STORIA DELLA MODA Benedetta Del Romano - Facoltà di Lettere e Filosofia
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LA MODA ITALIANA TRA LE DUE GUERRE Dopo la prima guerra mondiale in Italia ricominciarono i tentativi per creare una moda italiana emancipata dalla moda francese. Il 16 marzo 1919 venne inaugurato a Roma, in Campidoglio, il primo Congresso nazionale dell’industria e del commercio dell’abbigliamento. Nella relazione del comitato promotore si sottolineavano i propositi del Congresso: «non mancandoci né genialità, né buon gusto [...] dobbiamo cercare di far entrare il nostro paese nell’orbita dei centri irradiatori della Moda e del Vestire». Il Congresso si chiuse il 18 marzo con la nomina di una Commissione che avrebbe dovuto presentare al governo il progetto per la creazione di un Istituto nazionale dell’abbigliamento e di un Ente della moda, ma tutto ciò non avvenne.
FIGURE CHIAVE In questi anni due personaggi furono i maggiori fautori dell’idea di una moda italiana autonoma: Fortunato Albanese e Lydia De Liguoro. Fortunato Albanese presentò al ministro per l’industria Cantoni, nel 1917, un opuscolo dal titolo: «Per una moda italiana» dove esponeva la sua idea circa la fondazione di un Ente Nazionale per la moda, elencando anche i difetti del sistema industriale italiano. Nel 1918 redasse un opuscolo dal titolo «Il perché del I Congresso Nazionale fra le industrie dell’Abbigliamento», mentre nel 1919 tenne diverse conferenze circa «Il valore economico e sociale della moda». Lydia De Liguoro invece era l’anima di LIDEL, rivista nata nel 1919. Il nome Lidel era uno pseudonimo della sua creatrice e contemporaneamente era l’acronimo di: Letture, Illustrazioni, Disegni, Eleganza, Lavoro.
LIDEL Lidel, secondo la De Liguoro, rappresentava «la volontà di un saldo cuore di donna, che intendeva rivolgersi al fiore delle donne d’Italia per far apprezzare ogni nostra cosa bella e degna, incoraggiando i nostri creatori artisti in favore di una moda nostra». Lydia De Liguoro era fortemente nazionalista e aderì a uno dei primi gruppi proto-fascisti, quello delle «ardite» di Milano e successivamente divenne membro del «Fascio femminile nazionale di Milano» Sebbene Lidel fosse una rivista lussuosa, nel 1919 Lydia De Liguoro, iniziò una crociata contro il lusso, al fine di porre rimedio alla crisi economica post-bellica. Negli anni subito dopo la guerra infatti era sentimento comune ritenere irresponsabili le donne che spendevano molti soldi in abiti. La sua campagna contro il lusso si concretizzo in un semplice slogan: «Non Comprate!»
LIDEL Nel 1920 la De Liguoro dovette rivedere le proprie posizioni durante la sua partecipazione, in qualità di rappresentante del Fascio femminile nazionale di Milano, al Secondo Congresso degli Industriali e commercianti dell’abbigliamento indetto a Roma. Qui la De Liguoro dovette far fronte agli attacchi degli industriali allarmati dalle possibili conseguenze della sua crociata contro il lusso. In quegli anni sorsero numerose iniziative contro il lusso: ci fu il caso della rivista genovese La Chiosa che indisse un referendum per adottare come unico vestito il tailleur, quello della contessa Rucellai a Firenze che diede un ballo dove l’unico abbigliamento consentito era la «tuta» progettata da Thayaht e ci fu, inoltre l’iniziativa dei futuristi, con Marinetti che aveva elaborato un manifesto Contro il lusso femminile pubblicato nel 1919. Lydia De Liguoro modificò la sua posizione in questi termini: «Non bisogna combattere contro il lusso, ma contro il lusso d’importazione straniera.»
LIDEL Lydia De Liguoro iniziò quindi a promuovere l’idea di effettuare i propri acquisti in Italia mettendo in luce i pregiudizi verso gli abiti realizzati dalle case di moda italiane. Usando un linguaggio patriottico, enfatizzava le potenzialità dell’artigianato italiano e degli artisti italiani per lo sviluppo di uno stile che fosse genuinamente italiano. Pose l’accento sul fatto che tessuti fabbricati in Italia e venduti a poco prezzo all’estero venivano trasformati in abiti in Francia che venivano rivenduti in Italia a prezzi altissimi. Lydia De Liguoro venne molto apprezzata da Mussolini per questa valorizzazione della produzione italiana.
