Profumi ungheresi a Cinecittà
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Profumi ungheresi a Cinecittà GIAN PIERO BRUNETTA M UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA OLTO A LUNGO NEL DOPOGUERRA SI È DETTO, DA PARTE DELLA CRITICA CINEMATOGRAFICA, CHE NON VALEVA LA PENA ANALIZZARE LA PRODUZIONE DEFINITA CON INTENZIONI SPREGIATIVE, DEI «TELEFONI BIANCHI», IN QUANTO POCO RAPPRESENTATIVA E LONTANA DALLA REALTÀ ITALIANA DEL PERIODO. DA QUANDO HO COMINCIATO A LAVORARE – ORMAI QUARANTACINQUE ANNI FA – AL PRO- GETTO DI SCRIVERE UNA STORIA DEL CINEMA ITALIANO, PER GLI EDITORI RIUNITI DI ROMA (1979–82) mi è sembrato che proprio quella produzione potesse servire a capire e misurare non tanto realtà materiali, quanto come potevano essere i sogni e i desi- deri dell’italiano medio, che non era ancora stato trascinato in guerra e non deside- rava la guerra. L’italiano piccolo borghese, che aspirava a un miglioramento della sua condizione sociale e non voleva certo seguire il fascismo nei suoi sogni di con- quista del mondo. Tra il 1930, anno in cui viene prodotto in Italia il primo film sonoro e il 1943, anno di caduta del fascismo, si producono nel cinema italiano circa 720 film di fin- zione. All’interno di un insieme molto ampio, che occupa il centro della produzione degli anni Trenta e che per molto tempo e ancora adesso, come ho detto, è stato de- finito come il cinema dei telefoni bianchi, si può riconoscere un sottoinsieme im- portante, costituito da una novantina di titoli, che possiamo chiamare «commedia all’ungherese» Per «commedia all’ungherese» si intende un genere di commedia brillante, ambientata in un altrove dell’est europeo abbastanza indefinito, dove si possono NC rappresentare vicende, o descrivere sentimenti, che non avrebbero né cittadinanza 12.2020 né libera circolazione nell’ Italia fascista. Si tratta di un nucleo di film che attinge a 140
[PROFUMI UNGHERESI A CINECIT TÀ] piene mani dai lavori teatrali e dai racconti di autori ungheresi, a partire da Ferenc Körmendy, che, con i suoi romanzi di grande successo popolare, pubblicati in Italia negli anni Trenta da Bompiani, può venir preso come stella polare e punto d’’orien- tamento per l’ispirazione dello spirito del genere. Molto popolari sono anche i ro- manzi di Ferenc Molnár, di cui verrà pubblicato a puntate nel 1938 sulla rivista «Film» il romanzo Fuga verso il sogno. Romanzo che oggi ci appare come un mani- festo vero e proprio di quel cinema che non intende affatto spingersi verso una rap- presentazione realistica dell’Italia, come vorrà fare il cinema neorealista fin dai suoi primi tentativi, ma che guarda all’Ungheria come un paese ideale, dove possono ac- cadere eventi sentimentali, comici, drammatici ed hanno libera cittadinanza com- portamenti e sentimenti non consentiti in quegli anni. In effetti in alcuni dei film ambientati a Budapest si assisteva all’abbandono del tetto coniugale, al divorzio, a una libertà amorosa concessa ai personaggi femminili, ancora tabu per le storie am- bientate in Italia. La ricchezza di titoli della «commedia all’ungherese» è compresa in un arco che va da La segretaria privata del 1931 di Goffredo Alessandrini, realizzato all’in- domani dell’introduzione del sonoro, a Ogni giorno è domenica di Mario Baffico, gi- rato nel 1944 a Venezia, durante la Repubblica di Salò. Tra i titoli o ambientati in Un- gheria o ispirati alla letteratura e al teatro ungherese si possono ricordare in parti- colare Batticuore di Mario Camerini, Mille lire al mese di Max Neufeld, La danza dei milioni di Camillo Mastrocinque, La zia smemorata di László Vajda, Centomila dol- lari di Camerini, Maddalena Zero in condotta di Vittorio De Sica, Ritorno di Géza von Bolváry, Il capitano degli ussari di Sándor Szlatinay, I sette peccati, La signorina e Finalmente sì di Lázló Kish, Una volta la settimana e La fortuna viene dal cielo di Ákos Ráthonyi, Idillio a Budapest di Giorgio Ansoldi. Commedie ungheresi vengono rappresentate a teatro, o vengono trasposte al cinema e adattate a situazioni italia- ne, come avviene con Scarpe grosse di Armando Falconi che è il rifacimento di una commedia di Sándor Hunyady. Poco per volta Budapest, grazie all’azione combinata dei romanzi, dei dram- mi teatrali, dell’operetta e dei film, giunge a soppiantare le altre città europee nel- l’immaginazione dello spettatore italiano. Le diversità sostanziali dei modi di vita americani fanno sì che, mentre New York risulta «città lontanissima» e ostile, luogo per eccellenza di un mondo amato e desiderato, ma