Trust versus fallimento: l'istituto alieno come mezzo di gestione privata dell'insolvenza - Studio Legale Tarolli

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NOTE E DOTTRINA

Trust versus fallimento: l'istituto alieno come mezzo di
gestione privata dell'insolvenza.
         Fonte: Giurisprudenza Commerciale, fasc.3, 2016, pag. 685
           Nota a: Tribunale Milano, 17 gennaio 2015, n.818, sez. I
                             Autori: Remo Tarolli
Sommario: 1. La Convenzione de L'Aja e le norme inderogabili di diritto interno. -
2. Il «test di insolvenza» e la causa concreta del trust. - 3. Il rebus dei rimedi:
nullità e inesistenza. - 4. Il perimetro delle norme in tema di «protezione dei
creditori in casi di insolvibilità». - 5. Conclusioni.
1. La Convenzione de L'Aja e le norme inderogabili di diritto interno. - La
decisione resa dal Tribunale di Milano in tema di conflitto fra trust liquidatorio e
fallimento si iscrive in un lungo filone giurisprudenziale, costellato di pronunce
non sempre dello stesso segno. Tali pronunce prendono le mosse dalla
previsione contenuta all'art. 15, comma 1º, della Convenzione de L'Aja del 1º
luglio 1985 relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento (1), a mente
della quale la Convenzione stessa «non ostacolerà l'applicazione delle
disposizioni di legge previste dalle regole di conflitto del foro» che abbiano
carattere inderogabile, in materia (anche) di «protezione dei creditori in casi di
insolvibilità». Da tale clausola normativa le Corti di merito hanno tratto spunto
per sostenere, in numerose occasioni, la radicale nullità dell'atto istitutivo di un
trust sul patrimonio di una società insolvente (o in procinto di ricadere in una
condizione di insolvenza), in quanto finalizzato ad eludere le norme imperative
che presiedono alla liquidazione concorsuale. E ciò pure a fronte del
riconoscimento della validità astratta tanto dell'istituto generale del trust quanto,
nello specifico, del c.d. trust interno, costituito cioè da un soggetto italiano a
beneficio di soggetti italiani e con attribuzione (ad un trustee parimenti italiano) di

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assets allocati in Italia, e privo quindi di elementi di internazionalità (ad
eccezione della legge regolatrice) (2).

La vexata quaestio riguarda pertanto la sopravvivenza (o meno) del trust alla
procedura fallimentare successivamente insediata, e più precisamente la
legittimità (o meno) di una gestione concorsuale della crisi alternativa a quella
dettata dalle norme che governano la suddetta procedura. La sentenza in
epigrafe, in proposito, si pone in netta continuità con una pronuncia resa dalla
S.C. di Cassazione solo pochi mesi prima (Cass., 9 maggio 2014, n. 10105 (3)),
e assurta ben presto al rango di leading case in materia di convivenza fra trust
liquidatorio ed insolvenza. In particolare il Tribunale di Milano, in una sommaria
riedizione dei concetti già espressi dal Giudice di Legittimità, scandisce nelle
proprie motivazioni due principi fondamentali:

(i) il c.d. trust liquidatorio, che implica la segregazione patrimoniale di tutto il
patrimonio sociale, «è in conflitto con gli interessi pubblici della procedura
concorsuale a tutela della par condicio creditorum, che non è surrogabile da
strumenti che non garantiscono tale parità, non escludono procedure individuali,
non prevedono trattative vigilate con i creditori al fine della soluzione concordata
della crisi, non contemplano alcun potere di amministrazione o controllo da parte
del ceto creditorio o di un organo pubblico neutrale». A tale conclusione deve
pervenirsi ogniqualvolta la «causa concreta» del trust risulti in ultima analisi
quella di inibire lo spossessamento degli assets aziendali in favore del curatore
fallimentare, non consentendo così di fatto ai creditori «la condivisione del
governo del patrimonio trasferito al trustee e soggetto all'insindacabile
amministrazione di costui (...)»;

(ii) in merito alle conseguenze che originano dal mancato riconoscimento del
trust liquidatorio anti-concorsuale, «detto strumento non produce alcun effetto
giuridico nel nostro ordinamento, in particolare non quello di creare un
patrimonio separato, restando tamquam non esset. Non si tratta di un atto nullo
perché la sanzione della nullità presuppone che l'atto sia stato riconosciuto dal
nostro ordinamento: il conflitto con la disciplina inderogabile concorsuale
determina l'inesistenza giuridica del trust nel diritto interno e la sua assoluta
inefficacia».

Volendo semplificare al massimo, i cardini su cui poggia la ratio decidendi della

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sentenza in commento sono modellati sul concetto di «insolvenza», attorno a cui
ruota il complesso delle disposizioni inderogabili in tema di concorsualità, di
spossessamento dei beni e di parità di condizioni tra creditori, e sul tema della
non «riconoscibilità» - nella sua corretta declinazione - del trust liquidatorio in
presenza di un vizio della sua causa concreta. Poiché tali temi hanno costituito in
questi anni il banco di prova su cui si è esercitata la giurisprudenza teorica e
pratica in materia di convivenza tra procedure concorsuali e trust appare utile
soffermarsi brevemente sulle opinioni che sono state nel tempo affacciate e sullo
«stato dell'arte» a cui gli interpreti sono di recente approdati (non senza
importanti distinguo).

