2018).
Non possiamo rischiare che i sogni di Dio e i nostri sogni si
abbraccino solo in apparenza, mentre nella realtà viaggiano in
parallelo, per non incontrarsi mai. Di una cosa devi essere
certo, Giuseppe: i sogni di Dio non andranno mai contro i
nostri desideri più autentici. A san Giuseppe, Dio non dice di
essersi innamorato della donna sbagliata, né che fosse
sbagliato il suo desiderio di perfezionare il matrimonio già
avviato con Maria. Le parole dell’angelo spiegano che i
desideri del Signore riguardano qualcosa di più grande ancora
di quanto Giuseppe stesso potesse immaginare. Caro Giuseppe,
se oggi si realizza un “tuo” sogno è perché tu hai sposato i
pensieri di Dio. Anche per te, caro Luca, vale la stessa
logica. Ogni forma di servizio a favore del popolo di Dio,
come oggi è il ministero dell’Accolitato che ti viene
affidato, abbraccia e incarna i piani di Dio, non i nostri
sterili narcisismi e ostentazioni.

Credere è generare

La fede di Abramo guarisce la sua sterilità: “Ti ho costituito
padre di molti popoli”. La fede con cui Abramo risponde alla
chiamata di Dio lo renderà capace, contro ogni speranza umana,
di diventare padre di una moltitudine. Anche il tuo celibato,
carissimo Giuseppe, non vorrà dire mancanza di fecondità. Si
rimane sterili quando manchiamo di fede, quando non
rispondiamo ai sogni di Dio. Giuseppe pensava di essere
fecondo nel matrimonio con Maria. Dio invece lo rende padre
nell’obbedienza della fede. La vocazione che viene realmente
da Dio è sempre una chiamata a diventare “padre”. La chiamata
è generativa di una discendenza spirituale, perché la chiamata
è sempre un servizio di paternità spirituale per coloro ai
quali il Signore chiede di impegnare tutta la vita, e per
sempre. E’ davvero commovente sentirsi ancora chiamare dalla
nostra gente “padre”. Dobbiamo poter meritare questo
appellativo generoso e familiare del popolo di Dio!

Credere è avere coraggio

San Giuseppe è capace di fidarsi, anzi impara a fidarsi grazie
a Maria: si fida di lei, di ciò che lei gli racconta, per
fidarsi di Dio. “Non temere!” dice l’angelo a san Giuseppe; lo
dico a te caro Giuseppe. L’invito a non temere non inibisce la
legittimità dei dubbi e delle paure. Anche tu hai il diritto
di chiedere, come san Giuseppe, come Maria: “Come è
possibile?”. Dio sceglie per la sua opera le persone e i
momenti: le sue scelte sono fondamentalmente sempre “giuste”,
 e non andranno certo deluse dai nostri singoli fallimenti,
legati al rischio della libertà umana che Dio sempre rispetta.
San Giuseppe ha il coraggio di assumersi le sue responsabilità
nel custodire i beni che Dio gli affida.

Anche tu, caro Luca, con il ministero dell’Accolitato che oggi
ti viene conferito, diventi custode dei tesori di Dio: la
Parola e l’Eucarestia. Sono tesori inestimabili destinati ai
tuoi fratelli e sorelle, in un servizio generoso e gratuito.
Giuseppe e Luca, sarete “dispensatori” dei divini misteri, non
padroni faziosi dei doni di Dio. Le parole dell’angelo oggi vi
ricordano che: “…egli salverà il suo popolo dai suoi peccati”.
Dunque, non sarete voi a salvare con la vostra pur lodevole
disponibilità e bravura, ma Dio attraverso di voi, non senza
di voi, con la sola potenza della sua grazia affidata alle
vostre mani e alla vostra fedeltà.

