Libertà, necessità e legge. Il problema teologico-politico nella polemica tra Hobbes e Bramhall

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Teoria politica
                          9 | 2019
                          Annali IX

Libertà, necessità e legge. Il problema teologico-
politico nella polemica tra Hobbes e Bramhall
Freedom, Necessity and the Law. The Theological-political Problem in Hobbes
and Bramhall’s Controversy

Mauro Farnesi Camellone

Edizione digitale
URL: http://journals.openedition.org/tp/880

Editore
Marcial Pons

Edizione cartacea
Data di pubblicazione: 1 giugno 2019
Paginazione: 413-428
ISSN: 0394-1248

Notizia bibliografica digitale
Mauro Farnesi Camellone, « Libertà, necessità e legge. Il problema teologico-politico nella polemica tra
Hobbes e Bramhall », Teoria politica. Nuova serie Annali [Online], 9 | 2019, online dal 01 avril 2020,
consultato il 26 mai 2020. URL : http://journals.openedition.org/tp/880

Teoria politica
Libertà, necessità e legge. Il problema teologico-politico
nella polemica tra Hobbes e Bramhall

                                                             Mauro Farnesi Camellone*

                                          Abstract

Freedom, Necessity and the Law. The Theological-political Problem
in Hobbes and Bramhall’s Controversy

    The controversy against the Anglican Archbishop John Bramhall, in which
Thomas Hobbes has been engaged for more than two decades, is one of the most
significant steps in the treatment of the theological-political problem by the au-
thor of the Leviathan. Focusing on the concept of freedom, on the relationship
between will and deliberation, on the relationship between divine omnipotence
and free will (and therefore also about the meaning of divine justice and sin),
the dispute clearly reveals an intrinsic theological-political character: for both
protagonists, this scholastic opposition shows the respective positions in the in-
terpretation of the events of the Civil Wars (1638-1649) and the Interregnum
(1649-1660).

     Keywords: Liberty. Necessity. Theological-Political Problem. Natural Right. Law.

1.    Introduzione

    La polemica contro l’arcivescovo anglicano John Bramhall, nella quale Tho-
mas Hobbes si impegna lungo più di due decadi, costituisce uno dei passaggi
più significativi di quella mirata profilazione della dottrina cristiana che l’autore
del Leviathan conduce per funzionalizzarla alla teoria dell’istituzione e dell’e-
sercizio del potere civile  1. Tematizzando il concetto di libertà, il rapporto tra
volontà e deliberazione, nonché quello tra onnipotenza divina e libero arbi-
trio (e dunque anche il significato della giustizia divina e del peccato), la di-
sputa rivela da subito un intrinseco carattere teologico-politico: per entrambi
i protagonisti è evidente che questa dotta contrapposizione demarca i rispettivi
posizionamenti nelle vicende delle Civil Wars (1638-1649) e dell’Interregnum
(1649-1660)  2.
   La cogenza del nesso tra le questioni teologiche discusse con Bramhall e i
pericoli della sedizione è efficacemente espressa da Hobbes quando l’arcivesco-
vo gli fa notare che «two of our own Church (as he hears say) that are answering

    * Università di Padova, mauro.farnesicamellone@unipd.it.
    1
      Per uno sviluppo argomentato di questa prospettiva ermeneutica mi permetto di rimandare a
Farnesi Camellone, 2018. Cfr. Fiaschi, 2013.
    2
      Cfr. Jackson, 2007.

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it [Leviathan]; and that “he himself”, if I desire it, “will demonstrate that my
principles are pernicious both to piety and policy, and destructive to all relations”.
My answer is, that I desire not that he or they should so misspend their time; but
if they will needs do it, I can give them a fit title for their book, Behemoth against
Leviathan»  3. Sarà invece Hobbes, poco più di un decennio più tardi  4, a scrivere
il Behemoth, il libro che ripercorre le vicende del Long Parliament e che si apre
riconoscendo i semi della sedizione in «certe opinioni in teologia e in politica»  5,
per poi elencare precisamente gli argomenti disputati con Bramhall tra le cause
della guerra civile:
            Se la volontà umana sia libera, o governata da quella divina? Se la santità ven-
        ga per ispirazione, o con l’educazione? Per mezzo di chi, oggi, Cristo ci parla? Per
        mezzo del re? Del clero? Della Bibbia, che parla a ogni uomo che legga e la inter-
        preti per conto suo? O Cristo parla per mezzo di uno spirito particolare ad ogni
        uomo particolare? Tali questioni ed altre analoghe sono lo studio dei curiosi, sono
        state causa di tutte le nostre recenti calamità, e sono la causa che induce il tipo
        più semplice degli uomini, cui la Scrittura ha insegnato la fede in Cristo, l’amore
        verso Dio, l’obbedienza verso il re, e la sobrietà di comportamento, a dimenticare
        tutto questo e a far consistere la loro religione nelle discutibili dottrine di questi
        vostri saggi  6.
   La ricostruzione del contesto dottrinale e politico in cui si svolge la polemica  7
non riveste perciò un mero carattere preliminare nell’analisi della stessa, ma per-
mette di qualificare con precisione il carattere epocale dello scambio tra Hobbes
e Bramhall  8.

