Trust versus fallimento: l'istituto alieno come mezzo di gestione privata dell'insolvenza - Studio Legale Tarolli
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NOTE E DOTTRINA Trust versus fallimento: l'istituto alieno come mezzo di gestione privata dell'insolvenza. Fonte: Giurisprudenza Commerciale, fasc.3, 2016, pag. 685 Nota a: Tribunale Milano, 17 gennaio 2015, n.818, sez. I Autori: Remo Tarolli Sommario: 1. La Convenzione de L'Aja e le norme inderogabili di diritto interno. - 2. Il «test di insolvenza» e la causa concreta del trust. - 3. Il rebus dei rimedi: nullità e inesistenza. - 4. Il perimetro delle norme in tema di «protezione dei creditori in casi di insolvibilità». - 5. Conclusioni. 1. La Convenzione de L'Aja e le norme inderogabili di diritto interno. - La decisione resa dal Tribunale di Milano in tema di conflitto fra trust liquidatorio e fallimento si iscrive in un lungo filone giurisprudenziale, costellato di pronunce non sempre dello stesso segno. Tali pronunce prendono le mosse dalla previsione contenuta all'art. 15, comma 1º, della Convenzione de L'Aja del 1º luglio 1985 relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento (1), a mente della quale la Convenzione stessa «non ostacolerà l'applicazione delle disposizioni di legge previste dalle regole di conflitto del foro» che abbiano carattere inderogabile, in materia (anche) di «protezione dei creditori in casi di insolvibilità». Da tale clausola normativa le Corti di merito hanno tratto spunto per sostenere, in numerose occasioni, la radicale nullità dell'atto istitutivo di un trust sul patrimonio di una società insolvente (o in procinto di ricadere in una condizione di insolvenza), in quanto finalizzato ad eludere le norme imperative che presiedono alla liquidazione concorsuale. E ciò pure a fronte del riconoscimento della validità astratta tanto dell'istituto generale del trust quanto, nello specifico, del c.d. trust interno, costituito cioè da un soggetto italiano a beneficio di soggetti italiani e con attribuzione (ad un trustee parimenti italiano) di Pagina 1 di 18
assets allocati in Italia, e privo quindi di elementi di internazionalità (ad eccezione della legge regolatrice) (2). La vexata quaestio riguarda pertanto la sopravvivenza (o meno) del trust alla procedura fallimentare successivamente insediata, e più precisamente la legittimità (o meno) di una gestione concorsuale della crisi alternativa a quella dettata dalle norme che governano la suddetta procedura. La sentenza in epigrafe, in proposito, si pone in netta continuità con una pronuncia resa dalla S.C. di Cassazione solo pochi mesi prima (Cass., 9 maggio 2014, n. 10105 (3)), e assurta ben presto al rango di leading case in materia di convivenza fra trust liquidatorio ed insolvenza. In particolare il Tribunale di Milano, in una sommaria riedizione dei concetti già espressi dal Giudice di Legittimità, scandisce nelle proprie motivazioni due principi fondamentali: (i) il c.d. trust liquidatorio, che implica la segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio sociale, «è in conflitto con gli interessi pubblici della procedura concorsuale a tutela della par condicio creditorum, che non è surrogabile da strumenti che non garantiscono tale parità, non escludono procedure individuali, non prevedono trattative vigilate con i creditori al fine della soluzione concordata della crisi, non contemplano alcun potere di amministrazione o controllo da parte del ceto creditorio o di un organo pubblico neutrale». A tale conclusione deve pervenirsi ogniqualvolta la «causa concreta» del trust risulti in ultima analisi quella di inibire lo spossessamento degli assets aziendali in favore del curatore fallimentare, non consentendo così di fatto ai creditori «la condivisione del governo del patrimonio trasferito al trustee e soggetto all'insindacabile amministrazione di costui (...)»; (ii) in merito alle conseguenze che originano dal mancato riconoscimento del trust liquidatorio anti-concorsuale, «detto strumento non produce alcun effetto giuridico nel nostro ordinamento, in particolare non quello di creare un patrimonio separato, restando tamquam non esset. Non si tratta di un atto nullo perché la sanzione della nullità presuppone che l'atto sia stato riconosciuto dal nostro ordinamento: il conflitto con la disciplina inderogabile concorsuale determina l'inesistenza giuridica del trust nel diritto interno e la sua assoluta inefficacia». Volendo semplificare al massimo, i cardini su cui poggia la ratio decidendi della Pagina 2 di 18
sentenza in commento sono modellati sul concetto di «insolvenza», attorno a cui ruota il complesso delle disposizioni inderogabili in tema di concorsualità, di spossessamento dei beni e di parità di condizioni tra creditori, e sul tema della non «riconoscibilità» - nella sua corretta declinazione - del trust liquidatorio in presenza di un vizio della sua causa concreta. Poiché tali temi hanno costituito in questi anni il banco di prova su cui si è esercitata la giurisprudenza teorica e pratica in materia di convivenza tra procedure concorsuali e trust appare utile soffermarsi brevemente sulle opinioni che sono state nel tempo affacciate e sullo «stato dell'arte» a cui gli interpreti sono di recente approdati (non senza importanti distinguo). 