PRE-PRINT Studi italiani di Linguistica Teorica e Applicata 2020, 49/3 ELWYS DE STEFANI, KU Leuven DANIELA VERONESI, Libera Università di Bolzano ...

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Studi italiani di Linguistica Teorica e Applicata 2020, 49/3

ELWYS DE STEFANI, KU Leuven
DANIELA VERONESI, Libera Università di Bolzano

DAGLI STUDI SUL PARLATO ALLA LINGUISTICA INTERAZIONALE. RICERCHE
SULL’USO ORDINARIO DELLA LINGUA ITALIANA

                                           La lingua parlata serve agli usi comuni, si usa sol tra i presenti,
                                                       si adopera in cose che direttamente e immediatamente
                                           interessano, non si prefigge che l’intelligenza degli ascoltanti, e
                                            l’effetto; non è preceduta da pensamento e dall’arte; il piacere,
                                             che può derivarne in chi l’ascolta, è talora la conseguenza, ma
                                                                non l’oggetto e ’l fine primario di chi favella.
                                                                                     (Cesarotti 1785 (1969), I: 3)

ABSTRACT: This article provides an overview of the research traditions that shaped current
interactional research in Italian linguistics. It discusses different ways in which talk-in-interaction has
been conceptualised, starting from the early writings in Romance philology and its subfields and then
focusing especially on Leo Spitzer’s pioneering work, which was consigned to oblivion for decades in
the Italian-speaking world. The article carves out the impact disciplines such as sociology and
anthropology had on the establishment of interaction as an object of investigation. Finally, it offers a
brief historical and epistemological account of conversation analysis and interactional linguistics, and
presents a synopsis of studies carried out in and on Italian.

KEYWORDS: Italian, spoken language, talk-in-interaction, historical overview
PAROLE CHIAVE: italiano, parlato, lingua-in-interazione, inquadramento storico

L’oggetto di studio della linguistica interazionale, emersa in area anglosassone verso la fine del
secondo millennio, è la lingua parlata-in-interazione. Due sono le dimensioni che si incrociano
in questa descrizione, la lingua parlata (parlato, parlare, oralità, ecc.), un oggetto di ricerca
che si inserisce naturalmente negli studi filologici e linguistici, e l’interazione, riconosciuta
come fenomeno di studio da sociologi e antropologi. I paragrafi che seguono forniscono un
inquadramento epistemologico che evidenzia i lavori precursori sul tema, per poi illustrare i
principi teorici e metodologici della linguistica interazionale.1

1. DAL PARLATO AL PARLARE

In ambito italiano, l’interesse per il parlato è strettamente legato alla nascita della filologia
romanza, che si è soliti far combaciare con la pubblicazione della Grammatik der
romanischen Sprachen (Diez, 1836-1843). In particolare, la necessità di studiare il parlato è
rivendicata da dialettologi come Ascoli, che proprio a Diez dedica il primo volume
dell’Archivio Glottologico Italiano (1873). È una rivendicazione che consolida i metodi
sviluppati dai dialettologi e studiosi di lingue romanze e che permette loro di posizionarsi,

1
 Il presente articolo è frutto del lavoro congiunto dei due autori; Elwys De Stefani è direttamente responsabile
dei paragrafi 1 e 3, mentre Daniela Veronesi si è occupata nello specifico dei paragrafi 2 e 4. Gli autori
desiderano ringraziare Carla Bazzanella per i suoi preziosi commenti ad una prima versione di questo articolo.
talora con toni polemici, nei confronti dei neogrammatici, allora in auge (v. Schuchardt,
1885). Si oppone all’atomismo attribuito ai neogrammatici anche l’approccio Wörter &
Sachen (cfr. Meringer, 1904; Schuchardt, 1912), che ebbe nell’Atlante italo-svizzero (AIS)
(Jaberg e Jud, 1928-1940) la sua magistrale applicazione. A ben vedere, contrariamente a
quanto spesso si legge, i neogrammatici assegnavano un ruolo centrale non solo alla lingua
parlata, ma anche alla reciprocità degli scambi verbali. Così, secondo Paul (1880: 28), “il vero
oggetto del linguista sono […] piuttosto tutte le espressioni dell’attività linguistica, in tutti gli
individui, nella loro reciprocità”2 (v. Auer, 2015). Nella stessa epoca, un impulso
fondamentale giunge da un’altra disciplina emergente, la fonetica, che si deve confrontare con
importanti problemi pratici e metodologici relativi alla registrazione e alla trascrizione del
parlato. Non sorprende, pertanto, che l’abate Rousselot (1897-1901) dedichi oltre cento
pagine dei suoi Principes de phonétique expérimentale (pp. 61-174) alla descrizione dei
dispositivi di registrazione della voce umana. È poi noto come proprio verso la fine dell’800
vi fosse la necessità di definire delle precise norme di trascrizione fonetica, che si
materializzarono nell’alfabeto fonetico internazionale (IPA) la cui prima versione risale al
1888.3 Ciò a scapito di altre proposte, avanzate ad esempio nelle numerose pubblicazioni che
Alexander Melville Bell4 consacrò al tema (ad es. Bell, 1867; v. anche Jespersen, 1889).
Gran parte di questi primi lavori dedicati alla lingua parlata abbracciano una visione
“monologica” del parlato, che fornisce il materiale empirico presentato e analizzato in
dizionari, atlanti linguistici, ecc.5 Per contro, il primo studio che si interessa dell’italiano
parlato in conversazione è dovuto a un altro grande romanista, Leo Spitzer, che nel 1922
pubblica il volume Italienische Umgangssprache. Sebbene accolto positivamente dai critici, il
volume ha sofferto di una marcata disattenzione in area italiana, ove Spitzer, come ricorda
Segre (2007: 8) nella presentazione della versione italiana del volume, era perlopiù
“considerato l’iniziatore della stilistica letteraria o critica stilistica […]”. Lo studio di Spitzer
si inserisce in una tradizione di pensiero che riconosce nell’uso colloquiale l’habitat naturale
della lingua (v. già Cesarotti, 1785), particolarmente sentito in area tedesca. Per Wegener
(1885: 182), ad esempio, “la lingua si fonda sullo scambio reciproco tra gli uomini”,6 mentre
Wunderlich pubblica nel 1894 il volume Unsere Umgangsprache [sic!], che Spitzer prenderà
a modello.7 Il termine Umgangssprache – per cui Tonelli (2007: 45) segnala la difficoltà di
traduzione in italiano – è attestabile in tedesco nel ‘700: Takada (2012: 175) lo registra infatti
nel 1751 nella forma analitica tägliche(n) Sprache des Umganges (‘lingua quotidiana

