Lo Smart working oggi tra benifici e criticità - SDL HUB W.P. n.5-2021

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SDL HUB W.P. n.5-2021

Lo Smart working oggi tra benifici e criticità
                                                      Antonio Pellicano, UniFg

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1.      Premessa. 2. Lo smart working emergenziale nel settore privato. 3. Il diritto
               alla disconnessione: il c.d. lato oscuro dello smart working. 4. Considerazioni
               conclusive.

1. Premessa.
In un mondo ormai in continua trasformazione, segnato dal progresso e dall’evoluzione
tecnologica, il c.d. lavoro agile1, o smart working secondo la terminologia anglosassone,
oggetto di un’attenzione sempre più ampia per effetto della pandemia da coronavirus, non
rappresenterebbe più una scelta forzata, ma una vera e propria opportunità per il futuro
nel graduale processo di riconfigurazione del tempo e dell’organizzazione di lavoro.
Le novità sopraggiunte negli ultimi anni (a partire dalla L. n. 81/2017, c.d. Jobs Act
Autonomi) non possono non risvegliare la curiosità del giuslavorista per gli scenari che
esse aprono nel frantumare le “c.d. regole aristoteliche del diritto del lavoro”2, nel lavoro
da remoto prima ancora che in altri modelli di organizzazione. L’emergenza sanitaria ha,
infatti, ridisegnato i confini del lavoro agile sotto un duplice profilo. In primis, attraverso
un ampliamento considerevole del novero dei c.d. smart workers, indispensabile per
garantire la prosecuzione dell’attività lavorativa anche a distanza, nel rispetto delle
prescrizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In secundis, introducendo una
deroga di carattere temporaneo che, di proroga in proroga3, ha rivisitato la disciplina sul
lavoro agile contenuta nella L. n. 81/20174.

1   I contributi scientifici in materia di lavoro agile, ormai, sono numerosi. Senza pretesa di esaustività, si vedano
M. Brollo, Il lavoro agile nell’era digitale tra lavoro privato e pubblico, in LPA, 2017, 1, pp. 119 ss.; M. Martone, Lo smart
working nell’ordinamento italiano, in DLM, 2018, 2, pp. 293 ss.; L. Zoppoli, Dopo la Digi-demia: quale smart working
per le pubbliche amministrazioni italiane?, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 2020, 421, pp. 2 ss.
2   M. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto
del lavoro, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 2017, 335, p. 8
3   Da ultimo, si segnala il decreto-legge n. 56/2021 (c.d. decreto proroghe), con il quale le amministrazioni
pubbliche, comunque non oltre il 31 dicembre 2021, possono continuare a ricorrere alla modalità di lavoro
agile, senza, però, essere più vincolate al rispetto della percentuale minima del 50% del personale. Inoltre, appare
consolidato l’obbligo delle amministrazioni di dotarsi del POLA (Piano Organizzativo del Lavoro Agile), entro
il 31 gennaio di ogni anno, ma scatta la riduzione, dal 60% al 15%, della quota minima dei dipendenti che può
avvalersi della modalità di lavoro in smart working.
4   In particolare, ai sensi dell’art. 18, co. 1, L. n. 81/2017, il lavoro agile consiste in una “modalità di esecuzione
del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione

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Sembra evidente, ictu oculi, che il lavoro agile sia divenuto attualmente il modus operandi
principale, o esclusivo, in molte realtà aziendali. La tendenza ad un suo utilizzo futuro
sempre più massiccio denota, dunque, la necessità di indagare il fenomeno in esame
attraverso una prospettiva interdisciplinare, nella consapevolezza che, in questa sede, non
ci si può che limitare a impostare direttrici e spunti di riflessione.
2. Lo smart working emergenziale nel settore privato.
L’emergenza sanitaria ha impresso una forte accelerazione al processo di trasformazione
e innovazione digitale5, rivoluzionando, in maniera repentina, le nostre abitudini di vita,
sociali e lavorative. Sotto quest’ultimo profilo, infatti, si è assistito ad una produzione
normativa senza precedenti, che ha riversato i suoi primi consistenti effetti proprio sulla
disciplina dello smart working.
Il fenomeno del lavoro agile, istituito originariamente come esperimento sociale, si è
rivelato, infatti, agli occhi del legislatore dell’emergenza, uno strumento polivalente, in
grado di consentire, sincronicamente, sia la prosecuzione dell’attività lavorativa, seppur
a distanza, sia la prevenzione dal contagio nei luoghi pubblici e privati6.
In questa prospettiva, la disciplina dettata durante la fase pandemica appare fortemente
derogatoria rispetto a quella contenuta nella L. n. 81/2017, tant’è che preme precisare, in
apertura, che la modalità di lavoro a distanza utilizzata in questo periodo appare molto
più prossima al telelavoro (o home working pandemico) che al lavoro agile7.
Orbene, al di là di questa considerazione iniziale, la presente analisi passerà in rassegna
la nutrita serie di provvedimenti che, con ritmo incalzante, hanno trasformato il lavoro
agile da istituto di nicchia8, scarsamente utilizzato sia nel settore pubblico che nel settore
privato, a modalità ordinaria di prestazione di lavoro.