2. Il «test di insolvenza» e la causa concreta del trust. - Un primo discrimine
valorizzato dagli interpreti è costituito dall'esistenza o meno, al momento della
costituzione del trust liquidatorio, di una condizione di insolvenza rilevante ai fini
dell'operare delle disposizioni in materia di concorsualità (4). In linea di principio,
infatti, un'impresa in bonis potrebbe legittimamente incidere sulla destinazione
del patrimonio aziendale attraverso la costituzione di un trust, anche al fine di
promuovere una liquidazione non contenziosa dei propri assets sottraendo i
medesimi agli «appetiti» dei cd. creditori free riders(5). Così, (quantomeno) in
linea teorica, il trust liquidatorio avente ad oggetto il patrimonio di un'impresa in
bonis sarebbe pienamente legittimo, in quanto diretto a conseguire l'interesse
della massa dei creditori ad una regolazione non conflittuale dei rapporti
pendenti e ad inibire le manovre dei creditori opportunisti, a beneficio della
conservazione del valore degli assets sociali (6). Diversamente, il trust avente ad
oggetto il patrimonio aziendale di un'impresa già decotta sarebbe illecito ab
origine(7), poiché all'imprenditore sarebbero preclusi atti dispositivi dei beni
sociali; con la conseguenza che lo spossessamento di tali beni in favore del
trustee, pur formalmente diretto a tutelare i creditori attraverso una liquidazione
armonica degli attivi, non sopravvivrebbe all'applicazione della clausola di
salvaguardia contenuta all'art. 15, comma 1º, lett. e), della Convenzione de
L'Aja. Secondo la logica ricavabile da tale postulato, dall'esistenza di uno stato di
insolvenza deriverebbe sempre la necessità di affidare agli organi della
procedura fallimentare ogni attività dismissiva dei beni aziendali, sicché ogni atto
preordinato ad una gestione privata del patrimonio sarebbe comunque elusiva
delle norme poste a presidio della liquidazione concorsuale. Una valutazione di
legittimità orientata (solo) da tale «test di insolvenza» ha peraltro incontrato la
critica di autorevoli interpreti, che hanno sottolineato l'inadeguatezza di tale

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parametro di giudizio ai fini della meritevolezza del trust(8). Il concetto stesso di
insolvenza sarebbe infatti quanto mai evanescente in funzione di siffatto giudizio,
posto che lo stesso discrimine tra crisi «reversibile» e «irreversibile» non
sarebbe facilmente diagnosticabile al momento della costituzione del trust. La
crisi può infatti essere astrattamente sanabile sulla base di variabili che spesso
sfuggono alla capacità di controllo ex ante dell'imprenditore: basti pensare alla
rilevanza che possono avere per le sorti della società le dinamiche che si legano
all'incasso di crediti «incagliati», dei quali sia difficile prevedere i tempi e la
misura del realizzo. Il test di insolvenza si tradurrebbe così in un giudizio ad alto
tasso di discrezionalità legato ad una prognosi successiva sulla reversibilità della
crisi, e costituirebbe pertanto un parametro inadeguato ad orientare l'interprete in
merito alla legittimità (o meno) del trust. Secondo gli approdi di una qualificata
dottrina (9), in questo modo, il criterio fondato sulla esistenza di uno stato di
insolvenza all'atto della costituzione del trust sarebbe destinato a restare sullo
sfondo per fare posto ad una più approfondita valutazione della «causa
concreta» (10): nello specifico, il giudice dovrebbe indagare se il regolamento di
interessi da cui trae origine il trust sia finalizzato a precostituire un valido
strumento di rimozione della crisi (qualunque sia l'entità della medesima) o se lo
stesso si ponga in antitesi con le disposizioni inderogabili a tutela dei creditori
sociali, essendo inteso a disapplicare il sistema liquidatorio definito dalla
procedura fallimentare con ogni suo corollario. In questo scenario, la causa
concreta sarebbe per così dire «nobilitata» dalla previsione all'interno dell'atto
istitutivo di una clausola che preveda la restituzione agli organi della procedura
dei beni conferiti in trust(11). Altrimenti detto, la previsione di una clausola di
«richiamo» preserverebbe la validità del trust, altrimenti viziato nella sua stessa
causa (e quindi nullo) in ipotesi di sopravvenuto fallimento: la carenza di tale
clausola determinerebbe una nullità sopravvenuta solo eventuale, incidendo -
unicamente in ipotesi di successivo fallimento - non tanto sul «negozio» (ab
origine valido) quanto sul «rapporto», che sarebbe sacrificato alla liquidazione
concorsuale per effetto della clausola di salvaguardia contenuta nella
Convenzione de L'Aja (12).

3. Il rebus dei rimedi: nullità e inesistenza. - Sino a tempi recenti, la
giurisprudenza si è in larga prevalenza orientata a sanzionare il contrasto fra il
trust liquidatorio e le norme imperative concorsuali, «presidiate» dall'art. 15, lett.
e), della Convenzione de L'Aja, attraverso il rimedio della nullità, ai sensi dell'art.
1418 c.c. In particolare, secondo i più saldi approdi della giurisprudenza di merito

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e di una qualificata dottrina (13), ogniqualvolta la causa concreta del trust sia
quella di sottrarre indebitamente agli organi della procedura pubblicistica i beni
del fallito, segregando i medesimi a dispetto delle norme concorsuali, lo stesso
trust dovrebbe essere dichiarato nullo in ragione del contrasto con le disposizioni
imperative dell'ordinamento nazionale. A tale indirizzo è stato tuttavia
validamente opposto che a mente della stessa Convenzione de L'Aja, solo la
legge regolatrice del trust può disciplinare, tra gli altri, la «validità» del trust
medesimo (14); sicché è parso singolare invocare per un verso la norma di
salvaguardia dettata dalla Convenzione in tema di «protezione dei creditori in
casi di insolvibilità», e per altro verso ignorare la norma di conflitto di quella
stessa Convenzione in materia di validità del trust. Un diverso indirizzo, rimasto
peraltro isolato nel panorama delle corti di merito, ha così prospettato un
accertamento giudiziale non in termini di «validità» ma piuttosto di «efficacia»
dell'atto istitutivo del trust liquidatorio (15). E poiché un giudizio di (in)efficacia in
diritto italiano postula sempre l'attivazione degli strumenti di garanzia
patrimoniale dei creditori, si è concluso che l'unico rimedio coerente con le
previsioni della Convenzione de L'Aja potesse essere la revocatoria del trust, in
sede fallimentare ovvero ordinaria. Secondo tale impostazione, la portata
precettiva dell'art. 15, lett. e), della Convenzione de L'Aja dovrebbe quindi pur
sempre essere mediata dal concreto accertamento delle condizioni per la revoca
(la cd. scientia decoctionis in ipotesi di revocatoria fallimentare; la conoscenza
del pregiudizio ovvero la dolosa preordinazione nei confronti dello specifico
creditore in ipotesi di revocatoria ordinaria); revoca che colpirebbe non tanto
l'atto istitutivo di trust - che non produce effetti dispositivi, essendo un semplice
«veicolo» - quanto il concreto atto di segregazione nel patrimonio del disponente
(16). Ne seguirebbe così la perfetta omogeneità di trattamento - ai fini della
sanzione dell'ordinamento - fra il trust liquidatorio e qualsiasi altro atto finalizzato
a segregare o distrarre i beni destinati a soddisfare i creditori: con la
conseguenza ultima - può aggiungersi - di privare la norma di salvaguardia della
Convenzione de L'Aja di una qualche utilità pratica, potendosi pacificamente
ritenere attivabili i consueti rimedi per la conservazione della garanzia
patrimoniale in favore dei creditori anche in assenza della specifica previsione
dettata dall'art. 15.