2. Le tre fasi della polemica

    Nel 1645, in un periodo compreso tra aprile e luglio, Bramhall e Hobbes
si incontrano a Parigi presso la residenza in esilio del Marchese di Newcastle,
che li invita a discutere le questioni relative a libero arbitrio e necessità, nonché
della scienza politica hobbesiana esposta nel De Cive  9. Alla fine dell’incontro, il
loro ospite chiede a Bramhall di mettere per iscritto le proprie tesi, in modo da
poterle girare a Hobbes, perché ad esse egli possa a sua volta fornire una risposta
scritta. Questo scambio di corrispondenze ha effettivamente luogo e suscita, nel
1646, una replica di Bramhall alla risposta di Hobbes: tutti e tre sono d’accordo

    3
       Hobbes, 1656: 27.
    4
       Basandosi su una ricostruzione congetturale, Paul Seaward (2010: 6-10) propone di datare la
stesura del Behemoth tra poco prima del luglio 1666 e l’aprile 1667 o l’aprile 1669.
     5
       Hobbes, 1667-1669: 106, tr. it. 4.
     6
       Ivi: 178-179, tr. it. 64-65. Cfr. Van Den Enden, 1979.
     7
       Oltre alla sopracitata monografia di Jackson, preziosi per la ricostruzione della disputa risultano
I lavori introduttivi di F. Lessay e L. Foisneau, rispettivamente in: Hobbes, 1993: 9-54, 121-154; Id.,
1999: 7-39. Inoltre cfr. Parkin, 2007: 37-50.
     8
       Cfr. Eliot, 1970: 29-38; Overhoff, 2000.
     9
       Sulle sessanta eccezioni mosse da Bramhall al De cive cfr. Chappell, 1999: 15 nota 2. Nel 1643
Bramhall aveva pubblicato The Serpent-Salve, un attacco sistematico alla concezione della legge natura-
le promossa da Henry Parker, sostenitore della causa del Parlamento. Questa critica decide della forma
che assumerà anche la critica di Bramhall al De Cive.
Libertà, necessità e legge. Il problema teologico-politico nella polemica...   415

che i testi della controversia devono rimanere riservati. Ciononostante, Hobbes
concede la lettura della sua risposta ad un amico francese. Non conoscendo la
lingua del filosofo, quest’ultimo chiede una traduzione del testo ad un giovane
inglese, John Davies of Kidwelly, che in segreto copia il testo e lo conserva sino
al suo ritorno in Inghilterra. All’insaputa di Hobbes, anch’egli ritornato oltre
Manica nel 1651, Davies pubblica il testo a Londra, con il titolo Of Liberty and
Necessity: a Treatise, wherein All Controversy concerning Predestination, Election,
Free-Will, Grace, Merits, Reprobation, &c. is fully decided and cleared. In Answer
to a Treatise written by the Bishop of Londonderry, on the Same Subject (1654),
preceduto da una lunga e fortemente polemica epistola al lettore, non firmata,
ma imputabile allo stesso Davies.
    Rimasto sul continente, da cui rientrerà solo nel 1660 (una volta restaurata
la monarchia in Inghilterra), Bramhall non crede che Hobbes sia estraneo alla
pubblicazione ed è fortemente irritato dalla rottura del patto di riservatezza,
dal fatto che il suo punto di vista sui temi della polemica venga totalmente
ignorato, nonché dai toni fortemente anticlericali della prefazione anonima.
Egli allora fa stampare da John Crook a Londra un volume intitolato A Defense
of True Liberty from Antecedent and Extrinsecall Necessity, being an Answer
to a Late Book of Mr. Thomas Hobbs of Malmsbury, intituled, A Treatise of
Liberty and Necessity (1655). Significativamente, nell’indirizzo al lettore, il Ve-
scovo ci tiene a far sapere che si preserva di scrivere in futuro una refutazione
del Leviathan, mostrum horrendum, informe, ingens, cui lumen ademptum. Il
libro riprende in modo sistematico tutti i punti sollevati da Hobbes, facendoli
precedere dalle proprie posizioni così come esposte nello scambio del 1645,
per poi riportare le repliche del 1646 alle osservazioni hobbesiane. Il testo di
Bramhall, dunque, ci consegna integralmente tutti i materiali della prima fase
della controversia.
    La risposta di Hobbes non si fa attendere, poiché già l’anno successivo esce
a Londra il ponderoso The Questions concerning Liberty, Necessity, and Chance,
clearly stated and debated between Dr. Bramhall, Bishop of Derry, and Thomas
Hobbes of Malmesbury (1656), con cui egli intendere refutare, punto su punto,
in modo esaustivo e definitivo, le tesi esposte dal vescovo l’anno precedente.
Dal canto suo, Bramhall si rifiuta di considerare chiusa la disputa, anzi, rilancia
con nuove argomentazioni circa le dottrine del libero arbitrio e della necessità,
attaccando in modo mirato le tesi hobbesiane esposte nel Leviatahn. Nel 1657,
mentre si trova in Olanda, egli fa pubblicare a Londra una versione incompleta
delle Castigations of Mr. Hobbes his Last Animadversions in the Case concerning
Liberty and Universal Necessity, che usciranno in forma definitiva l’anno succes-
sivo (1658) con in appendice The Catching of Leviathan or the Great Whale, in
cui Bramhall formula le sue principali obiezioni alla teologia di Hobbes e alla sua
dottrina politica.
    Hobbes ci fa sapere di essere venuto a conoscenza di questo testo solo nel
1668  10, dieci anni dopo la sua pubblicazione, e cinque dopo la morte di Bramhall,
avvenuta nel 1663. Tornando ad occuparsi della polemica, Hobbes non fa riferi-

