(Codice AM-SMM-03) - Difesa
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CENTRO ALTI STUDI CENTRO MILITARE PER LA DIFESA DI STUDI STRATEGICI Pietro Batacchi L’arma subacquea quale strumento di deterrenza e di difesa degli interessi nazionali – Analisi, nello scenario dell’industria navale europea e mondiale, della valenza strategica di una cantieristica italiana in grado di costruire sottomarini (Codice AM-SMM-03)
Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.), costituito nel 1987 e situato presso Palazzo Salviati a Roma, è diretto da un Generale di Divisione (Direttore), o Ufficiale di grado equivalente, ed è strutturato su tre Dipartimenti (Relazioni Internazionali - Sociologia Militare - Scienze, Tecnologia, Economia e Politica industriale) ed un Ufficio Relazioni Esterne e le attività sono regolate dal Decreto del Ministro della Difesa del 21 dicembre 2012. Il Ce.Mi.S.S. svolge attività di studio e ricerca a carattere strategico-politico-militare, per le esigenze del Ministero della Difesa, contribuendo allo sviluppo della cultura e della conoscenza, a favore della collettività nazionale. Le attività condotte dal Ce.Mi.S.S. sono dirette allo studio di fenomeni di natura politica, economica, sociale, culturale, militare e dell'effetto dell’introduzione di nuove tecnologie, ovvero dei fenomeni che determinano apprezzabili cambiamenti dello scenario di sicurezza. Il livello di analisi è prioritariamente quello strategico. Per lo svolgimento delle attività di studio e ricerca, il Ce.Mi.S.S. impegna: a) di personale militare e civile del Ministero della Difesa, in possesso di idonea esperienza e qualifica professionale, all’uopo assegnato al Centro, anche mediante distacchi temporanei, sulla base di quanto disposto annualmente dal Capo di Stato Maggiore dalla Difesa, d’intesa con il Segretario Generale della difesa/Direttore Nazionale degli Armamenti per l’impiego del personale civile; b) collaboratori non appartenenti all’amministrazione pubblica, (selezionati in conformità alle vigenti disposizioni fra gli esperti di comprovata specializzazione). Per lo sviluppo della cultura e della conoscenza di temi di interesse della Difesa, il Ce.Mi.S.S. instaura collaborazioni con le Università, gli istituti o Centri di Ricerca, italiani o esteri e rende pubblici gli studi di maggiore interesse. Il Ministro della Difesa, sentiti il Capo di Stato Maggiore dalla Difesa, d’intesa con il Segretario Generale della difesa/Direttore Nazionale degli Armamenti, per gli argomenti di rispettivo interesse, emana le direttive in merito alle attività di ricerca strategica, stabilendo le lenee guida per l’attività di analisi e di collaborazione con le istituzioni omologhe e definendo i temi di studio da assegnare al Ce.Mi.S.S.. I ricercatori sono lasciati completamente liberi di esprimere il proprio pensiero sugli argomenti trattati, il contenuto degli studi pubblicati riflette esclusivamente il pensiero dei singoli autori, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali i Ricercatori stessi appartengono.
CENTRO ALTI STUDI CENTRO MILITARE PER LA DIFESA DI STUDI STRATEGICI Pietro Batacchi L’arma subacquea quale strumento di deterrenza e di difesa degli interessi nazionali – Analisi, nello scenario dell’industria navale europea e mondiale, della valenza strategica di una cantieristica italiana in grado di costruire sottomarini (Codice AM-SMM-03)
L’arma subacquea quale strumento di deterrenza e di difesa degli interessi nazionali – Analisi, nello scenario dell’industria navale europea e mondiale, della valenza strategica di una cantieristica italiana in grado di costruire sottomarini NOTA DI SALVAGUARDIA Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali l’autore stesso appartiene. NOTE Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte. Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici Direttore CA. Maurizio Ertreo Vice Direttore - Capo Dipartimento Scienze, Tecnica, Economia e Politica Industriale C.V. Franco Felicioni Progetto grafico Massimo Bilotta - Roberto Bagnato Autore Pietro Batacchi Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa Centro Militare di Studi Strategici Dipartimento Relazioni Internazionali Palazzo Salviati Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma tel. 06 4691 3205 - fax 06 6879779 e-mail caporelint.cemiss@casd.difesa.it chiuso a novembre 2017 – stampato a marzo 2018 ISBN 978-88-99468-68-2
Indice Sommario 6 Abstract 8 1. L'evoluzione dello scenario e la proliferazione di sottomarini 10 1.1 La geometria variabile come dimensione fondante dell’attuale scenario internazionale 10 1.2 Conflitti ibridi 12 1.3 Il Mediterraneo Allargato dopo la Primavera Araba 15 1.4 La proliferazione di sottomarini con un particolare riferimento al Mediterraneo Allargato 23 2. La cantieristica internazionale e la produzione di sottomarini 28 2.1 I produttori europei ed occidentali 28 2.2 2.2 La cantieristica russa e la produzione di sottomarini 34 2.3 Gli altri 37 3. L'Italia e i sottomarini: industria e programmi 40 3.1 Le capacità della cantieristica italiana 40 3.2 La produzione di sottomarini: dai Toti alla classe Sauro 43 3.3 Il programma U212A e il ruolo della cantieristica italiana 46 4. Il dopo U212A ed un settore strategico per il Paese 52 4.1 Future esigenze operative 52 4.2 Studi e sviluppi tecnologici 55 4.3 L’eredità del programma U-212A 60 4.4 Tra sviluppi nazionali e cooperazione internazionale: suggerimenti per il dopo- U212A 62 4.5 Il dopo-U212A e il mercato: quale spazio per l’industria italiana? 71 Considerazioni conclusive 74 Suggerimenti bibliografici 77 NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SUGLI AUTORI 81 5
Sommario Negli ultimi anni il sottomarino è tornato di grandissima attualità. Dopo la fine della Guerra Fredda, con il ridimensionamento della minaccia russo-sovietica, e l'incontrastata superiorità americana sul resto del mondo, il sottomarino sembrava essere stato relegato a ruoli minori, o quanto meno secondari – e di conseguenza tutto ciò che era la lotta antisom – in quanto considerato un retaggio dei tempi dello scontro con l'URSS e di scenari altamente convenzionali. Certo, in epoca di conflitti asimmetrici, si parlava pur sempre di mini-som, ma si trattava di qualcosa, appunto, di secondario, legato a contesti in cui la minaccia principale in mare era rappresentata più che altro dalle mine e dai barchini veloci. Per il resto l'attenzione delle Forze Armate e delle agenzie di procurement era concentrata tutta sull'acquisizione di sistemi terrestri altamente protetti – ricordiamo la sfrenata corsa ai MRAP (Mine Resistant Ambush Protected) nel primo decennio degli anni duemila – sul potere aereo – l'arma assoluta capace da sola di risolvere ogni conflitto secondo i più radicali teorizzatori del suo impiego – e, per ciò che concerne