UNITRE VIAREGGIO VERSILIA - UNIVERSITA' DELLA TERZA ETA' - ANNO ACCADEMICO 2020/2021 - Altervista

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UNIVERSITA’ DELLA TERZA ETA’
      UNITRE
 VIAREGGIO VERSILIA

ANNO ACCADEMICO 2020/2021

   LE LEZIONI CATTEDRATICHE

          Aprile 2021
UNITRE VIAREGGIO VERSILIA - UNIVERSITA' DELLA TERZA ETA' - ANNO ACCADEMICO 2020/2021 - Altervista
UNITRE VIAREGGIO VERSiLIA APS                                             2

                                Le Lezioni cattedratiche
                                       aprile 2021

        Paolo Fornaciari
        Guernica di Pablo Picasso
        Carlo Alberto Di Grazia
        Le invasioni barbariche e quelle dei microorganismi
        Massimo Minerva
        I premi Nobel della Medicina
        Pier Giacomo Bertuccelli
        Il coraggio di avere paura
        Bruno Pezzini
        La rinegoziazione o la surroga di un mutuo ipotecario
        Luigi Pruneti
        L’anello nella storia, nella simbologia, nel mito
        Manrico Testi
        La piena affermazione del talento letterario femminile italiano
        a.v.
        L’immagine di Viareggio nelle cartoline “dipinte”

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                                   Paolo Fornaciari
                                    vice Presidente
                                    Bruno Pezzini
                                       Segretario
                                   Antonio De Luca
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                                   Paolo Fornaciari

                         GUERNICA DI PABLO PICASSO

La grande opera di Pablo Picasso, Guernica, tempera su tela ( conservato a Madrid,
Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia), è la testimonianza della partecipazione
appassionata dell’artista alla sofferenza umana e il suo giudizio morale sulla violenza
della guerra.
La grande tela fu ispirata dal bombardamento, avvenuto il 26 aprile del 1937, della cit-
tadina basca di Guernica durante la guerra civile spagnola (1936-1939) ad opera dell’a-
viazione nazi-fascista.
Picasso, che nel gennaio dello stesso anno, aveva avuto l’incarico di realizzare un
grande murale per il padiglione Spagnolo alla Mostra Internazionale di Parigi prevista
per l’estate, fino ad aprile non aveva ancora realizzato nulla.
Poi, la notizia del drammatico bombardamento di Guernica, che stava indignando tutta
l’Europa, ispirò l’artista che si mise subito al lavoro dopo aver visto le foto dell’orrendo
massacro pubblicate il 30 aprile sul quotidiano “Ce soir”, prendendo una forte posizio-
ne, sia umana che politica contro la guerra. Mentre lo stava realizzando dichiarò: “La
guerra di Spagna è la battaglia della reazione contro il popolo, contro la libertà. Nel
dipinto cui sto lavorando e che si intitolerà Guernica esprimo chiaramente il mio odio
per la casta militare che ha fatto naufragare la Spagna in un oceano di dolore e di
morte”.
Picasso lavorò all’opera nel suo studio, in rue des Grand-Augustins sulla Rive gauche a
Parigi, terminandola il 4 giugno 1937.
Tutto il lavoro preparatoria dell’opera è stato documentato da una serie di fotografie,
scattate dalla sua compagna dell’artista Dora Maar, che illustrano gli studi del progetto
fino alla soluzione finale.
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Picasso, nel dipingere ogni particolare, reinterpreta opere del passato, infatti amava
dire: “A me la pittura piace tutta” e “I bravi artisti copiano, i grandi artisti rubano”. Nei
particolari dell’opera si notano riferimenti ad opere importanti: “Incendio di Borgo”, di
Raffaello, 1515; “La strage degli innocenti”, Guido Reni, 1611; Fucilazione del 3 mag-
gio 1808, Francisco Goya, 1814; “Il trionfo della morte”, ignoto, XV secolo;
Lo stile può essere definito cubista per la visione simultanea di più parti dell’oggetto. I
corpi sono scomposti, semplificati e lo spazio si frammenta con essi.
Nell’opera non ci sono riferimenti diretti che indichino il luogo o il tempo dell’accaduto
perché il messaggio di condanna della violenza e della guerra ha valore “universale”.
In Guernica colpisce l’assenza di colore, l’impiego esclusivo del neo e di toni di grigio e
di colori molto spenti. Con la scelta di questa tavolozza, che rimanda alle drammatiche
foto in bianco e nero che documentavano la tragedia, Picasso ha evocato la morte e la
perdita della speranza.
L’ambientazione è contemporaneamente interna (il lampadario è un oggetto domestico)
ed esterna (i palazzi in fiamme). Questa simultaneità della visione che é un elemento
del linguaggio cubista, é anche un modo per rendere con realismo l’orrore del bombar-
damento che squarcia i palazzi offrendo la vista tutta dell’intimità domestica.
Il dipinto é realizzato come una composizione classica con un pannello centrale e due
parti laterali. Le figure in primo piano si dispongono all’interno di un triangolo sottolinea-
te dalla luce del lampadario. Il triangolo, simmetrico rispetto ad un asse centrale, si può
suddividere in quattro scene.
Nella scena, dominata dal lampadario elettrico centrale, che rimanda al lampadario del
quadro di Van Gogh «I mangiatori di patate», con la lampadina che illumina lo spazio
circostante, In spagnolo”bombilla” é il termine usato per lampadina elettrica che è
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anche il diminutivo di “bomba”.
All’estrema sinistra una donna urla verso il cielo mentre stringendo fra le mani il suo
bambino morto, quasi una moderna Pietà michelangiolesca. Sopra, la figura di un toro,
simbolo della Spagna che concepiva la lotta nell’arena della corrida come scontro leale.
Invece il bombardamento aereo rappresenta quanto di più vile l’uomo possa attuare,
perché la distruzione piove dal cielo senza che gli si possa opporre resistenza. Sotto,
tra le macerie, il corpo smembrato di un soldato: la mano sinistra protesa con le linea
della vita simbolicamente spezzate in piccoli segmenti, nella mano destra stringe anco-
ra una spada spezzata e accanto, un fiore che spunta dalla terra: simbolo di vita e di
speranza.
Al centro, sotto la luce del lampadario, un cavallo ferito, segno della forza naturale
addomesticata dall’intelligenza (Picasso dichiarò il cavallo rappresentare il popolo spa-
gnolo) che, come tutto il popolo, emette disperato, un grido di dolore.
Le figure sulla parte destra invece sono umane: una donna urlante che corre verso sini-
stra, un’altra figura di donna che sta cercando qualcosa con la luce di una candela e
nella parte terminale di destra l’inquietante presenza del fuoco: lingue di fuoco che si
sprigionano dalle case bombardate e che avvolgono un uomo, che grida tendendo le
mani protese al cielo.
La composizione del dipinto è realizzata in maniera tale da creare una sensazione di
movimento che spinge tutto verso sinistra.
Le truppe d’occupazione naziste a Parigi, vedendo il quadro, domandarono a Picasso:
“Avete fatto voi questo orrore, maestro?” Lui rispose: “No, è tutta opera vostra”.
Finita l’esposizione, poiché il governo repubblicano era caduto, Picasso non permise
che il suo venisse esposto in Spagna, dichiarando che avrebbe potuto tornarvi solo
dopo la fine del franchismo. Fu quindi ospitato per molti anni al Museum of Modern Art
di NewYork e tornò in patria nel 198, otto anni dalla sua morte e sei dopo quella di
Francisco Franco.
Una copia di Guernica si trova esposta nel corridoio anteriore alla sala del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU. Si tratta di un arazzo che compare a volte sullo sfondo delle
dichiarazioni stampa dei relatori.
Il pannello si compone quindi di una serie di figure che, senza alcun riferimento allegori-
co, raccontano tutta la drammaticità di quanto è avvenuto. Le figure hanno tratti defor-
mati per accentuare espressionisticamente la brutalità dell’evento. Sulla sinistra una
donna si dispera con in braccio il figlio morto. In basso è la testa mutilata di un uomo.
Sulla sinistra, tra case e finestre, appaiono altre figure. Alcune hanno il volto incerto di
chi si interroga cercando di capire cosa sta succedendo. Un’ultima figura sulla destra
mostra il terrore di chi cerca di fuggire da case che si sono improvvisamente incendiate.
Lo stesso Picasso donò l’opera alla Spagna con la condizione che la tela sarebbe
dovuta tornare in patria solo quando questa avesse ripristinato un regime democratico.
Per questo motivo l’opera fu conservata presso il Museum of Modern Art di New York e
ritornò in Spagna solo nel 1981.
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                                Carlo Alberto Di Grazia