Da ultimo, è intervenuta sul tema dei rimedi esperibili la Suprema Corte di
Cassazione con la già citata sentenza del 9 maggio 2014, n. 10105, a cui si è in
breve tempo conformato il Tribunale di Milano con la sentenza qui annotata.

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Come si legge nella motivazione resa dalla Cassazione, «La sanzione della
nullità (ex artt. 1343, 1344, 1345, 1418 c.c.) presuppone che l'atto sia stato
riconosciuto dal nostro ordinamento; il conflitto con la disciplina inderogabile
concorsuale determina invece la stessa inesistenza giuridica del trust nel diritto
interno. [...] L'inefficacia non è esclusa né dal fine dichiarato di provvedere alla
liquidazione armonica della società nell'esclusivo interesse del ceto creditorio
[...], né dalla clausola che, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta,
preveda la consegna dei beni al curatore». La Cassazione, attraverso un
opportuno cambio di prospettiva, ha quindi ritenuto di non valutare l'efficacia o
meno del trust sul piano della patologia negoziale ma su di un piano logicamente
e giuridicamente antecedente, quello cioè della riconoscibilità del trust stesso
nell'ordinamento nazionale (17). La valutazione di inesistenza giuridica sta quindi
a qualificare un negozio che non può godere di alcuna cittadinanza
nell'ordinamento nazionale, e che non è quindi nemmeno astrattamente
produttivo di effetti in quell'ordinamento. In questo modo, la Corte supera «di
slancio» ogni obiezione rivolta alla teoria della nullità, comminabile dalla sola
legge regolatrice del trust per espressa previsione della Convenzione de L'Aja. Il
giudizio di inesistenza viene infatti formulato non mediante applicazione della
disciplina di diritto civile in materia di (in)validità del negozio (applicazione la
quale postula che il trust sia riconosciuto dal diritto nazionale), ma attraverso una
valutazione preliminare di incompatibilità di quell'atto con il nostro ordinamento.
Con una soluzione ineccepibile in punto di diritto, pertanto, la Corte ha ritenuto
che a mente dell'art. 15 della Convenzione de L'Aja non sia riconoscibile il trust
che possa costituire ostacolo all'applicazione delle disposizioni inderogabili
dell'ordinamento interno in materia di «protezione dei creditori in caso di
insolvibilità». Il vero tema, allora, è capire quali siano in diritto italiano le
disposizioni imperative che governano la (vasta) materia dell'insolvenza, al fine
di delimitare correttamente il perimetro entro il quale la norma di salvaguardia
della Convenzione può spiegare i propri effetti. Attesa dunque la valenza astratta
della soluzione adottata dalla Cassazione sulla non riconoscibilità - e quindi sulla
inesistenza - del trust ripugnante per l'ordinamento nazionale, è necessario
interrogarsi su quali siano i principi invalicabili del nostro diritto interno che
costituiscono in concreto il fondamento su cui il giudice è chiamato ad operare la
propria valutazione.

4. Il perimetro delle norme in tema di «protezione dei creditori in casi di
insolvibilità». - Come si evince dall'autorevole precedente (più volte citato) del

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Giudice di Legittimità cui la sentenza recensita si ispira, la norma di salvaguardia
dettata dalla Convenzione de L'Aja trova applicazione in presenza di un trust
istituito dall'impresa poi fallita, «ove l'insolvenza preesistesse all'atto istitutivo»;
né all'irriconoscibilità di tale trust può ovviarsi con l'apposizione della «clausola
che, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, preveda la consegna dei
beni al curatore». La precisazione non è di poco conto, e segna una netta
discontinuità con l'indirizzo di quanti hanno teorizzato in passato la possibilità di
sanzionare con il rimedio della nullità o dello scioglimento anticipato (ricavato in
via analogica dalle norme di diritto fallimentare in materia di rapporti pendenti
(18)) un trust originariamente valido - perché costituito dal debitore in bonis - in
caso di fallimento sopravvenuto (19). Da tale principio si può poi ricavare un
ulteriore corollario: se la norma di salvaguardia opera con riguardo alle sole
imprese che siano già in una condizione di insolvenza al momento della
costituzione del trust, sarà del tutto irrilevante la presenza nell'atto istitutivo del
medesimo di una clausola «di richiamo», che assicuri al curatore del successivo
fallimento la restituzione dei beni. Se infatti tali beni sono stati conferiti in trust
quando l'impresa era già insolvente, il negozio istitutivo sarà inesistente in ogni
sua parte e la clausola di richiamo non potrà produrre alcun effetto; qualora
invece il conferimento dei beni nel trust sia stato operato da un imprenditore in
bonis, il successivo fallimento non potrà invalidarne il vincolo di destinazione, o
almeno non in forza della norma di salvaguardia contenuta nella Convenzione de
L'Aja. Tale vincolo di destinazione potrà semmai essere neutralizzato dai
creditori azionando gli ordinari mezzi di conservazione della garanzia
patrimoniale, in particolare domandando la revoca dell'atto (se) compiuto in
pregiudizio alle proprie ragioni ai sensi dell'art. 2901 c.c.