la dimensione marittima, sull'acquisizione di unità piccole multiruolo con le quali "ripulire" le aree costiere e "brown" (una per tutti, la Littoral Combat Ship, trasformatasi ben presto in una sorta di calvario per l'US Navy). Tuttavia, come abbiamo visto nel Cap.1 di questo lavoro, gli scenari, proprio sullo scorcio del primo decennio degli anni duemila, sono nuovamente tornati a cambiare. La Russia si è riaffacciata in grande stile sulla scena internazionale, la Cina è diventata un attore sempre più importante anche in termini politico-militari e non solo economici, mentre si sono affermate nuove potenze regionali ed i fenomeni terroristici hanno assunto una sempre maggiore intensità. Nel Mediterraneo Allargato, inoltre, si è assistito a quello straordinario fenomeno di cambiamento noto come Primavera Araba che ha scardinato un equilibrio da tempo consolidato e, soprattutto per un Paese come l’Italia, tutto sommato rassicurante. Sul piano della conflittualità, dunque, da scenari puramente asimmetrici si è passati repentinamente a nuove forme di conflittualità ibrida con forti elementi di convenzionalità. In questo contesto il sottomarino è tornato alla ribalta, grazie alle sue naturali caratteristiche di flessibilità operativa e furtività, e si è innescato un vero e proprio fenomeno di proliferazione che, come abbiamo documentato, ha uno dei suoi epicentri proprio in quel Mediterraneo Allargato che rappresenta lo snodo strategico degli interessi nazionali italiani. In quest'ottica, nel Cap.2 abbiamo analizzato nel dettaglio l'attuale situazione della cantieristica europea e mondiale con un occhio di riguardo alla produzione dei sottomarini convenzionali. Ne è emerso un quadro in cui i soggetti di riferimento sono essenzialmente tre: tedesco, francese e russo. Sono questi che ad oggi detengono il know 6
how tecnologico nel settore e dominano il mercato dell'export, anche se di recente altri attori quali la Cina (la cui produzione è mossa però per la gran parte dalle esigenze del mercato interno) e la Corea del Sud stanno iniziando ad affacciarvisi. Il mercato, tuttavia, resta molto rigido, di natura sostanzialmente oligopolistica, ed allo stato attuale difficilmente penetrabile da parte di nuovi attori. Gli altri due capitoli del presente lavoro, invece, sono dedicati interamente all'Italia. Nel Cap.3, si affrontano in dettaglio la struttura e le caratteristiche della cantieristica italiana, e le sue capacità nel campo della produzione di sottomarini. Si parte, pertanto, dallo studio dei progetti nazionali Toti e Sauro per finire al progetto in cooperazione internazionale U- 212A. Quest'ultimo viene analizzato maggiormente nel dettaglio evidenziandone le peculiarità che lo rendono il sottomarino convenzionale oggi più avanzato al mondo. La ricerca si chiude con il Cap.4 che abbiamo deciso di suddividere sostanzialmente in due parti. La prima parte riguarda le potenziali esigenze che per una Marina come quella italiana derivano dall’operare nei nuovi scenari, nonchè i più avanzati sviluppi e le tendenze tecnologiche che dovrebbero essere seguiti per implementare in maniera corretta un'eventuale strategia per l'acquisizione di nuovi sottomarini. E proprio a questo secondo aspetto, la strategia, è dedicata la seconda ed ultima parte del Cap.4. In particolare, qui abbiamo preso in considerazione l'eredità in termini operativi e industriali del programma U-212A mettendo a confronto benefici e costi di due diverse opzioni. La prima, relativa allo sviluppo di un programma per l'acquisizione di un nuovo sottomarino interamente nazionale. La seconda, riguardante, invece, l'ipotesi della prosecuzione della cooperazione internazionale mantenendo come base il disegno U-212. La nostra conclusione è che l’ipotesi da seguire dovrebbe essere la seconda, in quanto più realistica e affidabile, oltre che meno rischiosa, tenendo, però, conto dell’apporto che a questa potrebbe offrire l’industria nazionale sulla base delle proprie tecnologie maggiormente promettenti e competitive. In tal senso ciò che proponiamo è una strategia di “italianizzazione” di un progetto internazionale, sorretta da investimenti mirati, orientati non tanto alle esigenze dell’industria nazionale quanto piuttosto a quei settori dove potrebbe esserci un ritorno da far valere arche sul mercato dell’export e nell’ambito di quella cooperazione internazionale di cui sopra. 7
Abstract Over the last years the submarine has once again become topical. After the end of the Cold War, with the downsizing of the Russian-Soviet threat, and the unchallenged American superiority over the rest of the world, the submarine seemed to have been relegated to minor or secondary roles - and with it everything was anti-submarine operations – as a legacy of the US-USSR confrontation age when the key scenarios were conventionals. Even if in the asymmetric conflicts the mini-submarine threat was present and addressed it was however something of secondary importance linked to contexts where the main threat at sea was represented mostly by mines and fast inshore patrol vessels. The attention of the Armed Forces and procurement agencies was mainly focused on the acquisition of highly protected ground systems – remember, for instance, the fast race to the Mine Resistant Ambush Protected (MRAP) vehicles in the first decade of the 2000s - on the Air Power - the absolute weapon capable of solving each conflict according to its most radical supporters - and, as far as the maritime dimension is concerned, on the acquisition of small multirole vessels able to "clean up" coastal and brown areas "(the Littoral Combat Ship program, soon transformed into a sort of calvary for the US Navy). However, as we have seen in the Chapter 1 of this work, the scenarios, starting from the final part of the first decade of the 2000s, have again come to a turning point. Russia has recovered part of its previous status and has returned on the international scene with renewed strong military posture, China has become an increasingly important actor both in economic and political-military terms, new regional powers have emerged and terrorism has increased its relevance and intensity of its actions. In addition, in the so called Wider Mediterranean, we has witnessed that extraordinary transformation known as the Arab Spring which has disrupted a long-established balance which a country like Italy showed to appreciate very much. So there was a very fast transition from purely asymmetric scenarios to new forms of hybrid conflict with strong conventional elements. In this context, the submarine has come back to the fore, thanks to its natural characteristics of flexibility and stealthness, spreading a real proliferation process which, as we have documented, has one of its focus on that enlarged Mediterranean which represents the strategic juncture of the Italian national interests. From this perspective, in Chpater 2, we have examined in detail the current situation of the European and world shipbuilding industry with a particular view to the production of conventional submarines. In this field the key players are essentially three: Germany, France and Russia. They hold the technological know-how and dominate the export market, 8