2. Il «test di insolvenza» e la causa concreta del trust. - Un primo discrimine valorizzato dagli interpreti è costituito dall'esistenza o meno, al momento della costituzione del trust liquidatorio, di una condizione di insolvenza rilevante ai fini dell'operare delle disposizioni in materia di concorsualità (4). In linea di principio, infatti, un'impresa in bonis potrebbe legittimamente incidere sulla destinazione del patrimonio aziendale attraverso la costituzione di un trust, anche al fine di promuovere una liquidazione non contenziosa dei propri assets sottraendo i medesimi agli «appetiti» dei cd. creditori free riders(5). Così, (quantomeno) in linea teorica, il trust liquidatorio avente ad oggetto il patrimonio di un'impresa in bonis sarebbe pienamente legittimo, in quanto diretto a conseguire l'interesse della massa dei creditori ad una regolazione non conflittuale dei rapporti pendenti e ad inibire le manovre dei creditori opportunisti, a beneficio della conservazione del valore degli assets sociali (6). Diversamente, il trust avente ad oggetto il patrimonio aziendale di un'impresa già decotta sarebbe illecito ab origine(7), poiché all'imprenditore sarebbero preclusi atti dispositivi dei beni sociali; con la conseguenza che lo spossessamento di tali beni in favore del trustee, pur formalmente diretto a tutelare i creditori attraverso una liquidazione armonica degli attivi, non sopravvivrebbe all'applicazione della clausola di salvaguardia contenuta all'art. 15, comma 1º, lett. e), della Convenzione de L'Aja. Secondo la logica ricavabile da tale postulato, dall'esistenza di uno stato di insolvenza deriverebbe sempre la necessità di affidare agli organi della procedura fallimentare ogni attività dismissiva dei beni aziendali, sicché ogni atto preordinato ad una gestione privata del patrimonio sarebbe comunque elusiva delle norme poste a presidio della liquidazione concorsuale. Una valutazione di legittimità orientata (solo) da tale «test di insolvenza» ha peraltro incontrato la critica di autorevoli interpreti, che hanno sottolineato l'inadeguatezza di tale Pagina 3 di 18
parametro di giudizio ai fini della meritevolezza del trust(8). Il concetto stesso di insolvenza sarebbe infatti quanto mai evanescente in funzione di siffatto giudizio, posto che lo stesso discrimine tra crisi «reversibile» e «irreversibile» non sarebbe facilmente diagnosticabile al momento della costituzione del trust. La crisi può infatti essere astrattamente sanabile sulla base di variabili che spesso sfuggono alla capacità di controllo ex ante dell'imprenditore: basti pensare alla rilevanza che possono avere per le sorti della società le dinamiche che si legano all'incasso di crediti «incagliati», dei quali sia difficile prevedere i tempi e la misura del realizzo. Il test di insolvenza si tradurrebbe così in un giudizio ad alto tasso di discrezionalità legato ad una prognosi successiva sulla reversibilità della crisi, e costituirebbe pertanto un parametro inadeguato ad orientare l'interprete in merito alla legittimità (o meno) del trust. Secondo gli approdi di una qualificata dottrina (9), in questo modo, il criterio fondato sulla esistenza di uno stato di insolvenza all'atto della costituzione del trust sarebbe destinato a restare sullo sfondo per fare posto ad una più approfondita valutazione della «causa concreta» (10): nello specifico, il giudice dovrebbe indagare se il regolamento di interessi da cui trae origine il trust sia finalizzato a precostituire un valido strumento di rimozione della crisi (qualunque sia l'entità della medesima) o se lo stesso si ponga in antitesi con le disposizioni inderogabili a tutela dei creditori sociali, essendo inteso a disapplicare il sistema liquidatorio definito dalla procedura fallimentare con ogni suo corollario. In questo scenario, la causa concreta sarebbe per così dire «nobilitata» dalla previsione all'interno dell'atto istitutivo di una clausola che preveda la restituzione agli organi della procedura dei beni conferiti in trust(11). Altrimenti detto, la previsione di una clausola di «richiamo» preserverebbe la validità del trust, altrimenti viziato nella sua stessa causa (e quindi nullo) in ipotesi di sopravvenuto fallimento: la carenza di tale clausola determinerebbe una nullità sopravvenuta solo eventuale, incidendo - unicamente in ipotesi di successivo fallimento - non tanto sul «negozio» (ab origine valido) quanto sul «rapporto», che sarebbe sacrificato alla liquidazione concorsuale per effetto della clausola di salvaguardia contenuta nella Convenzione de L'Aja (12). 3. Il rebus dei rimedi: nullità e inesistenza. - Sino a tempi recenti, la giurisprudenza si è in larga prevalenza orientata a sanzionare il contrasto fra il trust liquidatorio e le norme imperative concorsuali, «presidiate» dall'art. 15, lett. e), della Convenzione de L'Aja, attraverso il rimedio della nullità, ai sensi dell'art. 1418 c.c. In particolare, secondo i più saldi approdi della giurisprudenza di merito Pagina 4 di 18
e di una qualificata dottrina (13), ogniqualvolta la causa concreta del trust sia quella di sottrarre indebitamente agli organi della procedura pubblicistica i beni del fallito, segregando i medesimi a dispetto delle norme concorsuali, lo stesso trust dovrebbe essere dichiarato nullo in ragione del contrasto con le disposizioni imperative dell'ordinamento nazionale. A tale indirizzo è stato tuttavia validamente opposto che a mente della stessa Convenzione de L'Aja, solo la legge regolatrice del trust può disciplinare, tra gli altri, la «validità» del trust medesimo (14); sicché è parso singolare invocare per un verso la norma di salvaguardia dettata dalla Convenzione in tema di «protezione dei creditori in casi di insolvibilità», e per altro verso ignorare la norma di conflitto di quella stessa Convenzione in materia di validità del trust. Un diverso indirizzo, rimasto peraltro isolato nel panorama delle corti di merito, ha così prospettato un accertamento giudiziale non in termini di «validità» ma piuttosto di «efficacia» dell'atto istitutivo del trust liquidatorio (15). E poiché un giudizio di (in)efficacia in diritto italiano postula sempre l'attivazione degli strumenti di garanzia patrimoniale dei creditori, si è concluso che l'unico rimedio coerente con le previsioni della Convenzione de L'Aja potesse essere la revocatoria del trust, in sede fallimentare ovvero ordinaria. Secondo tale impostazione, la