Alla valutazione in merito all'esistenza di uno stato di insolvenza anteriore al trust
la sentenza annotata accompagna l'enunciazione della contrarietà della causa
concreta di tale trust alla disciplina dell'insolvenza. Si legge in proposito nella
motivazione che «pur prevedendo formalmente il trust in oggetto la finalità di
realizzare la par condicio creditorum e pur indicando la massa dei creditori come
primo soggetto beneficiario», «la soluzione negoziale adottata dalla società
disponente è elusiva del procedimento concorsuale e degli interessi più generali
alla cui soddisfazione esso è preposto». In verità, scorrendo i passaggi della
sentenza in commento si ricava un vero e proprio postulato: se un trust
liquidatorio viene costituito dall'imprenditore che si trovi già in uno stato di
insolvenza la causa concreta del negozio non può che essere, secondo il

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Tribunale di Milano, immeritevole di tutela. Altrimenti detto, per il giudice
meneghino la condizione di insolvenza in cui l'imprenditore si trova (e della quale
non può che avere conoscenza diretta) non può che porsi essa stessa come
«causa» che muove il medesimo imprenditore a conseguire attraverso il trust
l'«effetto» non ammissibile dall'ordinamento nazionale, quello cioè di
disapplicare il sistema di regole che governano la procedura fallimentare.

Se queste sono le motivazioni che presiedono alla decisione in commento a me
sembra, molto sommessamente, che la soluzione trovata sia frutto di un
semplicismo, che non coglie a fondo le dinamiche dei rapporti giuridici che
interessano l'imprenditore in stato di insolvenza o di pre-insolvenza. La causa
concreta diventa così una sorta di «totem» che ha il solo scopo di garantire
un'apparenza di legittimazione alla scelta di non riconoscere il trust in favore
della liquidazione concorsuale dei beni. Per enucleare il problema alla sua radice
credo sia opportuno partire proprio dalla nozione di causa concreta, che la
Cassazione sin da principio ha definito come «sintesi (e dunque ragione
concreta) della dinamica contrattuale [...] e non anche della volontà delle parti»
(20). Secondo il Giudice di Legittimità la causa concreta identifica quindi il
condensato degli interessi pratici del negozio, considerati però nella loro
obiettività: essa rimane distinta dai «motivi» individuali (i.e.: dal giudizio
soggettivo di convenienza), che si distinguono invece per la rilevanza
dell'elemento volitivo (21). Il Tribunale di Milano, nella sentenza in commento,
censura la causa concreta del trust che sia inteso a «segregare tutti i beni
dell'impresa, sottraendo al curatore la disponibilità dell'attivo societario»; un
tanto, seguita la sentenza, «è incompatibile con le norme di ordine pubblico in
materia di procedure concorsuali, sicché non può procedersi al suo
riconoscimento». Dall'esegesi del passaggio appena richiamato può ricavarsi il
seguente percorso logico:

- il trust ha come effetto immediato quello di produrre una segregazione dei beni
che fanno capo all'impresa;

- se al momento della costituzione del trust l'impresa è insolvente, lo sbocco
obbligato è costituito da un procedimento concorsuale a carico di quella stessa
impresa: come recita la sentenza della S.C. di Cassazione più volte richiamata,
la procedura concorsuale è naturalmente «destinata a sopravvenire nel caso di
insolvenza» e «non è surrogabile» in alcun modo da strumenti alternativi;

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- «la disciplina dell'insolvenza» - e cioè la disciplina del fallimento con ogni suo
corollario - «si pone di ostacolo al riconoscimento del trust»; essa infatti non
prevede lo spossessamento in favore di un organo pubblico neutrale (il
curatore), che sovrintenda alla procedura a tutela della par condicio creditorum.

Stando così le cose, credo che il punctum dolens del percorso logico sviluppato
dal Tribunale di Milano (e prima ancora dal Giudice di Legittimità) stia proprio in
una ricostruzione della causa del trust tutta centrata sulla elusione della
disciplina inderogabile dell'insolvenza, senza che sia toccato il tema
fondamentale: ovvero, quale debba essere il perimetro delle norme nazionali in
tema di «protezione dei creditori in casi di insolvibilità» alle quali «non si possa
derogare [...] mediante una manifestazione di volontà» (e che definiremmo
pertanto «imperative»). Un tanto perché, come mi appare ovvio, solo la
violazione di norme siffatte può consentire, attraverso un corretto operare della
clausola di salvaguardia contemplata dalla Convenzione de L'Aja, di negare
cittadinanza nell'ordinamento domestico ad un negozio che diversamente quello
stesso ordinamento è tenuto a riconoscere. Ebbene, io non credo che si possa
parlare della «disciplina dell'insolvenza» come di un corpus di norme sempre e
comunque inderogabili, come sottintende invece la sentenza annotata. Più
precisamente, mi sembra che vi sia una tendenza diffusa a sovrapporre e
confondere la disciplina generale dell'insolvenza con quella del fallimento (inteso
come procedura), che si trova in rapporto di species a genus con la prima. È
pacifico a questo riguardo che la disciplina dell'insolvenza non tende sempre, e
in modo cogente, al risultato pratico del fallimento. Manca, in primo luogo, uno
specifico dovere per l'imprenditore insolvente di richiedere il proprio fallimento,
diversamente da quanto prescritto in passato dal codice di commercio del 1882
(che sanzionava il debitore il quale, entro tre giorni dalla cessazione dei
pagamenti, non avesse effettuato il deposito di una specifica auto-dichiarazione
alla cancelleria del tribunale) (22); sicché, mentre un tempo la disciplina
dell'insolvenza poteva dirsi in qualche modo «doverosamente» orientata al
fallimento - implicando un vero e proprio obbligo non derogabile a carico del
debitore - e la procedura concorsuale costituiva il passaggio ineludibile per la
regolazione dell'insolvenza stessa, oggi l'istanza di fallimento è una facoltà
riconosciuta all'imprenditore insolvente e nulla di più (23). In secondo luogo,
l'attuale assetto normativo disegnato dalla legge fallimentare contempla, a
differenza del passato, mezzi alternativi di regolazione dell'insolvenza. Così,