although other actors such as China (whose production is largely driven by the needs of the internal market) and South Korea have recently gained new room. The market, however, remains very rigid, substantially oligopolistic in nature, and at present difficult to penetrate by new players. The other two chapters of this work are entirely about Italy. In Chapter 3, we discuss in detail the structure and characteristics of Italian shipbuilding industry, and its capabilities in the field of submarine production. So we consider Toti and Sauro national projects and U-212A international cooperation project. The latter is analysed more in detail by highlighting the peculiarities that today make it the most advanced conventional submarine in the world. The research ends with Chapter 4 that we have decided to subdivide essentially into two parts. The first part deals with the potential operational needs arising from new scenarios and to be addressed by the Italian Navy, as well as the most advanced developments and technological trends that should be followed to properly implement a tentative strategy for procuring new submarines. The second and last part of the Chapter 4 precisely concern that topic: the strategy. In particular, we have taken into account the operational and industrial legacy of the U-212A program by comparing benefits and costs of two different options. The first one regards the development of a program to procure a fully national submarine. The second one, on the contrary, suggests the continuation of the international cooperation while maintaining the U- 212 design. Our conclusion is that the option to be pursued should be the second one, as more realistic and reliable, as well as less risky, but taking into account the contribution that national industry could offer on the basis of its more promising and competitive technologies. Accordingly what we propose is a strategy of "Italianization" of an international project, supported by targeted investments, focused not so much on the needs of the national industry but rather on those sectors where there could be a return to be also made available on the export market and within that aforementioned international cooperation. 9
1. L'evoluzione dello scenario e la proliferazione di sottomarini 1.1 La geometria variabile come dimensione fondante dell’attuale scenario internazionale Lo scenario internazionale sta subendo un processo di profonda trasformazione. Il crollo dell’URSS e la fine della Guerra Fredda, con tutti mutamenti (di cui parleremo in questo capitolo nel dettaglio) succedutisi dopo di allora, hanno lasciato il posto ad un assetto tuttora di difficile definizione. Nel primo quindicennio dopo “l’89” si poteva tranquillamente parlare di sistema unipolare-egemonico con unica super-potenza, o iper-potenza, in grado di incidere in profondità sull’assetto generale e su tutti gli scacchieri. Tuttavia, a partire dalla seconda metà del primo decennio del nuovo millennio, questa egemonia piena e indiscussa si è via, via appannata. Certo, un attore molto più forte e potente degli altri indubbiamente c’è ancora, gli Stati Uniti, ma la sua egemonia non sembra però essere più solida e incontestata come in precedenza. Il continuo impegno bellico nei teatri simbolizzato dagli oltre 150 miliardi di dollari l’anno spesi ininterrottamente per 10 anni per finanziare le operazioni all’estero, soprattutto in Iraq e Afghanistan, unitamente alla crisi economica, che ha costretto Washington a pesanti tagli al bilancio federale, hanno usurato l’America, e con essa alcuni degli alleati più fidati, a cominciare dal Regno Unito. In particolare, gli Stati Uniti sono stati costretti a ricorrere al Budget Control Act del 2011, promulgato per riportare sotto controllo l’enorme deficit federale, cresciuto ulteriormente sotto la spinta dell’esigenza di finanziare la guerra globale al terrorismo, ed alla cosiddetta sequestration che ha imposto a tutte le agenzie federali, Pentagono compreso, tagli lineari di spesa. Di fatto, la politica di difesa e sicurezza americana si è dovuta confrontare con questo vincolo per almeno 5 anni, con pesanti ripercussioni sia sulla prontezza che sull’ammodernamento dello strumento militare, mentre un’inversione di tendenza si è registrata solo con l’ultimo bilancio della Difesa di Obama e, ancor di più, con il primo bilancio di Trump. Il Regno Unito, dal canto suo, ha dovuto tagliare in maniera significativa gli organici del British Army ed alcuni importanti programmi di procurment, rivedendone radicalmente altri ancora, e per un decennio ha perso lo strumento della portaerei. Un fatto senza precedenti, manifestatosi in tutta evidenza durante la Guerra di Libia del 2011, che ha reso la Royal Navy, la vecchia regina dei mari, priva della capacità di proiezione per eccellenza. Oggi siamo, pertanto, di fronte ad un sistema internazionale dove il potere si va ridistribuendo tra diversi attori: potenze ri/emergenti, soggetti non statuali transnazionali come organizzazioni terroristiche e criminali e così via. In pratica il sistema si sta lentamente riequilibrando e il quadro egemonico incrinando. 10
Da un lato, come si diceva, è vistoso l’emergere, o il riemergere, di nuove e vecchie potenze – Cina e Russia – sempre più disponibili a far sentire il loro peso politico nella concertazione con gli USA sul piano sia dei dossier regionali sia della governance del sistema nel suo complesso. La Cina, grazie ad una travolgente crescita economica che ha permesso negli ultimi anni di superare la soglia dei 100 miliardi di dollari in termini di spese militari (il secondo budget della Difesa dopo quello del Pentagono), ha avviato nell’ultimo quindicennio un massiccio programma di ammodernamento delle Forze Armate che, pur non avendo trascurato in linea di principio nessun settore, ha riguardato soprattutto il comparto strategico-missilistico, aeronautico e navale. In 15 anni, Pechino ha compiuto progressi notevoli, mentre il comparto industriale è andato accentuando la sua indipendenza rispetto alla tradizionale assistenza russa (anche se ad oggi permangono alcuni settori dove questa continua ad essere indispensabile: motoristica aeronautica, elettronica, ecc.). La Russia, invece, recuperato negli ultimi anni sotto la leadership di Vladimir Putin parte dello status perduto, ha mostrato una significativa propensione all’uso della forza per la tutela