I PRIMI GRANDI MAGAZZINI Nel corso del secondo decennio del Novecento nacquero anche i primi grandi magazzini italiani a prezzo fisso. Nel 1917 fu fondata La Rinascente, nome ideato da Gabriele d’Annunzio, per opera della famiglia Borletti, che rilevò i vecchi magazzini Bocconi. Nel 1919 venne creata la UPIM (Unico Prezzo Italiano Milano) finanziata con capitali della Rinascente. Solo nel 1931 vennero fondati i magazzini Standard che divennero «Standa» nel 1937 durante la campagna di italianizzazione intrapresa dal regime fascista. I grandi magazzini italiani furono rivolti meno alla clientela più altolocata, ma ebbero più successo tra i ceti medi. In ogni caso la loro definitiva affermazione si ebbe nel secondo dopoguerra.
LA MODA FASCISTA Il regime fascista fece proprie le battaglie per emancipare la moda italiana, rendendole parte del proprio programma di governo e sfruttandole per il proprio fine nazionalistico. Il regime fascista utilizzò la moda anche per ridefinire il ruolo della donna. Durante il fascismo la De Liguoro continuò ad essere una delle voci più forti nel dibattito circa la necessità di costruire un’industria nazionale in grado di competere con il sistema produttivo francese. Era convinta che le industrie italiane, con l’appoggio della stampa di regime, dovessero impegnarsi per attirare le attenzioni delle donne alto- borghesi, spingendole ad acquistare italiano. Era anche persuasa della necessità di organizzare delle esposizioni per presentare le nuove mode e le idee dei designers italiani.
LA MODA FASCISTA Nel 1927 si tennero due importanti eventi per la promozione della moda italiana. A Como si tenne un’esposizione dedicata alla seta con il supporto del governo italiano che raggruppava diversi rappresentanti dell’industria serica italiana. Paul Poiret fu uno degli ospiti d’onore dell’evento. A Venezia si tenne invece una sfilata di moda dove furono presentati, per la prima volta insieme, abiti italiani e francesi. La sfilata si tenne al Lido e fu organizzata da due riviste, una italiana (Fantasie d’Italia) e una francese (Foemina). Lydia De Liguoro fu presente all’evento descrivendo in un articolo gli abiti, sottolineando la bellezza delle creazioni italiane, la loro originalità e il loro gusto raffinato.
LA FINE DEGLI ANNI VENTI Gli anni venti terminarono con la crisi economica originata dal crollo della borsa di Wall Street. I primi anni Trenta furono importanti per creare un’immagine della moda italiana. Due matrimoni tenutisi in quegli anni, infatti, contribuirono a pubblicizzare i modelli italiani, creati e realizzati in Italia. L’8 gennaio 1930 si tennero le nozze tra il principe Umberto di Savoia e Maria José del Belgio. La futura «regina di maggio» indossò un abito realizzato dalla sartoria Ventura, a partire da un bozzetto disegnato dal principe stesso. Il velo fu invece realizzato a Bruges, dono del popolo belga. Il 24 aprile 1930 si celebrarono le nozze tra Edda Mussolini e Galeazzo Ciano. La figlia de duce scelse un abito della sartoria Montorsi di via dei Condotti. Montorsi venne acclamato con «il più italiano dei sarti», ma il modello dell’abito era però francese, di Coco Chanel, anche se nessuno lo avrebbe mai fatto presente.
IL MATRIMONIO TRA 8 gennaio 1930 MARIA JOSÉ E UMBERTO
MATRIMONIO TRA GALEAZZO 24 aprile 1930 CIANO ED EDDA MUSSOLINI
LA FINE DEGLI ANNI VENTI Il modello di donna androgina, della flapper e della garçonne, che si era affermato negli anni venti, era inviso al regime che l’aveva rinominato «donna crisi». Al suo posto cercò di far affermare, non senza difficoltà, un modello di donna più florida e dalle forme mediterranee che doveva essere «sposa e madre esemplare». Questa preferenza venne motivata dal regime adducendo il fatto che la donna magra non piaceva all’uomo e che non sarebbe stata in grado di procreare una prole sana e forte per la patria.
LA CAMPAGNA ANTI-MAGREZZA Il regime iniziò così una vera e propria campagna anti-magrezza, in cui la ricerca di un corpo magro, come indicato dalle mode del tempo, veniva stigmatizzata come un’abitudine non salutare, che avrebbe portato a malattie e debilitazione fisica. Lidel fu una delle prime riviste a portare avanti questa campagna anti- magrezza. La parola d’ordine per Lidel divenne «snellezza, non magrezza», quest’ultima era assolutamente «da scartare». I figurini pubblicati su Lidel nel 1932, infatti, presentavano donne formose e floride, contrariamente alle immagini presenti solitamente nelle riviste femminili e di moda.