   10
        Cfr. Hobbes, 1682: 282; tr. it. 99.
416                                                        Mauro Farnesi Camellone

mento al corpo principale delle Castigations, ma prende in considerazione la sola
appendice, anzi, si concentra esclusivamente sulla prima parte di essa, riguar-
dante le tesi teologiche. Occorre ricordare che Hobbes è sottoposto, a partire
dalla restaurazione della monarchia, a feroci critiche sul carattere eretico, se non
addirittura ateo, delle sue tesi in materia di religione, nonché di pesanti sospetti
circa la sua lealtà politica  11: viene diffusamente ritenuto un empio da censurare
e un falso realista da condannare. In questo contesto, egli risponde alle vecchie
accuse di Bramhall scrivendo An Answer to Bishop Bramhall’s Book, called “The
Catching of the Leviathan”, insieme a An Historical Narration concerning Heresy,
and the Punishment thereof: il primo di questi testi ha un carattere essenzial-
mente dottrinale, un apologo del pensiero religioso di Hobbes; il secondo è una
breve storia dell’eresia a partire dalle origini della cristianità o, meglio, del modo
politico e giuridico di trattare le opinioni eterodosse nei paesi cristiani, soprat-
tutto nell’Inghilterra contemporanea.
     Questa replica tardiva, e parzialmente indiretta, a Bramhall, che costituisce
la terza e ultima fase della controversia, non sarà pubblicata in vita da Hobbes.
La trattazione storica dell’eresia esce nel 1680 (Hobbes muore il 4 dicembre
del 1679), e solo nel 1682 essa viene edita insieme alla Answer. Entrambi i testi,
oltre che alla disputa con Bramhall, devono essere messi in relazione con altri
scritti composti da Hobbes negli anni Sessanta, riguardanti gli stessi argomen-
ti: la Historia Ecclesiastica Carmine Elegiaco Concinnata (1660), la quinta sezio-
ne di A Dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Laws of
England (1664), un manoscritto su The Law of Heresy (1666-1668), l’appendice
all’edizione latina del Leviathan (1668), nonché, per larghi tratti, il già ricor-
dato Behemoth. Nella ripresa della vecchia disputa, Hobbes sembra utilizzare
Bramhall nel ruolo di portavoce di una certa ortodossia anglicana con cui egli si
confronta in tutta questa serie di scritti, dunque come epitome di un avversario
collettivo da cui si sente concretamente minacciato.
    Ognuna delle tre fasi della controversia appartiene ad un contesto storico
ben preciso. L’incontro tra Hobbes e Bramhall del 1645 vede entrambi costretti
all’esilio continentale a causa della guerra civile inglese, ospiti di una Francia
ancora in pace (la Fronda inizierà solo nel 1648). Anna d’Austria, vedova di
Luigi XIII, sta esercitando la reggenza già dal 1643, anche se è effettivamente
il cardinale Mazzarino a governare. L’invito di Newcastle a dibattere di libero
arbitrio e di necessità segue dunque all’inizio della disputa giansenista: l’Au-
gustinus di Giansenio è stato pubblicato a Lovanio nel 1640, per poi essere
ristampato a Parigi nel 1641; la bolla In eminenti che condanna il libro è del
1642; a Lione, nel 1644, compare il Liber theologiae moralis del gesuita Esco-
bar. È molto significativo che nella sua epistola al lettore, preambolo anoni-
mo alla pubblicazione nel 1654 di Liberty and Necessity, John Davies sottolinei
come elemento caratteristico del contesto dottrinale in cui dibattono Hobbes e
Bramhall la controversia «between the Molinists and Jansenists about grace and
merits»  12, anche perché solo l’anno precedente (1653) la bolla Cum occasione

   11
        Cfr. Collins, 2005, 2007, 2013.
   12
        Hobbes, 1654: 234.
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era tornata a condannare cinque delle sette proposizioni che riassumevano la
dottrina dell’Augustinus.
    Deve però essere rilevato che la pubblicazione dello scambio tra Hobbes e
Bramhall, avvenuta tra 1654 e il 1658, ha luogo in un contesto politico fortemen-
te mutato. La guerra civile è terminata, l’Inghilterra è una repubblica retta dal
Protettorato di Cromwell e Hobbes, come del resto molti altri realisti, si è sot-
tomesso al nuovo regime  13. Egli è ritornato in patria nel 1651, mentre Bramhall
continua il suo esilio tra Bruxelles e l’Olanda: per il vescovo l’impegno nella
controversia con Hobbes ha ora il valore di una battaglia combattuta al servizio
della causa della monarchia, unita nella sua lotta alla Chiesa d’Inghilterra, contro
qualcuno che egli considera ormai un traditore  14. Ciò spiega perché, a partire
da A Defence of True Liberty del 1655, i toni degli scambi diventino sempre più
aspri, gli attacchi di carattere personale molto più frequenti, ma anche più ampio
lo spettro dei temi trattati.
    Il contesto della terza fase della polemica è a sua volta differente: Hobbes è
rimasto il solo a poter aggiungere nuovi elementi alla controversia. Con Carlo
II la dinastia Stuart regna di nuovo in Inghilterra e la maggior parte degli attori
politici, compresi molti vecchi partigiani della sovranità del Parlamento o della
Repubblica, si mostrano ora assai intransigenti nella difesa dei diritti della mo-
narchia restaurata. La preoccupazione per l’ortodossia religiosa sostiene la su-
premazia della Chiesa d’Inghilterra, la cui egemonia sociale e politica raggiunge
in questo periodo il suo punto più alto. Si tratta di un contesto assai ostile per un
pensiero politico e teologico spiccatamente eterodosso come quello di Hobbes,
il quale, suo malgrado, si vede costretto a riprendere una disputa da lui probabil-
mente già ritenuta esaurita nel decennio precedente.