    LE INVASIONI BARBARICHE E QUELLE DEI MICROORGANISMI

Non so che effetto faccia a voi questo proliferare di varianti del Covid19, l’una sempre
più misteriosa e pericolosa dell’altra, ma a me ricorda gli anni bui delle cosiddette inva-
sioni barbariche, dalle quali fu messo a ferro e fuoco l’intero Impero Romano – per
secoli, non per anni – durante lunga parte della storia umana.
Ad essere pignoli bisogna dire che tutto cominciò anche allora in Cina, com’è successo
oggi; la differenza sta quasi soltanto nel fatto che gli invasori di allora, anche se non
erano proprio grandi e grossi, si mostravano comunque come esseri umani mentre
quelli di oggi sono assolutamente invisibili ad occhi normali e soltanto in tempi recenti
la scienza ha creato strumenti estremamente sofisticati grazie ai quali siamo stati
messi in grado di aprirci anche ad un’altra realtà finora sconosciuta, o poco considera-
ta, quella di vivere tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.
Detto questo, vediamo dunque il senso di quell’accostamento un po’ improprio fra due
vicende lontanissime nel tempo: intorno alla fine del terzo secolo dopo Cristo, infatti,
popolazioni nomadi scorrazzanti nelle steppe dell’Asia centrale dal Don alla Mongolia
superarono la “Grande Muraglia” che i cinesi avevano eretto – e che tuttora esiste, per
l’ammirazione dei turisti – a difesa contro eventuali invasori, portando morte e distruzio-
ne in gran parte della Cina prima di esser costrette a ritirarsi verso Occidente.
Quasi cent’anni dopo – la storia non si misura a mesi! – Ammiano Marcellino, un uffi-
ciale dell’esercito imperiale romano di stanza in Tracia con la sua guarnigione, lanciò
un primo allarme: sulle rive del Danubio, ai confini nord-orientali dell’Impero, erano
apparsi, scrive Ammiano nella relazione inviata a Roma, degli uomini “piccoli e rozzi,
imberbi come eunuchi, con orribili volti in cui i tratti umani sono appena riconoscibili.
Piuttosto che uomini si direbbero bestie a due zampe. Sembrano incollati ai loro caval-
li.
Vi fanno perfino cucina perché invece di cuocere la carne di cui si nutrono si limitano a
intiepidirla tenendola tra la coscia e la groppa del quadrupede”.
A completare il quadro, basta dire che questi strani esseri non avevano naturalmente
una fissa dimora né tanto meno un qualsiasi tipo di lavoro allora conosciuto, essendo
dediti solo alle razzie, e si spostavano con carri rudimentali per tenervi le loro donne e i
bambini.
I Romani – che erano ovviamente di gran lunga più civilizzati e avevano costruito un
Impero costituito da tutta l’Africa del Nord, da buona parte dell’Asia ad Est e dalla Spa-
gna, la Francia, la Britannia a Occidente per poi dividerlo in due con la fondazione di
Costantinopoli - chiamarono Unni i nuovi venuti, con i quali cercarono di mettersi d’ac-
cordo prima che superassero il “limes”, cioè la frontiera, come oggi si chiamerebbe,
presidiata da postazioni militari sul tipo di quella che comandava Ammiano Marcellino.
In fondo, le terre abitate o coltivate erano così poche rispetto alla grandezza dell’Impe-
ro che non c’erano ragioni per rifiutare dei vicini tanto rozzi e bisognosi di tutto.
In fondo, comunque, la tecnica era già stata usata con successo nei confronti dei primi
“barbari” affacciatisi dal Nord, come i Goti, gli Ostrogoti, i Visigoti, i Vandali, bene o
male acquartierati qua e là intorno al “limes” Nord-orientale e tacitati, dopo scontri, bat-
taglie, guerricciole, con quello che i Romani chiamarono sussidio e i Goti tributo: basta
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intendersi, con un po’ di diplomazia!
Alla fine, fu proprio a causa di questi Goti e non di altri che nell’Anno Domini 410 si
giunse all’incredibile: addirittura e per la prima volta, al sacco di Roma, dopo mesi d’as-
sedio, da parte di Alarico, il quale saccheggiò la città per quasi una settimana e quindi
si diresse ancora verso sud a Cosenza, dove morì in pochi giorni per una violenta feb-
bre malarica. Chi era rimasto allibito alla notizia del “sacco” fu stupefatto da quella che
sembrò una punizione divina, senza immaginare che a breve giro di posta una “varian-
te” dei Goti avrebbe fatto di più e di meglio, mentre altre si sarebbero quasi subito
aggiunte, proprio come accade oggi, né avrebbero trovato lo sbarramento dei vaccini.
Infatti, non era ancora passato lo spavento per quel che avevano osato i Goti di Alarico
che sulla scena della storia italiana comparve Attila, soprannominato dai romani il fla-
gello di Dio; e comparve con le carte in regola di decine di città distrutte in tutta Europa
– fra queste Colonia, Metz, Reims, Cambrai, oltre a un piccolo villaggio chiamato Parigi
– puntando direttamente a Roma. In questa “passeggiata” fu fermato da un Papa più
che coraggioso, Leone I, che lo convinse a tornare indietro senza fare ulteriori danni.
Bisogna pur dire però che a lui si deve l’involontario onore di aver fondato Venezia per-
ché i cittadini fuggiaschi di Aquileia, Padova e altri paesi veneti, tutti superstiti dalle stra-
gi degli Unni, si rifugiarono sulle isolette della laguna, facendone la loro dimora fissa e
inattaccabile.
Pochi anni dopo, la nuova “variante” fu quella dei Vandali di Genserico che al solito
calarono dal nord con mogli, figli e masserizie ma anziché le Alpi attraversarono il
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Reno, misero a ferro e fuoco prima la Francia e poi la Spagna, dove si stanziarono in
quella che sarebbe diventata l’Andalusia, e successivamente superarono l’attuale stret-
to di Gibilterra per dilagare in Africa, tra la Mauritania (oggi il Marocco) e la Tunisia,
chiamata allora Africa proconsolare. Le bande di predoni lasciarono immuni, perché
ben protette dalle loro fortificazioni, soltanto Cartagine e Ippona.
Nel 455, infine, l’esercito di terra si trasformò di nuovo in flotta marittima per veleggiare
nel Mediterraneo fino ad Ostia e mettere ancora una volta a soqquadro la Roma che
pomposamente si chiamava ancora capitale dell’Impero portandone via tutto quello che
poteva essere caricato sulle navi con cui Genserico tornò in Africa dove concluse la sua
avventura terrena, più o meno alla fine del 400, quando stava iniziando quello che gli
storici chiamano Medio Evo.
Più di cent’anni dopo, una spaventosa pestilenza accompagnata da una terribile care-
stia e seguita da una scia di morti salutò l’arrivo dell’ultima “variante” dei cosiddetti bar-
bari: fu quella dei Longobardi, che valicò le Alpi e compì scorribande a destra e a
manca, pure nel sud della Penisola, per stanziarsi definitivamente in Alta Italia, lascian-
dole in eredità il proprio nome, giunto fino ad oggi: la Lombardia.
Non credo che il Covid19 potrà fare altrettanto. E comunque, visto che i nostri antenati
ne uscirono, sia pure ridotti allo stremo dalle bufere di cui s’è detto, ricostruendo un
mondo migliore, c’è una concreta speranza di poter fare così anche noi per le future
generazioni, compresa quella più vicina, dei nostri figli e nipoti.
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                                  Massimo Minerva