per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti
tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.
5   Cfr. L. Zoppoli, Dopo la Digi-demia: quale smart working per le pubbliche amministrazioni italiane?, in WP CSDLE
“Massimo D’Antona”.IT, 2020, 421, p. 11, secondo il quale “le pandemie non inducono novità, ma accelerano
processi.”
6   Cfr. R. De Luca Tamajo, F. Maffei, L’esperimento emergenziale e postemergenziale del lavoro agile: consuntivo e spunti di
riforma, in M. Martone (a cura di), Il Lavoro da remoto, 2020, p. 238.
7   Sulla distinzione tra lavoro agile e telelavoro, si vedano i contributi di M. Martone, Il lavoro agile nella l. 22 maggio
2017, n. 81: un inquadramento, in G. Zilio Grandi, M. Biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo
e del lavoro agile, Milano, 2018, pp. 461 ss..
8   B. Caruso, Tra lasciti e rovine della pandemia: più o meno smart working?, in RIDL, 2020, 2, p. 220.

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Innegabile che, sin dalla primissima fase pandemica, il Governo sia intervenuto in
maniera puntuale sull’istituto, regalando un quadro normativo piuttosto confusionario e
frastagliato. Sotto questo profilo, già con l’art. 4, co. 1, del d.p.c.m. del 1° marzo 2021 è
stata prevista l’applicazione, su scala nazionale, della modalità di lavoro agile, per tutta
la durata dello stato di emergenza, dai datori di lavoro ad ogni rapporto di lavoro
subordinato, anche in assenza degli accordi individuali di lavoro.
Quest’ultimo profilo rappresenta il fil rouge che connota la disciplina del c.d. smart
working emergenziale, nonché il principale punto di discrasia rispetto ai vincoli fissati
dalla legge n. 81 del 2017. Come noto, infatti, il lavoro agile poggia le sue fondamenta
sull’accordo scritto tra il datore di lavoro e il lavoratore. In particolare, “l’accordo
disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali,
anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli
strumenti utilizzati dal lavoratore. Inoltre, mira a individuare i tempi di riposo del
lavoratore, nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la
disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”9.
Il riconoscimento della procedura “semplificata”, utilizzabile unilateralmente dal datore
di lavoro sia pubblico che privato attraverso una semplice comunicazione – contenente
l’elenco dei lavoratori - da trasmettere al Portale del Ministero del Lavoro, rappresenta
una novità di assoluto rilievo nello scenario nazionale, che, se da un lato ha permesso di
attivare, in tempi celeri, lo smart working, assicurando la prosecuzione dell’attività
produttiva, dall’altro ha evidenziato una serie di criticità legate ai temi del controllo a
distanza del lavoratore, della tutela della privacy e della sicurezza aziendale.
L’art. 21, co. 1., della legge n. 81/2017 stabilisce, infatti, che “l’accordo relativo alla
modalità di lavoro agile disciplina l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro
sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto di quanto
disposto dall’articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni.”
In questa prospettiva, appare ragionevole ritenere che, in assenza di una disciplina
specifica concordata tra le parti, il compito di determinare come, in concreto, il datore di

