Ritornare a Milton Friedman, per autenticamente avversarlo
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Ritornare a Milton Friedman, per autenticamente avversarlo Contro ogni dissipazione di energie potenzialmente antagoniste contro nemici astratti e favolistici, il ritorno all’essenza concreta del Capitalismo è già il ritorno al fondamento concreto del suo contrasto
Ritornare a Milton Friedman, per autenticamente avversarlo Contro ogni dissipazione di energie potenzialmente antagoniste contro nemici astratti e favolistici, il ritorno all’essenza concreta del Capitalismo è già il ritorno al fondamento concreto del suo contrasto. 23 Gennaio 2021 Il primo febbraio, L'Huffington Post, a firma di Giuseppe Colombo (business editor della testata), ha pubblicato una recensione giornalistica o, piuttosto, una segnalazione, del saggio (Marsilio 2021) di Franco Debenedetti dal titolo quanto mai “essenziale”: Fare profitti (sottotitolo, ossimorico o echeggiante sineciosi pasoliniane, Etica dell’Impresa). Secondo Colombo, il volume dell’imprenditore torinese svolge anzitutto una funzione di ri-sistematizzazione concettuale o ri-centramento dei fondamenti del Capitalismo, necessari stanti le concussioni a punto sistemiche comportate dall’evento pandemico. Bene, ci sentiamo consentanei con questa volontà di recupero dei fondamenti, imprescindibile anche dal nostro punto di vista – perfettamente antititetico a quello di Debenedetti – per non rischiare di dissipare energie antagoniste affatto preziose, stornate dall’elevazione di chimere e ircocervi, false bandiere e “reset” bizzarri. Il saggio […] ha un’idea precisa e questa idea - il capitalismo è il capitalismo e le aziende devono fare profitti, sempre e comunque - viene portata avanti dall’inizio alla fine. E per arrivare al capolinea, per renderla credibile e soprattutto attuale oggi che la pandemia ha innalzato lo Stato imprenditore e guida a totem, compie una doppia operazione. La prima è quella di ricordare le sbandate di chi capitalista lo è stato sempre, direttamente o indirettamente, per convinzione o anche solo per tradizione e status. Vacillare può capitare un po’ a tutti e allora meglio ricalibrare le origini e gli sforzi fatti per tornare a sostenere che l’azienda nasce per fare profitti. L’obiettivo, insomma, è rimpossessarsi di un dna che è venuto a mancare anche solo per un po’. La seconda operazione è quella di tirare giù dalla torre chi avversa il capitalismo con teorie e ragionamenti che secondo Debenedetti sfociano nel populismo piuttosto che nell’ambientalismo di facciata. Insomma gli avversari del capitalismo che sanno spiegare bene perché il capitalismo è il male assoluto e che però non riescono a rendere totalmente credibile uno scenario alternativo. Se Emanuele Severino sentì l’esigenza, nel 1966, di ritornare a Parmenide, noi siamo dunque concordi con l’ingegnere naturalizzato svizzero circa l’esigenza di ritornare, se non proprio ad Adam Smith (o, sub specie alteritatis, tanto a Werner Sombart, quanto a Carl Marx), almeno a Milton Friedman (New York Magazine,
1970), economista citato in esergo nel lavoro 2021 di Debenedetti: “La responsabilità sociale delle aziende consiste nell’accrescere i profitti”. Non possiamo che dichiararci concordi: il capitalismo è ricerca massima e ossessiva del profitto, e questo centro assiologico relativizza ogni altra posizione, dalla tutela dei diritti umani, all’integrazione di minoranze vessate, dal multiculturalismo, all’ambientalismo, dalla responsabilità sociale di impresa, al pacifismo, dal pluralismo democratico, al giusnaturalismo giuridico, dalla libertà di pensiero e azione, alla tolleranza laica. Sono tutte figurazioni del Profitto e, in quanto inserite in questo orizzonte valoriale, gerarchicamente ordinato a partire da tale axis mundi fulcrale, non possono se non immediatamente mutare di senso, come già fu lezione pasoliniana. Ecco che, per quanto talune fra queste figurazione, prese di per se stesse, possano anche essere considerate giuste e perseguibile possa divenire il loro avvento, auspicabile laddove non ancora esse si danno, non appena vengono