                 I PREMI NOBEL ITALIANI DELLA MEDICINA

Nella storia dei Premi Nobel per la Medicina, gli scienziati italiani sono ben quattro e
vanno dal 1906 (Camillo Golgi), al 1969 (Salvatore Luria), al 1975 (Renato Dulbecco)
ed infine al 1986 (Rita Levi Montalcini). Essi hanno portato un contributo importante
soprattutto nel campo della neurologia, ma si sono spesso dovuti trasferire all’estero
dove il campo della ricerca è particolarmente seguito, apprezzato e supportato rispetto
all’Italia.
CAMILLO GOLGI
Nasce a Corteno (Brescia) il 7 luglio 1843 e muore a Pavia il 21 gennaio 1926. Figlio di
un medico, studia medicina all’Università di Pavia, interessandosi ben presto allo studio
dell’anatomia ed all’istologia (studio delle cellule dei tessuti animali e vegetali). Dopo la
laurea (1865) trascorse un periodo di tirocinio nella Clinica Psichiatrica di Cesare Lom-
broso (padre della Fisiognomica: disciplina che cerca di spiegare i caratteri psicologici
e morali di una persona dal suo aspetto fisico, special-
mente i lineamenti del volto). Nel 1879 diviene direttore
dell’Istituto di Anatomia di Siena e poi professore di
Patologia Generale di Pavia. Le sue prime pubblicazioni
riguardano l’anatomia normale e patologica del sistema
nervoso e soprattutto delle cellule gliali, che hanno fun-
zione di nutritiva e di sostegno per i neuroni. Golgi fa
anche importanti ricerche sulla malaria ed afferma che la
gravità dell’ascesso malarico dipende dal numero dei
parassiti nel sangue e chiarisce i meccanismi di azione
del chinino.
Nel 1906, congiuntamente allo spagnolo Santiago
Ramon Y Cajal, viene loro assegnato il Nobel per gli
studi sulla neurologia. Golgi scopre la “reazione nera”
(soluzione di bicromato di potassio e nitrato d’argento)
con cui accerta che la cellula nervosa, anziché rimanere
semplice, “dà invece dei rami che emettono filamenti
che, a loro volta, si diramano in altri come un complicato sistema di fili”. Scopre, inol-
tre, che queste cellule (tipo I di Golgi) hanno una funzione motoria o psicomotoria o,
altrimenti, (tipo II di Golgi) una funzione sensoriale o psicosensoriale. Descrive anche i
processi metabolici della cellula nervosa all’interno del citoplasma che prenderanno il
nome di “apparato reticolare del Golgi”, che ancor oggi sono un dato fondamentale. Si
capisce insomma che lo studio della neurologia cambia con lui radicalmente, passando
da un periodo di oscurantismo ad una scienza esatta.
SALVATORE LURIA
   Nasce a Torino il 13 agosto 1912 e muore il 7 febbraio 1991. Dopo aver studiato
Medicina a Torino, Fisica e Radiologia a Roma, in seguito alle leggi razziali del fasci-
smo, si rifugia a Parigi, dove Enrico Fermi (con il quale aveva studiato a Roma) gli pro-
cura un posto alla Medical School della Columbia University. Qui comincerà a lavorare
insieme ad un altro rifugiato politico, il tedesco Max Delbruck (sua madre è figlia del
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grande chimico Justus von Liebig), ed all’americano Alfred Day Hershey sui meccani-
smi di replicazione dei virus, creando quello che passerà alla storia come il “Gruppo del
Fago” (fagi o batteriofagi sono microbi che posti a contatto con batteri patogeni sensibili
si fissano ad essi, vi si moltiplicano e ne determinano la morte), un equipe interdiscipli-
nare (un medico, un fisico ed un chimico) da cui prenderà il via la Biologia Molecolare e
con cui vinceranno il Premio Nobel nel 1969. Essi dimostrarono sia il principio che il
materiale fondamentale dell’ere-
dità biologica risiede negli acidi
nucleici (DNA e RNA) sia che,
durante la neoformazione di acido
nucleico, possono verificarsi errori
di sintesi che portano per “muta-
zione” ad una nuova variante del
virus. Da queste scoperte si può
arrivare anche a spiegare le
varianti al Covid-19 di cui stiamo
attualmente soffrendo.
RENATO DULBECCO
Nasce a Catanzaro il 22 febbraio 1914 e muore a La Jolla (California) il 19 febbraio
2012 a 98 anni. Laureatosi in Medicina a Torino nel 1936 insieme a Rita Levi Montalci-
ni, nel 1945, dopo aver combattuto nella Resistenza, si trasferisce all’Università di Bloo-
mington (Indiana – USA), poi a quella di Pasadena ed ancora al prestigioso Salk Insti-
tute di Jolla, dove collabora con Salk allo studio del virus della polio, e di cui, successi-
vamente diventerà direttore. Nel 1975, insieme a David Baltimore e Howard Martin
Temin, viene insignito del Premio Nobel per gli studi del meccanismo d’azione dei virus
tumorali ed il materiale genetico delle cellule viventi. Tor-
nato in Italia dopo quasi 50 anni, si è dedicato al “progetto
genoma” (genoma è il complesso di DNA contenuto in una
cellula, formato dall’insieme dei geni, unità ereditarie fon-
damentali, di un essere vivente) che si è completato nel
2003 con la decodificazione della mappa del DNA umano.
Si è poi occupato di un nuovo progetto che ha portato, nel
2005, all’individuazione dei geni responsabili del carcino-
ma mammario. È stato un uomo di un ingegno incredibile
riconosciutogli con la laurea honoris causa in Scienze
all’Università di Yale, con la nomina a membro dell’Acca-
demia dei Lincei, dell’Accademia americana delle Scien-
ze, della Royal Society inglese, Cavaliere di Gran Croce al
Merito della Repubblica Italiana; ha presentato il Festival
di Sanremo con Fazio nel 1999 ed è spesso stato presen-
te a Telethon per favorire la ricerca. Si è sempre schierato in prima fila nelle battaglie
contro il fumo ed altre sostanze oncogeniche ed a favore della ricerca sulle cellule sta-
minali.