9   Si veda art. 19, co. 1, della L. n. 81/2017.

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lavoro possa esercitare i propri poteri con riferimento alla prestazione resa al di fuori dei
locali aziendali graverà, in ogni caso, sul richiamato art. 4 dello Statuto dei Lavoratori10.
Tale disposizione normativa sancisce un divieto di installazione e uso di apparecchiature
tecnologiche in grado di controllare a distanza lo svolgimento dell’attività lavorativa del
dipendente, salvo che si provveda alla stipulazione di un accordo con le rappresentanze
sindacali (aziendali o unitarie) o, in mancanza, di apposita autorizzazione dell’Ispettorato
Territoriale del Lavoro per attestare la sussistenza, in concreto, di specifiche esigenze
aziendali (ragioni organizzative, tecniche, produttive e di tutela del patrimonio
aziendale)11.
La novità più eclatante del nuovo testo dell’art. 4, però, è racchiusa nel suo secondo
comma, secondo cui la procedura di autorizzazione non si applica agli “strumenti
utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e quelli di registrazione degli
accessi e delle presenze12”, fermo restando l’utilizzabilità dei dati e delle informazioni
ottenuti tramite gli strumenti di controllo “ai fini connessi al rapporto del lavoro”, a patto
che “sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e
di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30
giugno 2003, n. 196”.
In sostanza, si tratta di una previsione che impone uno stretto contemperamento tra la
tutela della privacy e la normativa giuslavoristica. La regola generale, ad ogni modo,
prevede non solo che il datore di lavoro utilizzi l’impianto installato nel rispetto del
Codice della privacy per le operazioni di trattamento dei dati personali (raccolta,
registrazione, organizzazione, conservazione, consultazione, elaborazione, utilizzo e
distruzione dei dati personali), ma anche il consenso espresso dell’interessato, non

10   Sui problemi interpretativi posti dal nuovo testo dell’art. 4 della Legge n. 300 del 1970, si veda A. Bellavista,
Il nuovo art. 4 dello Statuto dei lavoratori, in G. Zilio Grandi, M. Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs
Act”, 2016.
11   Sul tema si veda E. Fiata, Il potere di controllo nel lavoro da remoto tra valutazione del risultato e privacy del lavoratore, in
M. Martone (a cura di), Il lavoro da remoto, pp. 101 ss..
12   Si veda L. Ficari, I controlli effettuati attraverso gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa,
in A. Levi (a cura di), Il nuovo art. 4 sui controlli a distanza. Lo Statuto dei Lavoratori modificato dal Jobs Act, Giuffré,
Milano, 2016, pp. 89 ss.; A. Sartori, Il controllo tecnologico sui lavoratori. La nuova disciplina italiana tra vincoli
sovranazionali e modelli comparati, Giappichelli, 2020, pp. 185 ss.

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necessario, però, ove il trattamento sia diretto ad adempiere obblighi previsti dalla legge
o a dare esecuzione al contratto (come nel rapporto di lavoro)13.
L’assenza di un accordo scritto, che regoli le modalità della prestazione da remoto e
fornisca al dipendente le necessarie linee guida riguardo la protezione dei dati aziendali,
rischia, però, di tradursi in un’occasione per ingenerare un contenzioso tra le parti,
animato dall’assenza di un circuito di regole condivise, non solo in materia di poteri del
datore di lavoro, ma anche in tema di salute e sicurezza del dipendente e di diritto alla
disconnessione.
Senza dilungarci eccessivamente nell’analisi delle problematiche emerse a seguito della
normativa emergenziale, sembra opportuno riportare la nostra attenzione nell’alveo dei
diversi provvedimenti succedutisi in tema di smart working.
Di assoluto rilievo risulta essere l’art. 87 del decreto-legge n. 18/2020 (c.d. decreto Cura
Italia), il quale ha riconosciuto lo smart working “come modalità ordinaria di svolgimento
della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni, fino alla cessazione dello
stato di emergenza epidemiologica da Covid-19”.
L’art. 39 del medesimo decreto, inoltre, ha previsto che i lavoratori dipendenti disabili o
che abbiano nel proprio nucleo una persona con disabilità hanno diritto a svolgere la
prestazione di lavoro in modalità agile, a condizione che tale modalità sia compatibile
con le caratteristiche della prestazione. Sotto questo punto di vista, i lavoratori del settore
privato affetti da gravi e comprovate patologie, attestanti ridotta capacità lavorativa,
risultano titolari di una priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento
dell’attività lavorativa in modalità agile.
Il quadro normativo, successivamente, si è arricchito con l’art. 90 del decreto-legge n.
34/2020 (c.d. decreto Rilancio), che ha riconosciuto il diritto allo svolgimento del lavoro
in modalità agile a favore dei dipendenti del settore privato, genitori di figli minori di
anni quattordici, nonché dei lavoratori maggiormente esposti al rischio da contagio, anche
in assenza degli accordi individuali tra le parti e degli obblighi informativi previsti dalla
normativa vigente.
In linea con quanto finora evidenziato, si segnala, inoltre, che l’art. 2, co. 1, del decreto-
legge n. 30/2021 ha previsto che, fino al 30 giugno 2021, al lavoratore dipendente,
pubblico o privato, genitore di figlio convivente di età minore di anni sedici, si riconosce,