LE RIVISTE DEL PERIODO FASCISTA Altre riviste attive durante il Ventennio e che fecero proprie le istanze del regime per la costruzione di un nuovo modello di donna furono: «La Donna», fondata nel 1906, era rivolta ad un pubblico più modesto. «Lei» che durante la campagna contro l’uso del «lei» nel 1937 divenne «Annabella». «Sovrana» che nel 1938 cambiò il proprio nome in «Grazia». «Moda» era invece il periodico ufficiale della Federazione nazionale fascista degli industriali dell’abbigliamento, sostituito, nel 1941, da «Bellezza», una rivista più lussuosa e patinata. Oltre a queste riviste ve ne erano poi due che esprimevano la voce del regime in modo ancor più diretto: «Vita femminile», mensile fondato da Ester Lombardo a Roma nel 1922 e «Dea, mensile nato nel 1933 con lo scopo di «valorizzare il prodotto italiano, arginare con la concorrenza l’invasione delle riviste straniere di moda».
LE RIVISTE DEL PERIODO FASCISTA Le donne dei ceti più elevati, però, continuavano a leggere i periodici stranieri, come «Vogue», «harper’s Bazaar» e «Marie Claire» che si facevano arrivare attraverso la Svizzera. Continuavano a preferire la costosa moda francese, lasciando alle occasioni ufficiali gli abiti italiani. Allo stesso tempo le riviste italiane dovettero omettere i nomi dei sarti francesi di cui pubblicavano le immagini già a partire dal 1934, mentre dal 1937 i modelli italiani furono i soli a poter essere mostrati sulle pagine delle riviste. La censura divenne sempre più stretta nel tentativo di imporre una moda nazionale anche attraverso lo strumento della stampa specializzata.
LO SPORT Le attività sportive, che erano iniziate a diffondersi negli anni venti, erano un terreno di scontro tra cattolici e regime fascista. Il regime incoraggiava le attività sportive femminili organizzando anche gare agonistiche tra le giovani appartenenti alle varie organizzazioni fasciste. Il mondo cattolico invece riteneva che lo sport fosse causa di sterilità femminile e contribuisse a tenere la donna fuori di casa, condannandolo come uno dei principali nemici della famiglia. Entrambi i mondi però erano concordi nel condannare i tentativi di emancipazione femminile. In questi anni lo sport divenne un fenomeno di massa, ma gli strati più bassi della popolazione ne rimasero comunque esclusi, mentre in ambienti borghesi e aristocratici lo sport, anche femminile, divenne una vera e propria moda che vedeva diventare gli eventi sportivi delle vere e proprie occasioni mondane.
L’ENTE NAZIONALE DELLA MODA Nel 1932 a Torino nacque l’Ente autonomo per la mostra permanente nazionale della moda. Torino fu scelta per la sua importanza come città industriale e per la lunga tradizione nell’ambito dell’abbigliamento e dell’eleganza. Lo scopo dell’Ente era quello di italianizzare tutto il ciclo produttivo del settore moda, organizzando una mostra da tenersi due volte l’anno, in primavera e in autunno. Presto emersero alcune lacune organizzative da parte dell’Ente. Nell’aprile 1933 si tenne la prima mostra, dedicata però alla moda estiva: era troppo tardi affinché le piccole sartorie potessero acquistare i modelli in tempo per l’estate, allo stesso modo, presentare le collezioni invernali nel mese di ottobre era già troppo tardi. Un altro problema era rappresentato dalla mancanza di organizzazioni adeguate in campo artistico, industriale e commerciale.
L’ENTE NAZIONALE DELLA MODA La Francia aveva una organizzazione solida per la preparazione e la formazione professionale in ambito moda, sia per quanto riguarda il disegno sia per quanto concerne la realizzazione e la commercializzazione. L’Italia era carente in questo senso e nel 1933 la De Liguoro constatava un continuo rivolgersi alla Francia per acquisire modelli e disegni. Nel 1935 diventò di primaria importanza, nella politica fascista, la battaglia per l’autarchia che non poteva non riguardare anche il settore moda. Il 31 ottobre dello stesso anno l’Ente autonomo per la mostra permanente nazionale della moda cambiò definitivamente nome in Ente nazionale della moda.