3.    Libertà e necessità

    Il fulcro originario della disputa tra Hobbes e Bramhall concerne la natura
della libertà umana. Per Hobbes ogni fenomeno in generale, e ogni azione umana
in particolare, è l’effetto necessario di cause antecedenti. Bramhall, al contrario,
pensa che alcune azioni umane non siano necessitate da fattori precedenti, e che
solo queste azioni possano essere considerate davvero libere. Anche per Hobbes
esistono azioni libere: tuttavia, egli concepisce la libertà in modo tale che essa
risulta perfettamente compatibile con la necessità. Nella concezione di Bramhall,
invece, libertà e necessità non possono mai coesistere.
    A prima vista, la concezione di Hobbes appare simile a quella dei riformatori
protestanti  15, Lutero e Calvino tra gli altri; tuttavia, la sua posizione nella disputa
si caratterizza per l’impostazione materialistica  16 dell’analisi delle dinamiche del
desiderio e della definizione della nozione di volontà. La concezione di Bramhall

     13
          Cfr. Curran, 2002.
     14
          Cfr. Daly, 1971.
     15
          Cfr. Damrosch, 1979.
     16
          Cfr. Bardin, 2018.
418                                                                     Mauro Farnesi Camellone

è invece molto vicina a quella dei più influenti pensatori cattolici del tempo, i
gesuiti, che si rifanno a Molina e a Suarez  17. Le sue posizioni filosofiche, agli
occhi dello stesso Hobbes, risultano ricalcare l’aristotelismo scolastico dell’alto
Medioevo, seppur mediate dalle modificazioni dottrinarie intercorse durante il
sedicesimo secolo. Certo, Bramhall rimane un protestante e il suo anti-papismo
non può che produrre una serie di spostamenti rispetto alla tradizione filosofica
a cui egli si ispira.
    Nella prospettiva di Bramhall, desiderio e volontà appaiono ancora nettamen-
te distinti: il desiderio è un potere dell’anima sensibile, che si ritrova in tutti gli
animali. La volontà, invece, può essere ascritta solamente ad un’anima razionale,
la quale è immateriale e si ritrova solo negli esseri umani. Hobbes non concepisce
l’esistenza di esseri immateriali, e dunque qualsiasi potere attribuito agli esseri
umani deve essere inteso come un potere di origine materiale. Egli ne conclude
che non esistono cose come la volontà intesa alla maniera degli scolastici, e che
i soli fattori che motivano le azioni umane sono i desideri. Quando un agente è
pronto ad agire, esso ha fatto esperienza di differenti desideri in competizione
tra loro, e si trova nella situazione di dover deliberare su cosa fare  18. Il desiderio
che vince questa competizione, quello che di fatto motiva l’agente ad agire in
quel modo specifico, e quello che Hobbes intende essere la volontà dell’agente
rispetto all’azione compiuta. Per Hobbes, dunque, la volontà non è una specifica
operazione mentale distinta dal desiderio; piuttosto, egli ritiene che la volontà sia
una sottoclasse del desiderio.
    Per Bramhall, invece, un’azione è libera se non è necessitata da cause antece-
denti ed estrinseche. Ciò non significa che le azioni libere siano prive di cause,
ma che le loro cause non rendono necessario il fatto che esse accadano. Tutto ciò
che accade in natura, invece, ha delle cause antecedenti ed estrinseche che neces-
sitano l’occorrenza del fenomeno. Ciò che distingue le azioni libere dagli eventi
naturali, dunque, è il fatto di essere causate (o almeno in parte causate) da un
atto della volontà, cioè da una volizione (act of will). Per Bramhall, la volizione
in sé non ha cause antecedenti ed estrinseche che la determinano; la volizione è,
piuttosto, un esercizio della facoltà razionale o del potere di volere, un potere
che coincide con la volontà stessa: perciò le azioni causate dalla volizione sono
chiamate volontarie. La volizione trova inizio nella facoltà di volere, cioè dal
potere di volere, agendo indipendentemente da altro se non da sé. La volontà
è dunque un tipo particolare di potere, diverso da ogni altro: ha dominio su se
stesso, dominio sui suoi atti, di volere o non volere, senza nessuna causa neces-
sitante estrinseca. La volontà ha per Bramhall il potere di muovere se stessa, di
determinare se stessa. Ciò non significa che la volontà non sia soggetta a influen-
ze esterne e precedenti, ma che nessuna serie di queste influenze è sufficiente
per farla agire: il fatto di produrre una volizione, sia essa di fare o non fare una
determinata cosa, dipende solo dalla stessa volontà.

     17
        Cfr. Pink, 2004. La posizione degli arminiani è similare a quella dei gesuiti, nonché piuttosto
influente nell’Inghilterra degli Stuart, tanto che Bramhall stesso viene spesso identificato con un armi-
niano.
     18
        Cfr. Rudolph, 1989.
Libertà, necessità e legge. Il problema teologico-politico nella polemica...               419