che si avverte diverso, Budapest sia invece luogo più vicino e fami- liare. Più prossimo addirittura di Parigi e Berlino. E due attrici in particolare, Elsa Merlini ed Alida Valli, diventano le guide ideali per lo spettatore italiano per visitare la città. Lo scrittore Italo Calvino, nel tracciare la propria autobiografia di spettatore degli anni Trenta (Avventura di uno spettatore. Prefazione a Federico Fellini, Quattro film, Einaudi, Torino, 1974), racconta, in maniera memorabile, come le ore che tra- scorreva ogni giorno nella sala cinematografica servissero a creargli un vero mondo perfetto e alternativo a quello della realtà che lo circondava e del diverso tipo di spaesamento che offrivano le varie cinematografie. Per quasi tutti gli anni trenta NC l’immaginario dello spettatore italiano era in pratica colonizzato dal cinema ame- 12.2020 141
[GIAN PIERO BRUNET TA] ricano, che arrivava sul mercato con più di trecento titoli l’anno. Rispetto al cinema americano la realtà ungherese viene a costituirsi con un andamento crescente come un vero mondo alternativo, creato però all’interno del cinema italiano stesso e capace di svilupparsi in maniera forte grazie alla nascita di Cinecittà. A soggetti tratti da autori ungheresi come Ferenc Körmendi, o Sándor Hunyady, o Rezső Török, si ispirano negli anni trenta e negli anni di guerra molti registi italiani da Gof- fredo Alessandrini a Max Neufeld a Giacomo Gentilomo, Camillo Mastrocinque, fino a Vittorio De Sica di Teresa Venerdì, il remake di un soggetto di cui il regista si era innamorato vedendone la versione originale alla Mostra del cinema di Venezia. Gli sceneggiatori italiani usano l’Ungheria come fondale trasparente e porta di un altrove che però mette subito a contatto con l’aria di casa: «L’Ungheria col suo fasci- no indimenticabile in un film ungherese girato in Italia: Il capitano degli ussari» dice una frase pubblicitaria del film con Clara Tabody e Enrico Viarisio, diretto da Sándor Szlatinay. Per almeno un quindicennio l’Ungheria resta una piccola oasi molto comoda e accessibile ai sogni degli italiani, perché la sua realtà è talmente familiare da far pensare di poterla incontrare anche solo girando l’angolo di casa propria. In effetti ci sono due «altrove» in cui lo spettatore italiano può rifugiarsi, sfug- gendo al clima e alle atmosfere imposte dal regime fascista e ai vincoli di legge che impedivano di rappresentare al cinema, come a teatro o nei giornali, storie di amori liberi, di adulteri, di delinquenza, di assassini e furti, di corruzione politica: l’altrove americano e l’altrove ungherese. In entrambi potevano verificarsi vicende impossibili da ambientare in Italia. L’Italia fascista doveva essere rappresentata, o raccontata, come un paese felice in cui non si verificavano suicidi, non esisteva la cronaca nera nei giornali, in cui le stesso condizioni meteorologiche non dovevano destare preoccupazioni. Lo spettatore non è comunque mai spiazzato dalla finta ambientazione un- gherese: in ogni momento si ritrova in uno spazio conosciuto e contiguo. Così non è difficile riconoscere, in Gli uomini non sono ingrati, che le riprese dello zoo di Bu- dapest sono fatte a Roma. Interessante invece che nel film La fortuna non viene dal cielo si entri in una sala cinematografica di Budapest e sullo schermo si proietti un film ungherese con i titoli di testa tutti in lingua originale. In un altrove lontano e vicino al tempo stesso puoi trasferire la possibilità di rappresentare il male, negata ai film ambientati in Italia, ma anche offrire una rappresentazione dei lati più gioiosi della vita, più liberi da vincoli religiosi, sociali, morali. A leggere le brochures dell’Enic o dei «Film illu- strati», le trame di molte commedie degli anni a cavallo della guerra colpiscono per il senso della ricchezza, se non addirittura dello spreco, di una vita allegra e facile che i film trasmettono attraverso decine di titoli: La danza dei milioni, Centomila dollari, Miliardi che follia... «We are in the Money» canta Ginger Rogers in La danza delle luci (Gold Diggers of 1933) di Mervyn LeRoy e, per molti aspetti una parte con- sistente della commedia all’ungherese cerca di sintonizzare le proprie storie su NC analoghi leit motiv. Proprio raggruppando molti titoli in insiemi omogenei ci si può 12.2020 interrogare sullo scarto tra i sogni prospettati dallo schermo e la realtà materiale 142