L’ENTE NAZIONALE DELLA MODA A questo punto si moltiplicarono i compiti dell’Ente. Per promuovere la moda italiana, l’Ente creò un elenco delle sartorie e tutte queste ditte iscritte all’Ente avevano il dovere di contrassegnare almeno il 25% della loro produzione con il «marchio di garanzia» rilasciato dall’Ente stesso e che sanciva l’italianità del capo, dalla creazione alla produzione. Il procedimento per ottenere il marchio era molto macchinoso: ogni ditta doveva inviare all’Ente, a proprie spese, una fotografia e un campione di tessuto per ogni modello da certificare, oltre a dover pagare una somma per ogni capo a cui veniva concessa la marca. Presto iniziò lo scetticismo intorno al sistema di concessione delle marche, che venivano elargite in larga misura. Si iniziò a pensare quindi di distinguere le produzioni delle case d’alta moda da quelle delle case minori. Questa idea portò in seguito alla nascita della «marca d’oro».
ENTE NAZIONALE Dal 1932 DELLA MODA
L’ENTE NAZIONALE DELLA MODA Un altro problema era dato dalla scarsità di immagini dei modelli italiani disponibili per la pubblicazione sulle riviste di moda. L’Ente, infatti, a causa del segreto professionale, non poteva rilasciare le foto inviate per la certificazione dei capi, in quanto spesso si trattava di vestiti o accessori non ancora in commercio. Le uniche foto di modelli italiani disponibili erano quelle poche eseguite in occasione delle due presentazioni annuali. L’Italia non seppe prendere esempio dalla Francia per creare un sistema organico che collegasse la produzione di materiale fotografico, stampa di settore e case creatrici. Ester Lombardi si lamentò di questa lacuna ed ebbe uno scontro con Farinacci, direttore del quotidiano «Critica Fascista», dopo aver pubblicato alcuni modelli francesi su «Vita Femminile».
L’ENTE NAZIONALE DELLA MODA L’Ente nazionale della moda promosse anche la pubblicazione, nel 1936, del Commentario Dizionario Italiano della Moda curato da Cesare Meano. In questo testo venivano proposte le italianizzazioni di tutti i termini stranieri in uso nel campo della moda. Negli anni successivi la pubblicazione dei Commentario si assistette alla progressiva italianizzazione dei termini di moda in tutte le riviste, ma nella vita reale nelle sartorie venivano ancora utilizzati i vecchi termini. Secondo il Commentario il tailleur diventava «completo a giacca», il golf si trasformava in «panciotto a maglia», i pois erano «pallini», le paillettes diventavano «pagliuzze», lo smoking era una «giacchetta da sera», il satin si faceva «raso», i volant diventavano «volanti» e così via.
L’AUTARCHIA La battaglia portata avanti dal regime per l’utilizzo di materie prima esclusivamente italiane portò a dare un’importanza sempre maggiore all’industria del tessile artificiale. L’industria tessile italiana era stata molto colpita dalla crisi del ’29, soprattutto per quanto riguarda il settore serico e cotoniero. Il settore chimico invece iniziò invece in quel momento un incremento di produzione. LA SNIA-Viscosa nel 1939 divenne la maggiore produttrice italiana ed europea di fibre tessili artificiali inglobando la CISA-Viscosa. In Italia mancavano alcune materie prime naturali, come cotone, lana e juta. La produzione industriale di fibre chimiche doveva colmare le mancanze di materie prime naturali.
L’AUTARCHIA Per ovviare a questa scarsità di materie prime naturali venne promulgata una legge che obbligava ad utilizzare una percentuale di fibre artificiali nella lavorazione di diverse fibre naturali carenti all’interno del paese. Un altro effetto dell’autarchia sulla produzione di fibre tessili fu la nascita di «tessuti autarchici». Si tratta di materiali come il rayon e i suoi derivati, il lanital, la cisalfa, la ginestra, il ramì, lo sparto, il gelso, l’orbace, ecc. Il lanital era una fibra tessile ricavata dalla caseina che doveva sostituire la lana. Il brevetto del lanital, ideato dall’ingegner Ferretti, fu acquistato dalla SNIA-Viscosa nel 1935. La CISA-Viscosa mise invece sul mercato la cisalfa, un’altra fibra chimica che doveva sostituire la lana.
L’AUTARCHIA La ginestra era tratta dall’omonima pianta e doveva sostituire il cotone o la juta. L’orbace è una lana ruvida, tipica della Sardegna, che fu scelta dal regime per le uniformi di organizzazioni civili per la sua resistenza e per la sua impermeabilità. Il rayon era ritenuto «il più moderno dei tessuti italiani e il più italiano dei tessuti moderni» e rappresentò una vera e propria rivoluzione nell’abbigliamento femminile. Sebbene all’inizio presentasse il difetto di una facilità di smagliatura, con il tempo fu reso più resistente e si iniziò ad utilizzarlo in tutte le sue versioni. Un’altra innovazione che implementò l’uso del rayon fu l’invenzione del filo opaco che permetteva il suo utilizzo per tutti i tipi di capi d’abbigliamento. Nel 1925 l’Italia era al secondo posto nel mondo per la produzione di rayon e per anni ne fu la prima esportatrice.