2
  “Das wahre object für den sprachforcher sind […] sämmtliche äusserungen der sprachtätigkeit an sämmtlichen
individuen in ihrer wechselwirkung auf einander”, traduzione nostra.
3
  Ad opera della Dhi Fonètik Tîcerz’ Asóciécion, fondata a Parigi nel 1886, che nel 1897 diverrà l’Associazione
Internazionale di Fonetica.
4
  L’interesse per la lingua parlata di Alexander Melville Bell fu continuata dal figlio, Alexander Graham Bell,
che, nel 1876, brevettò per primo un nuovo dispositivo per la trasmissione della voce umana, il telefono.
5
  La monologicità dei dati presentati negli atlanti linguistici si configura, in sé, come una riduzione, ragionata, di
di scambi interazionali verificatisi tra intervistatori e informatori. A questo proposito, i verbali delle inchieste
svolte per l’Atlante Linguistico Italiano offrono una preziosa illustrazione dei problemi che i ricercatori
riscontravano sul campo e del modo in cui essi contribuivano a costituire i dati linguistici (che, in quest’ottica,
sono tutt’altro che ‘dati’); v. Massobrio et al. (1995).
6
  “Die Sprache beruht auf dem Verkehr der Menschen untereinander […]”, traduzione nostra.
7
  Oltre al rinvio alla Umgangssprache, si noterà anche che per il primo capitolo del proprio volume (Die
Eröffnungsformen des Gesprächs) Spitzer sceglie lo stesso titolo che Wunderlich aveva usato nel secondo
capitolo del suo lavoro.
dell’uso’), sottolineando come sin dalle prime attestazioni il termine venisse usato con
accezioni diverse che si riflettono anche nelle definizioni proposte dai rispettivi studiosi. Nel
suo Nuovo dizzionario italiano-tedesco e tedesco-italiano Antonini (21777) traduce Umgang
come ‘conversazione, amento, pratica, uso, usanza, usamento, bazzica.’, mentre Campe
(1811) definisce il termine Umgangssprache come ‘la lingua della vita comune, di cui ci si
serve nella pratica [Umgang] sociale (lingua della conversazione)’.8 Come risulta evidente,
ricorre in queste prime definizioni il rinvio alla conversazione, alla pratica, all’uso della
lingua nella concretezza dell’incontro sociale, che diventerà poi centrale negli studi di stampo
pragmatico e, ancor più, conversazionale che si affermeranno dopo quasi due secoli.
Il volume di Spitzer godette di maggiore attenzione tra gli intellettuali russi, che nello stesso
periodo sviluppavano un forte interesse per la lingua del dialogo, anche da un punto di vista
stilistico (cfr. Jakubinskij, 1923). Sia Vološinov (1929) che Bachtin (1929) rinviano infatti
esplicitamente all’Italienische Umgangssprache nelle loro descrizioni delle pratiche
dialogiche e interazionali. In effetti, nel volume di Spitzer l’interesse dell’autore per le
pratiche conversazionali è visibile sin dall’organizzazione dei capitoli, intitolati
rispettivamente Le forme di apertura della conversazione, Parlante e ascoltatore, Parlante e
situazione, Le forme di chiusura della conversazione.9 Basandosi largamente su dialoghi tratti
da pièce teatrali e romanzi, nonché sull’osservazione diretta dell’autore, Spitzer descrive lo
scambio conversazionale nella sua situatezza concreta, evidenziando le risorse linguistiche a
disposizione dei parlanti, la rilevanza sociale delle loro azioni, e persino il ricorso a modalità
non vocali, come lo sguardo e i gesti. La dimensione pionieristica di questo studio,
sottolineata anche da Caffi (2007), emerge chiaramente dai temi affrontati. Gli esempi sono
numerosi:10
     ▪ il volume si apre con una squisita riflessione sulle aperture di conversazioni
         telefoniche (p. 2, n. 1/66, n. 2), un argomento che Schegloff (1967) tratterà nella sua
         tesi di dottorato, vera pietra miliare dell’analisi conversazionale;
     ▪ un argomento centrale riguarda i rapporti riflessivi tra gli enunciati di due parlanti, in
         particolare nella sequenza domanda/risposta, così cara agli analisti della conversazione
         (v. la sezione Ineinandergreifen von Rede und Gegenrede, pp. 175-190/239-254);
     ▪ Spitzer identifica una serie di fenomeni caratteristici del parlato-in-interazione in parte
         con termini tuttora usati nella Gesprächsforschung moderna,11 come a)
         Selbstkorrektur ‘autocorrezione’ (p. 73/137; il fenomeno che Schegloff et al., 1977
         chiameranno self-correction o self-repair), b) Nachtrag ‘aggiunta’ (p. 59/123; ovvero
         l’aggiunta di materiale verbale dopo la fine possibile di una costruzione sintattica; cfr.
         Auer, 1991); c) l’idea secondo la quale i parlanti producono i propri enunciati passo
         dopo passo, stoßweise (‘a singhiozzo’, p. 58/122; pensiamo inevitabilmente alla teoria