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mentre il codice di commercio non consegnava al debitore alcuna possibilità
diversa dal fallimento per regolare lo stato di insolvenza (la c.d. «moratoria»,
antesignana dell'odierno concordato, era intesa a far fronte a crisi «reversibili»
(24)), l'attuale gamma di soluzioni annovera il concordato preventivo come
strumento impiegabile dall'imprenditore insolvente (oltre che da quello che si
trovi in una condizione di crisi meno acuta) (25). Non solo. Per molti interpreti lo
stato di insolvenza può essere superato anche fuori dall'ambito delle procedure
concorsuali intese in senso stretto, mediante ricorso all'accordo di
ristrutturazione dei debiti regolato agli artt. 182-bis ss. l. fall. (26). Sicché
nell'attuale (e assai mutevole) corpo normativo del diritto dell'insolvenza lo stato
più acuto della crisi dell'imprenditore si regola non necessariamente con l'amara
medicina della liquidazione fallimentare; esso può trovare soluzione mediante
strumenti alternativi, non necessariamente orientati alla liquidazione e finanche
potenzialmente non soggetti alle regole del concorso che sovrintendono alle
«procedure» tradizionalmente considerate. Credo pertanto che sia limitante la
valutazione operata dalla Cassazione (con la più volte menzionata sentenza n.
10105/14) in merito alla necessità che una procedura concorsuale sia sempre e
immancabilmente «destinata a sopravvenire nel caso di insolvenza a tutela della
par condicio creditorum», non residuando alcuno spazio per «strumenti di diritto
privato che prescindano dall'amministrazione o dal controllo di un organo
pubblico». L'attuale morfologia degli strumenti di regolazione della crisi delineata
dalle riforme degli ultimi dieci anni consente di escludere che la procedura
concorsuale, e segnatamente quella fallimentare, sia lo sbocco inevitabile
dell'insolvenza in forza di una regola tassativa. Un corpo di norme imperative, al
contrario, è quello che regola (non l'insolvenza in sé presa, ma) la procedura
fallimentare; con la conseguenza che se tale procedura sia stata incardinata su
iniziativa dei creditori o dello stesso debitore, la stessa non potrà che essere
governata dalle disposizioni (queste certamente non derogabili) che sanciscono
lo spossessamento in favore degli organi designati (curatore e giudice delegato)
per favorire il controllo super partes sulla liquidazione dei beni del debitore. Tra
tali disposizioni spicca certamente quella in materia di par condicio creditorum,
costantemente richiamata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità come
archetipo di regola imperativa del diritto dell'insolvenza, in quanto tale non
sacrificabile mediante impiego di strumenti diversi dalla procedura pubblicistica e
giurisdizionale. Anche in questo caso, tuttavia, temo che sia presente il rischio di
una indebita sovrapposizione tra i principi generali che disciplinano la
responsabilità patrimoniale del debitore (e segnatamente la necessità del

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trattamento paritario dei creditori, ai sensi dell'art. 2741 c.c.) e le disposizioni
particolari che governano la procedura fallimentare e, nello specifico, la
necessità del concorso fra creditori (art. 52 l. fall.). Come è stato
condivisibilmente osservato, infatti, «la par condicio creditorum costituisce un
principio dispositivo, che non vincola le parti private. Essa stabilisce un equilibrio
tra gli interessati, ma ammette che ciascuno di essi possa rinunciare, totalmente
o parzialmente, alla posizione giuridica che essa, magari solo pro quota, gli
garantisce» (27).

Sulla scorta delle considerazioni appena formulate è possibile, a mio avviso,
operare una ricostruzione della causa del trust liquidatorio che non sia inquinata
da una aprioristica regola di equivalenza tra insolvenza e procedura fallimentare.
In particolare, è certamente vero che il trust non rappresenta di per sé uno
strumento di regolazione dell'insolvenza; ma è altrettanto vero che la causa
concreta del medesimo può essere - per così dire - «piegata» alla realizzazione
di un siffatto obiettivo, quando esso sia funzionale ad una forma alternativa di
liquidazione in favore dei creditori. L'eventualità di un trust «anticoncorsuale» - e
cioè deliberatamente elusivo del fallimento e del conseguente spossessamento
in favore di organi pubblici - potrebbe invece presentarsi solo immaginando di
poter valorizzare sotto il profilo della causa concreta i fattori soggettivi che hanno
orientato il debitore insolvente. A tal proposito mi sembra peraltro evidente come
in questo modo l'attenzione si sposti sulle pulsioni personali del debitore, che
dovrebbero pur sempre restare estranee alla dimensione funzionale dell'atto
(seppure in un'ottica di «funzione individuale» dell'atto stesso). Se è indubbio
che la causa concreta sottesa al trust possa essere - al di là del modello astratto
(che lo riduce a semplice mezzo di segregazione patrimoniale) - quella di
fronteggiare con strumenti di diritto privato una situazione di crisi d'impresa,
appare piuttosto da iscriversi nell'orbita dei fini soggettivi e personali la volontà,
sottolineata nella sentenza annotata, di eludere le regole che governano la
procedura fallimentare in favore dei creditori. Tali fini soggettivi e personali - che
segnano in ultima analisi la differenza fra trust endoconcorsuale e
anticoncorsuale - sono piuttosto riferibili ai «motivi» che abbiano mosso il
debitore ad impiegare tale strumento (28). A me sembra pertanto che la
differenza fra trust endoconcorsuale e anticoncorsuale nulla abbia a che spartire
con la causa del trust, essendo essa piuttosto riferibile all'eventuale riserva
mentale del debitore. Più precisamente, tale differenza si lega all'eventuale
motivo illecito che abbia originato il trust, eludendo le norme imperative poste a

                                  Pagina 11 di 18
presidio della procedura fallimentare. In questo senso, il giudice investito della
decisione dovrebbe accertare la natura anticoncorsuale del trust, motivandola
con il fatto che il debitore si fosse già prefigurato l'impossibilità (o la mancanza di
volontà) di regolare il proprio stato di insolvenza con mezzi alternativi al
fallimento, quali il concordato preventivo o l'accordo di ristrutturazione dei debiti.
Se così è, la sentenza annotata si rivela del tutto carente sul punto, limitandosi a
registrare un'astratta incompatibilità del trust con «la disciplina dell'insolvenza» e
omettendo qualsiasi indagine «sul campo» in merito al profilo soggettivo del
negozio.