P.S. nel prossimo articolo parleremo dell’altro Premio Nobel Rita Levi Montalcini
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                             Pier Giacomo Bertuccelli

                         IL CORAGGIO DI AVERE PAURA

Paura e coraggio si alternano nel cammino dei giorni hanno il colore delle emozioni
imprevedibili, sono compagni di vita.
L’incontro con la paura è inevitabile, solo il coraggio la può superare.
La paura è un’ombra, un elemento sconosciuto che abita zone oscure e misteriose
all’interno di noi, rompe, ogni schema razionale della mente; è la sfera delle cose che
non si possono dire o che non si possono fare, dei confini che non si possono valicare.
La paura è un’emozione primaria, si identifica con diversi stati emotivi che si colorano
con diverse intensità; a livello fisiologico la paura si manifesta con i nomi di ansia, timo-
re, apprensione, inquietudine, preoccupazione, disagio, spesso si somatizza e altera
nell’individuo una situazione di equilibrio psico-fisico.
Per cercare di capire la paura, occorre tornare indietro nel tempo, ripensare il cammino
della vita, le persone che ci hanno accompagnato, gli ambienti dove abbiamo vissuto;
anche
il mondo magico dell’infanzia, l’affettività e l’accoglienza ricevuta, i primi confronti e
scontri con le nostre esperienze ci aiutano a capire l’origine delle nostre paure.
Quando la paura è troppo grande per quello che possiamo sopportare, anche le conse-
guenze su di noi possono essere importanti, fino a manifestare somatizzazioni e tratti
patologici. La paura, qualche volta è anche solo frutto dell’immaginazione; quando que-
sto accade, la paura si può trasformare in un disturbo di ansia anticipatoria e provocare
ugualmente disagio e inquietudine.
Per misteriosi meccanismi all’interno della mente, può capitare di aver paura nel ripen-
sare a situazioni traumatiche e dolorose accadute nel passato; la paura nasce dall’istin-
to e sono proprio le nostre difese che dall’istinto derivano, che ci costringono ugual-
mente ad attivarci, soprattutto quando abbiamo la sensazione di sentire imminente una
minaccia, un pericolo per la nostra stessa esistenza.
Il coraggio è la forza che tende a vedere il futuro, è visionario, affronta, compie azioni;
il coraggio lotta sempre per raggiungere un obbiettivo, supera situazioni di pericolo;
Il coraggio è uno stato emotivo, è opposto alla paura, è una virtù, una dotazione perso-
nale, è indispensabile per affrontare la vita; Aristotele distingueva il coraggio dalla teme-
UNITRE VIAREGGIO VERSILIA APS                                                         12

rarietà, infatti, a differenza della temerarietà, il coraggio tiene conto delle condizioni di
realizzabilità, dell’obbiettivo e del superamento del pericolo.
Il coraggio, ai nostri giorni, non ha purtroppo molti modelli di riferimento, intesi nel
senso classico; il coraggio, infatti, non può nascere dall’imitazione di modelli virtuali di
super eroi, che ci propone oggi la cultura del niente. Il coraggio nasce da lontano, è la
somma di sterminate esperienze e di tasselli di vita; di battaglie, di rinunce, di dolori, di
successi. Il coraggio può anche essere una forma di identità; motore delle azioni, dei
progetti, può essere la risposta concreta al senso dell’esistenza, disvelamento dell’Io,
spesso nascosto nelle nebbie della propria mente; può essere conferma della vita e
delle proprie proposte.
Paura e coraggio hanno il colore delle emozioni, sono imprevedibili compagni di vita, si
alternano, e quando uno dei due predomina, annulla l’altro in una danza perenne. In
particolare, se la paura predomina, la nostra realtà è alterata, le nostre percezioni cam-
biano, non trovano più riferimenti, si origina un circolo vizioso che arriva anche a ferma-
re, a bloccare i nostri movimenti. Il coraggio e la paura ci danno la misura di noi stessi,
della nostra dimensione psicologica, ci aiutano a superare gli errori; ci aiutano a mette-
re piede nella realtà. Il coraggio vede con chiarezza quello che deve affrontare, agisce,
ha la forza per intervenire.
La paura, al contrario, è invisibile, è imprevedibile, è ombra che sfugge al controllo della
mente, è la parte immersa in aree misteriose e inconoscibili del nostro essere.
Della paura tuttavia abbiamo bisogno, è una grande risorsa, la paura ci abita, ci appar-
tiene, è con noi da sempre, occorre quando è possibile conoscerla, comprenderla. La
paura è un segnale, una richiesta che il nostro organismo invia; la paura è memoria, è
essa stessa contenitore di memorie, di emozioni dolorose, di tracce di esperienze trau-
matiche rimosse e quindi non più presenti alla coscienza. Aprire lo sguardo sulle paure
potrebbe aprire a noi nuove possibilità per farci capire meglio chi siamo, aiutarci a riper-
correre il nostro passato forse anche nel tentativo di scoprire altre nostre risorse,
altre potenzialità, seppellite nel tempo e dal tempo.

Il coraggio nasce dalla conoscenza della paura e dalla capacità di dominarla, mante-
nendo entro gli argini del controllo razionale la sua carica eversiva, ma comunque vitale
(Carotenuto)

Coraggio è fiducia nelle proprie capacità, è guardare oltre, è osare.
Coraggio è accettare, coraggio è anche evitare, è voglia di immergersi dentro le proprie
fragilità e le proprie debolezze;
Coraggio è riuscire a dire l’indicibile, dubitare l’indubitabile, decidere l’indecidibile.

Il coraggio è anche coraggio di aver paura
13                                                               LE LEZIONI CATTEDRATICHE

                                    Bruno Pezzini

  LA RINEGOZIAZIONE O LA SURROGA DI UN MUTUO IPOTECARIO

È bene subito puntualizzare che un mutuo ipotecario non è un contratto “immutabile” e
per la vita: si può sempre rinegoziarlo o sostituirlo con uno migliore.
Chi ha sottoscritto un mutuo qualche anno fa probabilmente ha ottenuto un finanzia-
mento a condizioni meno vantaggiose rispetto a quelle attualmente praticate dagli istitu-
ti di credito.
In questo periodo, caratterizzato da tassi di interesse ai minimi, tutti coloro che hanno
già un mutuo dovrebbero effettuare un controllo finanziario per valutare le possibilità di
risparmio o di "alleggerimento" della rata offerte dal mercato, magari con l'ausilio di un
esperto professionista.

Una volta analizzate le condizioni di mercato disponibili, è consigliabile incontrare la
propria banca e chiedere una rinegoziazione, ossia una modifica delle condizioni con-
trattuali sottoscritte inizialmente. Sebbene le banche non siano tenute a modificare i ter-
mini stabiliti inizialmente nell’atto di mutuo, non di rado tendono ad accogliere, anche
se parzialmente, la richiesta ben sapendo che un rifiuto potrebbe portare alla perdita
del cliente.