di interessi strategici, collocati sia nel cosiddetto “estero vicino”, Crimea e Donbass, sia ben oltre, come nel caso dell’intervento in Siria1, ed è tornata al centro della scena, soprattutto nel Mediterraneo cosiddetto Allargato2. Accanto a Cina e Russia, poi, vi sono alcune medie potenze delle quali si possono individuare almeno tre categorie: le potenze alleate degli USA, mediante rapporti bilaterali o alleanze politico-militari a carattere regionale quali la NATO3, le potenze legate agli Stati Uniti da rapporti di partnership (come, per esempio, l’India, che intrattiene una partnership analoga pure con la Russia in nome della diversificazione e dell’autonomia nazionale), e, infine, le potenze ostili agli Stati Uniti che, percependo un indebolimento del controllo da parte di Washington soprattutto su alcune periferie del sistema, tentano di mutare gli assetti regionali – imposti precedentemente sulla base della garanzia politico-militare americana - a proprio vantaggio. E’ il caso, quest’ultimo, dell’Iran, che ha approfittato del disimpegno americano dal Medio Oriente, più o meno reale, per estendere la propria sfera d’influenza senza soluzione di continuità dall’Iraq, al Libano passando per la Siria: un continuum strategico che il nemico regionale, l’Arabia Saudita, ha provato invano a rompere e che in parte spiega anche la nascita e l’affermazione dell’ISIS. 1 Tale propensione, guidata da una chiara visione di politica estera e da solidi fondamentali strategici, ha a sua volta innescato una serie di razioni a catena nel campo occidentale culminate con l’adozione del Readiness Action Plan della NATO e dell’European Reassurance Initiative da parte degli Americani. 2 Il concetto geopolitico di Mediterraneo Allargato comprende, oltre che il Mediterraneo in senso stretto, il Mar Nero, il Mar Rosso e l’Oceano Indiano Occidentale, il Golfo Persico, e, se vogliamo, anche il Golfo di Guinea. 3 Ci riferiamo in particolare a Regno Unito e Francia o, fuori dal circuito NATO, da Australia e Giappone. 11
Oppure potremmo citare la Corea del Nord che, grazie al proprio arsenale balistico e non convenzionale-nucleare, è in grado di tenere in scacco la comunità internazionale e di minacciare i vicini per ricavarne benefici economici e politici, ma anche di status4. Dall’altro lato, invece, ci sono i grandi gruppi terroristici o criminali quali ISIS, Al Qaeda o derivati. Si tratta di soggetti che, in virtù di cospicue risorse, sono comunque molto importanti ed in grado di incidere sul quadro internazionale, sfruttando anche il processo di sgretolamento di alcune realtà statuali in in tutto il Medio Oriente ed oltre. Basti pensare, per non dilungarsi troppo, al ruolo giocato dallo Stato Islamico negli ultimi anni - alla minaccia che esso ha rappresentato ed alle ingenti risorse che ha costretto a mobilitare per combatterlo – od all’influenza che la stessa Al Qaeda si è progressivamente guadagnata all’interno del conflitto civile siriano ed in altre aree quali il Sahel e lo Yemen. Nel sistema a geometria variabile che abbiamo appena esaminato, la modalità più consueta di scarico della conflittualità è quella asimmetrica. Le ragioni sono del resto evidenti e rimandano alle differenze di potere e agli squilibri in gioco tra i diversi attori. Tuttavia, negli ultimi anni si stanno affermando sempre di più nuovi anche scenari di tipo ibrido. E’ il caso del Donbass, in parte della Siria, e così via. Ma tali scenari potrebbero manifestarsi un domani in maniera ancor più significativa in Iran, piuttosto che nella Penisola coreana o nel Mediterraneo. 1.2 Conflitti ibridi Ai fini della presente ricerca è utile soffermarsi un attimo sul significato e sulle caratteristiche dei conflitti ibridi. In linea di principio un conflitto di tipo ibrido è un conflitto in cui elementi tipicamente convenzionali si mescolano con elementi non convenzionali ed asimmetrici nell'ambito delle stesso teatro, ma soprattutto, dello stesso tempo operativo. In questi contesti la minaccia assume un'ampia variabilità in termini di sofisticazione: da minacce più soft quali attentati suicidi, attacchi mordi e fuggi o attacchi informatici/cibernetici, a minacce convenzionali classiche quali impiego di mezzi pesanti ed artiglieria, uso di sistemi antiaerei a guida radar, batterie di missili antinave, ecc. Nel caso dell’impiego dei summenzionati sistemi convenzionali, non si tratta di un impiego per così dire estemporaneo o occasionale, ma di un impiego massiccio, sistematico e continuativo da parte di personale con preparazione militare, o quasi-militare. 4 Uno degli obbiettivi del programma nucleare di Pyongyang è, per l’appunto, anche quello di ricercare un riconoscimento di status da parte della comunità internazionale. 12
In definitiva, un conflitto ibrido si ha quando un gruppo irregolare ha risorse e potere talmente ampi da potersi permettere d’impiegare anche sistemi convenzionali su larga scala. E’ il caso del conflitto combattuto contro l’ISIS nel cosiddetto Siraq, per esempio, considerando che tale organizzazione, sfruttando le circostanze, in parte accennate in precedenza, e approfittando del collasso di parte dello Stato iracheno e siriano, aveva preso il controllo di ampi territori, di ingenti quantitativi di armi, di risorse energetiche e quant’altro. Molto più comunemente, invece, è uno Stato che decide per ragioni di opportunità politica di non operare in maniera palese, ma di agire indirettamente attraverso un proxi locale ed un combinato molto ampio di strumenti per ottenere i suoi obbiettivi politici, territoriali, economici, ecc. Tra questi strumenti troviamo attività d’intelligence, uso di forze speciali, contractors o “volontari”, information warfare (guerra elettronica e cibernetica), manipolazione e disinformazione. Questa seconda tipologia di conflitto ibrido dipenderà, pertanto, dal livello di coinvolgimento, in termini di risorse materiali e simboliche, da parte dello Stato “patrono” in questione, dall’ampiezza dei suoi obbiettivi a carattere politico- economico e/ territoriale, e dal grado di autonomia del suo o dei suoi clienti locali. Negli ultimi tempi il caso di scuola è rappresentato dal conflitto in Ucraina che, dietro la facciata dei ribelli del Donbass, il proxi, nasconde in realtà l'azione russa volta a conseguire alcuni obbiettivi precisi a carattere squisitamente politico e territoriale: la creazione di un “cuscinetto” verso l’Occidente ed il contenimento delle aspirazioni ucraine ad un ingresso nella NATO5. Il conflitto può essere suddiviso in 2 fasi: una prima fase, sino grosso modo all’estate 2014, con un basso coinvolgimento da parte della Russia, ed una seconda fase successiva (innescata dall’avanzata governativa e dal timore di “perdere” Donetsk), con un coinvolgimento più ampio e sistematico da parte di Mosca (che ha salvato e puntellato i due satelliti di Donetsk e Lugansk). Del resto la stessa Russia ormai da qualche anno sta teorizzando apertamente, grazie alla riflessione dell'attuale Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, Generale Valery Gerasimov, l'uso della conflittualità ibrida e non lineare. Nell'ambito di questa nuova teorizzazione si afferma che il ruolo degli strumenti non-militari nel conseguimento di obiettivi politici è cresciuto superando in molti casi il potere ed il peso delle armi. Con il termine strumenti non militari si intende come già osservato l'impiego di gruppi armati che agiscono come proxi, l’uso di gruppi politici/quinte colonne per alimentare il caos in altri stati, l’impiego massiccio di forze speciali e unità dell'intelligence per l'attuazione di azioni covert e di sabotaggio, l'uso di “volontari” e poi, ancora, il sistematico 5 Uno spartito simile si era visto nel 2008 anche in Georgia, ma allora ci fu anche l'intervento diretto di Mosca. 13