L’AUTARCHIA Anche la produzione di pellicce risentì della corsa all’autarchia. La pelliccia era utilizzatissima negli anni trenta in Italia e veniva proposte anche per l’estate. Sebbene molte pellicce venissero ancora importate, la produzione italiana era all’avanguardia, soprattutto nel creare pellicce dall’aspetto lussuoso partendo da materiali più poveri. C’erano pellicce di agnello camuffato da castoro oppure si utilizzava il coniglio tinto così da riprodurre il leopardo, oppure la lontra. Venivano utilizzate anche pellicce di scoiattolo, gatto o topo. I topi venivano sottoposti a incroci o diete particolari al fine di ricavarne pellicce dai colori particolari o dalle tonalità brillanti.
ALLA VIGLIA DELLA GUERRA Il 16 giugno 1939 fu promulgata una legge che sanciva l’entrata in vigore della marca d’oro da attribuirsi solo ai capi delle case d’alta moda. In realtà anche questa marca non ebbe molto successo perché fu ben presto assegnata troppo facilmente a una quantità eccessiva di capi. Nonostante questi tentativi di italianizzare la moda, rendendo obbligatoria una percentuale di modelli da ideare e creare in Italia, le maggiori case di moda continuarono a guardare alla Francia, acquistando a Parigi i modelli da realizzare. Le piccole sartorie che non potevano permettersi di inviare un rappresentante a presenziare alle sfilate parigine, si affidavano a modelliste che si recavano a Parigi due volte l’anno per comprare grandi quantità di modelli da rivendere.
ALLA VIGLIA DELLA GUERRA Esistevano negozi di cartamodelli, il più celebre dei quali si trovava in via Nazionale e si chiamava Casa Line. Erano negozi molto frequentati dalle donne dell’epoca e, in particolare, dalle sarte di piccole sartorie. IL 12 maggio 1940 si tenne a Torino una Mostra dell’abbigliamento autarchico con la partecipazione di diverse case di moda. Le pellicce erano ancora il fulcro delle aspirazioni femminili e quasi tutti i modelli erano bordati o guarniti con pelliccia di volpe. Un’altra moda era quella dei turbanti, ispirati a quelli indossati dalle dive di Hollywood in alcune pellicole dell’epoca. L’8 e il 9 giugno avrebbe dovuto tenersi un Congresso a conclusione della mostra. A causa dell’imminente ingresso in guerra dell’Italia il Congresso non si tenne, ma si sarebbero dovuti affrontare diversi problemi del sistema moda, tra cui la preparazione di disegni e fotografie o la protezione dei modelli contro la contraffazione.
GLI ANNI DELLA GUERRA Quando i tedeschi occuparono Parigi, la moda perse il suo centro. Fu allora che occorse trovare un’alternativa alla creatività francese, facendo affidamento sulle produzioni locali. Il regime cercava di minimizzare ogni difficoltà. Le riviste continuarono a proporre pellicce e abiti da ballo o da teatro fino al 1941. Poi la situazione bellica si fece più critica e fu introdotto il sistema delle tessere a punti anche per i capi d’abbigliamento, solo i cappelli non furono limitati, né sottoposti ad alcun tesseramento. Occorreva rivedere il guardaroba: gli orli tornarono ad accorciarsi al ginocchio e le giacche si fecero attillate con le spalline imbottite, quasi a richiamare le uniformi militari. L’ «abito a giacca» serviva per diverse occasioni, cambiando di volta in volta gli accessori. Le calze di seta sparirono e al loro posto furono verniciate le gambe.
GLI ANNI DELLA GUERRA Il trucco marcato e le acconciature elaborate compensavano l’austerità dell’abbigliamento. Venivano dati suggerimenti su come modificare i vecchi vestiti o come utilizzare copriletti e tende per produrre abiti. In questi anni emersero alcune personalità che portarono ai primi esempi di moda genuinamente italiana. È il caso di Salvatore Ferragamo, che già negli anni precedenti la guerra aveva raggiunto il successo con le sue calzature, realizzate con materiali innovativi e poveri, quali il sughero o il nylon. Altri creatori che emersero in questi anni furono Roberta di Camerino e Giuliano Fratti, che realizzava bottoni, fibbie e bijoux in materiali poveri come rafia, corda, sughero e paglia unita a pietre.
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