8
  “[D]ie Sprache des gemeinsamen Lebens, deren man sich im gesellschaftlichen Umgange bedient
(Conversationssprache)” cit. in Takada (2012: 189), traduzione nostra.
9
  Die Eröffnungsformen des Gesprächs, Sprecher und Hörer, Sprecher und Situation, Die Abschlußformen des
Gesprächs. Nell’edizione italiana (2007), Livia Tonelli sceglie di tradurre il tedesco Gespräch con discorso.
Preferiamo conversazione, che sembra rendere meglio la dimensione ‘parlata’ presente nella voce tedesca e che
si giustifica anche in base alle attestazioni ottocentesche di Umgangssprache a cui abbiamo accennato.
10
   Nelle indicazioni che seguono, il primo rinvio si riferisce all’edizione tedesca del volume di Spitzer, il
secondo a quella italiana.
11
   Nella ricerca di lingua tedesca, con Gesprächsforschung si rinvia ad approcci che studiano la conversazione in
base a dati empirici, con metodi spesso ispirati all’analisi conversazionale.
della grammatica emergente di Hopper, 1987 e all’online syntax di Auer, 2009); d) il
         fenomeno dei turni incompiuti, o aposiopesi (p. 134/198; designedly incomplete
         utterances per Koshik, 2002).

La modernità di Spitzer e il suo spirito pionieristico sono dunque innegabili;12 eppure, in area
italiana l’Italienische Umgangssprache per lunghi decenni verrà collocato nel dimenticatoio
della ricerca linguistica, fino alla pubblicazione, nel 2007, dell’edizione italiana tradotta da
Livia Tonelli e curata da Claudia Caffi e Cesare Segre. In effetti, è solo a partire dal 1967
(con il convegno della Società di Linguistica Italiana a Palermo, cfr. AA. VV., 1970) che in
Italia si osserva un interesse ritrovato per la lingua parlata, per quanto – e ciò è evidente
soprattutto negli atti del seminario sull’italiano parlato tenutosi a Firenze nel 1976 – gli aspetti
conversazionali fossero a quel tempo meno studiati rispetto a questioni di ordine
dialettologico e sociolinguistico, nonché pragmatico (AA. VV., 1977). Va inoltre rilevato
come gli studi sociolinguistici di Labov (1966), Fishman (1970) da un lato e quelli pragmatici
di Austin (1962) e Searle (1969) dall’altro abbiano trovato in Italia un terreno più fertile
rispetto alle ricerche di stampo conversazionale che cominciarono ad affermarsi negli Stati
Uniti sin dagli anni Settanta dello scorso secolo (Sacks et al., 1974) – con l’eccezione di
Orletti (1977) di cui diremo più avanti.
In quegli anni, tuttavia, un forte impulso per lo studio del parlato che oggi definiremmo
“conversazionale” venne da Giovanni Nencioni, che era docente a Firenze dal 1952 al 1974.
Con il suo appoggio, a partire dal 1965 Harro Stammerjohann cominciò a registrare
conversazioni spontanee e interviste, analizzate in diversi contributi (Stammerjohann, 1970,
1977); ne conseguì, tra l’altro, una riflessione critica sul concetto stesso di “italiano parlato”
presentata nel saggio magistrale di Nencioni (1976). Negli anni 1980 si assisterà poi a un
incremento notevole degli studi dedicati all’italiano parlato, che si inaugura con il volume Sul
parlato di Rosanna Sornicola (1981) e che si sviluppa su assi diversi, focalizzandosi su aspetti
pragmatici (Sbisà, 1978, 1989; Stati, 1982; Bazzanella, 1984), sociolinguistici (Berruto, 1985;
Holtus e Radtke, 1985), comparati (Koch e Oesterreicher, 1990) o interessandosi di fenomeni
specifici, come segnali discorsivi (elementi di articolazione per Stammerjohann, 1977,
connettivi per Bazzanella, 1986)13 così come la sintassi (Cresti, 1987) e il modo in cui essa si
intreccia con la prosodia (Voghera, 1992). La grande novità di questi studi (seppure non di
tutti) risiede anzitutto nel loro radicamento empirico. La commercializzazione di dispositivi di
registrazione audio portatili ed economici, a partire dagli anni 1960, offrì ai ricercatori la
possibilità di registrare il parlato nelle sue varie manifestazioni, di fissare la fugacità della
parola. Essi potevano quindi riascoltare, trascrivere e sottoporre le loro analisi al giudizio di
altri (v. Sacks, 1992, I: 622). Così, molti lavori di quegli anni si distinsero per le descrizioni
accurate delle caratteristiche ‘formali’ (lessicali, sintattiche, prosodiche, ecc.) della lingua
parlata, spesso trascurando però la dimensione azionale e situata della parola. Non a caso, lo
stesso Nencioni avverte che:

12
   Come scrive Segre (2007: 9): “Se le grosse novità presenti in Lingua italiana del dialogo possono essere ben
percepite solo ora, è perché Spitzer in questo volume ha precorso i tempi.”
13
   La denominazione “connettivi” avanzata da Bazzanella (1986) è stata poi rivista, nello sviluppo della sua
ricerca, in phatic connectives, pragmatic markers, segnali discorsivi e discourse markers (v. ad es. Bazzanella,
2006, 2015).
“[...] bisogna muovere, nello studio del parlato, dalla teoria dell’interazione verbale, cioè dall’atto
linguistico in situazione concreta, condizionato da presupposizioni conoscitive linguistiche ed
estralinguistiche, dal ricorso a codici diversi da quello verbale (gestualità, visività, prossemicità), dal
concorso dell’interlocutore uno o plurimo, dalla tecnica e regia del colloquio, dagli scopi ed effetti
perlocutivi.” (Nencioni, 1986: 178)

Emerge da queste righe una critica del “parlato”14 studiato indipendentemente dalla situazione
comunicativa in cui si manifesta. Infatti, come è evidente, gli interattanti useranno risorse
(lessicali, sintattiche, comunicative) diverse in interviste, esperimenti map task, incontri di
servizio, colloqui di lavoro, ecc; proprio per questo motivo risulta fondamentale collegare
l’analisi della lingua usata con l’analisi delle attività sociali in cui gli individui si impegnano.
Si passa allora, da un uno studio sul “parlato” (Berretta, 1994) alla ricerca che si concentra sul
“parlare” come pratica sociale. È quanto propone Duranti (1992) nel volume Etnografia del
parlare quotidiano. La scelta dell’autore di richiamarsi al “parlare” è significativa, poiché
sottolinea la processualità dell’uso della lingua, “la natura cosiddetta emergente, in fieri, delle
strutture linguistiche e di quelle socio-culturali” (Duranti 1992: 17), una dimensione
evidenziata anche da Zorzi Calò (1990), Bazzanella (1994), e, in ambito psicologico, da
Mininni (2000).15

