Anne Lacaton: bisogna fare molto con poco, intelligenza e sensibilità

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Anne Lacaton: bisogna fare
molto con poco, intelligenza
e sensibilità
Attivo a Parigi dal 1987, lo studio Lacaton&Vassal si
costituisce da Anne Lacaton (Saint-Pardoux-la-Rivière, 1955) e
Jean-Philippe Vassal (Casablanca, 1954), laureati nel 1980
all‘École nationale supérieure d‘architecture et de paysage de
Bordeaux. Pluripremiato e pluripubblicato, realizza
architetture che spaziano dall’edilizia residenziale, come il
recupero della torre residenziale Bois le Prêtre a Parigi, a
musei e centri culturali come il Frac di Dunkerque e la
riconversione del Palais de Tokyo di Parigi.

Anne Lacaton ha inaugurato la nuova edizione di Looking
Around, il ciclo di incontri promossi dalla Fondazione per
l’architettura di Torino e curati da Davide Tommaso Ferrando,
con una conferenza nei locali del Cineporto in occasione della
quale le abbiamo posto alcune domande.

Il FRAC Nord-Pas-de-Calais a Dunkerque (2013) foto: Philippe Ruault

“Sostenibilità” è un termine che ha molti significati sempre
più utilizzato oggi (spesso anche a sproposito). Cosa
intendono Lacaton e Vassal per sostenibilità?
Sostenibilità è certamente un temine che ha assunto grande
importanza soprattutto nella comunicazione di architettura, ma
in realtà l’architettura stessa è sviluppo sostenibile, se la
intendiamo nel suo ruolo essenziale primario, cioè produrre
spazio per vivere. La definizione di sviluppo sostenibile non
è, e non può essere, la stessa ovunque. In Europa è intesa in
un modo e in India o in Africa in un altro. Partendo proprio
da come è intesa nei paesi in via di sviluppo, per noi
sostenibilità è fare molto con poco, ma con intelligenza e
sensibilità. L’architettura deve essere fatta per le persone,
lavorando con il clima e non proteggendosene, che invece è ciò
che tendono a imporre le normative oggi. Sostenibilità per noi
è quindi economizzare i materiali e i costi per far molto di
più con i mezzi a disposizione e soprattutto progettare a
partire dalle persone.

La trasformazione della torre residenziale Bois le Prêtre a Parigi (Anne Lacaton &
Jean Philippe Vassal e Frédéric Druot, 2009)

Interni della torre residenziale Bois le Prêtre a Parigi (Anne Lacaton & Jean Philippe
Vassal e Frédéric Druot, 2009)

La tecnologia, i materiali e il loro uso hanno un ruolo sempre
più importante nell’architettura, che a volte travalica anche
il ruolo della progettazione. Voi invece avete un approccio
molto attento alla progettazione di qualità. Come si coniugano
questi aspetti nei vostri progetti?
Per noi è stata certamente fondamentale la lezione di Jacques
Hondelatte con cui abbiamo lavorato a Bordeaux, ma poi abbiamo
avuto un’esperienza in Niger (Jean-Philippe è stato lì cinque
anni), che ci ha profondamente segnato. Dalla Facoltà di
Architettura si esce con un’idea dello spazio e della forma,
ma in Africa abbiamo imparato che quello che conta è la
relazione precisa tra ambiente e uso. Quando, per esempio, si
vede che per creare uno spazio d’ombra in cui lavorare è
sufficiente costruire un treppiede di tronchi su cui viene
appesa una giacca, si capisce che questo è architettura e si
apre un mondo tutto nuovo.

La questione fondamentale dell’architettura diventa quindi il
rapporto tra esseri umani e spazio e non la scelta dei
materiali. Questo modo di affrontare l’architettura ci ha
portati a concepire il progetto dall’interno, come una
concatenazione di frammenti di spazio, come se fosse una
sceneggiatura     cinematografica.     A   un  certo   punto
inevitabilmente si pone anche la questione materiale, ma è più
una questione di che cosa si vuole vedere e di che cosa invece
non si vuole vedere, e quindi di trasparenza e non
trasparenza, il che porta poi a scegliere tra vetro,
policarbonato o altro. La materia e la tecnologia esistono e
ne abbiamo certamente bisogno, ma devono essere ricollocate.

L’École d’architecture di Nantes (2009) – foto: Philippe Ruault

Non sono la rappresentazione dell’architettura, ma lo
strumento e la condizione della sua realizzazione. Ritornando
al concetto di sostenibilità, se si ragiona in termini di
relazioni semplici con l’ambiente, cerchiamo tecnologie che
non taglino i rapporti con l’ambiente, a differenza di quanto
avviene con la tecnologia sofisticata. Questo approccio forse
non poteva essere spiegato in questi termini con i progetti
che sviluppavamo dieci anni fa. Si è invece chiarito proprio
con i nostri ultimi progetti in cui ci siamo confrontati con
la trasformazione di edifici esistenti.

Come approcciate l’intervento sull’esistente?
Il lotto vuoto non ci interessa e d’altronde nei nostri paesi
non esiste neanche più. Non ci interessa neanche svuotarlo per
progettare qualcosa, il che è anche contrario alla
sostenibilità di cui parlavamo. È per questo che ci opponiamo
fermamente alla demolizione. Rapportarci con l’esistente è
partire da un’idea precedente, che per noi è sempre positiva,
e fare meglio solo per addizione e sovrapposizione. Questa è
per noi una forma di progetto estremamente interessante,
perché ci obbliga a pensare le cose in maniera diversa e a
ragionare per strati.