    Nella concezione di Bramhall, un potere autonomo come la volontà è un
potere libero, perché il suo operare non è necessitato da cause diverse da se
stesso. Se i prodotti delle operazioni della volontà, cioè le sue volizioni, non sono
causate, e dunque necessitate, da null’altro se non la volontà stessa, allora queste
volizioni devono essere considerate a loro volta libere. E dunque libere saranno
anche le azioni a qui tali volizioni danno inizio. In questo modo, Bramhall fa pro-
prio il principio secondo cui se la causa di un evento è necessaria, allora l’evento
sarà a sua volta necessario; ma applica anche il principio contrario, secondo cui,
se la causa di un evento è libera, anche l’evento conseguente lo sarà. La conce-
zione della libertà che emerge da questi passaggi e certo avvicinabile a quella
degli arminiani olandesi e, di fatto, a quella di pensatori come Suarez, Molina,
Bellarmino e forse anche Duns Scoto. In questo senso, si tratta di una concezione
scolastica, anche se di certo non avvicinabile a quella di Tommaso d’Aquino.
    Hobbes, da parte sua, sembra concordare con Bramhall quando afferma che
le azioni volontarie sono quelle causate dagli atti della volontà (wills), ma nega
che tali volizioni siano l’esercizio di un particolare tipo di facoltà razionale o po-
tere posseduto unicamente dagli esseri umani: la volontà, per Hobbes, non esiste
come potere specifico, come specifica facoltà umana. Di più: Hobbes sostiene
che nessun potere, di nessun essere, possa avere le proprietà che Bramhall attri-
buisce alla volontà. Bramhall parla della volontà come di qualcosa che compie
azioni, come di qualcosa in grado di sospendere il proprio agire, come di qualco-
sa che comanda e muove cose. Sono tutte proprietà che logicamente richiedono
un’agente, o una sostanza, come soggetto; ma i poteri sono essi stessi proprietà di
agenti o sostanze, e una proprietà non può essere attribuita ad un’altra proprietà.
Dunque il concetto di volontà proposto da Bramhall è, per Hobbes, letteralmen-
te insostenibile. Soprattutto, Hobbes nega che un qualsiasi essere possa muovere
o determinare se stesso:
             Penso che nessuna cosa tragga inizio da se stessa, bensì dall’azione di qualche
         altro agente immediatamente fuori di sé. E che quindi, non appena un uomo abbia
         un appetito o una volontà verso qualcosa, che prima non aveva, la causa della sua
         volontà non è la volontà stessa, ma qualcos’altro che non è in suo potere. Cosicché,
         dal momento che è fuori discussione che la volontà è la causa necessaria delle
         azioni volontarie e, per quanto si è detto, che anche la volontà è causata da altri
         fattori dei quali non dispone, ne segue che tutte le azioni volontarie hanno cause
         necessarie e che quindi sono necessitate  19.
   A questo punto, per entrare nel vivo della trattazione hobbesiana, occorre
guardare al concetto di necessità e alla sua struttura temporale orientata al futuro:
             Necessary is that which is impossible to be otherwise, or that which cannot pos-
         sibly otherwise come to pass. Therefore necessary, possible, and impossible have
         no signification in reference to time past or time present, but only time to come  20.
   Mettiamo ora in connessione necessità e causalità: una causa è qualcosa che
necessita il suo effetto, che rende necessario a quell’effetto di accadere. In questo

   19
        Hobbes, 1654: 274; tr. it. 111-113.
   20
        Hobbes, 1656: 35.
420                                                                       Mauro Farnesi Camellone

senso, ogni causa è una causa necessaria. Per causa necessaria Hobbes intende
una causa il cui effetto deve occorrere, cioè una causa che necessita, non che è
necessitata. In questo senso, la causa sufficiente di un effetto deve essere anche
causa necessaria dello stesso:
             Io ritengo che causa sufficiente sia quella a cui non manca nulla di ciò che è ne-
        cessario alla produzione dell’effetto. La stessa è quindi anche una causa necessaria
        [...]. Da ultimo ritengo che la definizione ordinaria di agente libero, cioè che un
        agente libero è quello che, essendo presenti tutti gli elementi necessari alla pro-
        duzione dell’effetto, può nondimeno non produrlo, implichi una contraddizione
        e sia priva di senso. Come se si dicesse che la causa potrebbe essere sufficiente,
        ovvero, necessaria, e tuttavia l’effetto non seguirà  21.
    È dunque chiaro per Hobbes che ogni cosa che è o accade ha una causa ne-
cessaria: la causa semplice o l’intera causa di ogni azione, ciò che la necessita e
la determina, è la somma di tutte le cose che conducono e che concorrono alla
sua produzione:
            Ciò che, io dico, necessita e determina ogni azione, [...], è la somma di tutte le
        cose che essendo attualmente esistenti, conducono e concorrono al prodursi, in
        futuro, di quell’azione per cui, se ora ne venisse a mancare una qualsiasi, l’effetto
        non potrebbe essere prodotto  22.
    Alla luce del campo concettuale determinato dalla necessità  23, concentriamo-
ci adesso sulla concezione hobbesiana della libertà  24. Nel De cive Hobbes aveva
fornito una definizione generale del concetto, per poi specificare la nozione di
libertà civile:
            La libertà, per definirla, non è altro che l’assenza di impedimenti al moto [...].
        Ciascuno gode di una libertà maggiore o minore, a seconda che abbia più o meno
        spazio in cui muoversi [...]. La libertà civile consiste in questo, che nessun sud-
        dito, figlio di famiglia, o servo, sia impedito dalle pene prescritte dallo Stato, dal
        padre o dal signore, per quanto severi, di fare ed usare tutto ciò che è necessario
        per difendere la vita e la salute  25.
    All’interno della polemica con Bramhall, questa definizione viene approfon-
dita sottolineando che «la libertà è l’assenza di tutti gli impedimenti all’azione
che non siano contenuti nella natura e nella qualità intrinseca dell’agente»  26.
Anche un essere inanimato può essere libero secondo queste definizioni. Ma per
gli esseri che hanno appetiti, che sono agenti volontari, occorre definire la volon-
tà come «l’ultimo atto della deliberazione». Sulla base di questi ragionamenti,
Hobbes giunge a definire un agente libero come «colui che può fare se vuole ed

    21
       Hobbes, 1654: 274-275; tr. it. 113. Una causa non seguita dal suo effetto è inconcepibile come
causa, una violazione tanto delle leggi fisiche quanto di quelle logiche: gli effetti seguono le loro cause
con necessità tanto fisica quanto logica, cfr. Leijenhorst, 1996.
    22
       Hobbes, 1654: 246; tr. it. 61.
    23
       Cfr. Costa, 1993.
    24
       Molta ampia ed approfondita è tra gli interpreti la discussione circa gli slittamenti semantici (tra
freedom e liberty) e le ridefinizioni del concetto di libertà in Hobbes. Cfr. Pennock, 1965; Hood, 1967;
Waldman, 1967; Scribano, 1980; Goldsmith, 1989; Skinner, 2007, 2008.
    25
       Hobbes, 1642-1647: 167; tr. it. 107.
    26
       Hobbes, 1654: 273; tr. it. 111.
Libertà, necessità e legge. Il problema teologico-politico nella polemica...              421

