Napoli'den İstanbul'a: il calendario Di Meo 2019 - Istanbul, Europa doni e dispetti di una città cosmopolita - Associazione Di Meo Vini ad Arte

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Napoli'den İstanbul'a: il calendario Di Meo 2019 - Istanbul, Europa doni e dispetti di una città cosmopolita - Associazione Di Meo Vini ad Arte
Istanbul, Europa
                      doni e dispetti di una città cosmopolita

Napoli’den İstanbul’a: il calendario Di Meo
2019
da Giuseppe Mancini
Napoli'den İstanbul'a: il calendario Di Meo 2019 - Istanbul, Europa doni e dispetti di una città cosmopolita - Associazione Di Meo Vini ad Arte
CP0638

Ho scritto questo commento per il sito di presentazione del calendario Di Meo: un fantastico
progetto culturale che ha l’obiettivo di far conoscere meglio Napoli nel mondo (la sua storia, la sua
cultura), mettendone in luce i legami col mondo attraverso foto e testi di studiosi prestigiosi, e che per
il 2019 fa tappa a Istanbul.

Vi parlerò poi meglio del calendario – Napoli’den İstanbul’a – che verrà presentato il 17
novembre in un gala nel palazzo ottomano di Çırağan; e secondo me – quando a Napoli ci sarà
un’altra amministrazione politica (di persone ragionevoli e non fanatiche) – sul gemellaggio con
Istanbul ci si dovrebbe assolutamente lavorare. Il mio commento invece chi segue il blog lo conosce
già, perché condensa temi su cui scrivo spesso.
Donne velate, castagne arrostite, quartieri sgarrupati. Nella percezione comune e diffusa degli
Italiani che si apprestano a visitarla, Istanbul è una città orientale ed esotica delle Mille e una
notte, “araba” e odorosa di spezie colorate, caotica e povera e poco nobilmente decaduta,
dedita al consumo smodato di döner kebab e altro cibo da strada, soffocata da preghiere rumorose e
da divieti al divertimento, poco sicura per le donne soprattutto se bionde.

Al di là del Bosforo, c’è poi l’Asia: un mondo misterioso e proibito che richiede un passaporto
da mostrare non si sa bene dove, dove tutto per l’appunto è più orientale e più “arabo”, in cui
avventurarsi velocemente “ma solo se avanza tempo”. O almeno questo si legge – spesso, non
sempre – curiosando sul web, nei siti di viaggi. Colpa di pregiudizi ben sedimentati, di un sistema
mediatico che scioccamente li condivide e li alimenta con fake news a raffica, di tour operator
che fondano il loro business sul pittoresco.

Invece, la realtà – quella della profondità storica, quella del XXI secolo – coglie i visitatori di Istanbul
alla sprovvista: li spiazza, li affascina, un po’ li delude. Chi cercava Oriente ed esotismo si ritrova
in una città che mostra tracce di millenni diversificati di storia, che è ancora romana
nell’impianto urbanistico e monumentale della penisola storica cinta di mura, che per origini e
vocazione è cosmopolita (molto meno che nel passato ottomano, però), che esibisce architetture
moderne e vanta un sistema di trasporti efficiente con ponti e tunnel all’avanguardia, che nei quartieri
residenziali alla moda ricorda una qualsiasi grande capitale europea (e anche il cosiddetto “velo” è
ormai un accessorio fashion e di seduzione).

D’altra parte, non tutti hanno l’opportunità di conoscere la Istanbul reale. In molti, mal orientati da
TripAdvisor e da guide rapaci, rimangono prigionieri del turistificio di Sultanahmet e della
logica dei cosiddetti “monumenti principali”: Ayasofya, la moschea blu, il palazzo di Topkapı, la
basilica cisterna, il Gran bazar; finiscono col mancare le più belle moschee di Mimar Sinan come
quella di Kılıç Ali a Tophane e quella di Mihrimah a Edirnekapı, coll’ignorare il fitto reticolo di chiese e
palazzi signorili al di là – Pera – del Corno d’oro. Alcuni si spingono nei quartieri di Fener e Balat e
scambiano il degrado – quartieri svuotati delle minoranze non musulmane, occupati dagli immigrati
rurali dell’Anatolia orientale nel secondo dopoguerra – per autenticità. Vedono una città che non
esiste, che esiste solo per loro.

Sono pochissimi – i più ardimentosi e meglio preparati – quelli che riescono a percepire lo
straordinario cambiamento in atto: il boom culturale che sta investendo l’ex capitale romana e
ottomana nel primo scorcio del nuovo millennio. Il catalizzatore è stato l’Unione europea, la
celebrazione di Istanbul come Capitale europea della cultura (sì, europea) nel 2010. Storicamente, i
grandi gruppi industriali e finanziari – solo per citarne alcuni: i Koç, i Sabancı, Doğuş, Akbank,
Garanti – si sfidano a colpi di nuovi musei e centri culturali, nel finanziamento di orchestre di
musica classica e di festival artistici di ogni tipo. Il livello diventa sempre più internazionale, sia delle
infrastrutture sia degli eventi.

Istanbul è punteggiata di gallerie d’arte, nei prossimi anni apriranno due nuovi musei privati di
arte contemporanea, il museo di arte moderna e contemporanea Istanbul Modern avrà presto
una nuova sede progettata da Renzo Piano, la fiera per collezionisti Contemporary Istanbul ha
ormai visibilità mondiale, ogni anno si alternano biennale di arte contemporanea e del design,
fioriscono meravigliosi progetti architettonici come lo Zorlu di Emre Arolat che allo shopping uniscono
la programmazione culturale.

Se il mecenatismo dei privati è il motore di questo processo, anche il pubblico investe
convintamente in cultura. Un nuovo teatro d’opera nel contesto di un più grande centro culturale (il
ricostruito Atatürk Kültür Merkezi) nascerà nella centralissima e iconica piazza Taksim, il primo
museo civico dedicato agli 8500 anni di storia della città è in fase di completamento, un ulteriore
museo archeologico è stato progettato per ospitare i famosi relitti del porto romano-bizantino di
Teodosio. Istanbul sta cambiando rapidamente e virtuosamente, purtroppo in Italia se ne
stanno accorgendo in pochi.
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