2. LINGUA E COMUNITÀ

La centralità delle pratiche linguistiche e interazionali nel costituirsi delle comunità emerge
anche dagli studi di orientamento antropologico e sociologico nel corso del Novecento. Un
secolo prima, si assiste alla nascita dell’indoeuropeistica (v. Bopp, 1816), che si manifesta nei
lavori comparativi volti a ricostruire il proto-indoeuropeo e a classificare le lingue che ne
sono derivate. Nella seconda metà dell’Ottocento si insinuò gradualmente l’idea secondo la
quale le lingue indoeuropee fossero superiori e ben presto le ‘lingue superiori’ vennero
equiparate a ‘culture superiori’ (v. Cardona, 1976: 47-53). Non sorprende, pertanto, che molti
studi antropologici dell’epoca, peraltro spesso compiuti a tavolino, fossero volti a classificare
le “razze”, a studiare i “selvaggi”, reificando in tal modo il concetto di “razza”, visto come
criterio di “naturale” diseguaglianza. Questa visione comparativa, volta a classificare lingue e
culture in base a criteri “genetici” si scontrò, a partire dai primi anni del Novecento, con una
visione opposta, secondo la quale è attraverso le pratiche comunicative dei membri di una
società che essi costituiscono rapporti sociali. La centralità della lingua e dell’interazione
nella costituzione dell’ordine sociale affiora negli scritti di vari ricercatori, prevalentemente di
ambito antropologico e sociologico, come si illustrerà qui di seguito.

2.1. Antropologia

Franz Boas, che combattè attivamente l’evoluzionismo e l’ineguaglianza razziale, fu
senz’altro uno dei critici più influenti del metodo comparativo. Nei suoi studi sulle lingue di

14
   Per le varie accezioni con cui sono stati usati i termini “parlato” e “oralità”, rinviamo a Voghera (1992: 13-
49).
15
   In Italia, la ricerca sul parlato s’intensificerà a partire dal 2000, grazie a iniziative come il convegno sulla
“comunicazione parlata” (tenutosi per la prima volta a Napoli nel 2003, e giunto nel 2018 alla sesta edizione).
area americana, la ricerca sul campo e la descrizione accurata e situata dei materiali (orali e
documentari) costituirono i capisaldi del suo metodo. Nell’introduzione al suo Handbook of
American Indian Languages (1911), Boas descrive non solo la necessità di studiare la lingua
come pratica culturale, ma offre anche riflessioni riguardo ai problemi pratici che si pongono
al ricercatore che voglia raccogliere dati linguistici; fu pionieristica anche la sua ricerca sui
nomi di luogo dei Kwakiutl (oggi detti Kwakwaka’wakw), che vivono nella parte
settentrionale dell’isola di Vancouver (Boas, 1934). Le ricerche di Boas rimasero tuttavia
largamente ignorate dai linguisti dell’epoca. Gli studi di Bronisław Malinowski godettero
invece, anche se non immediatamente, di maggiore attenzione da parte dei linguisti. Se oggi
viene comunemente considerato il “padre” di quella che poi sarà nota come osservazione
partecipante (un metodo a cui si ispireranno anche alcuni sociolinguisti; cfr. Milroy, 1980),
ciò è anche una conseguenza della facilità con cui Malinowski riuscì a imparare la lingua
delle comunità studiate e quindi a partecipare alla vita delle comunità. Ciò gli permise di
sottolineare la necessità di fare antropologia dal punto di vista delle comunità studiate,
adottando quella che oggi chiameremmo una prospettiva emica (Malinowski, 1922). La
riflessione approfondita sui metodi di ricerca sul campo ha fatto sì che furono proprio gli
antropologi i primi a sperimentare le possibilità di registrazione filmica prima, poi video.16
Ma il contributo che più ha influenzato il pensiero di molti linguisti è stato senz’altro il suo
saggio The problem of meaning in primitive languages in cui l’autore descrive la comunione
fatica come “un tipo di parlato in cui legami di unione sono creati attraverso il semplice
scambio di parole” (Malinowski, 1923: 315).17 È noto come Jakobson (1960) abbia ripreso da
Malinowski l’idea della funzione fatica del linguaggio e come molti studiosi di small-talk si
riferiscano proprio al saggio di Malinowski come prima testimonianza di un parlato volto in
primo luogo a mantenere rapporti sociali (ad es. Coupland, 2000; De Stefani e Horlacher,
2018). Nello stesso saggio, Malinowski enfatizza anche il rapporto che lega l’uso del
linguaggio alla situazione comunicativa, rendendo necessaria un’analisi situata, che tenga
conto del contesto in cui si svolge l’interazione:

“La considerazione degli usi linguistici associati a qualsiasi attività, ci porta a concludere che la
lingua, nel suo focus primitivo, dovrebbe essere vista e studiata sullo sfondo delle attività umane e
come un modo di comportamento umano in circostanze pratiche.”18 (Malinowski, 1923: 312)

L’importanza che riveste il linguaggio nell’esperienza sociale umana è esibita nel nome di
una disciplina emersa nel secolo scorso, l’antropologia linguistica, nota anche come
etnolinguistica (Cardona, 1976), che si avvale di pratiche etnografiche (Duranti, 1992) per
studiare i rapporti tra uso del linguaggio e l’essere-in-società (Duranti, 2007).