13   M. Ricci, I controlli a distanza dei lavoratori tra istanze di revisione e flessibilità “nel” lavoro, in ADL, 2016, p. 750.

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alternativamente all’altro genitore, la possibilità di svolgere la prestazione di lavoro in
modalità agile per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della sospensione
dell’attività didattica in presenza, dell’infezione da Covid-19 o della quarantena del figlio
disposta dalla ASL territorialmente competente a seguito di contatto ovunque avvenuto.
Sullo stesso versante, si inserisce anche l’art. 15 del decreto-legge n. 41/2021, che
riconosce il diritto al lavoro agile in favore dei dipendenti pubblici e privati in possesso
di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestanti una condizione
di disabilità grave o di rischio derivante da immunodepressione, esiti di patologie
oncologiche o da svolgimento di relative terapie salvavita.
L’esperienza dello smart working emergenziale ha consentito, peraltro, di avviare una
serie di indagini sugli effetti positivi e negativi che tale nuova modalità di esecuzione
della prestazione di lavoro ha riversato sulla popolazione. Interessante, nella prospettiva
che qui ci interessa, è volgere lo sguardo all’analisi – avviata durante l’emergenza
pandemica – da Banca d’Italia, per i dipendenti del settore privato non agricolo di età
compresa tra i quindici e i sessantaquattro anni14.
I dati individuali della Relazione sulle forze del lavoro (RFL) relativi al secondo trimestre
del 2020, denotano un chiaro incremento della percentuale di lavoratori impiegati in
modalità di lavoro agile: si è passati, infatti, da meno di 200 mila lavoratori a 1,8 milioni.
Un dato affascinante, ma allo stesso tempo prevedibile, attiene alla percentuale di
lavoratori in smart working, di gran lunga inferiore rispetto al numero delle lavoratrici
impegnate nei medesimi settori15.
In generale, dunque, il lavoro da remoto risulta essere più diffuso tra le donne,
specialmente tra quelle con figli dai sei ai quattordici anni, tra i lavoratori con più alto
titolo di studio e con posizioni manageriali, al Centro e al Nord Italia e, soprattutto, in
alcuni settori, come quelli dell’informazione e della comunicazione.
Anche sul versante della retribuzione, si possono cogliere segnali fortemente positivi. In
particolare, rispetto ai lavoratori in presenza, la retribuzione di coloro che hanno svolto
la loro attività lavorativa a distanza è stata superiore del sei per cento, riflettendo in larga

14   Si veda D. De Paolo, F. Giorgi, Il lavoro da remoto in Italia durante la pandemia: i lavoratori del settore privato, in
Banca d’Italia.it, 2020, pp. 1 ss.
15   Durante la fase pandemica, infatti, l’aumento dello smart working per le donne è stato di 15,4 punti percentuali,
ben 4,1 percentuali in più degli uomini (al 12,8 per cento).