utilizzo di strumenti di cyber warfare per limitare e colpire il potere economico ed il sistema mediatico e di comunicazione dell'avversario. Questo nuovo pensiero strategico lo si è visto applicato in maniera esemplare in Crimea, prima, e poi, come in parte già discusso, nel Donbass. Nel primo caso una serie di rapide operazioni in tutti gli ambiti summenzionati ha permesso di isolare e bloccare le truppe ucraine nelle loro basi militari e sottoporle a pressione mediante guerra informativa, psicologica ed elettronica in modo da piegarne la volontà convincendole ad evitare l’uso delle armi. L'attacco informativo-mediatico, che faceva leva anche sul fatto che il 60% della popolazione della Crimea è di etnia russa, è stato accompagnato da un efficace impiego di azioni coperte e camuffamento ad opera di forze speciali e personale del leggendario GRU (l’intelligence militare), elementi comparsi improvvisamente sulla scena sotto le vesti dei cosiddetti “omini versi”. Il tutto ha alla fine portato all'annessione della Crimea senza neanche lo sparo di un colpo. Questo schema è stato poi trasferito nel Donbass su scala ancor maggiore. In questo caso è stata attuata prima una campagna per stabilire un contesto politico favorevole facendo leva sulle minoranze russofone della regione e creando fronti politici ad hoc. Un’azione capillare e sistematica di “fertilizzazione”, portata avanti da agenti di influenza o direttamente da membri dell’intelligence, e che mirava anche ad instillare nella popolazione locale la paura dei “fascisti di Kiev” con la loro aspirazione a fare tabula rasa dell’identità e delle peculiarità di queste zone. Il passo successivo è stata la nascita dei primi gruppi armati ed il conseguente afflusso di rifornimenti in termini di supporto logistico e addestrativo, trasferimento di armi moderne, ecc. Ben presto, i “semplici” rifornimenti sono stati accompagnati dal supporto di personale combattente sotto forma di volontari e truppe regolari senza insegne distintive, appartenenti agli Spetsnaz delle VDV (le forze aerotrapostate russe) e del GRU. Queste unità hanno agito sia come consiglieri per inquadrare le unità del proxi sia come veri e propri moltiplicatori fornendo capacità “pregiate” sul campo – intelligence, comunicazione, guerra elettronica, ecc. - o conducendo azioni dirette – sabotaggi, eliminazioni, ecc. 14
1.3 Il Mediterraneo Allargato dopo la Primavera Araba A partire dal 2011 la cosiddetta Primavera Araba ha profondamente mutato gli equilibri in Medio Oriente ed in Nordafrica ed un assetto consolidatosi nel tempo e su cui la gran parte degli attori principali, a cominciare dall’Italia, erano ormai abituati a commisurare le proprie aspettative. Si trattava di un assetto basato su stati e leadership sostanzialmente laiche – ancorché monolitiche e monopoliste in termini di gestione del potere – capaci di garantire la stabilità usando non solo la repressione, come comunemente si ritiene, ma anche la negoziazione con interessi locali di vario tipo e natura che caratterizzano società complesse e particolari come queste. La Primavera Araba, incentivata, ma non guidata, dall’Amministrazione Obama6, ha fatto saltare completamente questo schema, ma l’esito non è stato quello voluto dall’Occidente, ovvero l’affermazione delle forze democratiche e progressiste. Anzi, alla fine dei conti, il vero vincitore della Primavera Araba è stata quella Fratellanza Musulmana che, dopo anni di sostanziale repressione e ghettizzazione, si è ritrovata in varie forme al potere in Tunisia, Egitto (fino all’ascesa del Generale Al Sissi) e Libia, forte anche del sostegno ricevuto da Turchia e Qatar, diventando anche uno degli attori più importanti del conflitto siriano. In pratica, ad affermarsi dopo il 2011 in tutto il Mediterraneo Allargato è stato un movimento a carattere conservatore con diversi tratti in comune, nonché alle volte con i medesimi soggetti intellettuali7 di riferimento, con le organizzazioni fondamentaliste e jihadiste. Più in generale, la transizione dalle vecchie élite mediorientali e nordafricane a quelle nuove si è rivelata molto problematica. In parte, a causa del mancato guida/supporto da parte di Americani ed Europei, che ben presto si sono defilati anche a causa della crisi economica che ne ha ridotto i margini di azione ed intervento, ed in parte a causa della frammentazione etno-tribale e religiosa di questi contesti, con la faglia sunniti-sciiti al centro di ogni dinamica, ma anche con le rivalità tutte interne al mondo sunnita tra la linea legittimista incarnata dalla casa dei Saud e quella elettoralista-popolare della stessa Fratellanza Musulmana. Senza poter entrare nel dettaglio dei singoli percorsi di transizione è possibile discernere 3 esiti principali della Primavera Araba. 6 Uno dei primi tratti di politica estera dell’Amministrazione Obama è stata la campagna di comunicazione strategica intrapresa dal Presidente, nel contesto interno e soprattutto all’estero, per riabilitare l’immagine degli Stati Uniti in particolare agli occhi del mondo musulmano. Il discorso all'Università Al Azar del Cairo del giugno 2009 è stato il maggiore esempio di questa campagna comunicativa rivolta non solo ai governi ma anche alle opinioni pubbliche dei paesi mediorientali e segnata dal messaggio che Stati Uniti ed Islam non sono in competizione, ma che anzi condividono principi comuni. In molti ritengono questo discorso come una delle scintille capace di innescare l’incendio della Primavera Araba. 7 Si pensi all’influenza che su Bin Laden e Al Qaeda ha avuto il pensiero di Said Qutb, uno degli ideologi della Fratellanza Musulmana. 15