In caso di risposta negativa la soluzione alternativa è la surroga, cioè lo spostamento
del proprio mutuo verso un altro istituto che pratichi condizioni migliori. Capita spesso
che alcuni mutuatari scelgano di non procedere in tal senso rinunciando a risparmi
anche molto forti sulle rate nel timore che l’operazione possa intaccare altri rapporti in
corso quali investimenti, polizze, eccetera. A questo proposito è bene specificare che
con la surroga si trasferisce unicamente il mutuo e non anche gli altri rapporti in essere
con la banca iniziale.

Rinegoziazione o surroga sembrano – almeno all'apparenza – due maniere diverse di
chiamare la stessa procedura. Eppure non è così ed è bene che il mutuatario ne cono-
sca la differenza per sapere di quale di esse beneficiare nel momento del bisogno.
Cos'è la rinegoziazione del mutuo e quando si può chiedere
Rinegoziare un mutuo vuol dire cambiare le condizioni del contratto con la banca che
l'ha erogato. È una pratica che avviene a costo zero ed è uno strumento utile per evita-
re di dover sottostare ad oneri finanziari diventati troppo pesanti da sostenere od anche
per ottenere rate minori allungando i tempi di rimborso. È una possibilità che le banche
concedono per evitare di perdere il rimborso delle rate del mutuo ed anche dopo aver
valutato il loro interesse a mantenere il rapporto globale.

Le condizioni che possono venire riviste sono:

• tasso di interesse e spread. Il primo è legato al mercato ed un esempio di questo tipo
potrebbe essere l'Euribor che è l'indice a cui generalmente si guarda per i mutui a tasso
variabile; il secondo invece è legato alla banca, perché è un surplus che l'istituto di cre-
dito aggiunge per proprio guadagno aziendale;
UNITRE VIAREGGIO VERSILIA APS                                                         14

• durata del contratto. Si può, ad esempio, richiedere il passaggio da un mutuo ven-
tennale ad uno trentennale;

• tipo di contratto. Implica il passaggio dal mutuo a tasso fisso a quello variabile e vice-
versa
.
In pratica per avviare una pratica per rinegoziare il mutuo è opportuno per prima cosa
prendere contatti con la banca che lo ha erogato. In alternativa è anche possibile invia-
re una raccomandata A/R. all'interno della quale si elencano tutte le condizioni che si
desidera modificare. Se la richiesta viene accolta si ridiscute il contratto; in caso contra-
rio non cambia nulla. La rinegoziazione del mutuo è sempre gratuita per il cliente. Que-
sto vuol dire che non gli possono essere addebitate spese notarili supplementari e, in
caso venga accettata, è importante sapere che:
• non si perdono eventuali benefici fiscali previsti nel contratto originario;
• non possono essere addebitati costi aggiuntivi di sorta, come ad esempio commis-
sioni bancarie;
• non si possono richiedere spese addizionali né si possono addebitare tasse;
• le garanzie che si sono prodotte per il contratto originario valgono anche per il mutuo
rinegoziato.

Cos'è la surroga mutuo e quando si può chiedere
La surrogazione del mutuo – o surroga che dir si voglia – è la possibilità di spostarlo da
un istituto di credito ad un altro rivedendo contestualmente anche le condizioni. Insom-
ma, è un ampliamento concettuale della rinegoziazione di cui abbiamo parlato nel para-
grafo precedente: con la surroga mutuo il contratto viene modificato a costo zero per il
cliente e in più non c'è l'obbligo di estinzione del rapporto originario – cosa che, invece,
prima del 2007 esisteva se si cambiava banca. Tutto ciò comporta dei vantaggi per il
mutuatario: può godere di nuove condizioni e può beneficiare anche di un trattamento
migliore per tutti gli altri rapporti. Inoltre il passaggio è completamente gratuito: l'unica
spesa che il debitore deve affrontare è una modesta somma come tassa ipotecaria.
Non sono previste spese notarili a carico del cliente, né la banca può riversare su di lui
tasse, spese aggiuntive o commissioni varie.
Come nel caso del rinegoziare il mutuo le condizioni che possono essere riviste sono le
seguenti:
• tasso e/o spread;
• durata;
• tipologia.

Cosa cambia tra rinegoziazione e surroga mutuo
È opportuno sottolineare una forte analogia che esiste tra i due procedimenti e che
riguarda le clausole oggetto di rivisitazione. Nei due casi è prevista la revisione del
tasso di interesse del mutuo e dello spread applicato, della tipologia di ammortamento
e anche della sua durata.
 Passiamo comunque a puntualizzare alcune differenze tra le due opportunità:
• banca. La rinegoziazione è un procedimento interno che viene fatto tra il cliente ed il
suo istituto di credito, quindi non c'è alcun cambio di banca in essere;
• costi. Con la surroga si sceglie di cambiare banca di riferimento. È sempre comple-
15                                                               LE LEZIONI CATTEDRATICHE

tamente gratuita anche per tutti i costi delle pratiche e per le spese accessorie, ma il
cliente deve pagare una modesta tassa ipotecaria.

È importante precisare che in ambedue i casi, per usufruire dei vari benefici previsti
dalle norme vigenti, l'importo del nuovo finanziamento non può in alcuna misura essere
superiore al debito residuo.

Per maggiore chiarezza si può sintetizzare il tutto con seguenti domande e risposte.

Cos'è la rinegoziazione del mutuo?
La rinegoziazione è l'operazione che permette di ricontrattare le condizioni del mutuo in
corso con la propria banca al fine di ottenerne di più favorevoli.

Quanto costa rinegoziare il mutuo?
L’operazione non comporta spese per il mutuatario, in quanto si risolve in una modifica
delle condizioni contrattuali e non richiede l'intervento di un notaio.

La banca è tenuta ad accogliere la richiesta di rinegoziazione?
No, salvo il caso di espressa previsione dell'obbligo nel contratto di mutuo originario
peraltro normalmente esclusa.

Quando conviene rinegoziare il mutuo?
In generale quando le condizioni offerte dal mercato risultano più favorevoli rispetto a
quelle del tempo in cui si è contratto il mutuo o per diversa disponibilità finanziare del
mutuatario che intende modificare il piano di rimborso.

Con la rinegoziazione è possibile cambiare tipologia di tasso?
Sì, permette di passare dal tasso fisso a quello variabile o viceversa, così come di otte-
nere una riduzione dello spread o modificare la durata del mutuo e, conseguentemente,
l'importo della rata mensile.

Quale differenza sostanziale fra rinegoziazione e surroga?
In realtà cambia solo la banca erogatrice in quanto la surroga comporta inevitabilmente
una rinegoziazione di tutte o parte delle condizioni.