La riconversione del complesso di 530 abitazioni nel quartiere Grand Parc a Bordeaux
(Anne Lacaton & Jean Philippe Vassal, Frédéric Druot e Christophe Hutin, 2011) – Foto:
Philippe Ruault
Il nuovo quando incontra l’esistente si deforma per non
schiacciarlo. Non si può ovviamente generalizzare, se si
lavora con un patrimonio di valore storico monumentale il
progetto va eseguito da restauratori con conoscenze storiche
molto più approfondite. Questo però non è il caso dei
quartieri residenziali del dopoguerra di molte delle nostre
città. Ci interessa essere sempre autentici e non chiederci se
dobbiamo assomigliare a ciò che c’era, perché in una città ci
sono sempre storie ed epoche diverse. Quello che progettiamo
deve sempre essere contemporaneo, perché questo certamente è
il segno di rispetto più importante per l’esistente. Inoltre
non selezioniamo cosa conservare e cosa demolire, ma
consideriamo l’edificio come un tutto. È così che siamo
arrivati ai progetti di trasformazione delle residenze
sociali.

Dettaglio della riconversione nel quartiere Grand Parc a Bordeaux (Anne Lacaton & Jean
Philippe Vassal, Frédéric Druot e Christophe Hutin, 2011) – foto: Philippe Ruault

interno – Foto: Philippe Ruault

Che tipo di housing sociale immaginate?
Oggi, ovviamente faccio riferimento all’Europa, ci sono le
condizioni economiche per realizzare housing sociale, ma per
farlo bisogna ragionare sul modo di utilizzare i fondi a
disposizione. Il primo progetto di trasformazione della torre
residenziale Bois le Prêtre (realizzato con Frédéric Druot,
NdR) è stato un atto di protesta molto forte contro la
politica di demolizione di circa 200.000 abitazioni avviata
dal governo 10-15 anni fa. Partendo dal budget destinato alla
demolizione ci siamo chiesti che cosa fare con le strutture
esistenti per creare condizioni abitative migliori. Se
trasformavamo ogni appartamento facendo piccoli aggiustamenti
avremmo subito innalzato i costi, se invece avessimo
semplicemente aggiunto dello spazio, circa 20 mq, potevamo
risolvere molti problemi insieme: più spazio, più aria e
migliore isolamento. A questo punto non ci si chiede più se la
torre è troppo alta o troppo lunga e quanti piani vanno
demoliti.

Questo attacco alla modernità ci aveva molto toccato, perché
era un atteggiamento troppo superbo. Se, infatti, guardiamo
più da vicino i grandi complessi residenziali, ci rendiamo
conto che ci sono persone che vi abitano e che quelli sono i
loro spazi e pertanto non si può decidere a priori, se non per
motivi veramente gravi, di demolirli. Non è umano dire che
4.000 alloggi e 4.000 famiglie non sono belli, bisogna entrare
negli alloggi, vedere come le persone vivono e il valore
aggiunto che vi hanno apportato. Allora la percezione cambia,
questi complessi non sono più una barra o una torre
residenziale, ma una città. Individuare ciò che manca e ciò
che invece va bene è il lavoro dell’architetto. Un lavoro di
grande ricchezza che serve a creare condizioni abitative
migliori. La scommessa non è quindi modificare la morfologia
della forma urbana, ma dare più e meglio a ognuno. Per noi
abitare è la relazione tra uomo e spazio, ma non una relazione
da mero consumatore, ma una                    relazione   di   piacere,   di
sensazione e di utilizzo.

La Maison Latapie a Floirac (1993) foto: Philippe Ruault

Il Bim sarà obbligatorio in Francia a partire dal prossimo
anno, mentre in molte parti d’Europa lo è già da tempo. Che
impatto ha avuto, e avrà, la sua presenza nella progettazione?
Non so esattamente quale sarà l’impatto del Bim, ma ho il
presentimento che sarà molto complicato e che sarà ancora una
falsa etichettatura dell’architettura. Si parla tanto di
semplificazione delle normative, credo però che il Bim non sia
fatto per semplificare, introdurrà solo un controllore in più.
Onestamente ritengo che tutte queste regole conducano solo
alla frammentazione del progetto. Alla normativa si arriva, ma
all’inizio devono esserci un’intenzione molto forte e una
convinzione molto profonda. Il progetto è una continua
resistenza per proteggere fino in fondo l’idea iniziale.

Quando abbiamo costruito la prima casa a Bordeaux (allora
eravamo giovani e molto resistenti!) per una famiglia con poco
budget ci siamo detti: “Queste persone non conoscono
l’architettura, ma hanno scelto noi perché non vogliono una
casa da catalogo”. Abbiamo quindi progettato una casa più
grande e più soleggiata, ma se quest’idea non fosse stata così
forte forse non avremmo resistito fino alla fine. Fare
architettura oggi è sempre più complesso, bisogna essere molto
forti per stabilire delle gerarchie e battagliare per
affrontare le normative.
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