portata precettiva dell'art. 15, lett. e), della Convenzione de L'Aja dovrebbe quindi pur sempre essere mediata dal concreto accertamento delle condizioni per la revoca (la cd. scientia decoctionis in ipotesi di revocatoria fallimentare; la conoscenza del pregiudizio ovvero la dolosa preordinazione nei confronti dello specifico creditore in ipotesi di revocatoria ordinaria); revoca che colpirebbe non tanto l'atto istitutivo di trust - che non produce effetti dispositivi, essendo un semplice «veicolo» - quanto il concreto atto di segregazione nel patrimonio del disponente (16). Ne seguirebbe così la perfetta omogeneità di trattamento - ai fini della sanzione dell'ordinamento - fra il trust liquidatorio e qualsiasi altro atto finalizzato a segregare o distrarre i beni destinati a soddisfare i creditori: con la conseguenza ultima - può aggiungersi - di privare la norma di salvaguardia della Convenzione de L'Aja di una qualche utilità pratica, potendosi pacificamente ritenere attivabili i consueti rimedi per la conservazione della garanzia patrimoniale in favore dei creditori anche in assenza della specifica previsione dettata dall'art. 15. Da ultimo, è intervenuta sul tema dei rimedi esperibili la Suprema Corte di Cassazione con la già citata sentenza del 9 maggio 2014, n. 10105, a cui si è in breve tempo conformato il Tribunale di Milano con la sentenza qui annotata. Pagina 5 di 18
Come si legge nella motivazione resa dalla Cassazione, «La sanzione della nullità (ex artt. 1343, 1344, 1345, 1418 c.c.) presuppone che l'atto sia stato riconosciuto dal nostro ordinamento; il conflitto con la disciplina inderogabile concorsuale determina invece la stessa inesistenza giuridica del trust nel diritto interno. [...] L'inefficacia non è esclusa né dal fine dichiarato di provvedere alla liquidazione armonica della società nell'esclusivo interesse del ceto creditorio [...], né dalla clausola che, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, preveda la consegna dei beni al curatore». La Cassazione, attraverso un opportuno cambio di prospettiva, ha quindi ritenuto di non valutare l'efficacia o meno del trust sul piano della patologia negoziale ma su di un piano logicamente e giuridicamente antecedente, quello cioè della riconoscibilità del trust stesso nell'ordinamento nazionale (17). La valutazione di inesistenza giuridica sta quindi a qualificare un negozio che non può godere di alcuna cittadinanza nell'ordinamento nazionale, e che non è quindi nemmeno astrattamente produttivo di effetti in quell'ordinamento. In questo modo, la Corte supera «di slancio» ogni obiezione rivolta alla teoria della nullità, comminabile dalla sola legge regolatrice del trust per espressa previsione della Convenzione de L'Aja. Il giudizio di inesistenza viene infatti formulato non mediante applicazione della disciplina di diritto civile in materia di (in)validità del negozio (applicazione la quale postula che il trust sia riconosciuto dal diritto nazionale), ma attraverso una valutazione preliminare di incompatibilità di quell'atto con il nostro ordinamento. Con una soluzione ineccepibile in punto di diritto, pertanto, la Corte ha ritenuto che a mente dell'art. 15 della Convenzione de L'Aja non sia riconoscibile il trust che possa costituire ostacolo all'applicazione delle disposizioni inderogabili dell'ordinamento interno in materia di «protezione dei creditori in caso di insolvibilità». Il vero tema, allora, è capire quali siano in diritto italiano le disposizioni imperative che governano la (vasta) materia dell'insolvenza, al fine di delimitare correttamente il perimetro entro il quale la norma di salvaguardia della Convenzione può spiegare i propri effetti. Attesa dunque la valenza astratta della soluzione adottata dalla Cassazione sulla non riconoscibilità - e quindi sulla inesistenza - del trust ripugnante per l'ordinamento nazionale, è necessario interrogarsi su quali siano i principi invalicabili del nostro diritto interno che costituiscono in concreto il fondamento su cui il giudice è chiamato ad operare la propria valutazione. 4. Il perimetro delle norme in tema di «protezione dei creditori in casi di insolvibilità». - Come si evince dall'autorevole precedente (più volte citato) del Pagina 6 di 18
Giudice di Legittimità cui la sentenza recensita si ispira, la norma di salvaguardia dettata dalla Convenzione de L'Aja trova applicazione in presenza di un trust istituito dall'impresa poi fallita, «ove l'insolvenza preesistesse all'atto istitutivo»; né all'irriconoscibilità di tale trust può ovviarsi con l'apposizione della «clausola che, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, preveda la consegna dei beni al curatore». La precisazione non è di poco conto, e segna una netta discontinuità con l'indirizzo di quanti hanno teorizzato in passato la possibilità di sanzionare con il rimedio della nullità o dello scioglimento anticipato (ricavato in via analogica dalle norme di diritto fallimentare in materia di rapporti pendenti (18)) un trust originariamente valido - perché costituito dal debitore in bonis - in caso di fallimento sopravvenuto (19). Da tale principio si può poi ricavare un ulteriore corollario: se la norma di salvaguardia opera con riguardo alle sole imprese che siano già in una condizione di insolvenza al momento della costituzione del trust, sarà del tutto irrilevante la presenza nell'atto istitutivo del medesimo di una clausola «di richiamo», che assicuri al curatore del successivo fallimento la restituzione dei beni. Se infatti tali beni sono stati conferiti in trust quando l'impresa era già insolvente, il negozio istitutivo sarà inesistente in ogni sua parte e la clausola di richiamo non potrà produrre alcun effetto; qualora invece il conferimento dei beni nel trust sia stato operato da un imprenditore in bonis, il successivo fallimento non potrà