Tasso fisso o variabile?
Da valutare in entrambi i casi secondo le previsioni del mercato monetario

Esempio, ai soli fini esplicativi, dei risultati di una ipotetica modifica di un mutuo con
capitale residuo di € 100.000 e vita residua di 10 anni con 20 rate semestrali utilizzando
un piano di ammortamento a rate costante detto metodo “francese”:

Tasso fisso contrattuale del 5% - rata di € 6.414 con rimborso totale di € 128.294
Tasso fisso rivisto del 3%      - rata di € 5.824 con rimborso totale di € 116.491
16

                                      Luigi Pruneti
UNITRE VIAREGGIO VERSILIA APS

      L’ANELLO NELLA STORIA, NELLA SIMBOLOGIA, NEL MITO

Simbologia dell’anello
L’anello, essendo un cerchio, è associato all’universo e alle forze cosmiche, è il simbolo
della continuità e della totalità. Inoltre, non avendo un inizio e una fine è l’emblema del-
l’eternità e, di conseguenza del divino incarnato nel contingente. A volte l’anello è raffi-
gurato come un serpente che si morde la coda, è l’Uroboros, l’icona del tempo ciclico,
dell’eterno ritorno.
L’anello, circoscrivendo uno spazio, indica chiusura, confinamento, vincolo, in pratica è
la maglia di una catena. Per tale motivo rappresenta un legame, un voto, una vocazio-
ne o la consacrazione a un individuo, a una comunità, a una causa, a una fede.
I Greci pensavano che il primo anello fosse stato quello di Prometeo. Sarebbe stato
ricavato da una maglia di ferro della catena che lo aveva avvinto e portava incastonato
un pezzo di roccia del Caucaso, ove aveva scontato la propria condanna, era perciò un
simbolo di sottomissione a Zeus.
Nella mitologia e nella letteratura greca vi sono molti anelli, come quello dello sventura-
to Policrate. Era questi un re fortunatissimo e un giorno, per non suscitare l’invidia degli
dei e sfidare la sorte, si convinse che doveva sacrificare qualcosa, perciò gettò in mare
un prezioso anello. Poco tempo dopo, tuttavia, un pescatore gli donò un pesce, nel cui
ventre ritrovò l’anello: era il segno che non poteva liberarsi dal proprio destino. Presto,
infatti, la sua sorte mutò, Dario, imperatore dei Persiani, lo vinse in battaglia, gli strappò
il regno e lo fece morire crocifisso. In questo caso, l’anello rappresenta il simbolo di un
fato inesorabile.
Ha, invece, un significato filosofico l’Anello di Gige, pastore della Lidia, di cui parla Pla-
tone nella Repubblica (359). Questo pastore, scoprì una fenditura del terreno vi penetrò
e vi trovò un cavallo di bronzo che conteneva un uomo, apparentemente morto, con un
anello al dito. Gige s’impadronì del gioiello, che lo rendeva invisibile quando rivolgeva il
castone verso di sé. Ciò significava che la potenza è in noi stessi e l’invisibilità raffigu-
rava la capacità il ritirarsi dal mondo esteriore. L’anello di Gige, rappresentava perciò il
massimo livello della vita interiore.
Un anello è anche il cerchio di fiamma che circonda Siva, ritratto nell’atto di esegue la
danza cosmica; è come se la Divinità fosse inclusa in una ruota di fuoco che ricorda lo
zodiaco e l’Uroboros. Tale simbolo rappresenta sia il processo vitale dell’universo, che
tutto distrugge e tutto crea, sia l’energia dell’eterna sapienza.
L’anello, usualmente, si porta all’anulare della mano sinistra perché, si era convinti che
da questo dito passasse una vena o un nervo che raggiungeva direttamente il cuore.

L’anello nel Cristianesimo.
I Cristiani come i gentili portavano anelli, che indicavano l’appartenenza alla fede di Cri-
sto. Clemente Alessandrino consigliava di portare anelli con incisa l’immagine di una
colomba, di un’ancora, di un pesce.
Nel Medioevo erano frequenti gli anelli di guarigione, di solito riportavano l’immagine
della Sacra Famiglia ed erano benedetti dal sacerdote, in Inghilterra erano chiamati i
rynges ed erano considerati particolarmente idonei a combattere l’epilessia.
I sacerdoti possono portare un anello con un simbolo cristiano, in primis la Croce, men-
17                                                                LE LEZIONI CATTEDRATICHE

tre, invece, la fede delle suore rappresenta il loro matrimonio con Cristo.
Il Vescovo è l’επίσκοπος, epískopos (sorvegliante) il pastore di anime, il sommo mini-
stro del culto, il maestro e la guida. Il vescovo rappresenta il successore degli apostoli,
scelti da Gesù per diffondere la Sua parola. Il loro compito è quello di predicare per
annunciare la Buona Novella e di proteggere il gregge dei fedeli. L’ anello episcopale,
portato all’anulare destro, è uno dei loro simboli e rappresenta la scelta di obbedienza e
di servizio alla Chiesa, la dedizione di fedeltà
a Cristo e il potere esercitato sui fedeli; di
solito è ornato da un’ametista indice di equili-
brio, fedeltà, controllo e di trascendenza.
L’anello arcivescovile reca, invece, un topazio
giallo, emblema del Sole di Cristo, mentre
quello cardinalizio, munito delle insegne
papali, è caratterizzato da uno zaffiro.
L’anello pescatorio o anello del pescatore
(Anulus piscatoris) è una delle insegne
del papa, che lo riceve durante la messa
solenne d’inizio pontificato. L’anello, apposita-
mente creato per ciascun pontefice, deve il
suo nome all’immagine di San Pietro che è
raffigurato mentre getta le reti. Tale immagine
ricorda che, al termine di una pesca miracolo-
sa, Pietro venne investo da Gesù dell’autorità apostolica e invitato a divenire pescatore
di uomini (Luca 5,1-11).
Alla morte del pontefice o in seguito a rinuncia, l’anello viene spezzato dal cardinale
camerlengo alla presenza del collegio cardinalizio e successivamente conservato nei
musei vaticani.

L’anello nelle fiabe.
La mitologia è zeppa di anelli magici e, di conseguenza ne sono piene le fiabe. Di
esempi ce ne sono innumerevoli, si va dalle fiabe russe di Guterman, alle celebri Mille e
una notte.
Qui, per brevità di spazio, ricordo solo Pelle d’asino di Charles Perrault, ove il nostro
monile ha una funzione simile alla scarpetta di Cenerentola e i Sette corvi di Jacob e
Wilhelm Grimm, dove l’anello mette fine a un incantesimo.
Infine, nella novella di Italo Calvino L’anello magico, ci sono tutti gli aspetti tipici delle
fiabe connesse a questo gioiello. La storia, infatti, inizia col protagonista che, compien-
do una buona azione, riceve in dono da una vecchina un anello magico. In seguito,
però, una donna malvagia gli sottrae il monile che viene recupero grazie a un animale.
La punizione della cattiva di turno e il trionfo del protagonista mettono fine alla vicenda.