5. Conclusioni. - La sentenza esaminata si rivela, in punto di rimedi
astrattamente esperibili contro un trust che violi le disposizioni nazionali in
materia di «protezione dei creditori in casi di insolvibilità», del tutto ineccepibile e
coerente con i principi espressi dall'autorevole precedente reso dal Giudice di
Legittimità. Sotto il profilo sostanziale, nondimeno, mi sembra che vi sia la
tendenza diffusa a trascendere il fine cui è rivolta la norma di salvaguardia della
Convenzione de L'Aja (quello di non pregiudicare l'applicazione delle norme
imperative nazionali), per sanzionare più in generale le condotte che appaiano
caratterizzate da propositi «poco commendevoli» (29). Il mezzo con il quale si
persegue tale obiettivo è costituito dalla valorizzazione della causa concreta del
negozio, che finisce in tal modo per «esondare» dalla dimensione funzionale
dell'atto per abbracciare i motivi che hanno mosso volta per volta il debitore.
Motivi, questi ultimi, il cui apprezzamento non dovrebbe tuttavia prescindere da
un'indagine sul campo (con tutte le annesse difficoltà), che in molte delle
pronunce in materia di trust liquidatorio - compresa la sentenza qui annotata -
non è nemmeno abbozzata. Se così è, credo sia lecito riconoscere come,
nell'attuale assetto normativo nazionale che governa la materia dell'insolvenza (e
che vede un progressivo arretramento delle norme imperative di fonte
pubblicistica), gli spazi per l'operare concreto della norma di salvaguardia dettata
dalla Convenzione de L'Aja vadano in qualche modo restringendosi, chiamando
l'interprete ad una lettura più attenta del fenomeno giuridico, che non ceda alla
tentazione di facili scorciatoie.

Note:
(1) La Convenzione è stata resa esecutiva in Italia con l. 16 ottobre 1989, n. 364,
entrata in vigore il 1º gennaio 1992.

                                   Pagina 12 di 18
(2) Cfr. su tutte Cass., 19 novembre 2012, n. 20254, in www.il-trust-in-italia.it.
Per la dottrina v. almeno Lupoi, Lettera ad un notaio curioso di trust, in Riv. not.,
1998, 343 ss.; Id., Lettera ad un notaio conoscitore dei trust, ivi, 2001, 1159 ss.;
Gambaro, Notarella in tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai
sensi della XV Convenzione de L'Aja, in Riv. dir. civ., 2001, II, 257 ss.; Id., Un
argomento a due gobbe in tema di trascrizione del trustee in base alla XV
Convenzione de L'Aja, ivi, 2002, II, 919 ss.
(3) La suddetta pronuncia è stata oggetto di note e commenti di più Autori. V. Di
Landro, La destinazione patrimoniale nella gestione della crisi d'impresa: il Trust
liquidatorio approda in Cassazione, in www.dirittocivilecontemporaneo.com; Di
Maio, Riconoscimento e disconoscimento del trust interno liquidatorio nel
fallimento, in Dir. fall., 2014, II, 606 ss.; Fanticini,L'ingloriosa fine del trust
liquidatorio istituito dall'imprenditore insolvente: tamquam non esset!, in Trusts,
2014, 585 ss.; Fimmanò, La Cassazione «ripudia» il trust concorsuale, in
Fallimento, 2014, 1156 ss.; Pellegrino, La Cassazione si pronuncia sulla sorte
del trust liquidatorio di impresa insolvente nel successivo fallimento, in N. giur.
civ., 2014, 1024 ss.; Tonelli, Certezze ed incertezze del diritto. Nota a Cass. n.
10105 del 9 maggio 2014 e Trib. Belluno 16 gennaio 2014, in www.ilcaso.it,
2014; Bartoli, Trust liquidatorio «anti-concorsuale» istituito da società insolvente
ed altre questioni in tema di trust interno - il commento, in Notariato, 2015, 79
ss.; Cerri, Lo stato di insolvenza impedisce la riconoscibilità del trust liquidatorio:
la Suprema Corte delinea i contorni della soluzione negoziale della crisi
d'impresa, in Dir. fall., 2015, II, 50 ss.; La Porta, Sulla riconoscibilità del trust
liquidatorio, in Corr. giur., 2015, 192 ss.
(4) Sulla nozione di insolvenza, cfr. inter alia Cass., Sez. un., 11 febbraio 2003,
n. 1997, in Impresa, 2003, 691; Cass., 1 dicembre 2005, n. 26217, in Mass. Giur.
it., 2005; Cass., 28 gennaio 2008, n. 1760, in Leggi d'Italia, 2010; Cass., 5
dicembre 2011, n. 25961, in CED Cassazione, 2011; Cass., 7 giugno 2012, n.
9253, in Leggi d'Italia, 2014; Cass., 27 marzo 2014, n. 7252, in CED
Cassazione, 2014; Cass., 7 aprile 2015, n. 6914, in Leggi d'Italia, 2015; Cass.,
16 settembre 2015, n. 18192, in Fisco, 2015, 3596. La nozione di «crisi», che è
generalmente ricondotta al rischio possibile o attuale di insolvenza, non trova
invece alcun supporto esplicativo da parte del legislatore ed è stata così oggetto
di una grande varietà di interpretazioni, di cui dà conto Fauceglia, La
dichiarazione e gli effetti del fallimento, in Trattato di diritto delle procedure
concorsuali, Apice (diretto da), Torino, Giappichelli, 2010, 49, che ne sottolinea
«la differenza (qualitativa e quantitativa) rispetto allo stato di insolvenza, che