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parte il maggior numero di ore lavorate16. Inoltre, rispetto agli altri lavoratori, la modalità
di lavoro da remoto ha ridotto non solo la possibilità di essere collocati in Cassa
Integrazione Guadagni (CIG), ma anche la probabilità di cercare un altro lavoro o,
eventualmente, di perdere quello esistente entro sei mesi (di 3,0 punti percentuali).
Sul fronte delle imprese private, invece, la ricerca – sempre compiuta da Banca d’Italia –
denota un corrispondente incremento del ricorso allo smart working, nella misura di circa
il 60 per cento rispetto l’anno precedente 17 . Gli aumenti più significativi hanno
riguardato, principalmente, le imprese più dinamiche e innovative, con retribuzioni medie
più alte e con manager giovani e che investono in tecnologie del futuro. Anche in questo
caso, infine, l’utilizzo della modalità agile sembra aver avuto riflessi positivi in termini
di minor ricorso alla cassa integrazione e, per alcune imprese contraddistinte da una
maggiore telelavorabilità delle mansioni, sul versante dell’aumento delle ore lavorate.
3. Il diritto alla disconnessione.
È pur vero, però, che se da un lato lo smart working rappresenta una conveniente modalità
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di esecuzione della prestazione lavorativa                                     , dall’altro la quasi completa
smaterializzazione dei concetti di luogo e orario di lavoro rischia di provocare la c.d.
always-on, la connessione ininterrotta.19 In questo scenario più che mai attuale, in ambito
nazionale e comunitario, l’esigenza di tutelare il diritto alla disconnessione per assicurare
un equo bilanciamento tra il bisogno di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro pare
essere diventata una necessità, soprattutto in occasione di un ritorno progressivo alla
“normalità”.

16   Sotto il versante della retribuzione, si è assistito ad un aumento della retribuzione per coloro che hanno svolto
il lavoro da remoto nella misura del 6 per cento, riflettendo in larga parte il maggior numero di ore lavorate (in
media, due ore a settimana, pari a circa il 6 per cento).
17   G. Basso, S. Formai, Il lavoro da remoto in Italia durante la pandemia: le imprese nel settore privato, in Banca d’Italia.it,
2021, pp. 1 ss.
18   V. Pasquarella, Work-life balance: esiste un modello italiano di «conciliazione condivisa» dopo il Jobs act, RIDL, 2017, 1,
pp. 41 ss., secondo la quale “sono abbastanza evidenti i benefici per i lavoratori, anche in termini di migliore
equilibrio tra vita professionale e vita familiare, di un lavoro a distanza facilitato dalle tecnologie informatiche
e telematiche, attraverso le quali è possibile valicare i tradizionali confini fisici e logistici dell’ufficio.”
19   D. Poletti, Il diritto alla disconnessione nel contesto dei “diritti digitali”, RCP, 2017, 1, p. 9, secondo cui “la
connessione ininterrotta comporta uno stato permanente di allerta reattiva rispetto al soddisfacimento delle
richieste datoriali”.

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Sembra evidente che, con il fluire del tempo, sta assumendo sempre più rilievo il diritto
alla disconnessione20, ossia il diritto «a potersi disconnettere (in senso figurato) dalle
tecnologie che ne consentono la rintracciabilità̀ senza interruzioni, cancellando il tempo
dedicato al lavoro dal tempo dedicato alle attività altre, senza subire ripercussioni sul
piano retributivo e sulla prosecuzione del rapporto di lavoro»21.
La prima regolamentazione del diritto alla disconnessione si rinviene proprio nella legge
del 2017, che all’art. 19, co. 1, prevede testualmente che «l’accordo relativo modalità di
lavoro agile (...) individua (...) i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche
e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle
strumentazioni tecnologiche».
Dalla lettura della disposizione, però, emerge chiaramente l’intenzione del legislatore
italiano: non qualificare espressamente la disconnessione come un diritto22, operando un
arretramento rispetto alla formulazione contenuta nel disegno di legge n. 2229/16 23 .
Pertanto, l’unico parametro cui ancorare la quantificazione del diritto al riposo (o alla non
reperibilità) 24 sembrerebbe essere l’art. 7, D.lgs. n. 66/2003, in base al quale “ferma
restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di
riposo consecutivo ogni ventiquattro ore”.
Tuttavia, la normativa sul tema non appare capace di offrire ancora una congrua tutela al
diritto alla disconnessione, mostrandosi decisamente lacunosa e bisognosa di
un’integrazione ad opera della contrattazione collettiva 25 . Sotto questo profilo, un

