Toc e Patòc - Adov Genova

Pagina creata da Cristina Pucci
 
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Toc e Patòc
«Lo vedi questo? È un pezzetto del Monte Toc».
Così mi ha detto Guido l’altro giorno,
mostrandomi un sassolino chiaro. Aveva gli occhi
lucidi e, per la prima volta, mi è sembrato molto
anziano.
Sì, lo so, Guido e Adele sono anziani, ma quando
ci parli e ti raccontano dei loro viaggi te ne
dimentichi, è come se non avessero età. Invece,
mentre Guido mi mostrava quel sassolino e
sembrava sul punto di piangere, ecco, in quel
momento mi sono ricordato che ha tanti anni più
di me.
«Il Monte Toc? Proprio la montagna che franò nel
lago del Vajont?».
Se la ricordano in tanti quella tragedia, anche
gente che non era ancora nata.

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È successo qui in Italia, in un valle del Veneto,
la valle del torrente Vajont, nell’ottobre del
1963.
Un uomo molto ricco e prepotente, il conte
Vittorio Giuseppe Sade Cinovolpe de Smisuratis,
voleva costruire una diga gigantesca, la più
grande mai vista, alta come quattrocento uomini
uno sull’altro.
«Verranno a fotografarla da tutto il mondo!»,
diceva. «Tutti parleranno della grande diga di
quel grand’uomo del conte Sade Cinovolpe de
Smisuratis!».
Il problema era che la voleva costruire nel posto
sbagliato, cioè contro il fianco di una montagna
che a guardarla sembrava forte forte – “forte
come una roccia” si dice sempre – e invece era
debole debole, perché dentro era già tutta
sbriciolata.

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Infatti il nome del monte, “Monte Toc”, metteva
in guardia dal pericolo: da quelle parti, toc vuol
dire “pezzo” e patòc vuol dire “marcio”. Tu la
costruiresti una diga sotto un monte marcio che
cade in pezzi? No, vero? Ma il conte Sade
Cinovolpe de Smisuratis ormai si era fatto
quell’idea e non sentiva ragioni: la diga si doveva
costruire a ogni costo! Serviva per fermare
l’acqua in quella gola, creare un lago dove prima
non esisteva, far girare tutta quell’acqua nelle
turbine di una centrale, velocissima,
frrrrrrrrrrrrrrrr, e produrre corrente elettrica,
proprio quella che accende le luci nelle case, e fa
funzionare la radio, la televisione, il computer,
l’asciugacapelli. Sì, il conte faceva questo:
vendeva la corrente elettrica, e chiedeva anche
un bel po’ di soldi! Se uno voleva leggere di sera,
vedere la tv o asciugarsi i capelli col phon,
doveva comprare la corrente da quell’uomo.

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Nella bolletta che arrivava a casa tutti i mesi
c’era scritto:
«Devi pagare centoquarantottantamila baiocchi al
conte Vittorio Giuseppe Sade Cinovolpe de
Smisuratis, altrimenti ti stacchiamo la luce!».
A proposito: il conte era diventato ricco grazie ai
Biechi Neri e al loro gran capo, Benito il
Mascellone. Di lui abbiamo già parlato. Sade
Cinovolpe de Smisuratis era suo amico, e
Mascellone gli aveva fatto tanti favori. Solo che
Mascellone era finito male, mentre il conte se
l’era cavata dicendo: «Non è vero che ero amico
di Mascellone! Facevo solo finta! In realtà mi è
sempre stato antipatico!».
In Italia spesso va così, basta dire che facevi
finta, e tutti si dimenticano delle cose brutte che
hai fatto.
Sade Cinovolpe de Smisuratis non volle ascoltare
nessun avvertimento, e fece costruire la diga.