Il primo è quello quella della lenta transizione democratica, traiettoria su cui si sono incamminati Paesi quali il Marocco e la Tunisia. Il secondo esito è stato quello egiziano con l'ascesa e la caduta dei "Fratelli" e la successiva restaurazione di un sistema autoritario con un forte ruolo giocato dall’Esercito. Infine, il terzo esito è stato quello della guerra civile e del fallimento dello Stato come in Siria, Iraq, Yemen e Libia. In aggiunta a questa tripartizione, che rappresenta necessariamente una semplificazione, gli esiti di cui sopra sono stati accompagnati dall'affermazione di mafie e realtà criminali, come quelle libiche, che controllano e regolano a piacimento i flussi dell’immigrazione clandestina e illegale; di realtà terroristiche quali ISIS, Al Qaeda e diramazioni varie; e così via A voler essere più precisi questi fenomeni si presentano quasi fossero diverse facce di una stessa medaglia. Per cui abbiamo realtà terroristiche, ma criminali allo stesso tempo, che sono capaci di contendere al governo centrale il monopolio legittimo della forza e di controllare flussi e contrabbandi di vario genere. Il caso più eclatante è quello della Libia dove oggi siamo di fronte ad una situazione nella quale esistono tre governi e decine di milizie che più o meno scopertamente condizionano i summenzionati governi. Ma queste stesse milizie sono a loro volta espressione di tribù o interessi a carattere squisitamente locale. Per esempio, a Tripoli il Consiglio Presidenziale di Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale come unico governo libico, è in realtà ostaggio di una “cupola” cittadina retta dal “quadrumvirato” formato da Haithem Al Tajouri, Abdul Rauf Kara, Abdul Ghani Al-Kikli, detto Ghneiwa, e Hashm Bishr del “mandamento” di Abu Salim. Di fatto, questi soggetti, oltre a diversi traffici, hanno in mano pure la stessa sopravvivenza del Consiglio Presidenziale e ne condizionano le scelte offrendogli “protezione”. Nella stessa Libia, ci sono poi il santuario di Derna, ancora controllato da elementi qaedisti alleati con islamisti locali, milizie a carattere cittadino, come quelle di Misurata o Zintan, o Bani Walid, ed il Fezzan attraversato da traffici di ogni genere. Lo stesso Egitto deve continuamente fare i conti con la cronica instabilità del Sinai - dove la locale diramazione dello Stato Islamico è ben radicata – per non parlare, poi, della situazione di insicurezza in cui versano ancora alcune aree della Tunisia, soprattutto nella parte sudoccidentale, e delle incertezze legate al dopo-Bouteflika in Algeria. Il Mediterraneo, pertanto, in questi 6 anni è diventato un luogo straordinariamente insicuro e dinamico dove, già a partire dal 2007-2008, si era andato delineando pure un altro fatto strategico di rilievo, ovvero il disimpegno americano dovuto allo spostamento del baricentro dell’attenzione politico-militare di Washington verso l’Asia. Si è trattato di un fatto di straordinaria importanza che in parte ha inciso anche su quei fenomeni di cui stiamo parlando, e che si è manifestato in tutta evidenza con la Guerra di Libia del 2011 nella quale 16
gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo, ancorché fondamentale, solo nelle fasi iniziali per poi lasciare il campo e la “palla” agli Europei (con il risultato di un intervento militare durato oltre 6 mesi). In quell’occasione destò molta impressione vedere che nelle operazioni non era coinvolta nessuna delle portaerei dell’US Navy, da sempre il simbolo della capacità di proiezione americana e protagoniste in tutti i conflitti del primo decennio degli anni duemila. dall’Afghanistan, all’Iraq. Questa politica, delineatasi, appunto, già durante la fase finale dell’Amministrazione Bush, è poi proseguita sotto l’Amministrazione Obama. Quest'ultima ha per prima cosa posto fine alla guerra in Iraq, che così tante risorse economiche ed umane aveva “macinato” dal 2003 al 2009 fallendo sostanzialmente il suo obbiettivo di “restyling del Medio Oriente” - anzi, scatenando ulteriore instabilità – ed ha lanciato la nuova strategia “Sustaining Global Leadership: Priorities for 21sth Century Defense”, ufficializzata nel gennaio 2012, che ha sancito definitivamente lo spostamento del baricentro strategico americano dal quadrante europeo al teatro Asia-Pacifico con il cosiddetto pivot. Nel documento è stato formalizzato il rafforzamento delle partnership con i principali alleati locali e della presenza militare americana nella regione, ed è stata abbandonata la dottrina delle “two major theater war”8. Tale dottrina ha lasciato il posto ad una più prudente impostazione secondo la quale gli USA avrebbero dovuto essere in grado di affrontare simultaneamente una guerra di teatro maggiore ed una crisi limitata nello spazio e nel tempo in un altro settore. In pochi anni, pertanto, gli Stati Uniti hanno rivisto alcune loro ambizioni concentrandosi maggiormente sul teatro Asia-Pacifico dove sono stati spostati diversi assetti militari, soprattutto aerei e navali, togliendoli al teatro europeo e mediterraneo. Nel fare questo, Washington ha veicolato pertanto il messaggio di un minore interesse verso ciò che accadeva nel Mediterraneo o, quanto meno, nei salienti ad ovest di Suez. Questo riorientamento ha creato una nuova situazione strategica – a cavallo tra un vuoto effettivo e la sua “semplice” percezione - che altri hanno cercato in qualche modo di manipolare a proprio vantaggio. In parte lo hanno fatto i Paesi europei, che come abbiamo visto si erano già assunti in proprio buona parte dell’onere della Guerra di Libia del 2011, ma proprio sulla Libia le loro politiche sono fallite con la mancata stabilizzazione del Paese. Il successivo tentativo di arginare le conseguenze di quella sciagurata guerra, a cominciare dalla dirompente ondata migratoria, ha mostrato tutta la debolezza dei Paesi europei presi singolarmente. 8 Dottrina che prevedeva la necessità per gli USA di sostenere contemporaneamente due guerre di teatro maggiori. 17
Qualcosa è cambiato solo nell’ultimo anno con il rafforzamento del profilo dell’Operazione Sophia e con il lancio del cosiddetto Valletta Action Plan che prevede un approccio più integrato per combattere il fenomeno dell'immigrazione tramite il coinvolgimento della stessa Libia e dei Paesi vicini, la creazione di strutture di accoglienza e trattamento dei migranti direttamente in territorio libico, l'incremento di 200 milioni di euro dell’EU Trust Fund for Africa per coprire i bisogni più urgenti del 2017, ecc. L’Italia, che si è ritrovata in prima fila nel fronteggiare una crisi senza precedenti, ha dovuto fare di necessità virtù agendo sia sul piano bilaterale – favorendo prima la nascita del Governo Serraj in Libia e poi formalizzando con questo una serie di accordi per il controllo dei flussi migratori – sia su quello internazionale premendo sulle istituzioni europee e NATO per ottenerne un più ampio coinvolgimento nei dossier libico e mediterraneo in generale. Detto questo, non dobbiamo dimenticare il ruolo