L’anello di Salomone.
Gli anelli erano dei monili molto diffusi in Israele, ove i più importanti erano quelli muniti
di sigillo, in quanto simbolo di autorità. Nel Libro di Ester Artaserse afferma: “Potete
scrivere voi a mio nome, come vi sembra, e sigillate con il mio anello: infatti, tutto quello
che è stato scritto su comando del re ed è stato sigillato con il mio anello reale non può
essere revocato” (8, 8-12). L’importanza dell’anello reale è evidenziato in Geremia (22,
UNITRE VIAREGGIO VERSILIA APS                                                         18

24) e in Aggeo, dove Zorobabele, costruttore del secondo Tempio, viene paragonato da
Dio al proprio sigillo: “Io ti prenderò Zorobabele e ti porrò come un sigillo, perché io ti
ho eletto” (2,23). Anche in Genesi si sottolinea l’importanza dell’anello, infatti, quando il
faraone investe Giuseppe dei poteri supremi gli consegna l’anello (41, 42-42).
È ovvio, pertanto, che anche Salomone avesse un anello con sigillo ma nell’Antico
Testamento non se ne parla. Esso è presente, invece nel Testamento di
Salomone, un apocrifo del I secolo a.C. , scritto in ebraico e rielaborato in greco nel III
secolo d.C. Nel testo Salomone racconta come riuscì a costruire il Tempio servendosi
di demoni comandati con un anello magico datogli dall’Arcangelo Michele.
In seguito il mito dell’anello di Salomone fu elaborato in ambiente arabo e divenne
oggetto di altre leggende. L’anello donava a Salomone potere, saggezza, veggenza e
autorità su demoni, uomini, animali e forze
della natura. Salomone, una volta, avrebbe
perso l’anello nel Giordano che gli fu poi resti-
tuito da un pescatore. Secondo un’altra ver-
sione, Salomone, dovendo fare il bagno ritua-
le, affidò l’anello a una concubina, ma un
demone, di nome Sahr, assunse le sue sem-
bianze e, con l’inganno, si appropriò dell’anel-
lo, così Salomone fu costretto a lasciare il
trono, e a sopravvivere facendo il pescatore. I
sudditi si accorsero che Sahr non era il vero
re e lo cacciarono, egli irato, gettò, allora, l’a-
nello in mare. Dopo 40 giorni Salomone pescò
un grosso pesce, nel cui ventre trovò l’anello,
così si rappropriò del regno.

(nella prossima puntata psi parlerà dell’anello di Nibelunghi, degli Anelli di Tolkien, del-
l’Anello del Magnifico, l’Anello di Carter e l’Anello di Gengis Khan)
19                                                                LE LEZIONI CATTEDRATICHE

                                     Manrico Testi

 LA PIENA AFFERMAZIONE DEL TALENTO LETTERARIO FEMMINILE ITALIANO

Le scrittrici e poetesse che figurano nella storia della letteratura italiana sono un nume-
ro decisamente limitato, anche per lo stato di inferiorità in cui sono state tenute le
donne per secoli e anche per le loro limitate possibilità di accesso all’istruzione, come
giustamente rileva già un autore anonimo del Settecento in un articolo comparso sul
foglio periodico “Il Caffè” del secondo semestre del 1768 (secondo la ristampa pubbli-
cata di Sergio Romagnoli pubblicata nel 1960 a Milano dall’editore Feltrinelli), nel quale
egli afferma, tra l’altro: “Troppo negligentiamo l’educazione delle femmine nella loro fan-
ciullezza, e come se queste fossero d’una spezie diversa da quella degli uomini, le
abbandoniamo a sé medesime. (…) Questo sesso, dice Montaigne, ha un ingegno
pronto, e di primo risalto, ed un profondo filosofo gli attribuisce le grazie dell’immagina-
zione e del buon gusto. Or qualcosa non si deve alla grazia dell’immaginazione e del
buon gusto? Quella forma i poeti, gli oratori e gli eleganti scrittori”.
Dunque soltanto personalità di grande spicco hanno potuto distinguersi.pervenendo
alla ribalta letteraria. Pertanto nelle mie prime tre lezioni traccerò un necessario, brevis-
simo excursus letterario delle autrici femminili dalle origini alla fine dell’Ottocento, pas-
sando in esame soltanto le più note fra di loro. La mia attenzione sarà rivolta poi, in
modo più diffuso, particolareggiato e approfondito (e certamente assai più gradevole),
alle autrici del secolo scorso in cui si è registrata la piena affermazione del talento lette-
rario femminile italiano, con un appendice critico-antologica, com’è nel mio stile, anche
al primo ventennio del Duemila.
 Nel Duecento, agli albori della nostra letteratura si distinse una poetessa femminile
anonima di Firenze: la Compiuta Donzella, capace di scrivere sonetti come quello che
segue, secondo il testo pubblicato da Gianfranco Contini nel primo tomo dei Poeti del
Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli 1960:

   A la stagion che ’l mondo foglia e fiora
 acresce gioia a tutti i fin’amanti:
 vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti.

   La franca 1 gente tutta s’inamora
e di servir ciascun tragges’inanti,
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, m’abondan marrimenti e pianti.

  Ca lo mio padre m’ha messa ’n errore 2 ,
e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore 3 ,

  ed io di ciò non ho disio né voglia,
e ’n gran tormento vivo a tutte l’ore;
però non mi rallegra fior né foglia.
UNITRE VIAREGGIO VERSILIA APS                                                          20

Note: 1. Libera. 2. Perché mio padre m’ha posto in angoscia. 3. Mi vuol maritare con-
tro la mia volontà.

Il Trecento vide l’affermazione della grande personalità di Santa Caterina da Siena, che
incise profondamente, con il suo apostolato e le sue lettere infuocate ai re ai principi e
ai papi del suo tempo, sui costumi e sulla moralità politica, oltre, naturalmente, ad un
fervido, fortemente auspicato rinnovamento etico e religioso in un fraterno desiderio di
pace universale. Di particolare valenza poi furono i reiterati e appassionati inviti ai papi
avignonesi a liberare la Chiesa dalla corruzione e a riportare la sede papale a Roma,
come attestato dalle sue fervide missive, come quella che segue, un po’ ridotta, a Gre-
gorio XI, nella quale ritorna, insistente, come del reso in altre missive, compresa una
precedente al medesimo papa (“Voi dovete venire; venite dunque, venite dolcemente,
senza verun timore”), tale martellante invito.
(Le lettere di Caterina da Siena furono edite da Niccolò Tommaseo nel 1860 e poi
ristampate dal senese Pietro Misciatelli nel 1930).
     “Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.
Santissimo e carissimo e dolcissimo padre in Cristo dolce Gesù, io vostra indegna
figliuola Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso
sangue suo; con desiderio che ho desiderato di vedere in voi la plenitudine della divina
grazia; sì, e per siffatto modo che voi siate strumento e cagione, mediante la divina gra-
zia, di pacificare tutto l’universo mondo. E però vi chiedo, padre mio dolce, che voi, con
sollecitudine e affamato desiderio della pace e onore di Dio e salute dell’anime, usiate
lo strumento della potenzia e virtù vostra. E se voi mi diceste, padre: - il mondo è tanto
travagliato! in che modo verrò a pace? – dicovi da parte di Cristo crocifisso: tre cose
principali vi conviene adoperare con la potenzia vostra. Cioè, che nel giardino della
santa chiesa voi ne raggiate li fiori puzzolenti, pieni d’immondizia e di cupidità, enfiati di
superbia; cioè li mali pastori e rettori, che attossicano e imputridiscono questo giardino.
Oimè, governatore nostro, usate la vostra potenzia a divellere questi fiori. Gittateli di
fuori, che non abbino a governare. Vogliate ch’egli studino a governare loro medesimi
in santa e buona vita. Piantate in questo giardino fiori odoriferi, pastori e governatori
che siano veri servi di Gesù Cristo, che non attendano ad altro che all’onore di Dio e
alla salute dell’anime, e sieno padri de’ poveri. Oimè, che grande confusione è questa,
di vedere coloro che debbono essere specchio in povertà volontaria, umili agnelli, distri-
buire della sustanzia della santa chiesa a’ poveri, ed egli si veggono in tante delizie e
stati e pompe e vanità del mondo, più che se fusssero mille volte nel secolo! Anzi molti
secolari fanno vergogna a loro, vivendo in buona e santa vita. Ma pare che la somma e
eterna bontà faccia fare per forza quello che non è fatto per amore: pare che permetta
che gli stati e delizie sieno tolti alla sposa sua , quasi che mostrasse che volesse che la
chiesa santa tornasse al suo stato primo poverello, umile, mansueto, com’era in quello
tempo santo, quando non attendevamo all’altro che all’onore di Dio e alla salute dell’a-
nime, avendo cura alle cose spirituali, e non temporali. Ché, poi c’ha mirato più alle
cose temporali che alle spirituali, le cose sono andate di male in peggio. (…)
Ma pensate, padre dolce, che malagevolmente potreste fare questo, se voi non adem-
piste l’altre due cose che avanzano a compire l’altre: e questo si è dell’avvenimento
vostro, e drizzare il gonfalone della santissima croce. E che non vi manchi il santo desi-
derio per veruno scandalo né ribellione di città che voi vedeste o sentiste; e non tardare
però la venuta vostra. (…) Io vi dico, padre in Cristo Gesù, che voi veniate tosto come
21                                                                LE LEZIONI CATTEDRATICHE