2.2. Sociologia

16
   Il primo film etnografico è realizzato da Alfred C. Haddon nel 1898 nelle isole dello stretto di Strait. Negli
anni 1930, Gregory Bateson e Margaret Mead, pinoieri dell’antropologia visuale, analizzano sequenze filmate a
Bali e nella Nuova Guinea (v. Mondada, 2006: 315, n. 2).
17
   “[…] a type of speech in which ties of union are created by a mere exchange of words”, traduzione nostra.
18
   “[T]he consideration of linguistic uses associated with any practical pursuit, leads us to the conclusion that
language in its primitive focus ought to be regarded and studied against the background of human activities and
as a mode of human behaviour in practical matters”, traduzione nostra.
La centralità del contesto si manifesta anche nella ricerca sociologica dei primi decenni del
‘900, in particolare nei lavori svolti dalla cosiddetta scuola di Chicago. L’importanza che
ricercatori come Robert Ezra Park, William Isaac Thomas, Ernest W. Burgess e Florian
Znaniecki (tra molti altri) assegnavano alla ricerca sul campo, al rispetto dell’ecologia
particolare in cui si iscrive ogni attività sociale, e alla prospettiva emica iscrive i loro lavori
nella continuità della ricerca antropologica, e posiziona la sociologia come una disciplina
empirica, interessandosi anche di argomenti come la criminalità, l’alcolismo, la povertà. È un
approccio che influenzò il grande sociologo canadese, Erving Goffman, che fu decisivo nel
consolidare l’interazione come oggetto di studio nelle scienze sociali e umane.19 Numerosi i
suoi contributi destinati a lasciare tracce indelebili anche nella ricerca linguistica; il suo
modello drammaturgico (Goffman, 1959), ad esempio, definisce l’individuo in società come
un attore in scena che si muove nei luoghi di ribalta o nel retroscena, riconoscendo
nell’interazione faccia a faccia l’oggetto privilegiato per l’analisi del “sé” (self).
In linguistica, la teoria della cortesia ne trarrà la nozione di faccia (v. Brown e Levinson,
1987). Le sue riflessioni sull’interazione nello spazio pubblico (Goffman, 1963, 1971) lo
porteranno a distinguere l’interazione non focalizzata, che si verifica quando persone co-
presenti si limitano a esibire disattenzione civile per l’altro (“civil inattention”),
dall’interazione focalizzata, definita da un focus di attenzione condiviso. Il passaggio
dall’interazione non focalizzata all’interazione focalizzata si configura, insomma, come
superamento della disattenzione civile, come apertura dell’incontro sociale per cui persone
co-presenti diventano co-partecipanti (v. De Stefani e Mondada, 2018). Decisivo per la
linguistica, tra molti altri contributi, l’ultimo volume pubblicato da Goffman, Forms of Talk
(1981),20 in cui lo studioso sottopone a un’analisi accurata i ruoli del “parlante” e del
“ricevente” che nei modelli di comunicazione precedenti (ad es. Jakobson, 1960) venivano
dati per scontati. Le analisi di Goffman, che si basano per lo più sull’osservazione diretta, non
registrata, hanno elevato l’interazione sociale quotidiana a oggetto di studio scientifico. Un
altro sociologo influente, poiché aprirà la strada all’etnometodologia, è Alfred Schütz. Sarà
proprio l’impostazione fenomenologica dei suoi studi, così come l’interesse del sociologo per
l’esperienza sociale ordinaria, a renderlo attraente agli occhi di Harold Garfinkel, stimolando
la nascita dell’etonometodologia e dell’analisi conversazionale, come spieghiamo nel
paragrafo che segue.

3. ANALISI CONVERSAZIONALE

Le origini epistemologiche dell’analisi conversazionale sono radicate nell’etnometodologia,
un approccio in forte contrasto con la sociologia americana dell’epoca, cioè una “sociologia
particolare” (Fele, 1999) che Harold Garfinkel propone nel volume Studies in
Ethnomethodology (1967). Ispirandosi alla fenomenologia nella sua espressione sociologica
(Schütz, 1932) e filosofica (Husserl, 1935; Wittgenstein, 1953 tra altri), Garfinkel opera una
svolta radicale nei confronti del funzionalismo allora imperante nella sociologia americana e

19
   Goffman diresse inizialmente anche la tesi di Harvey Sacks (v. § 2.3.), che però fu conclusa nel 1966 sotto la
direzione di Aaron Cicourel, a causa dei dubbi di Goffman nei confronti del metodo di Sacks (cfr. Schegloff,
1992: xxiv, n. 18).
20
   Sarà Franca Orletti a curare la traduzione italiana del volume, pubblicata con il titolo Forme del parlare.
Bologna: il Mulino, 1987.
di cui Talcott Parsons, relatore della tesi di dottorato di Garfinkel, era uno dei maggiori
esponenti. All’analisi formale dell’ordine sociale di Parsons, Garfinkel oppone una sociologia
basata sull’osservazione empirica, volta a studiare i metodi che i membri di una comunità
pongono in essere nel costituire l’ordine sociale, e nel cui raggio d’interesse principale si
trovano le pratiche degli individui, che sono metodiche, pubbliche e rendicontabili
(“accountable”). Harvey Sacks conobbe Garfinkel nel 1959 alla Harvard University, dove
seguiva un seminario di Parsons (v. Schegloff, 1992: xiii), e a partire dal 1963 Sacks e
Garfinkel applicarono i principi dell’indagine etnometodologica a dati conversazionali,
analizzando le chiamate telefoniche al Los Angeles Suicide Prevention Center. I dati
telefonici permisero ai due studiosi di analizzare, in modo dettagliato, le pratiche con cui gli
interattanti costruiscono l’ordine sociale, localmente, servendosi di un’unica modalità, ovvero
la voce; l’interesse primario, va ricordato, era puramente sociologico e consisteva
nell’analizzare il modo in cui gli interattanti producono, parlando, azioni socialmente
rilevanti. Fu però Emanuel A. Schegloff, nella sua tesi di dottorato del 1967, a proporre una
prima analisi basata su una collezione sistematica di estratti – nel caso specifico, oltre 500
occorrenze di aperture telefoniche –, che gli permise di illustrate l’organizzazione sequenziale
del parlato-in-interazione. Sin dai primi lavori, insomma, Sacks e Schegloff analizzano
problemi sociologici basandosi sull’osservazione di pratiche linguistiche.
L’empirismo radicale dell’analisi conversazionale contrastava però non solo con la ricerca
sociologica contemporanea, ma anche con gli approcci linguistici dominanti all’epoca, in
primis con la grammatica generativa di Chomsky (1965), ma anche con la teoria degli atti
linguistici di Austin (1962) e Searle (1969). Consapevoli dell’essenziale novità che
rappresentava il loro approccio, i pionieri dell’analisi conversazionale si rivolsero quindi a un
pubblico di linguisti: l’articolo programmatico di Sacks, Schegloff e Jefferson (1974) sarà
pubblicato in una delle riviste più prestigiose del campo, Language, e avrà un impatto
immediato e considerevole sui linguisti americani ed europei, stabilendo la conversazione
come oggetto di studio linguistico.
Anche in Italia, di lì a poco, sarebbero affiorate, in parte parallelamente all’analisi della lingua
parlata (cfr. § 1) i primi studi sulla conversazione. Durante l’VIII Congresso internazionale di
studi della Società Linguistica Italiana, tenutosi a Bressanone nel 1974, Franca Orletti avrebbe
infatti proposto una comunicazione intitolata Problemi di analisi conversazionale (Orletti,
1977), introducendo in tal modo il nuovo paradigma nella (socio)linguistica italiana.