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Per costruirla, fece togliere le terre a molti
contadini dei dintorni, dicendo che quella terra
serviva per metterci la diga e quindi per la
“pubblica utilità”. Mandava le guardie coi fucili,
e i contadini dovevano lasciare le loro case.
Una donna coraggiosa che scriveva su un giornale
e si chiamava Tina Merlin protestò, disse che quel
che stava succedendo era brutto, grave e
pericoloso. Disse: «Qui viene giù la montagna!».
Ma nessuno la ascoltò, a parte gli abitanti dei due
paesi più vicini, Erto e Casso, che protestavano
perché non volevano la diga. Ma chi erano i
poveri abitanti di Erto e Casso, chi era Tina
Merlin, di fronte al potente e ricchissimo Vittorio
Giuseppe Sade Cinovolpe de Smisuratis?
La diga si fece, e l’acqua formò un nuovo lago.
Poco tempo dopo, in Italia si decise che la
corrente elettrica non la poteva più produrre né
vendere il primo che passava,

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ma poteva farlo una sola azienda di proprietà
pubblica, cioè (così si dice sempre) “di tutti gli
italiani”, che venne chiamata ENEL. Il nome
voleva dire “Ente Nazionale per l’Energia
Elettrica”. Chi possedeva una centrale per
produrre la corrente, ora doveva venderla
all’ENEL. Lo fece anche Sade Cinovolpe de
Smisuratis, che ci guadagnò un sacco di soldi,
quindi gli andò comunque bene.
Una sera, metà del Monte Toc si staccò e cadde
in quel lago e alzò un’onda d’acqua gigantesca,
alta come un palazzo di cinquanta piani e potente
come due bombe atomiche. L’onda scavalcò la
diga, si divise in due, da una parte colpì alcuni
villaggi di montagna, dall’altra corse giù, a valle,
brrrrruuuuuuuummmmmmmmmmm, e spazzò via
un’intera cittadina, Longarone, e altri paesi dei
dintorni.

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Era già ottobre, ma quella sera faceva caldo, a
Longarone la gente era per strada a mangiare il
gelato o nei bar a guardare una partita di calcio,
Real Madrid contro Glasgow Rangers. Tre minuti
dopo, al posto delle case, dei negozi, delle piazze
non c’era più niente, solo una spianata di fango.
Morirono duemila persone.
Ma eravamo rimasti a Guido che mi mostrava quel
sassolino, e a me che gli chiedevo se era proprio
un pezzo di quel Monte Toc.
«Sì, proprio quello», mi ha risposto Guido. «Io e
Adele c’eravamo».
«Quando? Proprio il giorno del disastro?».
«Siamo arrivati il giorno dopo. Come tanti,
volevamo aiutare quella gente, fare quel che si
poteva… Ma ormai, quel che si poteva fare era
poco. Avevo appena compiuto diciotto anni, Adele
ne aveva sedici. Eravamo già fidanzati.

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Non me la dimentico più, quella mattina: non
avevo ancora sentito la radio, è squillato il
telefono ed era Adele, che viveva ancora coi suoi
genitori. Stava piangendo, mi ha detto: “Hai
sentito? Longarone non c’è più!”.
A Longarone c’eravamo stati proprio quell’estate,
l’avevamo passata camminando sui monti, nei
boschi. La diga l’avevamo vista e ci aveva messi
di malumore, in quel mostro di cemento c’era
qualcosa che non andava… E adesso Longarone
era distrutta. Mettemmo poche cose negli zaini e
prendemmo il primo treno, poi una corriera fino
al luogo del disastro… La gente che piangeva, il
fango che copriva tutto… Fu uno dei giorni più
terribili della mia vita».
Non tutte le storie sono belle, ma certe storie
brutte vanno raccontate.

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Il conte Vittorio Giuseppe Sade Cinovolpe de
Smisuratis disse che non era stata colpa sua, e
neanche della diga: «Non è mica venuta giù la
diga! È venuta giù la montagna. Quindi è colpa
della montagna. E poi, io non c’entro più niente,
la diga l’avevo già venduta! Anzi, a dirla proprio
tutta, quella diga mi è sempre stata antipatica.
Dicevo di volerla costruire, ma facevo finta».
E così, se la cavò pure quella volta. Spesso in
Italia va in questo modo, finché non arriva un
Dolcino, non arriva una Margherita che dice:
«No, non deve andare così, i prepotenti non
possono passarla sempre liscia! Tutti insieme
possiamo farcela, e costruire un mondo dove
queste cose non accadranno più».
Per costruire quel mondo può servire anche un
sasso, un sasso tenuto come ricordo di un giorno
brutto, e di una storia brutta che va raccontata.

A Tina Merlin, 1926-1991

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