agnello mansueto. Rispondete allo Spirito santo, che vi chiama. Io vi dico: venite, veni-
te, venite e non aspettate il tempo, che il tempo non aspetta voi”.

Nel Quattrocento, accanto alle solite autrici di stampo religioso, tra cui si distinsero
Ismeralda Calafato con la sua “Leggenda della beata Eustochia”; Santa Caterina da
Bologna con l’opera “Le sette armi spirituali”e la fiorentina Antonia Pulci autrice di cin-
que sacre rappresentazioni che risentono del gusto umanistico per il teatro popolare
caro alle corti, prima fra tutte quella dei Medici. Detto per inciso, questo genere però
cadde in disuso, sostituito dalle crescenti riproposizioni di testi teatrali classici, ma non
scomparve. Sulla scia prevalentemente dell’Orlando Furioso, della Gerusalemme Libe-
rata, e attingendo a piene mani al ciclo carolingio, esso è sopravvissuto fino ad oggi,
trasformando le tematiche religiose in quelle epiche e cavalleresche, specie in area
tosco-emiliana: mi riferisco ai cosiddetti “Maggi”, una forma di teatro popolare con
composizioni scritte appositamente, sempre in ottava rima, e poi cantate e rappresenta-
te da attori locali nei boschi in piena primavera e in estate.
Nel corso del secolo si segnalarono altre autrici umanistiche come Alessandra Macin-
ghi, sposa di Matteo Strozzi, fiero avversario dei Medici, che, dopo la morte del marito
in esilio a Pesaro, prese in mano le redini del banco familiare, guidando i figli con
amore e devota abnegazione per il loro solo bene, come testimoniato dalle sue amore-
voli e sagge lettere scritte in italiano e non in latino come prediligevano molti studiosi
umanisti.
UNITRE VIAREGGIO VERSILIA APS                                                          22

       L’IMMAGINE DI VIAREGGIO NELLE CARTOLINE “DIPINTE”

Viareggio, dopo aver sfidato nel corso di alcuni secoli una natura inizialmente ostile,
nell’Ottocento si affaccia, da protagonista, alla ribalta della storia. Nel 1819 viene rea-
lizzata la prima darsena sul canale Burlamacca, dalla quale prende avvio l’attività dei
cantieri navali e la storia e l’epopea della marineria velica viareggina. Nel 1828 Viareg-
gio, fra le prime città d’Italia, se non la prima in assoluto, decide la costruzione di due
stabilimenti per favorire la pratica dei bagni di mare, il Nereo per gli uomini ed il Dori per
le donne in ossequio alla morale del tempo che vietava il bagno promiscuo, e in poco
tempo si afferma come la capitale mondana del turismo estivo.
Bastano alcuni decenni per cambiare il destino e la fisionomia della città il cui rapido
sviluppo demografico ed urbanistico è caratterizzato e dipende sempre in modo mag-
giore dalla crescita dell’attività turistica e balneare.
Fra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento Viareggio è una realtà caratteriz-
zata da due mondi contrapposti che il canale Burlamacca, la linea d’acqua che dalla
cinquecentesca Torre Matilde scende in mare, unisce e divide: quello marinaro delle
darsene e dei cantieri, popolato da un’umanità modesta ed operosa che affronta con
orgoglio e stoica rassegnazione una vita di lavoro, fatica e dolore, e quello turistico,
degli stabilimenti balneari, delle rotonde a mare, dei grandi alberghi e dei caffè concer-
to, frequentato dalla nobiltà e dalla ricca borghesia di tutta Europa.
Una realtà complessa e contraddittoria che è rappresentata artisticamente dalle opere
di Lorenzo Viani e dì Moses Levy.
Viani ha dato forma e colore, con il suo linguaggio pittorico carico di veemenza e di
energia espressiva, agli ambienti del lavoro, conferendo dignità e lirismo al suo mondo
di antieroi, di derelitti e di “vageri”.
Levy ha “documentato” la solarità delle spiagge viareggine, la policromia dei suoi
ambienti, fissando sulle tele, con tocchi rapidi, immagini di frenetica e spensierata mon-
danità.
Ma non basta l’arte del “vendicatore” Lorenzo Viani, nè dell’”aristocratico” Moses Levy
per definire compiutamente Viareggio. La città si cela con orgoglio e con ieratico pudo-
re anche nelle opere di altri artisti: nelle immagini rarefatte e di lirica poesia di Mario
Marcucci, nel panorama grigio e ventoso di desolate marine invernali di Renato Santiní,
dove tempo e spazio perdono ogni riferimento contingente per assurgere a simboli uni-
versali del disagio esistenziale dell’uomo, nei variopinti e fantastici sogni marini dipinti
da Eugenio Pardini, nelle rappresentazioni della quotidianità di vita e di lavoro di Alfredo
Catarsini, Antonio D’Arliano, Giuseppe Murri, Oreste Paltrinierí, nelle trasparenze delle
architetture di luce di Giorgio Di Giorgio, nelle suggestioni cromatiche delle pinete di
Marco Dolfi, nei girasoli arsi dal salino spiaggiati su marine deserte di Vania Fornaciari
e di altri ancora. Tutti concorrono a definire le molteplici anime di Viareggio, di una
realtà unica e poliedrica al tempo stesso, che le diverse sensibilità e la poetica propria
di ciascun artista restituiscono filtrata ed interpretata. Una realtà che è visibile senza
poter mai essere impressionata su nessuna pellicola fotografica.
E proprio la fotografia, quella mole di immagini di Viareggio che ci hanno lasciato i vari
Alinari, Brogi, Numes Vais, ed in particolare quel sensibile pioniere che fu Giuseppe
Magrini, costituisce uno strumento unico e di estremo interesse per conoscere e com-
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