                                   Pagina 13 di 18
indica la situazione in cui l'imprenditore non è più in grado di far fronte
«regolarmente» alle proprie obbligazioni».
(5) Sono così definiti i creditori che siano mossi dal solo obiettivo di conseguire
la massimizzazione della propria utilità (spesso) attraverso la realizzazione per
via contenziosa del proprio credito, anche a scapito di una liquidazione ordinata
del patrimonio sociale a vantaggio di tutti i creditori. In tema, con specifico
riguardo ai problemi generati dai free riders nell'ambito della negoziazione degli
accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. sia consentito rinviare a
Tarolli, I contratti per la ristrutturazione dei debiti, in questa Rivista, 2014, I, 789
ss. Per un approfondimento in chiave di analisi economica del diritto cfr. White,
Economic analysis of corporate and personal bankruptcy law, San Diego, NBER
working paper 11536, 2005.
(6) In questo senso Trib. Milano, sez. dist. Legnano, 8 gennaio 2009, in Trusts,
2009, 634.
(7) In tal senso Trib. Milano, 16 giugno 2009, in Trusts, 2009, 533; Trib. Milano,
17 luglio 2009, in www.ilcaso.it, 2009; Trib. Milano, 30 luglio 2009, in Trusts,
2010, 80; Trib. Milano, 22 ottobre 2009, in Notariato, 2010, 13; Trib. Mantova, 18
aprile 2009, in Trusts, 2011, 529; Trib. Milano, 29 ottobre 2010, in Notariato,
2011, 10; Trib. Bolzano, 8 aprile 2013, in Trusts, 2014, 49; Trib. Napoli, 3 marzo
2014, in www.ilcaso.it, 2014.
(8) Cfr. Raganella - Regni, Il trust liquidatorio nella disciplina concorsuale, in
Trusts, 2009, 598; Pirruccio, La segregazione dell'intero patrimonio aziendale nel
trust non consente il normale svolgimento della procedura concorsuale in danno
alla massa dei creditori, in Giur. mer., 2010, 1593 ss.; Basso, Trust liquidatorio e
fallimento della disponente: una possibile forma di collaborazione, in Aa.Vv.,
Collana Quaderni di trust, Moderni sviluppi dei trust, Milano, Ipsoa, 2011, 297;
Galletti, Trust liquidatorio e (in)derogabilità del diritto concorsuale, ivi, 555;
Cavallini, Trust e procedure concorsuali, in Riv. soc., 2011, 1101.
(9) V. nota precedente. Per un'indagine ricostruttiva cfr. Busani-Fanara-
Mannella, Trust e crisi d'impresa, Milano, Ipsoa, 2013, 74 ss. e, in particolare, 92
s.
(10) Sul concetto di causa concreta v. Cass. 21 luglio 2004, n. 13580, in Contr.,
2004, 1011, con nota di Calice; Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, in Corr. giur.,
2006, 1718.
(11) Trib. Mantova, 18 aprile 2011, in Riv. dir. int. priv. proc., 2012, 176; v. anche
Trib. Milano, 29 ottobre 2010, cit., secondo cui «Un trust liquidatorio, per
armonizzarsi con la disciplina della convenzione de L'Aja, art. 15, lett. e), deve

                                    Pagina 14 di 18
prevedere che in caso di fallimento i beni siano restituiti al curatore; in
mancanza, le disposizioni sulla gestione del fondo sono contrarie a norme
imperative», con conseguente illiceità dell'intero negozio, «sebbene il profilo di
contrarietà attenga soltanto alla gestione del patrimonio nel caso di fallimento e
alla mancata previsione della riconsegna dei beni al curatore, quando questo è
stato il vero ed unico motivo per cui le parti si determinarono a stipulare il trust».
(12) A simili approdi altra parte della giurisprudenza è pervenuta sostenendo che
il trust istituito da un imprenditore in bonis deve ritenersi valido e meritevole di
tutela, ma che il medesimo è destinato ad essere sciolto nell'eventualità di una
successiva dichiarazione di fallimento, in analogia con quanto previsto dalla
disciplina cogente in materia di rapporti pendenti ex artt. 72 ss. l. fall. (Trib.
Milano, 16 giugno 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 17 luglio 2009, (nt. 7); Trib.
Cremona, 8 ottobre 2013, in Fallimento, 2013, 12, 1500). Contra Trib. Reggio
Emilia, 2 maggio 2012, in www.ilcaso.it, 2012, e in dottrina Dimundo, «Trust
interno» istituito da società insolvente in alternativa alla liquidazione fallimentare,
in Fallimento, 2010, 14; Sturniolo, L'utilizzo «distorto» del trust liquidatorio:
problemi, prospettive e possibili soluzioni, in Trusts, 2013, 4 ss.; Ranucci, I
difficili rapporti tra il trust liquidatorio e le procedure concorsuali, in Fallimento,
2014, 567 ss.
(13) In giurisprudenza, Trib. Milano, 16 giugno 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 17
luglio 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 30 luglio 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 22 ottobre
2009, (nt. 7); App. Milano, 29 ottobre 2009, in Trusts, 2010, 271; Trib. Milano, 29
ottobre 2010, (nt. 7); Trib. Mantova, 18 aprile 2011, in www.ilcaso.it, 2011; Trib.
Monza, 15 febbraio 2012, in Leggi d'Italia, 2012; Trib. Bolzano, 8 aprile 2013, (nt.
7); Trib. Napoli, 28 novembre 2013, in Fallimento, 2014, 567, con nota di
Ranucci; Trib. Napoli, 3 marzo 2014, cit. In dottrina, tra gli altri, Raganella -
Regni, (nt. 8), 608; Galletti, (nt. 8), 636; Sturniolo, (nt. 12), 408.
(14) Art. 8 della Convenzione De L'Aja, su cui v. Trib. Reggio Emilia, 2 maggio
2012, (nt. 12). Nell'ambito di tale giudizio, il diritto anglosassone sanziona in
particolare il cd. sham trust, fittiziamente istituito al solo fine di sottrarre i beni del
disponente alle ragioni dei creditori.
(15) V. Trib. Alessandria, 24 novembre 2009, in Notariato, 2010, 127.
(16) V. Fimmanò, (nt. 3), 1163.
(17) Così Fimmanò, (nt. 3), 1166. Sulla distinzione tra nullità ed inesistenza v.,
tra gli altri, Santoro Passarelli, Dottrine generali di diritto civile, Napoli, Jovene,
1980, 242; Filanti, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli, Jovene,
1983; Bianca, Diritto civile III, Il contratto, Milano, Giuffrè, 2000, 614.