invalidarne il vincolo di destinazione, o almeno non in forza della norma di salvaguardia contenuta nella Convenzione de L'Aja. Tale vincolo di destinazione potrà semmai essere neutralizzato dai creditori azionando gli ordinari mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, in particolare domandando la revoca dell'atto (se) compiuto in pregiudizio alle proprie ragioni ai sensi dell'art. 2901 c.c. Alla valutazione in merito all'esistenza di uno stato di insolvenza anteriore al trust la sentenza annotata accompagna l'enunciazione della contrarietà della causa concreta di tale trust alla disciplina dell'insolvenza. Si legge in proposito nella motivazione che «pur prevedendo formalmente il trust in oggetto la finalità di realizzare la par condicio creditorum e pur indicando la massa dei creditori come primo soggetto beneficiario», «la soluzione negoziale adottata dalla società disponente è elusiva del procedimento concorsuale e degli interessi più generali alla cui soddisfazione esso è preposto». In verità, scorrendo i passaggi della sentenza in commento si ricava un vero e proprio postulato: se un trust liquidatorio viene costituito dall'imprenditore che si trovi già in uno stato di insolvenza la causa concreta del negozio non può che essere, secondo il Pagina 7 di 18
Tribunale di Milano, immeritevole di tutela. Altrimenti detto, per il giudice meneghino la condizione di insolvenza in cui l'imprenditore si trova (e della quale non può che avere conoscenza diretta) non può che porsi essa stessa come «causa» che muove il medesimo imprenditore a conseguire attraverso il trust l'«effetto» non ammissibile dall'ordinamento nazionale, quello cioè di disapplicare il sistema di regole che governano la procedura fallimentare. Se queste sono le motivazioni che presiedono alla decisione in commento a me sembra, molto sommessamente, che la soluzione trovata sia frutto di un semplicismo, che non coglie a fondo le dinamiche dei rapporti giuridici che interessano l'imprenditore in stato di insolvenza o di pre-insolvenza. La causa concreta diventa così una sorta di «totem» che ha il solo scopo di garantire un'apparenza di legittimazione alla scelta di non riconoscere il trust in favore della liquidazione concorsuale dei beni. Per enucleare il problema alla sua radice credo sia opportuno partire proprio dalla nozione di causa concreta, che la Cassazione sin da principio ha definito come «sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale [...] e non anche della volontà delle parti» (20). Secondo il Giudice di Legittimità la causa concreta identifica quindi il condensato degli interessi pratici del negozio, considerati però nella loro obiettività: essa rimane distinta dai «motivi» individuali (i.e.: dal giudizio soggettivo di convenienza), che si distinguono invece per la rilevanza dell'elemento volitivo (21). Il Tribunale di Milano, nella sentenza in commento, censura la causa concreta del trust che sia inteso a «segregare tutti i beni dell'impresa, sottraendo al curatore la disponibilità dell'attivo societario»; un tanto, seguita la sentenza, «è incompatibile con le norme di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali, sicché non può procedersi al suo riconoscimento». Dall'esegesi del passaggio appena richiamato può ricavarsi il seguente percorso logico: - il trust ha come effetto immediato quello di produrre una segregazione dei beni che fanno capo all'impresa; - se al momento della costituzione del trust l'impresa è insolvente, lo sbocco obbligato è costituito da un procedimento concorsuale a carico di quella stessa impresa: come recita la sentenza della S.C. di Cassazione più volte richiamata, la procedura concorsuale è naturalmente «destinata a sopravvenire nel caso di insolvenza» e «non è surrogabile» in alcun modo da strumenti alternativi; Pagina 8 di 18
- «la disciplina dell'insolvenza» - e cioè la disciplina del fallimento con ogni suo corollario - «si pone di ostacolo al riconoscimento del trust»; essa infatti non prevede lo spossessamento in favore di un organo pubblico neutrale (il curatore), che sovrintenda alla procedura a tutela della par condicio creditorum. Stando così le cose, credo che il punctum dolens del percorso logico sviluppato dal Tribunale di Milano (e prima ancora dal Giudice di Legittimità) stia proprio in una ricostruzione della causa del trust tutta centrata sulla elusione della disciplina inderogabile dell'insolvenza, senza che sia toccato il tema fondamentale: ovvero, quale debba essere il perimetro delle norme nazionali in tema di «protezione dei creditori in casi di insolvibilità» alle quali «non si possa derogare [...] mediante una manifestazione di volontà» (e che definiremmo pertanto «imperative»). Un tanto perché, come mi appare ovvio, solo la violazione di norme siffatte può consentire, attraverso un corretto operare della clausola di salvaguardia contemplata dalla Convenzione de L'Aja, di negare cittadinanza nell'ordinamento domestico ad un negozio che diversamente quello stesso ordinamento è tenuto a riconoscere. Ebbene, io non credo che si possa parlare della «disciplina dell'insolvenza» come di un corpus di norme sempre e comunque inderogabili, come sottintende invece la sentenza annotata. Più precisamente, mi sembra che vi sia una tendenza diffusa a sovrapporre e confondere la disciplina generale dell'insolvenza con quella del fallimento (inteso come procedura), che si trova in rapporto di species a genus con la prima. È pacifico a questo riguardo che la disciplina dell'insolvenza non tende sempre, e in modo cogente, al risultato pratico del fallimento. Manca, in primo luogo, uno specifico dovere per l'imprenditore insolvente di richiedere il proprio fallimento, diversamente da quanto prescritto in passato dal codice di commercio del 1882 (che sanzionava il debitore il quale, entro tre giorni dalla cessazione dei pagamenti, non avesse effettuato il deposito di una specifica auto-dichiarazione alla cancelleria del tribunale) (22); sicché, mentre un tempo la disciplina dell'insolvenza poteva dirsi in qualche modo «doverosamente» orientata al fallimento - implicando un vero e proprio obbligo non derogabile a carico del debitore - e la procedura concorsuale costituiva il passaggio ineludibile per la regolazione dell'insolvenza stessa, oggi l'istanza di fallimento è una facoltà riconosciuta all'imprenditore insolvente e nulla di più (23). In secondo luogo, l'attuale assetto normativo disegnato dalla legge fallimentare contempla, a differenza del passato, mezzi alternativi di regolazione dell'insolvenza. Così, Pagina 9 di 18