3.1. Una precisazione terminologica

Negli studi di lingua italiana si nota un’oscillazione terminologica che interessa proprio il
nome della disciplina che fornisce gli strumenti metodologici alla linguistica interazionale –
di cui si tratterà nel successivo paragrafo –, indicata talora come analisi conversazionale,
talora come analisi della conversazione. Se analisi conversazionale è l’etichetta che Orletti
(1977) sceglierà per presentare l’approccio ai colleghi linguisti, i sociologi etnometodologici
italiani preferiranno analisi della conversazione (Fele, 1990) – in modo del tutto parallelo a
quanto si osserva ad esempio in francese, dove accanto a analyse conversationnelle, etichetta
usata prevalentemente da ricercatori di formazione linguistica (ad es. Mondada, 2000), esiste
anche la dicitura analyse de conversation (ad es. Bonu, 1992), spesso usata da chi enfatizza la
dimensione sociale della disciplina.21 Non si tratta però di un uso chiaramente distinto, e molti
linguisti – ma anche e soprattutto gli psicologi – sembrano prediligere analisi della
conversazione. In inglese prevale conversation analysis, anche se non manca chi parla di
conversational analysis. Secondo Schegloff et al. (2002: 3) conversation analysis rinvia
all’approccio emerso in ambito etnometodologico, mentre conversational analysis può essere
usato per i lavori che analizzano l’uso conversazionale della lingua (e si citano come esempi
Paul Grice, John J. Gumperz, Evelyn Hatch e Deborah Tannen). Lynch (2019: 186) ricorda
però come, quando Sacks era ancora in vita, alcuni suoi colleghi preferissero parlare di
conversational analysis poiché l’espressione permetteva di enfatizzare l’aspetto endogeno
dell’analisi che gli stessi partecipanti compionono mentre interagiscono.22 In effetti, come
segnala anche Margutti (2013: 832), in italiano analisi della conversazione potrebbe suggerire
che l’oggetto di studio sia la “conversazione” – una lettura che forse si applica ai primi lavori
(che vertevano, appunto, su chiamate telefoniche), ma che non regge dinanzi alla varietà di
interazioni studiate, né ai fenomeni analizzati, che esulano dalle mere risorse linguistiche
interessandosi anche di pratiche ‘incorporate’ (embodied). Di fronte a questo dubbio, il
termine analisi conversazionale presenta i seguenti vantaggi: a) permette di evitare una lettura
che identificherebbe la “conversazione” come genere privilegiato dell’analisi, b) enfatizza,
nella migliore tradizione etnometodologica, che l’analisi non è svolta solo dai ricercatori che
studiano i dati a posteriori, ma dai partecipanti stessi, nel momento del loro interagire (v.
Lynch, 2019), conferendo accountability alle proprie azioni, c) permette, infine, di rinviare
all’analisi collettiva – e quindi conversazionale – dei dati, in particolare nell’ambito delle
cosiddette data sessions. Queste ultime rappresentano un metodo di discussione e disamina
dei dati ampiamente diffuso in ambito conversazionale, che consiste nel sottoporre a visione
ripetuta (o ascolto ripetuto) un frammento di dati, con l’obiettivo di trarne un’analisi che
rispetti la rilevanza emica dei fenomeni osservati e che sia condivisa dagli analisti
compresenti.

4. LA LINGUISTICA INTERAZIONALE

Nel 2001 Margret Selting e Elizabeth Couper-Kuhlen pubblicano un volume intitolato Studies
in Interactional Linguistics. Il titolo è programmatico poiché colloca senza ombra di dubbio
gli studi di orientamento etnometodologico e interazionale nell’ambito della linguistica. Nella
visione delle studiose, la linguistica interazionale studia la lingua in quello che è considerato
l’habitat naturale del suo uso, ovvero l’interazione sociale. Dall’analisi conversazionale il
nuovo orientamento disciplinare prende l’attenzione per i dettagli della conversazione (pause,
interruzioni, sovrapposizioni, vocalizzazioni, ecc.), così come il metodo dell’analisi
sequenziale e situato del parlato-in-interazione. Ma essa si rifà anche alla linguistica
funzionale (Halliday, 1973; Givón, 1979, tra molti altri), da cui riprende concetti linguistici e