[PROFUMI UNGHERESI A CINECIT TÀ] della vita nazionale, ma non si può certo eludere il fatto che questi sogni alimentino a lungo l’immaginazione collettiva e da un certo momento in poi sostituiscano – surrogandoli – i sogni offerti da Hollywood. Con l’energia vitale delle canzoni, della gioia di vivere, questo genere di film agisce da farmaco e antidoto contro le paure che dopo il 1939 cominciavano a cir- colare con la guerra alle porte e immette nei corpi degli spettatori una carica di ot- timismo e vitalità che quel mondo lontano riusciva ad infondere con la semplice evocazione di nomi e luoghi. Quell’ondata di ottimismo che attraversa decine di titoli e si può cogliere allo stato nascente in Elsa Merlini, che esprime danzando per strada nella Segretaria privata con queste parole il suo senso di realizzazione per avere un lavoro che le piace «Oh come son felice,... felice!... felice!...». Qualche anno dopo, accanto alla cer- tezza che il lavoro sia a portata di tutti, ci si pone l’interrogativo del coronamento dei propri sogni sentimentali: «Lavorerò, guadagnerò, ma l’amore dove lo troverò?». Questo ottimismo proietta così i sogni collettivi degli anni di guerra ben oltre l’oriz- zonte delle mille lire al mese, che è sempre parso come un limite invalicabile per le aspirazioni dell’italiano medio dell’epoca. Esattamente come per il cinema ameri- cano, lo spettatore che vedeva una commedia ungherese, senza che peraltro nep- pure un fotogramma dal vero consentisse di entrare a contatto con ambienti reali, accettava le condizioni dell’immersione in una realtà immaginaria, in una favola… Non tutti i critici accettavano queste pre-condizioni e nel parlare di «film ita- liano che si svolge in Ungheria.... così amabile, così ospitale, così pronta ad acco- gliere personaggi e vicende di tutti i generi... – aggiungevano – non basta parlare di pengő e non basta cambiare nome, perché nel film ci sia l’atmosfera ungherese…». Di fatto l’Ungheria e Budapest dalla seconda metà degli anni Trenta diventano il luogo ideale in cui ambientare soprattutto favole a lieto fine, traboccanti di otti- mismo e raccontate, quasi in alternativa al Mago di Oz e al musical americano su ritmi di danze popolari capaci di far nascere e suggellare amori di continuo... Vestiti, canzoni, arredi, comportamenti, rituali sociali, ci parlano di una realtà dell’immaginazione collettiva più reale del reale. Un’Italia povera e ad economia prevalentemente agricola, priva di materie prime, costretta dalle sanzioni a inven- tare tessuti sintetici desidera coprirsi di banconote e di debiti, sogna gli abiti da sera, le pellicce i velluti che le protagoniste dei film ambientati in Ungheria cam- biano in continuazione. Migliaia di spettatori accarezzano con gli occhi i corpi, gli abiti, le pellicce e gli ambienti pieni di oggetti di design dove vivono le protagoniste dei film di Camerini, Alessandrini, Bonnard, Ráthonyi, Kish, Mastrocinque… Questi film sono importanti perché raccontano anche storie di donne che non vogliono corrispondere ai modelli di sposa e madre esemplare imposti dal fa- scismo, mostrano una varietà di figure femminili, libere e libertine, anche ladre, anche capaci di prendere l’iniziativa nelle guerriglie amorose, donne spregiudicate, anticonformiste alla ricerca d’una propria strada e una propria affermazione e tut- t’altro che affette dalla sindrome di Cenerentola. Anche se il matrimonio è quasi sempre il punto d’arrivo di tutti i tipi di intreccio, in non pochi casi la protagonista NC lo manda all’aria per cercare di trovare se stessa. Donne insoddisfatte, che giun- 12.2020 143
[GIAN PIERO BRUNET TA] gono a dire al marito: «Voglio vivere, Io non sono fatta per questa vita metodica, senza sorprese». Certo il cammino da compiere è ancora molto lungo e difficile, ma molti personaggi femminili della commedia ungherese cercano con coraggio e forza di sottrarsi ai ruoli imposti dalle convenzioni. E questo è reso possibile grazie alla dislocazione spaziale delle vicende. A tutte queste donne forse fa da ispiratrice la protagonista di Prix de beauté (Miss Europa) di Augusto Genina, interpretato da Louise Brooks nel 1930, che ha ben chiaro il proprio progetto di vita: «Io non voglio diventare la moglie di un piccolo impiegatuccio di banca e passare tutta la sera di fronte a una macchina da scrivere». Questi film garantivano, anche negli anni in cui ogni giorno la vita era in peri- colo, di ritagliarsi piccole isole quotidiane di speranza in cui sognare che la felicità fosse vicina, a portata di mano e di sguardo e, se ci si credeva fermamente, prima o poi sarebbe arrivata. NC 12.2020 144
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