mentre il codice di commercio non consegnava al debitore alcuna possibilità diversa dal fallimento per regolare lo stato di insolvenza (la c.d. «moratoria», antesignana dell'odierno concordato, era intesa a far fronte a crisi «reversibili» (24)), l'attuale gamma di soluzioni annovera il concordato preventivo come strumento impiegabile dall'imprenditore insolvente (oltre che da quello che si trovi in una condizione di crisi meno acuta) (25). Non solo. Per molti interpreti lo stato di insolvenza può essere superato anche fuori dall'ambito delle procedure concorsuali intese in senso stretto, mediante ricorso all'accordo di ristrutturazione dei debiti regolato agli artt. 182-bis ss. l. fall. (26). Sicché nell'attuale (e assai mutevole) corpo normativo del diritto dell'insolvenza lo stato più acuto della crisi dell'imprenditore si regola non necessariamente con l'amara medicina della liquidazione fallimentare; esso può trovare soluzione mediante strumenti alternativi, non necessariamente orientati alla liquidazione e finanche potenzialmente non soggetti alle regole del concorso che sovrintendono alle «procedure» tradizionalmente considerate. Credo pertanto che sia limitante la valutazione operata dalla Cassazione (con la più volte menzionata sentenza n. 10105/14) in merito alla necessità che una procedura concorsuale sia sempre e immancabilmente «destinata a sopravvenire nel caso di insolvenza a tutela della par condicio creditorum», non residuando alcuno spazio per «strumenti di diritto privato che prescindano dall'amministrazione o dal controllo di un organo pubblico». L'attuale morfologia degli strumenti di regolazione della crisi delineata dalle riforme degli ultimi dieci anni consente di escludere che la procedura concorsuale, e segnatamente quella fallimentare, sia lo sbocco inevitabile dell'insolvenza in forza di una regola tassativa. Un corpo di norme imperative, al contrario, è quello che regola (non l'insolvenza in sé presa, ma) la procedura fallimentare; con la conseguenza che se tale procedura sia stata incardinata su iniziativa dei creditori o dello stesso debitore, la stessa non potrà che essere governata dalle disposizioni (queste certamente non derogabili) che sanciscono lo spossessamento in favore degli organi designati (curatore e giudice delegato) per favorire il controllo super partes sulla liquidazione dei beni del debitore. Tra tali disposizioni spicca certamente quella in materia di par condicio creditorum, costantemente richiamata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità come archetipo di regola imperativa del diritto dell'insolvenza, in quanto tale non sacrificabile mediante impiego di strumenti diversi dalla procedura pubblicistica e giurisdizionale. Anche in questo caso, tuttavia, temo che sia presente il rischio di una indebita sovrapposizione tra i principi generali che disciplinano la responsabilità patrimoniale del debitore (e segnatamente la necessità del Pagina 10 di 18
trattamento paritario dei creditori, ai sensi dell'art. 2741 c.c.) e le disposizioni particolari che governano la procedura fallimentare e, nello specifico, la necessità del concorso fra creditori (art. 52 l. fall.). Come è stato condivisibilmente osservato, infatti, «la par condicio creditorum costituisce un principio dispositivo, che non vincola le parti private. Essa stabilisce un equilibrio tra gli interessati, ma ammette che ciascuno di essi possa rinunciare, totalmente o parzialmente, alla posizione giuridica che essa, magari solo pro quota, gli garantisce» (27). Sulla scorta delle considerazioni appena formulate è possibile, a mio avviso, operare una ricostruzione della causa del trust liquidatorio che non sia inquinata da una aprioristica regola di equivalenza tra insolvenza e procedura fallimentare. In particolare, è certamente vero che il trust non rappresenta di per sé uno strumento di regolazione dell'insolvenza; ma è altrettanto vero che la causa concreta del medesimo può essere - per così dire - «piegata» alla realizzazione di un siffatto obiettivo, quando esso sia funzionale ad una forma alternativa di liquidazione in favore dei creditori. L'eventualità di un trust «anticoncorsuale» - e cioè deliberatamente elusivo del fallimento e del conseguente spossessamento in favore di organi pubblici - potrebbe invece presentarsi solo immaginando di poter valorizzare sotto il profilo della causa concreta i fattori soggettivi che hanno orientato il debitore insolvente. A tal proposito mi sembra peraltro evidente come in questo modo l'attenzione si sposti sulle pulsioni personali del debitore, che dovrebbero pur sempre restare estranee alla dimensione funzionale dell'atto (seppure in un'ottica di «funzione individuale» dell'atto stesso). Se è indubbio che la causa concreta sottesa al trust possa essere - al di là del modello astratto (che lo riduce a semplice mezzo di segregazione patrimoniale) - quella di fronteggiare con strumenti di diritto privato una situazione di crisi d'impresa, appare piuttosto da iscriversi nell'orbita dei fini soggettivi e personali la volontà, sottolineata nella sentenza annotata, di eludere le regole che governano la procedura fallimentare in favore dei creditori. Tali fini soggettivi e personali - che segnano in ultima analisi la differenza fra trust endoconcorsuale e anticoncorsuale - sono piuttosto riferibili ai «motivi» che abbiano mosso il debitore ad impiegare tale strumento (28). A me sembra pertanto che la differenza fra trust endoconcorsuale e anticoncorsuale nulla abbia a che spartire con la causa del trust, essendo essa piuttosto riferibile all'eventuale riserva mentale del debitore. Più precisamente, tale differenza si lega all'eventuale motivo illecito che abbia originato il trust, eludendo le norme imperative poste a Pagina 11 di 18