 Gerardo Antonazzo

Omelia per il Mercoledì delle
Ceneri
Dalla testa al cuore
   Omelia per il Mercoledì delle Ceneri
        Sora-Chiesa Cattedrale, 6 marzo 2019
Quaranta giorni per cambiare vita? La liturgia delle Ceneri
celebra l’inizio: “…concedi al popolo cristiano di iniziare
con questo digiuno un cammino di vera conversione”. Non
specifica una durata, tantomeno fissa un termine uguale per
tutti. A Pasqua celebriamo la vittoria di Cristo sulla morte,
lo sappiamo bene; ma ognuno fa Pasqua nella vita secondo il
ritmo della sua docile conversione dal peccato alla grazia.
Tra le Ceneri e la Pasqua c’è di mezzo il deserto delle
fatiche umane, delle lentezze e ritardi, delle resistenze
interiori al pressante invito “convertitevi e credete al
Vangelo”. La pedagogia della Chiesa, e in particolare della
liturgia, lascia aperta ogni prospettiva, concedendo a
ciascuno il tempo necessario per misurarsi con gli elementi
complessi e contorti del “combattimento contro lo spirito del
male”. Per questa ragione il cammino si fa agonico; e la lotta
si affronta con le armi consegnate oggi dal vangelo: la
carità, la preghiera, e il digiuno da vivere nel segreto del
cuore.

Nel deserto della nostra camera

Dove può avvenire la nostra conversione a Dio?

Nella rivelazione biblica la conversione è favorita
dall’esperienza speciale del deserto. Per affrontare la lotta
contro ogni male, bisogna familiarizzare con le condizioni del
deserto. Il deserto è solitudine, silenzio, ascolto, pericoli,
insidie, paure, tentazione, povertà, intimità, attesa,
fiducia, purificazione dei desideri, invocazione. Israele si è
innamorato di Dio nel deserto. Quando Dio deve correggere
Israele, lo     invita a rivivere l’esperienza del primo
innamoramento nel deserto. Al tradimento da parte di Israele,
Dio annuncia non la punizione e il ripudio, ma la guarigione e
il perdono: “Ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e
parlerò al suo cuore” (Os 2,16). Il deserto diventa metafora
di una straordinaria esperienza spirituale grazie alla quale,
dopo la sazietà ingorda di illusioni materiali e di interessi
idolatrici, possiamo riscoprire i morsi della fame e della
sete di Dio, il desiderio della sua Parola, la fiducia nelle
sue promesse, il combattimento e la vittoria nelle tentazioni,
il bisogno di pentimento e ravvedimento, la gioia estatica del
suo perdono.

Il vangelo oggi invita a rientrare nella propria camera (il
termine greco indica una stanza interna, riservata, segreta):
“Entra nella tua camera, chiudi la porta…”. Il vero deserto è
la stanza interiore della nostra coscienza, dove finalmente
impariamo a stare soli con noi stessi, con le nostre paure e
debolezze, spogliàti di ogni delirio di ipocrisia e di
onnipotenza. “Signore, tu mi conosci veramente come sono [ ].
Tuttavia c’è qualcosa nell’uomo che non è conosciuto neppure
dallo spirito che è in lui. Tu però, Signore, conosci tutto di
lui, perché l’hai creato. Io invece, quantunque mi disprezzi
davanti a te e mi ritenga terra e cenere, so di te qualcosa
che non so di me” (S. Agostino, Confessioni, Libro X). Se la
preghiera liturgica oggi ci sprona ad “un cammino di vera
conversione”, è perché vuole salvaguardarci dall’illusione di
una conversione non vera, inaffidabile e sterile. Nel segreto
del cuore Dio ci osserva nella nostra verità più intima a noi
stessi, e più nascosta agli altri: “Stimolato a rientrare in
me stesso, sotto la tua guida, entrai nell’intimità del mio
cuore [ ]. Tu, infatti, eri all’interno di me più del mio
intimo e più in alto della mia parte più alta” (S. Agostino,
Confessioni, VII, 10, 18: III,6,11).