sempre più importante che nel Mediterraneo, soprattutto nella sua accezione di Mediterraneo Allargato, stanno esercitando Russia e Cina. Mosca in tal senso non si è fatta sfuggire l’occasione per manipolare a proprio vantaggio le dinamiche in corso per re/inserirsi in un contesto che rappresenta quel “mare caldo” la cui accessibilità è stata tradizionalmente una delle stelle polari della politica estera e di sicurezza russa. In particolare, la Russia ha sfruttato dapprima l’annessione della Crimea per ri/attivare in grande stile la Flotta del Mar Nero e poi la guerra civile in Siria per intervenire a sostegno di Assad e completare così il disegno di ri/costituzione della propria presenza militare-navale in tutto il Mediterraneo ed oltre. Nel primo caso, il processo di rinnovamento e rafforzamento della Flotta del Mar Nero è stato poi accompagnato dal massiccio schieramento nella Penisola di Crimea di batterie di missili antinave e sistemi di difesa antiaerea a lungo raggio S-300 ed S-400 in modo tale da creare su tutta l’area del Mar Nero e su parte dell’Europa Orientale una vera e propria bolla A2/AD (analoga a quella di Kaliningrad ed a quella costituita successivamente in Siria). Riguardo alla “nuova” Flotta del Mar Nero”, la “Dottrina Navale della Federazione Russa 2015-2020”, prevede l’immissione in servizio di 30 nuove navi – tra cui 5-6 fregate (2-3 classe Gorshkov, tra 2024 e 2025, e tre classe Grigorovich, due delle quali già presenti a Sebastopoli), 6 sottomarini classe Project 636.3 classe Varshavyanka (tutti consegnati e operativi come vedremo più avanti) ed una coppia di navi anfibie classe Ivan Gren, oltre a corvette e naviglio ausiliario e di supporto - e il miglioramento/creazione di infrastrutture navali su tutta la Penisola di Crimea entro il 2020, con un costo totale previsto di 2,43 miliardi di dollari. Ad oggi, una parte di questo piano è 18
già stata implementata e la componente navale russa presente nel Mar Nero è costituita da oltre 40 navi e 7 sottomarini (i sei Varshavyanka più un Projekt 877 Kilo). Per quanto riguarda la Siria, invece, ben presto l’intervento russo è andato al di là dello scopo di sostenere Assad ed ha creato i presupposti per la creazione di una presenza permanente nel Paese. In realtà già dal 2013, prima quindi dell’annessione della Crimea e dell’avvio delle operazioni militari russe in Siria, le unità della Marina Russa appartenenti alla Flotta del Mar Nero (ma non solo) avevano notevolmente incrementato la propria presenza nel Mediterraneo. Nel marzo 2013 fu poi istituito il Gruppo Permanente per il Mediterraneo come costola della Flotta del Mar Nero, ovvero fu ricreata di fatto la Task Force del Mediterraneo, erede della Quinta Squadra, mentre l’anno dopo, a febbraio, poco prima, dunque, dello scoppio del conflitto in Donbass, Mosca annunciò l’intenzione di rafforzare la ricostituenda task force con almeno un sottomarino classe Varshavyanka e un paio di corvette lanciamissili classe Buyan-M, armati entrambi, sia il Varshavyanka che le Buyan-M, con missili da crociera land-attack a lungo raggio Kalibr. Questi ultimi rappresentano un contraltare russo dell’americano Tomahawk ed hanno fatto il loro esordio, suscitando vasta eco e clamore in Occidente, proprio durante le operazioni in Siria, marcando la prima volta che un Paese fuori dall’Occidente ha impegnato in un conflitto ordigni di tipo strategico come questi9. Sulla stessa lunghezza d’onda, nel 2015 la Russia ha stipulato un accordo con i governi cipriota, egiziano e libico (quello di Tobruk) per l’utilizzo delle loro acque territoriali e delle loro basi navali. Il conflitto siriano e il conseguente allargamento/miglioramento delle infrastrutture militari di Tartus e Jableh (che si aggiungono a quanto già presente nel Caucaso e nel Mar Nero) hanno fatto il resto permettendo a Mosca di ricreare le condizioni per una presenza duratura ed un accesso regolare e permanente delle proprie forze militari al Mediterraneo ed al Medio Oriente – esattamente come avveniva durante la Guerra Fredda con l’Eskadra 9 Il Kalibr è disponibile in 2 varianti: la 3M-14T per il lancio da sottomarini e la variante 3M-14K per il lancio da unità di superficie. La prima è più corta – 6,2 m – per essere lanciata dai tubi lanciasiluri standard da 533 mm dei battelli. La seconda variante è, invece, più lunga e misura 8,9 m ed è lanciata dai moduli universali a celle verticali UKSK. Per il resto le caratteristiche del missile sono pressoché le stesse. Il Kalibr è un missile da crociera land attack subsonico bistadio – a differenza della variante antinave che è tristadio e supersonica nella fase terminale per superare le difese delle imbarcazioni nemiche – e sfrutta per la fase di lancio e spinta un booster a propellente solido che ha capacità TVC nella variante navale ed è invece "convenzionale" per la variante lanciabile da sottomarini. La crociera e l'attacco, invece, sono sostenute da un turbogetto compatto. La guida del missile associa un sistema satellitare/inerziale per la fase di crociera, assistito da un altimetro barometrico, ad un homing radar attivo. Su quest'ultimo non ci sono grandi certezze. L'unica cosa nota è che il seeker radar è l'ARG-14E, realizzato dall'azienda Radar MMS, che si attiva ad una ventina di chilometri dal bersaglio per condurre con precisione l'ordigno su di esso. L'antenna ha una capacità di inclinazione di +- 45° in azimuth e di -10°/+20° in elevazione. Presumibilmente si tratta di un seeker in banda Ka o ad onda millimetrica capace, dunque, di "vedere" un bersaglio terrestre escludendo il clutter del terreno circostante. La testata ha un peso di 450 kg 19
Mediterranea che operava dalla base di Tartus e da quella di Alessandria. Il 20 gennaio 2017, infine, Mosca ha firmato un accordo a lungo termine con il regime di Assad per un’ulteriore espansione delle basi di Jableh e Tartus. L’allargamento delle infrastrutture presenti nelle due basi garantirà un incremento permanente della presenza russa nella regione ed un corrispondente aumento delle capacità A2/AD nell’area del Mediterraneo Orientale. Nello specifico, l’accordo prevede un “leasing” di 49 anni - con potenziale rinnovo automatico alla scadenza per ulteriori 25 anni – delle due basi ed un loro rafforzamento. In particolare, Tartus verrà modificata per essere in grado di accogliere 10/12 navi, rispetto alle attuali 5/6, incluse unità a propulsione nucleare e di grandi dimensioni (portaerei), e dotata di strutture manutentive per permettere interventi/riparazioni su tali navi, oltre che di un’adeguata struttura di comando e controllo, fondamentale per il coordinamento e la gestione delle operazioni. Venendo alla Cina, questa è sì geograficamente lontana dal Mediterraneo Allargato, ma è sempre più interdipendente con la regione nel suo complesso e, di