20   In tema di disconnessione, si veda R. Zucaro, Il diritto alla disconnessione tra interesse collettivo e individuale. Possibili
profili di tutela, in LLI, pp. 217 ss.
21   D. Poletti, Il diritto alla disconnessione nel contesto dei “diritti digitali”, RCP, 2017, 1, p. 7
22   A. Allamprese, F. Pascucci, La tutela della salute e sicurezza del lavoro “agile”, RGL, 2017, 1, p. 2
23   Rubricato “Adattamento negoziale delle modalità di lavoro agile nella quarta rivoluzione industriale” e successivamente
assorbito e modificato dal disegno di legge n. 2233/16, approvato con la L. n. 81/2017. In particolare, l’art. 3
co. 7 prevedeva che il lavoratore “ha diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle
piattaforme informatiche di lavoro senza che questo possa comportare, di per sé, effetti sulla prosecuzione del
rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi.”
24   C. Spinelli, Tecnologie digitali e lavoro agile, Cacucci, 2018, p. 155. L’autrice considera la disconnessione come
“un adattamento tecnologico del diritto al riposo”.
25   V. Zeppilli, Disconnessione: un’occasione mancata per il legislatore?,, RGL, 2019, 1, p. 313; L. Zoppoli, Dopo la digi-
emia: quale smart working per le pubbliche amministrazioni italiane?, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, 2020, 421,
p. 22

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tentativo di dar forma e contenuto al diritto alla disconnessione si può rivenire all’interno
delle singole realtà aziendali26.
In questo periodo di serrato smart working e con un occhio al futuro, dunque, lo scenario
che si va profilando, in ambito nazionale e comunitario, è quello di regolamentare il diritto
alla disconnessione non solo per affrontare le sfide poste dal new normal, ma anche per
evitare seri rischi per la salute del lavoratore, incapace di distinguere la giornata di lavoro
dalla vita privata, come la c.d. sindrome di burn-out.27
Sotto questa prospettiva, sembra inevitabile volgere l’attenzione ai recenti interventi che,
come piccoli puzzle di un mosaico complesso, stanno cercando, sempre più, di
riconoscere al diritto alla disconnessione un ruolo prioritario nell’agenda di ogni Paese.
In quest’ottica, si colloca in primis la Risoluzione del 21 gennaio 2021, approvata con
larga maggioranza, con cui il Parlamento europeo rivolge molteplici raccomandazioni
alla Commissione, invitandola, nello specifico, “a presentare, sulla base di un esame
dettagliato, di una valutazione adeguata e di una consultazione degli Stati membri e delle
parti sociali, una proposta di direttiva dell’Unione su norme e condizioni minime per
garantire che i lavoratori possano esercitare efficacemente il loro diritto alla
disconnessione e per disciplinare l’uso degli strumenti digitali esistenti e nuovi a scopi
lavorativi […]28”
La Risoluzione, frutto anche di una ricerca condotta da Eurofond su un determinato
campione di dipendenti, evidenzia non solo l’assenza di una normativa europea uniforme

26   Ad esempio, l’Accordo quadro sulle forme di lavoro agile, siglato da Findomestic con i sindacati nel giugno 2017,
prevede espressamente che “al di fuori dell’orario di lavoro, strettamente correlato alla mansione e alla struttura
di appartenenza, viene riconosciuto il diritto alla disconnessione, ossia la possibilità dei lavoratori di non
rispondere alle e-mail e alle telefonate al di fuori del suddetto orario.” Inoltre, particolarmente rilevante risulta
essere il Decreto emesso dal Direttore Generale presso l’Università degli Studi dell’Insubria nell’aprile 2017,
avente ad oggetto “diritto alla disconnessione al di fuori dell’orario di lavoro e attivazione del Giorno dell’indipendenza dalle
e-mail in ogni trimestre.” Nello specifico, tale provvedimento riconosce al personale il diritto alla disconnessione,
considerato come diritto di non rispondere a telefonate, mail o messaggi d’ufficio nonché di non telefonare e
inviare mail o messaggi di qualsiasi tipo al di fuori della fascia compresa tra le 20.00 e le 7.00 del mattino
successivo, oltre che nelle giornate di sabato, domenica e festivi. Sul punto: R. Perrone, Il “diritto alla
disconnessione” quale strumento di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, Federalismi.it, 2017, 24, p. 1
27   E. Pietrafasa, R. Di Leo, M. Castriota, ICT e mercato del lavoro tra nuove professioni e rischi emergenti, RIMP, 2014,
2, p. 412 ss.
28   Si veda la Risoluzione del Parlamento Europeo del 21 gennaio 2021 n. 2019/2181 (INL), recante
raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione.