Se non cambia il cuore, non cambia nulla

Come cambiare davvero?
Il rito dell’imposizione delle ceneri mi fa venire in mente
due espressioni usate nel linguaggio corrente: “Cambiare
testa”, per indicare la necessità di un modo diverso di
vivere; e “Fare le cose con cuore”, per invitare a crederci
sul serio in quello che uno deve impegnarsi a fare. Mettendo
insieme le due frasi, si capisce che per cambiare vita bisogna
impegnare il cuore: “Ritornate a me con tutto il cuore, con
digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le
vesti” (Gl 2,12-13). E se non cambia il cuore non cambiamo
testa! Il cambiamento della nostra vita deve partire dalle
cose che più ci stanno a cuore, e che spesso rischiano di
essere un impedimento per un sincero ritorno al primato di
Dio: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con
tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua
mente” (Lc 10,27). Nel deserto quaresimale, lasciamo che sia
Dio a parlare per primo. Rieduchiamo il cuore all’ascolto
attraverso la fatica del silenzio: “Oggi non indurite il
vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore” (Sal 94,8).
“Sarebbe utile dedicare una ‘giornata per ascoltare’. Immersi
come siamo nella confusione, nelle parole, nella fretta, nel
nostro egoismo, nella mondanità, rischiamo infatti di rimanere
sordi alla parola di Dio, di far ‘indurire’ il nostro cuore, e
di perdere la fedeltà al Signore [ ]. Guai al popolo che si
dimentica di quello stupore, di quello stupore del primo
incontro con Gesù. È lo stupore apre le porte alla parola di
Dio” (Papa Francesco, 23 marzo 2017).

Discernimento e lotta

Cosa ci aiuta a cambiare?

Per cambiare secondo Dio bisogna conoscere e fidarsi della sua
volontà. Per questo è necessario imparare l’arte del
discernimento. Nel cuore, inteso come coscienza, il credente
cerca di valutare la propria vita alla luce della Parola di
Dio. Nel cuore dell’uomo succede di tutto, perché tra il dire
e il fare c’è sempre di mezzo…il cuore. S. Paolo, profondo
conoscitore dell’animo umano, riesprime così la lotta
interiore nella coscienza: “Non riesco a capire ciò che
faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che
detesto [ ] …quando voglio fare il bene, il male è accanto a
me” (cfr. Rm 7, 15-24).

Senza l’esercizio del discernimento interiore la lotta è già
sconfitta, e la conversione una disfatta: “Questa lotta è
molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che
il Signore vince nella nostra vita. Non si tratta solamente di
un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana, che
ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e
senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria
fragilità e le proprie inclinazioni. Ognuno ha la sua: la
pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via”
(Papa Francesco, Gaudete et exultate, 158-159).

Invito   tutti   a   fare    della   quaresima   una   palestra   di
discernimento spirituale: nella vita dei presbiteri ravviva la
coscienza sacerdotale (a partire dal rito di ordinazione),
nella vita laicale illumina la coscienza di fronte alle
scelte, nel rapporto di coppia insegna a rigenerare l’alleanza
nuziale, per i genitori illumina la delicata responsabilità
educativa verso i figli, nelle relazioni familiari edifica la
chiesa domestica. Il discernimento ha anche bisogno di tempi
di silenzio, di preghiera prolungata, di ascolto della Parola,
dell’esame di coscienza quotidiano, della riconciliazione
sacramentale, dell’accompagnamento spirituale da parte di una
guida saggia e santa. Tutto questo ci aiuterà a cambiare.

Buona traversata, buon      combattimento, buona quaresima!

+ Gerardo Antonazzo
LETTERA      PASTORALE      –
INFINESTERRAE – “LUCE SUL MIO
CAMMINO”
La Chiesa, discepola del suo Signore, è Madre di ogni
battezzato e Maestra nella fede. La Chiesa che vive in Sora-
Cassino-Aquino-Pontecorvo è “un solo corpo e un solo spirito,
come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati,
quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede,
un solo battesimo” (Ef 4,4-5). Questa Chiesa si prende cura
dei suoi figli, accompagnandoli nella crescita e nella
formazione alla vita cristiana, con la tenerezza di chi
comprende limiti e fragilità, e con la sollecitudine di chi
incoraggia alla gioia di una vita cristiana pensata e vissuta,
matura e adulta “finché arriviamo tutti all’unità della fede e
della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto,
fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef
4,13) …[Continua a Leggere]

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Appunti Paolo                        Benanti            su
“Digital Age”

                   Digital Age
                    Paolo Benanti
              (Convegno Aquino 2019)

   1. Una premessa: il Digital Age

Viviamo in una società e in un tempo caratterizzato dal
digitale, il Digital Age, un periodo complesso a causa dei
profondi cambiamenti che queste tecnologie stanno producendo.