conseguenza, sempre più interessata alle sue vicende. I numeri, più di ogni altra cosa, dimostrano questo stretto legame. Il 60% delle esportazioni cinesi verso il continente europeo passa attraverso il Canale di Suez e dall'inizio del nuovo millennio alla fine del 2015, circa il 56% delle importazioni annuali di petrolio in Cina ha avuto origine da Medio Oriente e Nord Africa. Dal dicembre del 2016, l’Arabia Saudita risulta il principale esportatore di petrolio verso la Cina, scavalcando la Russia, mentre l’Iraq – nonostante le sue vicissitudini interne – è diventato il terzo con esportazioni che nel 2016 sono cresciute del 15%. Ma altri potenziali fornitori per la Cina potrebbero presto emergere nella regione, a cominciare dall'Etiopia, dove le risorse gasifere dell'Ogaden e dell'area di Arbaminch potrebbero far diventare Addis Abeba il quarto esportatore di gas al mondo, dietro Russia, Iran e Qatar, e dove la Cina ha da tempo effettuato massicci investimenti mirati allo sviluppo infrastrutturale locale. In quest'ottica, la direttrice navale che dal Corno d'Africa raggiunge il Mediterraneo, attraverso Suez, è sempre più strategica per gli interessi cinesi. Pertanto, negli ultimi anni Pechino ha investito in maniera massiccia per costituire una serie di appoggi lungo quella che ormai viene chiamata la “via della seta marittima” – parte della più ampia BRI (Belt and Road Initiative), ovvero dell'ambiziosa politica di proiezione di potenza economica e industriale verso ovest lanciata dal Governo cinese a partire dal 2013. In Africa Orientale, l'hub di questa strategia è il Kenya dove il porto di Mombasa ha beneficiato di notevoli investimenti cinesi nell'ultimo decennio. A fine maggio, inoltre, è stata inaugurata, alla presenza del Presidente kenyota Uhuru Kenyatta, la nuova linea ferroviaria Nairobi- Mombasa. 20
La linea, costata 3,16 miliardi di dollari, è stata finanziata al 90% dalla banca cinese Exim e la sua gestione è stata affidata per i prossimi 10 anni alla China Road and Bridge Corporation. La Nairobi-Mombasa è solo un primo tassello di un più ampio disegno infrastrutturale che mira a creare un corridoio ferroviario tra Kenya, Uganda, Ruanda e Sud Sudan favorendo lo sviluppo locale e lo sfruttamento delle risorse energetiche dell'area: da quelle del Sud Sudan a quella dell'Uganda dove nella parte occidentale del Lago Alberto si stima la presenza di riserve pari ad 1,7 miliardi di barili di petrolio. Anche nel Mediterraneo strettamente inteso la Cina sta pian piano acquisendo preziosi appoggi commerciali. Negli ultimi anni, la COSCO – la più grande società di stato cinese specializzata in shipping, cantieristica e logistica – ha acquisito il 20% di una joint venture che controlla il Suez Canal Container Terminal di Port Said - un centro di trasbordo merci posto all'entrata nord del canale di Suez e dedicato al Mediterraneo orientale – ed il 65% del Kumport Terminal, il terzo più grande della Turchia, nel porto di Ambarli. Per non parlare, poi, del porto del Pireo dove la COSCO ha investito oltre 5 miliardi di euro per acquisire il 67 % delle azioni dell’autorità portuale e coprire le spese di ampliamento dei terminal. In pratica, il Pireo è oggi un porto cinese a tutti gli effetti. Questa crescete penetrazione economica si è accompagnata anche ad un progressivo incremento – seppur di basso profilo e sempre entro certi limiti – dell'impegno militare. Certo, nulla di paragonabile alla presenza militare americana o russa nella regione, ma anche per Pechino inizia a farsi sentire sempre di più l'esigenza di coniugare proiezione economico- finanziaria e proiezione militare e di sicurezza. In questa fase sono state soprattutto le Nazioni Unite a servire come essenziale vettore multilaterale di tale politica di proiezione e, se un tempo era molto restia a impegnarsi sul piano internazionale, se non in alcuni frangenti di assoluta emergenza e comunque in posizione defilata, la Cina pare adesso disponibile a farsi carico di sempre maggiori responsabilità nella stabilizzazione di determinati contesti. In quest’ottica va letta la partecipazione alle missioni internazionali anti-pirateria sotto mandato ONU, cui la Marina Cinese contribuisce senza soluzione di continuità dal 2008, ma, soprattutto, gli impegni in Sud Sudan ed in Mali. L’anno di svolta è stato il 2012 quando un primo contingente delle Forze Armate cinesi è stato dispiegato nel Sudan del Sud. Sebbene incaricato soltanto di proteggere i medici e i genieri militari cinesi già presenti sul terreno, questo primo schieramento ha aperto la strada a un diverso coinvolgimento cinese nelle missioni di peacekeeping, ben al di là del mero supporto medico e logistico. L’impegno in Sud Sudan è stato poi seguito dal dispiegamento di peacekeepers in Mali nell'ambito della missione dell’ONU MINUSMA (Multidimensional Integrated Stabilisation Mission in Mali), dove quello 21
cinese è regolarmente uno dei contingenti più importanti. L’impegno di Pechino in questi due Paesi non è casuale poiché in entrambi la Cina ha forti interessi economici e commerciali. Nel Sud Sudan si tratta di risorse petrolifere, localizzate per la gran parte al confine con il Sudan, mentre la stabilità del Mali è strategica soprattutto per le sue ripercussioni sulla confinante Algeria dove risiedono quasi 100.000 operai di nazionalità cinese e dove Pechino ha una stretta cooperazione politico-militare che ha portato di recente anche alla fornitura di 3 fregate leggere/corvettone C-28A (tutte oggi in servizio). Il definitivo suggello di questa rimodulazione della politica di proiezione cinese all’estero si è avuto nel 2015, quando il Presidente Xi Jinping ha dichiarato che la Cina sarebbe stata pronta a mettere a disposizione una forza di reazione rapida di circa 8.000 soldati, da attivare su richiesta delle Nazioni Unite, e, soprattutto, quando è giunta la conferma della creazione di una base militare cinese a Gibuti, la prima del genere all’estero. Si tratta di un base logistica10, inaugurata ad agosto 2017 e che ospita già circa 1.000 soldati cinesi, che dovrebbe anzitutto fungere da punto d’appoggio per eventuali operazioni di evacuazione dei tanti cittadini della Repubblica Popolare nell’area e per il supporto delle navi cinesi impegnate nelle operazioni anti-pirateria nell'Oceano Indiano. Questi numeri sono destinati a crescere, mentre la base può ospitare navi anfibie come le nuove LPD da 25.000 t Type 071 o addirittura portaerei, e pure aerei da trasporto strategico il-76 e Y-20, nonchè velivoli da pattugliamento marittimo Y-8X. Questi ultimi hanno un’autonomia di oltre 2.500 km che permetterebbe loro di coprire una vasta area della regione. 10 Costata oltre 600 milioni di dollari e dotata di fortificazioni e protezioni molto robuste. 22
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