presidio della procedura fallimentare. In questo senso, il giudice investito della decisione dovrebbe accertare la natura anticoncorsuale del trust, motivandola con il fatto che il debitore si fosse già prefigurato l'impossibilità (o la mancanza di volontà) di regolare il proprio stato di insolvenza con mezzi alternativi al fallimento, quali il concordato preventivo o l'accordo di ristrutturazione dei debiti. Se così è, la sentenza annotata si rivela del tutto carente sul punto, limitandosi a registrare un'astratta incompatibilità del trust con «la disciplina dell'insolvenza» e omettendo qualsiasi indagine «sul campo» in merito al profilo soggettivo del negozio. 5. Conclusioni. - La sentenza esaminata si rivela, in punto di rimedi astrattamente esperibili contro un trust che violi le disposizioni nazionali in materia di «protezione dei creditori in casi di insolvibilità», del tutto ineccepibile e coerente con i principi espressi dall'autorevole precedente reso dal Giudice di Legittimità. Sotto il profilo sostanziale, nondimeno, mi sembra che vi sia la tendenza diffusa a trascendere il fine cui è rivolta la norma di salvaguardia della Convenzione de L'Aja (quello di non pregiudicare l'applicazione delle norme imperative nazionali), per sanzionare più in generale le condotte che appaiano caratterizzate da propositi «poco commendevoli» (29). Il mezzo con il quale si persegue tale obiettivo è costituito dalla valorizzazione della causa concreta del negozio, che finisce in tal modo per «esondare» dalla dimensione funzionale dell'atto per abbracciare i motivi che hanno mosso volta per volta il debitore. Motivi, questi ultimi, il cui apprezzamento non dovrebbe tuttavia prescindere da un'indagine sul campo (con tutte le annesse difficoltà), che in molte delle pronunce in materia di trust liquidatorio - compresa la sentenza qui annotata - non è nemmeno abbozzata. Se così è, credo sia lecito riconoscere come, nell'attuale assetto normativo nazionale che governa la materia dell'insolvenza (e che vede un progressivo arretramento delle norme imperative di fonte pubblicistica), gli spazi per l'operare concreto della norma di salvaguardia dettata dalla Convenzione de L'Aja vadano in qualche modo restringendosi, chiamando l'interprete ad una lettura più attenta del fenomeno giuridico, che non ceda alla tentazione di facili scorciatoie. Note: (1) La Convenzione è stata resa esecutiva in Italia con l. 16 ottobre 1989, n. 364, entrata in vigore il 1º gennaio 1992. Pagina 12 di 18
(2) Cfr. su tutte Cass., 19 novembre 2012, n. 20254, in www.il-trust-in-italia.it. Per la dottrina v. almeno Lupoi, Lettera ad un notaio curioso di trust, in Riv. not., 1998, 343 ss.; Id., Lettera ad un notaio conoscitore dei trust, ivi, 2001, 1159 ss.; Gambaro, Notarella in tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai sensi della XV Convenzione de L'Aja, in Riv. dir. civ., 2001, II, 257 ss.; Id., Un argomento a due gobbe in tema di trascrizione del trustee in base alla XV Convenzione de L'Aja, ivi, 2002, II, 919 ss. (3) La suddetta pronuncia è stata oggetto di note e commenti di più Autori. V. Di Landro, La destinazione patrimoniale nella gestione della crisi d'impresa: il Trust liquidatorio approda in Cassazione, in www.dirittocivilecontemporaneo.com; Di Maio, Riconoscimento e disconoscimento del trust interno liquidatorio nel fallimento, in Dir. fall., 2014, II, 606 ss.; Fanticini,L'ingloriosa fine del trust liquidatorio istituito dall'imprenditore insolvente: tamquam non esset!, in Trusts, 2014, 585 ss.; Fimmanò, La Cassazione «ripudia» il trust concorsuale, in Fallimento, 2014, 1156 ss.; Pellegrino, La Cassazione si pronuncia sulla sorte del trust liquidatorio di impresa insolvente nel successivo fallimento, in N. giur. civ., 2014, 1024 ss.; Tonelli, Certezze ed incertezze del diritto. Nota a Cass. n. 10105 del 9 maggio 2014 e Trib. Belluno 16 gennaio 2014, in www.ilcaso.it, 2014; Bartoli, Trust liquidatorio «anti-concorsuale» istituito da società insolvente ed altre questioni in tema di trust interno - il commento, in Notariato, 2015, 79 ss.; Cerri, Lo stato di insolvenza impedisce la riconoscibilità del trust liquidatorio: la Suprema Corte delinea i contorni della soluzione negoziale della crisi d'impresa, in Dir. fall., 2015, II, 50 ss.; La Porta, Sulla riconoscibilità del trust liquidatorio, in Corr. giur., 2015, 192 ss. (4) Sulla nozione di insolvenza, cfr. inter alia Cass., Sez. un., 11 febbraio 2003, n. 1997, in Impresa, 2003, 691; Cass., 1 dicembre 2005, n. 26217, in Mass. Giur. it., 2005; Cass., 28 gennaio 2008, n. 1760, in Leggi d'Italia, 2010; Cass., 5 dicembre 2011, n. 25961, in CED Cassazione, 2011; Cass., 7 giugno 2012, n. 9253, in Leggi d'Italia, 2014; Cass., 27 marzo 2014, n. 7252, in CED Cassazione, 2014; Cass., 7 aprile 2015, n. 6914, in Leggi d'Italia, 2015; Cass., 16 settembre 2015, n. 18192, in Fisco, 2015, 3596. La nozione di «crisi», che è generalmente ricondotta al rischio possibile o attuale di insolvenza, non trova invece alcun supporto esplicativo da parte del legislatore ed è stata così oggetto di una grande varietà di interpretazioni, di cui dà conto Fauceglia, La dichiarazione e gli effetti del fallimento, in Trattato di diritto delle procedure concorsuali, Apice (diretto da), Torino, Giappichelli, 2010, 49, che ne sottolinea «la differenza (qualitativa e quantitativa) rispetto allo stato di insolvenza, che Pagina 13 di 18