inserite nel templum tracciato da questo lituo augurale, devono essere immediatamente rigettate proprio per non stornare l’azione dall’esigenza e dal compito principale, portante: sovvertire quel cielo così e da ciò delimitato, ri-dischiudendo un Orizzonte Altro, in cui ri-declinare quelle medesime figurazioni, lì e allora nondimeno attuate nella nuova relazione di senso scaturita dal rapporto con esso allo-neo-centro e differentemente omniafferrante. Ebbene, il Capitalismo ha per télos la pleonexía ovvero, in linguaggio più colloquiale, i mercanti voglio esclusivamente fare soldi, fatturato, utili, profitti. Non ci si faccia – mai – ingannare dall’eventuale adersione di fondamenti altri del loro agire: una siffatta alterità non potrà che sempre conseguire dallo scopo principale – epperò da esso dipenderne nel proprio fondamento, nel proprio senso, essenza e scopo secondario, derivato, eterodeterminato – , causa finale che, come già fu lezione, in questo caso, aristotelica, orienta e gerarchizza le altre tre cause di ogni mutamento o a punto di ogni fare, di ogni compiere. Di fronte all’emergenza Covid, ma anche a quella ambientale, è immorale perseguire gli utili? “Cambiare tutto, modificare le regole di un capitalismo che ha mantenuto le sue promesse, fare profitti e creare ricchezza per tutti?”, si chiede l’autore. La risposta: “No, certo” […]. Fare profitti nella pandemia? Assolutamente sì. “Proprio nella pandemia - scrive Debenedetti - è necessario che l’impresa usi le sue risorse e si impegni in attività per fare profitti; nella pandemia mostra la sua straordinaria capacità di innovare, per scoprire come combatterla con i vaccini, come renderla tollerabile con le comunicazioni, come modificarsi per le nuove esigenze”. Si innesta qui la critica all’interventismo di Stato che fagocita l’iniziativa privata e che invece di facilitare la riallocazione delle risorse rende il sistema più rigido. Ecco dunque, ulteriormente sulle nostre pagine, l’elevazione d’infondatezza di ogni complottismo che non ritorni su queste certezze fondative: 1. Il Capitalismo sta entrando in una nuova fase, e in essa vuole forse cambiare il nostro stile di vita, fatto di consumismo edonista, vita sociale frivola e spensierata, joie de vivre, mondanità cittadina, promiscuità sessuale e “dionisismo” (inautentico)
dei costumi, per imporci un neo-standard antropologico costituito invece da domiciliazione forzata, ascetismo e moderazione “apollinea”, gravitas e oscurantismo controriformista, paura, distanziamento sociale e contrazione conseguente delle occasioni di consumi (delle occasioni e dei fomiti: il capitalismo è anzitutto, nei metodi, non mai lo si dimentichi, elevazione astratta di un bisogno infondato, inconcreto, immateriale: perché truccarsi – epperò comprare cosmetici – se è ontologicamente impossibile divorziare, se il matrimonio è indissolubile? È evidente che, conseguito lo sposalizio, il coniuge non avrebbe più occasione di essere “irretito” dal marketing, insufflantegli nell’orecchio, novello Serpe edenico, che “lui vale” e “merita di più”, “merita il meglio”: ecco che il divorzio diventa allora – e solo allora, e anzitutto – una libertà civile, progressista, illuminista, laica, inalienabile etc…)? Orbene, vorrà ciò solo se ciò comporterà maggiori profitti. E, al momento, appare piuttosto il contrario, almeno a livello “sistemico”, almeno ossia escludendo la capacità di singoli capitalisti di fare sempre e comunque profitto, indipendentemente dallo scenario, come lo stesso Debenedetti ci ricorda, sive esorta. Quali bisogni astratti di consumo questo neo-standard antropologico stuzzicherebbe? Cosmesi, abbigliamento, ho.re.ca, servizi alla persona, mezzi di locomozione, intrattenimento extradomestico? Chiusi in casa in pigiama potremmo forse incrementare il nostro consumo domotico, acquistare più food-delivery o sottoscrivere upgrade premium nelle nostre piattaforme multimediali d’intrattenimento, ma temiamo che, qui sostanzialmente terminando le occasioni d’eccedenza rispetto all’“antico”, esse non basterebbero a compensare l’immane quantità di profitto perduta nel perdere