L’effetto della esponenziale digitalizzazione della
comunicazione e della società sta portando, a detta di
studiosi come Marc Prensky[1], a una vera e propria
trasformazione antropologica: l’avvento dei nativi digitali.
Nativo digitale (in inglese digital native) è una espressione
che viene applicata ad una persona che è cresciuta con le
tecnologie digitali come i computer, internet, telefoni
cellulari e MP3. L’espressione viene utilizzata per indicare
un nuovo e inedito gruppo di studenti che sta accedendo al
sistema dell’educazione. I nativi digitali nascono
parallelamente alla diffusione di massa dei computer a
interfaccia grafica nel 1985 e dei sistemi operativi a
finestre nel 1996. Il nativo digitale cresce in una società
multischermo, e considera le tecnologie come un elemento
naturale non provando nessun disagio nel manipolarle e
interagire con esse.

Per contro, Prensky, conia l’espressione immigrato digitale
(digital immigrant) per indicare una persona che è cresciuta
prima delle tecnologie digitali e le ha adottate in un secondo
tempo. Una delle differenziazioni tra questi soggetti è il
diverso approccio mentale che hanno verso le nuove tecnologie:
ad esempio un nativo digitale parlerà della sua nuova macchina
fotografica (senza definirne la tipologia tecnologica) mentre
un immigrato digitale parlerà della sua nuova macchina
fotografica digitale, in contrapposizione alla macchina
fotografica con pellicola chimica utilizzata in precedenza. Un
nativo digitale, per Prensky, è come plasmato dalla dieta
mediale a cui è sottoposto: in cinque anni, ad esempio,
trascorre 10.000 ore con i videogames, scambia almeno 200.000
email, trascorre 10.000 ore al cellulare, passa 20.000 ore
davanti alla televisione guardando almeno 500.000 spot
pubblicitari dedicando, però, solo 5.000 ore alla lettura.
Questa dieta mediale produce, secondo Prensky, un nuovo
linguaggio, un nuovo modo di organizzare il pensiero che
modificherà la struttura cerebrale dei nativi digitali.
Multitasking, ipertestualità e interattività sono, per
Prensky, solo alcune caratteristiche di quello che appare come
un nuovo e inedito modo di comprendere e comunicare
dell’essere umano. Inoltre Prensky sostiene che, sia pure in
modo irregolare e alla nostra personale velocità, ci muoviamo
tutti verso un potenziamento digitale che include le attività
cognitive[2]. Secondo Prensky gli strumenti digitali già
estendono e arricchiscono le nostre capacità cognitive in
molti modi. La tecnologia digitale migliora la memoria, per
esempio attraverso gli strumenti di acquisizione,
archiviazione e restituzione dei dati. La raccolta digitale di
dati e gli strumenti di supporto alle decisioni migliorano la
capacità di scelta consentendoci di raccogliere più dati e
verificare tutte le implicazioni derivanti da quella domanda.
Il potenziamento digitale in ambito cognitivo, reso possibile
da laptop, database online, simulazioni tridimensionali
virtuali, strumenti collaborativi online, tablet e da una
serie di altri strumenti specifici per diversi contesti, è
oggi per Prensky una realtà in molte professioni, anche in
campi non tecnici come la giurisprudenza e le discipline
umanistiche[3].

   2. Digital Age come fenomeno religioso

Nella storia del pensiero, al di là dei momenti di discussione
accademica e di riflessione che hanno segnato lo sviluppo
della filosofia, di fatto si è assistito al ricorso a diverse
forme di autorità per sintetizzare dei criteri che fondassero
e orientassero le scelte delle persone. Per migliaia di anni
gli esseri umani hanno indicato l’autorità come venuta e
consegnata agli uomini dagli dei.

Poi,    durante    l’epoca     moderna,     l’umanesimo     ha
gradualmente spostato l’autorità dalle divinità alla persona.
Jean-Jacques Rousseau nel 1762 ha riassunto questa rivoluzione
nell’Émile, il suo trattato sull’educazione.

Quando Rousseau parla della ricerca di regole di
condotta nella vita dice di averle trovate «nel profondo del
mio cuore, tracciate dalla natura in caratteri che nulla può
cancellare. Ho bisogno solo di consultare me stesso per quanto
riguarda ciò che desidero fare; quello che sento di essere
buono è buono, quello che sento di essere cattivo è cattivo».