indica la situazione in cui l'imprenditore non è più in grado di far fronte «regolarmente» alle proprie obbligazioni». (5) Sono così definiti i creditori che siano mossi dal solo obiettivo di conseguire la massimizzazione della propria utilità (spesso) attraverso la realizzazione per via contenziosa del proprio credito, anche a scapito di una liquidazione ordinata del patrimonio sociale a vantaggio di tutti i creditori. In tema, con specifico riguardo ai problemi generati dai free riders nell'ambito della negoziazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. sia consentito rinviare a Tarolli, I contratti per la ristrutturazione dei debiti, in questa Rivista, 2014, I, 789 ss. Per un approfondimento in chiave di analisi economica del diritto cfr. White, Economic analysis of corporate and personal bankruptcy law, San Diego, NBER working paper 11536, 2005. (6) In questo senso Trib. Milano, sez. dist. Legnano, 8 gennaio 2009, in Trusts, 2009, 634. (7) In tal senso Trib. Milano, 16 giugno 2009, in Trusts, 2009, 533; Trib. Milano, 17 luglio 2009, in www.ilcaso.it, 2009; Trib. Milano, 30 luglio 2009, in Trusts, 2010, 80; Trib. Milano, 22 ottobre 2009, in Notariato, 2010, 13; Trib. Mantova, 18 aprile 2009, in Trusts, 2011, 529; Trib. Milano, 29 ottobre 2010, in Notariato, 2011, 10; Trib. Bolzano, 8 aprile 2013, in Trusts, 2014, 49; Trib. Napoli, 3 marzo 2014, in www.ilcaso.it, 2014. (8) Cfr. Raganella - Regni, Il trust liquidatorio nella disciplina concorsuale, in Trusts, 2009, 598; Pirruccio, La segregazione dell'intero patrimonio aziendale nel trust non consente il normale svolgimento della procedura concorsuale in danno alla massa dei creditori, in Giur. mer., 2010, 1593 ss.; Basso, Trust liquidatorio e fallimento della disponente: una possibile forma di collaborazione, in Aa.Vv., Collana Quaderni di trust, Moderni sviluppi dei trust, Milano, Ipsoa, 2011, 297; Galletti, Trust liquidatorio e (in)derogabilità del diritto concorsuale, ivi, 555; Cavallini, Trust e procedure concorsuali, in Riv. soc., 2011, 1101. (9) V. nota precedente. Per un'indagine ricostruttiva cfr. Busani-Fanara- Mannella, Trust e crisi d'impresa, Milano, Ipsoa, 2013, 74 ss. e, in particolare, 92 s. (10) Sul concetto di causa concreta v. Cass. 21 luglio 2004, n. 13580, in Contr., 2004, 1011, con nota di Calice; Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, in Corr. giur., 2006, 1718. (11) Trib. Mantova, 18 aprile 2011, in Riv. dir. int. priv. proc., 2012, 176; v. anche Trib. Milano, 29 ottobre 2010, cit., secondo cui «Un trust liquidatorio, per armonizzarsi con la disciplina della convenzione de L'Aja, art. 15, lett. e), deve Pagina 14 di 18
prevedere che in caso di fallimento i beni siano restituiti al curatore; in mancanza, le disposizioni sulla gestione del fondo sono contrarie a norme imperative», con conseguente illiceità dell'intero negozio, «sebbene il profilo di contrarietà attenga soltanto alla gestione del patrimonio nel caso di fallimento e alla mancata previsione della riconsegna dei beni al curatore, quando questo è stato il vero ed unico motivo per cui le parti si determinarono a stipulare il trust». (12) A simili approdi altra parte della giurisprudenza è pervenuta sostenendo che il trust istituito da un imprenditore in bonis deve ritenersi valido e meritevole di tutela, ma che il medesimo è destinato ad essere sciolto nell'eventualità di una successiva dichiarazione di fallimento, in analogia con quanto previsto dalla disciplina cogente in materia di rapporti pendenti ex artt. 72 ss. l. fall. (Trib. Milano, 16 giugno 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 17 luglio 2009, (nt. 7); Trib. Cremona, 8 ottobre 2013, in Fallimento, 2013, 12, 1500). Contra Trib. Reggio Emilia, 2 maggio 2012, in www.ilcaso.it, 2012, e in dottrina Dimundo, «Trust interno» istituito da società insolvente in alternativa alla liquidazione fallimentare, in Fallimento, 2010, 14; Sturniolo, L'utilizzo «distorto» del trust liquidatorio: problemi, prospettive e possibili soluzioni, in Trusts, 2013, 4 ss.; Ranucci, I difficili rapporti tra il trust liquidatorio e le procedure concorsuali, in Fallimento, 2014, 567 ss. (13) In giurisprudenza, Trib. Milano, 16 giugno 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 17 luglio 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 30 luglio 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 22 ottobre 2009, (nt. 7); App. Milano, 29 ottobre 2009, in Trusts, 2010, 271; Trib. Milano, 29 ottobre 2010, (nt. 7); Trib. Mantova, 18 aprile 2011, in www.ilcaso.it, 2011; Trib. Monza, 15 febbraio 2012, in Leggi d'Italia, 2012; Trib. Bolzano, 8 aprile 2013, (nt. 7); Trib. Napoli, 28 novembre 2013, in Fallimento, 2014, 567, con nota di Ranucci; Trib. Napoli, 3 marzo 2014, cit. In dottrina, tra gli altri, Raganella - Regni, (nt. 8), 608; Galletti, (nt. 8), 636; Sturniolo, (nt. 12), 408. (14) Art. 8 della Convenzione De L'Aja, su cui v. Trib. Reggio Emilia, 2 maggio 2012, (nt. 12). Nell'ambito di tale giudizio, il diritto anglosassone sanziona in particolare il cd. sham trust, fittiziamente istituito al solo fine di sottrarre i beni del disponente alle ragioni dei creditori. (15) V. Trib. Alessandria, 24 novembre 2009, in Notariato, 2010, 127. (16) V. Fimmanò, (nt. 3), 1163. (17) Così Fimmanò, (nt. 3), 1166. Sulla distinzione tra nullità ed inesistenza v., tra gli altri, Santoro Passarelli, Dottrine generali di diritto civile, Napoli, Jovene, 1980, 242; Filanti, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli, Jovene, 1983; Bianca, Diritto civile III, Il contratto, Milano, Giuffrè, 2000, 614. Pagina 15 di 18