le occasioni di consumo classiche. Ebbene, a tutti coloro i quali a tutt’oggi pensano ancora che la pandemia sia in verità un’occasione da sfruttare per il “Potere” (sempre da taluni troppo astrattamente considerato, ovvero concepito senza nome, volto e télos…), o addirittura un piano premeditato e preordinato per indurre un’ulteriore mutazione antropologica atta a convertire l’edonismo/eudemonismo, quale portato del Capitalismo classico, in una sorta di ascetismo da regime del terrore, cifra “esistenziale” di un Capitalismo post-moderno e tecnocratico, noi diciamo, con una certezza per nulla profetica: non più tardi del giungo 2021, certamente fatte salve impreviste ulteriori zoonosi, mutazioni o altre avversità di natura, i centri commerciali di Tel Aviv brulicheranno di arsura esistenziale e d’ore liete esattamente al medesimo livello del dicembre 2019… E, se per Londra e N.Y. dovremmo aspettare qualche mese in più, sarà solo per una differenza demografica quantitativa. 2. Il Capitalismo vuole forse riconvertire il proprio modello di sviluppo (o, piuttosto, di business) per renderlo più sostenibile ed ecocompatibile, mosso da
amore disinteressato per una Natura che ha depauperato e distrutto per almeno 250 anni dalla rivoluzione industriale inglese? Ecco che, non appena ci sorprendiamo a pensarlo, già immediatamente penzoliamo piedi in ceppi dal ramo di un albero, o sanguiniamo stretti e intrappolati da un’adunca morsa d’acciaio, schiacciati dal “tallone di ferro” della plutocrazia internazionale. Se il Capitalismo diverrà green sarà solo perché avrà trovato il modo di aumentare con tale coloritura il proprio profitto, e, al momento, anche tale evenienza non appare, apparendo invece, e preclarmente a menti deste, la falsa bandiera dell’ambientalismo, trecce e trench appositamente studiati per “respingere” la pronosticata “marea sovranista” alle passate elezioni europee. Ma per resistere all’ondata statalista, il capitalismo non può eludere gli stravolgimenti che Covid ha causato nella vita lavorativa. A iniziare dallo smart working. Passa anche da qui - è un altro passaggio significativo del saggio - l’organizzazione, meglio la riorganizzazione capitalistica del lavoro. Ma i principi a cui guardare - dall’innovazione alla concorrenza - sono gli stessi che hanno determinato il successo della società per azioni fin dai tempi della Venezia medievale e della patente reale di Caboto nell’Inghilterra del Cinquecento. Se l’articolo di Friedman vale ancora dopo 50 anni una ragione ci sarà. Il capitalismo non è il nemico. Neppure durante la pandemia. Ovvero, guai – stante la portata eccezionale dell’evento pandemico e i pericoli “sovversivi” che le situazioni estreme possono sempre com-portare – a pensare di recuperare la centralità e sovranità dello Stato, mitigatore delle ex-centriche e sempre egoriferite pulsioni individualistiche, e difensore del Bene collettivo, anche sub specie publicae salutis; scateniamo dunque le popolazioni – oggettivamente stressate da una condizione affatto ardua e per molti aspetti – contro il “medico” che, per salvare il paziente, impone la cura difficile e amara, e non contro la “malattia”, che tale imposizione cagiona, in modo da non indurre in tentazione quel pensiero che potrebbe avvedersi – in detta gettatezza evenemenziale estrema epperò disvelativa delle essenze – di come lo Stato serva anzitutto, almeno per ragione costitutiva, ai deboli e non ai forti (di per se stessi e da se stessi “naturalmente” soverchianti gli altri, senza bisogno ovvero della costituzione di entità astratte e sovraindividuali), forti che nel nostro Tempo di “nuovo regime” significa certamente e anzitutto ricchi, enormemente ricchi, ricchi come non mai nella Storia. Ancora, dunque: “antagonisti di tutto il mondo” del Mondo dell’Oggi, rigettate il loto e ri-tornare a concutere l’essenza, a scuotere i fondamenti reali del nostro Cielo: sia ri-messo da parte dello Stato il ceppo - corto, viepiù corto - al Serpe edenico che "cambia e merca", lì dove è sempre stato dall’inizio dei tempi al 1789.
Alberto Iannelli
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