evitare se vuole; e che la libertà è l’assenza di impedimenti esterni»  27. Egli non
sta sostenendo che un agente, per essere ritenuto libero, deve essere in grado, ad
un tempo, di fare o non fare una stessa cosa secondo ciò che vuole. Un agente
è libero solo rispetto ad azioni particolari, distinte. Per Hobbes, un agente libe-
ro è colui che può fare una cosa se vuole fare quella cosa, o può evitare di fare
una cosa se vuole evitarlo  28. Ne segue che ogni azione volontaria che di fatto è
compiuta è un’azione libera, cioè che tutti gli atti volontari sono liberi, e che tutti
gli atti liberi sono volontari.
    Nel Leviathan, che risente della prima fase della controversia con Bramhall,
è ampiamente al lavoro questa concezione della libertà. Nell’opera del 1651, gli
individui nella condizione naturale sono caratterizzati dall’essere dotati di un di-
ritto che coincide con «la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo
arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita, e conseguen-
temente di fare qualsiasi cosa che, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli
concepisca come il mezzo più idoneo a questo fine»  29. Si tratta di un’attribuzione
prettamente fisica, poiché con libertà Hobbes intende «l’assenza di impedimenti
esterni»  30, definizione che, come abbiamo visto, vale tanto per creature irrazio-
nali o inanimate che per le creature razionali  31.
    Hobbes riprende precisamente questa argomentazione quando, all’interno
della trattazione del Commonwealth, deve parlare della libertà dei sudditi. Egli
sostiene che un uomo libero «è colui che, nelle cose che è capace di fare con la
propria forza e il proprio ingegno, non è impedito di fere ciò che ha la volontà di
fare. Ma tutte le volte che le parole libero e libertà sono riferite a qualcos’altro che
non sia corpo, si compie un abuso; poiché ciò che non è soggetto al movimento
non è soggetto a impedimento. [...] Dall’uso delle parole libero arbitrio non si
può inferire alcuna libertà della volontà, del desiderio o dell’inclinazione, ma
[quella che si può inferire è] la libertà dell’uomo, la quale consiste nel non incon-
trare arresti nel fare ciò che ha la volontà, il desiderio o l’inclinazione a fare»  32.
    A partire da questo assunto, Hobbes può sostenere la perfetta compatibilità
di timore e libertà, poiché «tutte le azioni che gli uomini fanno, negli Stati, per
timore della legge, sono azioni che coloro che le compiono avevano la libertà di
non fare»  33. Il punto archimedeo su cui si regge un tale assunto è la definizione
della volontà, l’ultimo anello della catena di deliberazioni che precedono l’azione:
             Libertà e necessità sono compatibili. Lo sono nel caso [...] delle azioni che
         gli uomini compiono volontariamente e che procedono, da un lato, dalla libertà
         (poiché procedono dalla loro volontà) e tuttavia, dall’altro, dalla necessità, poiché
         ogni atto della volontà umana, ogni desiderio e ogni inclinazione procede da qual-
         che causa, questa da un’altra e così via in una catena continua (il cui primo anello
         è nelle mani di Dio, la prima di tutte le cause). [...] Gli uomini, per raggiungere

   27
        Hobbes, 1654: 275-276; tr. it. 115.
   28
        Cfr. Warrender, 1957; Wernham, A. G. 1965; Moore, 1971-1972; Leyden, 1981.
   29
        Hobbes, 1651: 91; tr. it. 105.
   30
        Ibidem: 91; tr. it. 105.
   31
        Cfr. ibidem: 145; tr. it. 175.
   32
        Ibidem: 146; tr. it. 175-176.
   33
        Ibidem: 146; tr. it. 176.
422                                                                Mauro Farnesi Camellone

         la pace e, con ciò, la propria conservazione, hanno fatto un uomo artificiale che
         chiamiamo Stato; e così hanno fatto anche catene artificiali, chiamate leggi civili,
         che essi stessi, con patti reciproci, hanno fissato, per una estremità, alle labbra di
         quell’uomo, o di quell’assemblea, cui hanno dato il potere sovrano e, per l’altra,
         alle proprie orecchie. Questi legami, ancorché deboli per loro natura, possono
         non di meno essere resi resistenti dal pericolo (ma non dalla difficoltà) di infran-
         gerli  34.
   Questa serie di relazioni determina lo spazio di libertà concesso ai sudditi,
che coincide precisamente con il silenzio della legge, poiché «in tutti i generi di
azioni trascurate dalle leggi gli uomini hanno la libertà di comportarsi nel modo
che la loro ragione suggerirà come il più vantaggioso per loro stessi. Difatti, se
prendiamo [la parola] libertà in senso proprio, come libertà del corpo —cioè
come libertà da catene e prigioni—, tutto il gran rivendicare, che fanno gli uo-
mini, una libertà di cui così manifestamente godono già, sarebbe affatto assurdo.
D’altra parte, se prendiamo [la parola] libertà come esenzione dalle leggi, non
è meno assurdo che gli uomini domandino, come fanno, quella libertà per la
quale le loro vite cadrebbero in balia di tutti gli altri uomini. [...] La libertà di un
suddito risiede, quindi, soltanto in quelle cose che il sovrano ha trascurato nel
disciplinare le azioni dei sudditi»  35.
    Tutto ciò non intacca minimamente il potere di vita e di morte che contraddi-
stingue il sovrano. Eppure, Hobbes ha bisogno di potenziare il formalismo della
propria argomentazione tramite precisi argomenti teologici:
              Ciononostante non dobbiamo intendere che il potere sovrano di vita e di mor-
         te sia abolito o limitato da tale libertà. È stato, infatti, già mostrato che, qualunque
         cosa un sovrano possa fare ad un suddito, non è adducibile alcuna pretesa per la
         quale possa essere chiamata ingiustizia o torto in senso proprio. E la causa è che
         ogni suddito è autore di tutti gli atti del sovrano cosicché questi non manca mai
         del diritto di fare qualsiasi cosa, se non in quanto egli stesso è suddito di Dio e
         perciò vincolato a osservare le leggi di natura. Può accadere [...] che un suddito
         venga messo a morte per comando del potere sovrano; ciò nonostante nessuna
         delle due parti fa torto all’altra. [...] Colui che muore aveva la libertà di compiere
         l’azione per la quale viene nondimeno messo a morte senza [che gli si faccia]
         torto. La stessa cosa vale anche nel caso del principe sovrano che metta a morte
         un suddito innocente. Infatti, sebbene l’azione, in quanto contraria all’equità, sia
         contro la legge di natura, come lo fu l’uccisione di Uria procurata da Davide,
         tuttavia si trattò di un torto fatto non già a Uria, ma a Dio. Non a Uria, poiché da
         Uria stesso Davide aveva ricevuto il diritto di fare quello che gli piacesse; e tuttavia
         a Dio, poiché Davide era suddito di Dio e questi proibiva ogni iniquità contro la
         legge di natura  36.
   L’esegesi biblica hobbesiana sostiene l’assoluto potere del sovrano sulla vita
dei suoi sudditi, frutto della perfetta circolarità attuata dal dispositivo di rappre-
sentanza che fa di ogni individuo l’autore di tutte le azioni del sovrano, e che gli
impedisce di giudicare ingiuste le azioni di quest’ultimo. Il vincolo delle leggi di