(18) Trib. Milano, 16 giugno 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 17 luglio 2009, (nt. 7); Trib. Milano, 30 luglio 2009, (nt. 7). (19) V. nota 12. (20) Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, massimata in Mass. Giust. civ., 2006, 5. (21) «La concezione concreta della causa non significa (e non deve implicare) un ritorno alla concezione soggettiva della causa: cioè l'impropria valorizzazione delle motivazioni strettamente individuali di una parte, delle sue personali rappresentazioni psichiche, dei suoi interessi coltivati nel foro interno. «Concreto» non s'identifica con «soggettivo»: la concretezza può (e qui deve) declinarsi in termini di oggettività», così Roppo, Il contratto, in Trattato Iudica - Zatti, Milano, Giuffrè, 2011, 364, e, più di recente, Id.,Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, 957 ss. (22) Artt. 686 e 857, n. 3, cod. comm. In tema De Matteis, Istruttoria prefallimentare: il procedimento, in Caiafa (a cura di), Le procedure concorsuali, Padova, Cedam, 2011, 85-86. (23) Tale facoltà diviene dovere penalmente sanzionato solo laddove l'inerzia del debitore determini un aggravamento del dissesto, integrando così gli estremi del reato di bancarotta semplice ai sensi dell'art. 217, comma 1º, n. 4), l. fall. (24) Artt. 819-829 cod. comm. (25) Secondo l'attuale formulazione dell'art. 160 l. fall. infatti, «L'imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano ([...])» (comma 1). «Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza» (comma 3). (26) Trib. Milano, 10 novembre 2009 (decr.), in Dir. fall., II, 2010, 343 ss., con nota di Galardo, ove a proposito della società Risanamento S.p.A. ha notato l'incompatibilità tra ammissibilità dell'accordo di ristrutturazione e stato di insolvenza dell'impresa alla base di un'eventuale dichiarazione di fallimento, sul presupposto dell'attitudine del primo al superamento «anche di quell'eventuale e più grave stato di crisi che il PM ha ritenuto di poter qualificare come insolvenza». Ciò in quanto gli accordi di ristrutturazione «sono strumento ex se alternativo al fallimento (al pari di una proposta di concordato preventivo)». A simili conclusioni parrebbero giungere Lombardi-Beltrami, I criteri di selezione della procedura più adatta al risanamento di un'impresa in crisi, in questa Rivista, 2011, I, 732, là dove incidentalmente si osserva che i reati fallimentari vanno ritenuti incompatibili con gli accordi di ristrutturazione dei debiti, posto che tali reati «presuppongono la dichiarazione di fallimento o, quanto meno, l'esistenza Pagina 16 di 18
di uno stato di insolvenza che gli accordi di ristrutturazione dei debiti tendono proprio a evitare o rimuovere». V. anche Trib. Milano, 20 maggio 2010, in Dir. fall., II, 2011, 480, con nota di Boggio; Trib. Roma, 20 maggio 2010, in www.ilcaso.it, 2010; Trib. Udine, 30 marzo 2012, ivi, 2012; Trib. Udine, 2 agosto 2012, in Fallimento, 2013, 125; Trib. Gorizia, 9 novembre 2012, in Foro it., 2013, 1536. Di conforme avviso, in dottrina, Rolfi, Art. 182 bis tra diritto processuale, contenuti sostanziali e controllo giurisdizionale, in Fall., 2011, 92; Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti a norma dell'art.182 bis legge fall., in Vassalli - Luiso - Gabrielli,Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, Torino, Giappichelli, 2014, IV, 503; Minutoli, Quali interferenze tra l'istanza di fallimento e la proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti?, in Fallimento, 2015, 537. ContraCarli, Accordi di ristrutturazione dei debiti ed impresa in crisi, in Contr. impr., 2009, 417 ss., il quale sostiene l'inapplicabilità degli accordi di ristrutturazione dei debiti alle imprese insolventi. (27) Così Boggio, Gli accordi di salvataggio delle imprese in crisi. Ricostruzione di una disciplina, Milano, Giuffrè, 2007, 157. Con riguardo alle soluzioni negoziate della crisi, anche Galletti, Il trust e le procedure concorsuali: una convivenza subito difficile, nota a Trib. Milano 16 giugno 2009 (ord.), in questa Rivista, 2010, II, 900, ammette «la deroga negli accordi al principio della par condicio creditorum, purché però i soggetti estranei all'accordo non risultino pregiudicati nei propri diritti». Con specifico riferimento al tema della vincolatività degli accordi raggiunti a maggioranza è stato sottolineato «un affievolimento della par condicio almeno nei termini in cui ne parla l'art. 2741 c.c.» (Buonocore, Principio di uguaglianza e diritto commerciale, in questa Rivista, 2008, I, 551 ss.). In tema v. anche App. Bergamo, 6 agosto 2014, in www.ilcaso.it, 2015. (28) Sulla rilevanza dei motivi negli atti unilaterali cfr. tra gli altri Di Marzio, La nullità del contratto, Padova, Cedam, 2008, 328 ss. Sul permanere di una differenza «ontologica» tra causa - pur intesa nella sua dimensione individuale e concreta - e motivi, v. in particolare Caringella-De Marzo, Manuale di diritto civile III. Il contratto, Milano, Giuffrè, 2008, 153, ove si valorizza una «([...]) definizione di causa che, pur tenendo nella debita considerazione il concreto interesse individuale che trova realizzazione mercé la stipulazione del contratto, non giunge a confondersi con le intime motivazioni che hanno spinto ciascun contraente. ([...]). Senza la necessità di tornare alle teorie di stampo strettamente oggettivo, prima fra tutte quella della funzione economico-sociale, è sufficiente, quindi, adottare una diversa prospettiva, che tenga ferma la distinzione: la causa Pagina 17 di 18
è il concreto interesse che attraverso il contratto viene ad essere soddisfatto, il motivo è l'intima ragione che ha spinto il contraente ad obbligarsi». (29) L'espressione è di Fimmanò, (nt. 3), 1157. UNIV. DI TRENTO © Copyright Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A. 2019 15/02/2019 Pagina 18 di 18
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