21
   Troviamo analisi conversazionale, ad esempio, in Orletti (1977), Skytte (1996: 318, n. 11), Franceschini
(1998), Bercelli (1999), Segre (2007: 10), De Stefani (2011), mentre analisi della conversazione è usato da Zorzi
Calò (1990), Fele (1990, 1999, 2007), Voghera (1992: 48), Duranti (1992: 17), Marcarino (1997), Fasulo e
Galatolo (2004). Altri autori, ad esempio Pallotti (1999), non esitano a alternare le due diciture.
22
   “Sacks […] is […] credited […] with being the founder of conversation analysis, though during his lifetime it
was often called conversational analysis – which some of us preferred as a way to highlight the way analysis
was endogenous to the production of conversation.”
grammaticali. L’impresa non è priva di difficoltà poiché combina un approccio che analizza i
dati da un punto di vista emico (l’analisi conversazionale) con categorie analitiche etiche,
ovvero definite dagli analisti (come “clausola”, “costruzione marcata” per rimanere
nell’ambito della sintassi). Tuttavia, lo stesso Schegloff (1996) ha dimostrato come
l’alternanza dei turni di parola sia resa possibile attraverso l’analisi sintattica e prosodica del
turno-in-corso, che i partecipanti svolgono in tempo reale (online secondo Auer, 2009). Di
fatto, non sono rari gli studi di orientamento interazionale che illustrano la rilevanza di certe
unità grammaticali per gli interattanti, a partire da Charles Goodwin, che nel suo
prionieristico lavoro del 1979 (Goodwin, 1979) mostra come un parlante che produce una
“frase” si orienti alle conoscenze che presuppone presenti nei partner conversazionali a cui
sono rivolti i vari segmenti del proprio turno. Altrettanto pionieristico poi, senz’altro in
ambito italiano, il saggio di Duranti e Ochs (1979) sulla dislocazione a destra nella
conversazione ordinaria. Vanno anche ricordati, per la sintassi, i lavori di Fox (1987)
sull’anafora, Lerner (1991) sulla costruzione if/then (‘se/allora’), Ford (1993) sulle clausole
avverbiali e Hopper (1987) sulla grammatica emergente. Un impulso importante giunge
inoltre dalle ricerche sulla fonetica e sulla prosodia del parlato conversazionale, portate
avanti, ad esempio, da French e Local (1983) per l’inglese britannico (v. Barth-Weingarten et
al., 2010 per una panoramica sul tema).
Come spiegano Couper-Kuhlen e Selting (2018: 18) la linguistica interazionale è necessaria,
da un lato, per contrastare concezioni della lingua non-interazionali – che continuano a
riconoscere nell’uso della lingua una mera applicazione (performance in termini chomskyani)
di un sistema linguistico soggiacente –, dall’altro lato per differenziarsi dall’analisi
conversazionale, interessata secondo le autrici a descrivere il costituirsi dell’ordine sociale
nell’interazione, laddove la linguistica interazionale studia dapprima la lingua – nel suo uso-
in-interazione.