   34
        Hobbes, 1651: 146-147; tr. it. 176-177.
   35
        Ibidem: 147-148; tr. it. 177-178.
   36
        Ibidem: 148; tr. it. 178.
Libertà, necessità e legge. Il problema teologico-politico nella polemica...       423

natura, cioè dei comandi divini, non espone il sovrano al giudizio dei sudditi.
Il giudizio sull’equità delle sue azioni è posposto rispetto al tempo dello Stato,
perché è affidato integralmente alla volontà di Dio, cioè rimandato alla fine dei
tempi  37. Durante la vita dello Stato, la giustizia è perciò questione che riguarda
esclusivamente le relazioni tra i sudditi, normate dalle leggi del sovrano.

4.    Onnipotenza divina, peccato e legge

    Hobbes definisce l’onnipotenza divina come «the power to do all things that
he will». Egli rifiuta di distinguere tra l’onnipotenza di Dio e la sua completa
sufficienza, perciò «to the production of any thing that is produced, the will of
God is as requisite as the rest of his power and sufficiency. And consequently, his
all-sufficiency signified not a suffiency or power to do those things he will not»  38.
La potenza di Dio non si manifesta che attraverso la sua volontà, poiché è la sua
volontà che costituisce il principio dinamico della creazione: in Dio, onnipotenza
e volontà (vale a dire l’ordine necessario della creazione) coincidono.
    Le definizioni dinamiche di volontà, onniscienza e onnipotenza divina ci per-
mettono di comprendere il significato che Hobbes attribuisce alla libertà divina.
Rispetto all’azione umana, egli distingue nettamente tra la libertà di fare ciò che
si vuole e il potere di fare ciò che si vuole  39. Per esempio, occorre distinguere tra
il potere di camminare e la libertà di farlo. Un uomo malato sarà detto privato del
potere di camminare, mentre un uomo in catene sarà detto privato della libertà
di farlo, in ragione degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione delle loro
volontà. La libertà di un uomo non è dunque definita dal potere. La definizione
di onnipotenza («not the liberty to do what he will, but the power to do what he
will»)  40 mostra che ciò vale anche per Dio. Questa precisazione, almeno in prima
battuta, permette a Hobbes di evitare di identificare positivamente la libertà di
Dio con il suo potere.
    Tuttavia, se la libertà si definisce come assenza di impedimenti al moto, e
se l’onnipotenza si definisce come il potere di fare tutto ciò che si vuole, allora
l’agente che dispone dell’onnipotenza dispone anche di una libertà senza limiti,
perché non esiste ostacolo alla volontà di un agente onnipotente. Pur essendo
conseguenza della sua onnipotenza, la libertà di Dio non si identifica con essa,
poiché la libertà è una caratteristica della volontà e non della potenza. Anche in
Dio, la libertà continua a dover essere pensata come un’assenza di impedimenti
alla volontà. In questo modo, Hobbes conserva la libertà divina, senza rimettere
in questione la sua definizione di causa prima come causa necessaria degli effetti
che ne procedono. Dio è dunque causa necessaria, anche se, dal punto di vista
della volontà creatrice, egli è un agente libero. Questo punto è essenziale, per-
ché permette di comprendere come Hobbes riesca a conciliare il sistema della
necessità con la teoria della legge.

     37
          Cfr. Farnesi, 2013: 51-98.
     38
          Hobbes, 1656: 427. Cfr. Foisneau, 2000; Altini, 2013.
     39
          Cfr. Hobbes, 1656: 265.
     40
          Ibidem: 265.
424                                                       Mauro Farnesi Camellone