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(18) Trib. Milano, 16 giugno 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 17 luglio 2009, (nt. 7);
Trib. Milano, 30 luglio 2009, (nt. 7).
(19) V. nota 12.
(20) Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, massimata in Mass. Giust. civ., 2006, 5.
(21) «La concezione concreta della causa non significa (e non deve implicare)
un ritorno alla concezione soggettiva della causa: cioè l'impropria valorizzazione
delle motivazioni strettamente individuali di una parte, delle sue personali
rappresentazioni psichiche, dei suoi interessi coltivati nel foro interno.
«Concreto» non s'identifica con «soggettivo»: la concretezza può (e qui deve)
declinarsi in termini di oggettività», così Roppo, Il contratto, in Trattato Iudica -
Zatti, Milano, Giuffrè, 2011, 364, e, più di recente, Id.,Causa concreta: una storia
di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di
legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, 957 ss.
(22) Artt. 686 e 857, n. 3, cod. comm. In tema De Matteis, Istruttoria
prefallimentare: il procedimento, in Caiafa (a cura di), Le procedure concorsuali,
Padova, Cedam, 2011, 85-86.
(23) Tale facoltà diviene dovere penalmente sanzionato solo laddove l'inerzia del
debitore determini un aggravamento del dissesto, integrando così gli estremi del
reato di bancarotta semplice ai sensi dell'art. 217, comma 1º, n. 4), l. fall.
(24) Artt. 819-829 cod. comm.
(25) Secondo l'attuale formulazione dell'art. 160 l. fall. infatti, «L'imprenditore che
si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla
base di un piano ([...])» (comma 1). «Ai fini di cui al primo comma per stato di
crisi si intende anche lo stato di insolvenza» (comma 3).
(26) Trib. Milano, 10 novembre 2009 (decr.), in Dir. fall., II, 2010, 343 ss., con
nota di Galardo, ove a proposito della società Risanamento S.p.A. ha notato
l'incompatibilità tra ammissibilità dell'accordo di ristrutturazione e stato di
insolvenza dell'impresa alla base di un'eventuale dichiarazione di fallimento, sul
presupposto dell'attitudine del primo al superamento «anche di quell'eventuale e
più grave stato di crisi che il PM ha ritenuto di poter qualificare come
insolvenza». Ciò in quanto gli accordi di ristrutturazione «sono strumento ex se
alternativo al fallimento (al pari di una proposta di concordato preventivo)». A
simili conclusioni parrebbero giungere Lombardi-Beltrami, I criteri di selezione
della procedura più adatta al risanamento di un'impresa in crisi, in questa Rivista,
2011, I, 732, là dove incidentalmente si osserva che i reati fallimentari vanno
ritenuti incompatibili con gli accordi di ristrutturazione dei debiti, posto che tali
reati «presuppongono la dichiarazione di fallimento o, quanto meno, l'esistenza

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di uno stato di insolvenza che gli accordi di ristrutturazione dei debiti tendono
proprio a evitare o rimuovere». V. anche Trib. Milano, 20 maggio 2010, in Dir.
fall., II, 2011, 480, con nota di Boggio; Trib. Roma, 20 maggio 2010, in
www.ilcaso.it, 2010; Trib. Udine, 30 marzo 2012, ivi, 2012; Trib. Udine, 2 agosto
2012, in Fallimento, 2013, 125; Trib. Gorizia, 9 novembre 2012, in Foro it., 2013,
1536. Di conforme avviso, in dottrina, Rolfi, Art. 182 bis tra diritto processuale,
contenuti sostanziali e controllo giurisdizionale, in Fall., 2011, 92; Frascaroli
Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti a norma dell'art.182 bis legge fall.,
in Vassalli - Luiso - Gabrielli,Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure
concorsuali, Torino, Giappichelli, 2014, IV, 503; Minutoli, Quali interferenze tra
l'istanza di fallimento e la proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti?, in
Fallimento, 2015, 537. ContraCarli, Accordi di ristrutturazione dei debiti ed
impresa in crisi, in Contr. impr., 2009, 417 ss., il quale sostiene l'inapplicabilità
degli accordi di ristrutturazione dei debiti alle imprese insolventi.
(27) Così Boggio, Gli accordi di salvataggio delle imprese in crisi. Ricostruzione
di una disciplina, Milano, Giuffrè, 2007, 157. Con riguardo alle soluzioni
negoziate della crisi, anche Galletti, Il trust e le procedure concorsuali: una
convivenza subito difficile, nota a Trib. Milano 16 giugno 2009 (ord.), in questa
Rivista, 2010, II, 900, ammette «la deroga negli accordi al principio della par
condicio creditorum, purché però i soggetti estranei all'accordo non risultino
pregiudicati nei propri diritti». Con specifico riferimento al tema della vincolatività
degli accordi raggiunti a maggioranza è stato sottolineato «un affievolimento
della par condicio almeno nei termini in cui ne parla l'art. 2741 c.c.» (Buonocore,
Principio di uguaglianza e diritto commerciale, in questa Rivista, 2008, I, 551
ss.). In tema v. anche App. Bergamo, 6 agosto 2014, in www.ilcaso.it, 2015.
(28) Sulla rilevanza dei motivi negli atti unilaterali cfr. tra gli altri Di Marzio, La
nullità del contratto, Padova, Cedam, 2008, 328 ss. Sul permanere di una
differenza «ontologica» tra causa - pur intesa nella sua dimensione individuale e
concreta - e motivi, v. in particolare Caringella-De Marzo, Manuale di diritto civile
III. Il contratto, Milano, Giuffrè, 2008, 153, ove si valorizza una «([...]) definizione
di causa che, pur tenendo nella debita considerazione il concreto interesse
individuale che trova realizzazione mercé la stipulazione del contratto, non
giunge a confondersi con le intime motivazioni che hanno spinto ciascun
contraente. ([...]). Senza la necessità di tornare alle teorie di stampo strettamente
oggettivo, prima fra tutte quella della funzione economico-sociale, è sufficiente,
quindi, adottare una diversa prospettiva, che tenga ferma la distinzione: la causa

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è il concreto interesse che attraverso il contratto viene ad essere soddisfatto, il
motivo è l'intima ragione che ha spinto il contraente ad obbligarsi».
(29) L'espressione è di Fimmanò, (nt. 3), 1157.

UNIV. DI TRENTO          © Copyright Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A. 2019   15/02/2019

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