4.1. Per una panoramica degli studi sull’italiano

In Italia, gli studi di orientamento interazionale si affermano dapprima nell’ambito della
(socio)linguistica, sulla scia dell’articolo di Orletti (1977), e di seguito anche nella sociologia
e nella psicologia sociale. In ambito linguistico, l’interesse crescente per la conversazione e
l’interazione si manifesterà attraverso una serie di volumi collettanei e monografie dedicati
all’argomento (Orletti, 1983, 1994a, 2000; Zorzi Calò, 1990; Bazzanella, 1994, 2002;
Galatolo e Pallotti, 1999; Fasulo e Galatolo 2004) e sarà tra l’altro documentato da alcune
rassegne degli studi conversazionali in Italia (Orletti, 1994b; Fatigante, 2004; Margutti,
2013).
Per quanto riguarda il focus dell’analisi, si osserva come la ricerca italiana abbia privilegiato
alcuni specifici contesti sociali, primo fra tutti l’interazione in classe, che è stata affrontata
tanto in L1 quanto in contesto multilingue, e sia relativamente a istruzione primaria e
secondaria, sia in ambito universitario (Bazzanella, 1980; Orletti, 1986; Ciliberti e Anderson,
1999; Fele e Paoletti, 2003; Ciliberti et al., 2003; Margutti, 2006, 2007a, 2010, 2016; Baraldi,
2007; Veronesi, 2007, 2016; Spreafico e Veronesi 2012; Margutti e Drew 2014). A livello di
interazione in classe, inoltre, non sono mancati gli studi conversazionali sull’insegnamento
dell’italiano L2, come documentato ad esempio in Zorzi (1996), Cacchione (2014), Ferroni
(2017; 2019), Diadori (2017) e Kunitz (2018a, 2018b).
Ugualmente indagati risultano gli incontri di servizio e i contesti commerciali (Collovà e
Petrini, 1981-1982; Aston, 1988; Zorzi Calò et al., 1990; De Stefani, 2011; Ticca, 2012; De
Stefani, 2019; cfr. anche, per lo specifico di interazioni plurilingui in contesto universitario,
Varcasia, 2010, come pure, relativamente a trattative d’affari e fiere commerciali, Merlino,
2009 e Piccoli, 2017) e la comunicazione in ambito medico (Baraldi e Gavioli, 2013; Galatolo
e Margutti, 2016; Galatolo e Cirillo, 2017; Sterponi et al., 2019). A ciò si affianca l’attenzione
per i contesti di migrazione e di mediazione linguistica, quest’ultima svolta da interpreti
professionisti o da partecipanti all’interazione non formati a tale scopo (Pugliese e Veschi,
2006; Ciliberti, 2007; Margutti, 2007b; Gavioli, 2009, 2016; Pasquandrea, 2011, 2012;
Merlino e Mondada, 2013; Veronesi, 2013; Davitti e Pasquandrea, 2017; Pugliese, 2017; cfr.
anche Polselli, 2008 e Caruana e Klein, 2009).
Le chiamate telefoniche (istituzionali), infine – un contesto d’interazione storico nell’ambito
dell’analisi conversazionale –, si rivelano essere un campo d’indagine consolidato anche in
area italiana (Bercelli e Pallotti, 2002; in prospettiva comparata: Thüne e Leonardi, 2003;
Varcasia, 2013; in ottica glottodidattica Varcasia, 2019; in programmi radiofonici e televisivi:
Fele, 1993; Sobrero, 1997).
Se nell’ambito della ricerca sui disturbi del linguaggio sembra consolidarsi sempre più
l’attenzione verso la dimensione dialogica e interazionale, come evidenziato da Carla
Bazzanella (cfr. anche Cacchione, 2010), risultano invece ancora poco rappresentati gli studi
conversazionali sull’interazione in famiglia, analizzata però nel dettaglio in Fasulo e
Pontecorvo (1999), Pontecorvo e Arcidiacono (2007), Pauletto (2017) e, con focus su code-
switching e identità, in Pasquandrea (2007).
Poco visibile, a tutt’oggi, pare inoltre l’interesse per indagini di stampo dichiaratamente
conversazionale sull’interazione mediata da computer e smartphone o tra interattanti umani e
non umani, da tempo oggetto di analisi a livello internazionale all’interno del paradigma (cfr.
ad es. Meredith, 2019) – ma di cui si può ipotizzare l’emergere in un imminente futuro, alla
luce della sempre maggiore rilevanza assunta anche in Italia dall’interazione digitale e da
forme di comunicazione mediata sincrone e quasi-sincrone, tanto nella vita privata quanto in
quella professionale ed educativa.
Per quanto riguarda invece lo studio dei rapporti che intercorrono tra grammatica e
interazione (v. Orletti, 2004) – focus privilegiato della linguistica interazionale, come già
accennato – la ricerca applicata a dati conversazionali italiani ha affrontato una varietà di
tematiche che spazia da costruzioni sintattiche come la dislocazione a destra (Duranti e Ochs,
1979; Monzoni, 2005), le frasi scisse (De Stefani, 2009), i temi sospesi (Calaresu, 2018),
l’uso del pronome noi (vs. Ø) (Bazzanella, 2014), o i turni co-costruiti (Arcidiacono e
Pontecorvo, 2007; Orletti, 2008; Biazzi, 2009), all’interesse per la grammaticalizzazione, o
perlomeno sedimentazione, di locuzioni come piuttosto che (Bazzanella e Cristofoli, 1998) e
nel senso (che) (De Stefani, 2020).
L’attenzione verso i rapporti tra grammatica e interazione, tuttavia, pare ancora poco
consolidata in ambito italiano, specie considerando che questa costituisce invece il cuore della
interactional linguistics in ambito anglosassone, con esiti di grande rilevanza per la
comprensione del ricorso situato che i parlanti fanno delle risorse grammaticali; si tratta
dunque di un campo che merita senza dubbio di essere ulteriormente e più sistematicamente
indagato, non da ultimo anche riguardo a fonetica e prosodia del parlato conversazionale, del
tutto inesplorate per la lingua italiana da una prospettiva di grammatica-in-interazione.
Similmente, quasi inesistenti figurano le analisi di orientamento interazionale che vertono
sulle altre varietà storiche della penisola italiana: a questo proposito, il volume di Sobrero
(1992) su Il dialetto nella conversazione rappresenta un’eccezione esemplare (ma vedi
Paternostro, 2013, come pure Pauletto e Ursi, i.c.s.).23
Per contro, estremamente ricca e variegata risulta la ricerca sui segnali discorsivi, sia in
generale, sia con indagini focalizzate su una o più risorse linguistiche (Berretta, 1984;
Bazzanella, 1985, 1986, 1995, 2006, 2015; Stame, 1999; Pauletto e Fatigante, 2015; Pugliese,
2015; De Stefani, 2016; Pauletto, 2016), tanto che questo ambito, grazie anche agli
innumerevoli lavori di Carla Bazzanella, un caposaldo sul tema, si profila quello con una più
ampia tradizione di ricerca in Italia.
Rispetto inoltre al versante pragmatico della linguistica interazionale, si osserva come la
ricerca si sia concentrata principalmente sul formato sintattico dei turni di parola, esaminando
come i partecipanti si servono della lingua per compiere azioni pratiche quali domande e
richieste (Rossano, 2010; Rossi, 2015, 2017; cfr. anche Margutti, 2006), inviti (De Stefani,
2018; Margutti e Galatolo, 2018), istruzioni (De Stefani e Gazin, 2014; Simone e Galatolo,
2020), valutazioni (Fasulo e Monzoni, 2009; cfr. anche Margutti e Drew, 2014), lamentele
(Monzoni, 2009) e rimproveri (Margutti, 2007a, 2011).
Infine, – in questa rassegna che, lungi dall’essere esaustiva, mirava a identificare gli
argomenti più indagati da ricercatrici e ricercatori che lavorano sull’italiano – si nota negli
ultimi anni un’attenzione crescente per gli aspetti ‘incorporati’ (embodied) dell’interazione. In
quest’ottica, la voce non costituisce che una risorsa tra molte altre che gli individui usano per
interagire. Sono altrettanto rilevanti i gesti (Kendon, 1995; Sciubba, 2010), lo sguardo
(Rossano, 2012; Orletti, 2015), il movimento nello spazio (Veronesi, 2007; De Stefani e
Gazin, 2014; Simone e Galatolo, 2020), la manipolazione di oggetti (De Stefani, 2011, 2019;
Pasquandrea, 2011; Klein e Pasquandrea, 2013; Demo e Veronesi, 2019), l’olfatto e il gusto.
Una simile concezione ‘olistica’ consente, da un lato, di studiare anche pratiche interazionali
non vocali (come ad es. la conversazione nella Lingua Italiana dei Segni; cfr. Gianfreda,
2011); dall’altro lato permette di vedere come gli interlocutori strutturino i propri turni di
parola in modo riflessivo e situato, adattandosi via via alle contingenze interazionali che
emergono nel tempo, e offrendo dunque una prospettiva che studia il linguaggio – per
riprendere le parole delle fondatrici della linguistica interazionale – nell’interazione sociale
quale habitat naturale del suo uso, e che può offrire, in ultima analisi, una vera grammatica
dell’interagire.

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23
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focalizzandosi tuttavia più sulle dimensioni interazionali che sugli aspetti di variazione.
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