I pensatori umanisti come Rousseau produssero una
trasformazione del principio di autorità, convincendoci che
non gli dei ma i nostri sentimenti e desideri sono la fonte
ultima di significato e che la nostra volontà è, dunque, la
più alta fonte di autorità.

Ora,   in   questa   epoca   di   insorgenza   di   intelligenze
artificiali, una nuova rivoluzione nel principio di autorità e
nella comprensione di quali siano le fonti autorevoli sta per
avvenire.

Se nell’antica Grecia le fonti autorevoli erano gli oracoli,
legittimati da mitologie e credenze, a partire dall’umanesimo
l’autorità umana è stata legittimata da ideologie umanistiche.
Sembrerebbe che i nuovi guru dell’high-tech e i profeti della
Silicon Valley stiano creando una nuova narrazione universale
che legittima una nuova fonte di autorità: gli algoritmi di
intelligenza artificiale e i Big Data.

Questo nuovo romanzo, questa nuova fondazione religiosa,
questa sorta di mitologia del XXI secolo potremmo chiamarla
digitalesimo. Nella sua forma estrema i fautori di questa
visione del mondo digitalista percepiscono l’intero universo
come un flusso di dati, vedono gli organismi viventi come poco
più di algoritmi biochimici e credono che esista una vocazione
cosmica per l’umanità: creare un sistema di elaborazione dati
onnicomprensivo e poi, nell’eschaton del cosmo, fondersi in
esso.

Dal punto di vista dell’annuncio della fede ci troviamo di
fronte a una inedita e sfidante modalità che cambia le
coordinate di riferimento nel processo della fiducia e
dell’attribuzione di autorevolezza. Il modo con cui chiediamo
a un motore di ricerca, agli algoritmi di un’intelligenza
artificiale o a un computer alcune risposte su questioni che
riguardano i nostri processi più intimi, si pensi ai software
per trovare il partner o l’anima gemella, ha una matrice che
potremmo definire di natura religiosa: ci relazioniamo alla
macchina e alla sua risposta con un atteggiamento che non è
molto differente da quello che avevano quanti, nell’antichità,
si rivolgevano ad oracoli e aruspici per conoscere il loro
destino. Il digitalesimo, questo nuovo modo di relazionarsi e
credere al digitale, assume in alcuni i tratti di un vero e
proprio fenomeno religioso e come tale va considerato nel
pensare un annuncio di fede.
Il digitalesimo, con queste sue componenti tecniche e
religiose, unito alla grandissima pervasività dei mezzi di cui
dispone, Internet è una struttura sempre più globale, potrebbe
dar luogo a una cultura globale che formerà soprattutto il
modo di pensare e credere delle prossime generazioni di
giovani. Le nuove generazioni saranno sempre più globalmente
digitali e sempre di più presenteranno caratteristiche e modi
di pensiero globali. Le grandi piattaforme di condivisione
video, i social networks e i sistemi di chat globale sembrano
annunciare l’avvento di una generazione di giovani globale
grazie al loro potere di diffusione e di istantaneità.

Questo oltre che una sfida può essere un’opportunità.
Sviluppare forme e strumenti in grado di decodificare le
istanze antropologiche che si pongono alla base di questi
fenomeni e affinare modi di evangelizzazione per la cultura
digitale consente non solo di comprendere il presente ma di
offrire azioni evangelizzatrici globali e diffuse come globale
e diffuso è il Digital Age.

   3. Alcuni punti su cui portare un discernimento illuminato
     dalla fede

Appare così evidente come la questa, specie nella pervasività
sociale e culturale del Digital Age, ci cambi, tanto nel modo
di comprenderci quanto in quello di comprendere il mondo.
Questo risulta particolarmente evidente per le giovani
generazioni. Oggi il giovane adulto è un’isola in un
arcipelago di relazioni reali, presunte o immaginate e sembra
che le nuove generazioni non sempre siano formate e
culturalmente attrezzate per affrontare la sfida che la
società digitale propone. I media, per loro stessa natura,
sono elementi che si interpongono tra noi e il reale: ci
forniscono versioni selettive del mondo, più che un accesso
diretto ad esso combinando insieme diversi linguaggi in un
testo che viene comunicato e diffuso con caratteristiche che
oggi assumono i tratti della globalità e dell’istantaneità.
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