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e specifica sul tema, ma pone l’accento sulla necessità di agganciare il diritto alla
disconnessione al tema della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. In particolare, infatti,
l’utilizzo massiccio, molto spesso oltre il consueto orario di lavoro, delle apparecchiature
tecnologiche ha comportato “la nascita di una cultura del "sempre connesso", "sempre
online" o "costantemente di guardia" che può andare a scapito dei diritti fondamentali dei
lavoratori e di condizioni di lavoro eque, tra cui una retribuzione equa, la limitazione
dell'orario di lavoro e l'equilibrio tra attività lavorativa e vita privata, la salute fisica e
mentale, la sicurezza sul lavoro e il benessere, nonché della parità tra uomini e donne,
dato l'impatto sproporzionato di tali strumenti sui lavoratori con responsabilità di
assistenza, che generalmente sono donne.”

Per quanto concerne, invece, il recepimento della direttiva, viene prospettato un termine
di due anni dall’entrata in vigore della stessa, entro cui gli Stati membri dell’Unione
dovrebbero adottare e pubblicare le misure legislative, regolamentari e amministrative
necessarie per darvi attuazione e il termine di tre anni per l’applicazione delle misure
precedentemente adottate.

4. Considerazioni conclusive

L’analisi fin qui condotta permette di operare alcune considerazioni finali in materia di
smart working. In primo luogo, preme evidenziare che, nato all’insegna della
straordinarietà, sia diventato, allo stato attuale, uno strumento fondamentale non solo
nell’immediato, come misura di ordine pubblico, ma anche come modalità di lavoro da
utilizzare in misura crescente anche in futuro. Si ritiene, infatti, che un’attenta valutazione
dei suoi punti di forza e di debolezza permetterebbe di ripensare in maniera organica i
modelli di organizzazione del lavoro in chiave smart 29 , facendo tesoro di questa
esperienza, seppur nella sua veste pandemica.

Sotto questo profilo, è bene riflettere, a conclusione della presente analisi, sui dati di
ricerca dell’Osservatorio Smart working del Politecnico di Milano. Non v’è dubbio,
infatti, che ogni dato, se analizzato criticamente, consente di riflettere, anche in una

29   M. Del Conte, Le prospettive del lavoro agile oltre l’emergenza, in M. Martone (a cura di), Il lavoro da remoto, p. 207.

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dimensione prospettica, sugli effetti sia negativi che positivi di un determinato fenomeno.
In quest’ottica, pertanto, se da una parte si è assistito ad un incremento della produttività,
della motivazione e delle competenze digitali dei dipendenti, dall’altra parte i rischi di
una incontrollata flessibilità si mostrano in tutta evidenza: percezione di isolamento,
sovraccarico di lavoro e impossibilità di separare la vita privata dalla vita familiare.
Quest’ultimo aspetto riveste una particolare rilevanza se rapportato alle donne, le quali,
soprattutto in questa fase pandemica, hanno dovuto fronteggiare anche la prolungata
chiusura delle scuole, trovandosi, molto spesso, a dover contemperare i propri impegni
lavorativi con la cura e l’organizzazione famigliare.
Sotto il versante specifico del settore privato, attendendo un’ulteriore proroga dello smart
working fino al 30 settembre 202130, sembra evidente che l’emergenza sanitaria abbia,
invece, contribuito ad imprimere una forte accelerazione al processo di trasformazione
digitale di molte imprese. Anche su questo aspetto, però, si manifestano i consueti pro e
contro. Se da un lato, infatti, le imprese più innovative e sofisticate hanno colto
l’opportunità della modalità a distanza per trasformarsi ulteriormente, coinvolgendo la
quasi totalità di dipendenti in modalità smart, dall’altro si sono registrati risultati
chiaramente inferiori nel settore manifatturiero e, in generale, nelle piccole e medie
imprese.
In sintesi, sebbene lo smart working si sia rilevato uno strumento particolarmente utile
durante la fase pandemica, non si possono affatto trascurare gli aspetti critici evidenziati
nei paragrafi precedenti, a cominciare dall’intera architettura dell’orario di lavoro e delle
relative implicazioni psicopatologiche dell’iperconnessione digitale. In questa fase,
dunque, l’insegnamento più grande non può che racchiudersi nella massima che
l’esperienza quotidiana sia, più che mai, necessaria per progettare al meglio il nostro
futuro.

30   Si fa riferimento al c.d. decreto sostegni-bis, che dovrebbe essere esaminato dal Consiglio dei Ministri il 7
maggio 2021.

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