    Tale conciliazione si regge sul concetto di libertà divina. Definita come as-
senza di ostacoli, essa è di fatto libertà di fronte alla legge. Infatti Dio non può
peccare, perché facendo una cosa egli la rende giusta e, di conseguenza, essa non
può essere un peccato. Inoltre, chiunque possa peccare è qualcuno assoggettato
alla legge di un altro, e Dio di certo non lo è. Pur se egli non è soggetto a una
legge superiore, Dio è non di meno fonte di diritto per gli uomini. Indipenden-
temente dal diritto divino positivo che procede dalla rivelazione, esiste un diritto
divino naturale, il cui fondamento è la stessa libertà divina. Nello stesso modo in
cui il diritto naturale umano si definisce come libertà di ciascuno di usare come
vuole il suo potere per la conservazione della propria natura, allo stesso modo
il diritto naturale divino si definisce come la libertà di cui Dio dispone di usare
come vuole la sua onnipotenza. Poiché non esiste impedimento alla volontà di
Dio, il diritto naturale di Dio si confonde con la sua volontà, che a sua volta si
confonde con il suo potere. Questa identità di diritto e di potere vale solo per
Dio: anche se i termini volontà, libertà e diritto vengono utilizzati da Hobbes in
modo univoco per Dio e per gli uomini, il diritto naturale divino non costituisce
un modello per pensare il diritto naturale umano, poiché, nel diritto naturale
divino, diritto e potere si trovano identificati de facto, mentre se un uomo inten-
de agire come Dio, cioè come se non esistessero ostacoli al suo agire, egli muove
contro il principio della sua stessa conservazione  41.
    A partire da questa concezione del diritto di natura, è possibile comprendere
la condizione naturale dell’uomo, uno stato in cui la volontà degli altri è pensata
come ostacolo alla soddisfazione della propria. Questo il fulcro della questione
politica per come essa emerge nelle Questions hobbesiane: a quali condizioni la
volontà degli altri può cessare di essere ostacolo al mio desiderio di conservazione?
L’istituzione contrattuale del sovrano rappresentante è una risposta che, di per
sé, eccede i limiti della disputa tra Hobbes e Bramhall su libertà e necessità. Cio-
nonostante, almeno indirettamente, in quest’ultima la questione viene affrontata
attraverso la tematizzazione del rapporto tra peccato e legge. Imputando al “ne-
cessitarismo” di Hobbes l’eliminazione della nozione stessa di peccato, Bramhall
riprende una classica obiezione arminiana usata contro i calvinisti ortodossi: un
uomo non pecca quando fa ciò che non avrebbe potuto evitare, né quando si
astiene dal fare ciò che non è mai stato in suo potere. Di fatto, che senso può
avere il peccato se gli uomini fanno il male con la stessa necessità con cui cade
una pietra  42? Hobbes risponde sostenendo che la necessità non si oppone alla
formazione della volontà, e che è la volontà che, opponendosi alla legge, fa che ci
sia un peccato. La natura di quest’ultimo, dunque, consta nel fatto che l’azione
commessa proceda dalla nostra volontà e vada contro la legge. Contrariamen-
te a Bramhall, Hobbes vuole dimostrare che il libero arbitrio non è la ragione
formale del peccato, ma che il peccato può derivare da una volontà necessaria.
In questo modo, Hobbes taglia alla radice il dibattito tra arminiani e gomaristi,
perché concettualizza il peccato prescindendo dalla nozione di peccato origina-
le. Rifacendosi a Paolo, Hobbes attribuisce alla sola effettiva sussistenza della

   41
        Cfr. ibidem: 138-147.
   42
        Cfr. ibidem: 45.
Libertà, necessità e legge. Il problema teologico-politico nella polemica...                      425

legge la possibilità del peccato  43. Un’interpretazione di certo assai poco paolina
dell’epistola ai Romani, visto che tace completamente circa la questione della ri-
generazione attraverso la grazia. Hobbes pretende di rimanere fedele alla lettera
del testo, fornendo di esso un’interpretazione puramente giuridica: il peccato
non è che la trasgressione di una legge, dunque solo il fatto della legge può ren-
dere un’azione un peccato. Nel momento in cui un giudice deve giudicare se
un’azione è un peccato, egli non deve considerare cause ulteriori alla volontà
dell’agente: il fatto che la volontà sia libera o necessitata non concerne in nessun
modo il giudizio che deve essere reso  44.
    Ma allora, non bisogna forse considerare Dio, e non l’uomo, come respon-
sabile del peccato, visto che è Dio l’autore della legge e la causa della necessità
che conduce il peccatore a non rispettarla? Bramhall solleva questa questione
sottolineando che, nella teoria hobbesiana del peccato, il diritto di punire  45 non
si fonda sull’infrazione della legge, ma sull’onnipotenza divina, dunque non sulla
libertà degli uomini. Per Hobbes, il diritto divino di punire, che dunque assomi-
glia molto ad un diritto di affliggere, corrisponde al potere assoluto di cui Dio
dispone sulla vita e la morte degli uomini  46. In ultima istanza, Hobbes pensa il
peccato come la contraddizione de facto che sussiste tra le esigenze della legge,
che si rivolge in modo vincolante agli uomini solo quando è emanazione del-
la sovranità politica, e le esigenze della natura, cioè le esigenze del movimento
animale e vitale. In questo senso, la nozione di responsabilità non è null’altro
che una finzione giuridica derivante dalla sovrapposizione dell’ordine della legge
all’ordine della natura. Attraverso la teoria del peccato, Hobbes afferma dunque
l’esteriorità radicale del regno della vita dal regno della legge e, allo stesso tem-
po, determina la sottomissione della vita alle esigenze dell’istituzione sovrana; la
sottomissione dell’azione umana ai requisiti dell’onnipotenza divina, considerata
dal punto di vista della necessità naturale, non ostacola in nessun modo l’istitu-
zione di un Commonwealth fondato sull’artificio del contratto e della sovranità
rappresentativa. Al contrario, la potenzia.

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    43
       Romani, VII, 8.
    44
       Cfr. Hobbes, 1656: 233-238. Cfr. Merlo, 2018: 207 e nota 54.
    45
       Notevoli, a riguardo, le osservazioni di Luc Foisneau espresse nel paper Punishment after Levia-
than, presentato come keynote lecture durante il workshop Hobbes after Leviathan. Beyond Leviathan?,
Università degli Studi di Padova, 15-16 febbraio 2018.
    46
       Cfr. Hobbes, 1656: 114-147.
426                                                                Mauro Farnesi Camellone

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