IL GIUDIZIO E LA MEDIAZIONE: COSA NON FUNZIONA? - Ratio Iuris

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IL GIUDIZIO E LA MEDIAZIONE: COSA NON FUNZIONA? - Ratio Iuris
La riforma della giustizia, passando per la mediazione.

IL GIUDIZIO E LA MEDIAZIONE: COSA NON FUNZIONA?
Una proposta di modifica.

di Angelo Monoriti

I. La riforma del processo civile: una riforma necessaria? II. Per l’efficacia della mediazione, la Suprema Corte di
Cassazione “richiede” il negoziatore: una figura professionale nuova. III. Il primo tema di riforma. La scienza
della negoziazione come materia obbligatoria nelle nostre università – IV. L’estensione delle “materie” soggette a
mediazione obbligatoria: una riforma sufficiente? - V. Modificare l’incontro o la “preparazione” dell’incontro?
Necessità per i cittadini e opportunità professionale – VI. Il funzionamento del cervello umano. I fatti e la
percezione dei fatti – VII. La “prospettiva” di parte e la “rappresentanza” dell’avvocato – VIII. Rappresentanza
in giudizio e assistenza in mediazione – IX. Mettersi nei panni dell’altra parte – X. Il secondo tema di riforma. Un
nuovo servizio professionale: l’analisi del quadro negoziale – XI. Il terzo tema di riforma. Avvocato in giudizio e
Negoziatore in mediazione. Il compenso del professionista – XII. Il quarto tema di riforma. Il segreto professionale
e il mandato limitato – XIII. Il quinto tema di riforma. Le agevolazioni fiscali. Gli incentivi alla parte e al
professionista. – XIV. In sintesi, Le proposte di modifica al D.Lgs. n. 28/2010 e alle altre disposizioni rilevanti.

     I.     La riforma del processo civile: una riforma necessaria?
E’ una metafora che ci può far comprendere il rischio di inefficacia di potenziali riforme che, per
smaltire i contenziosi civili, tendano a modificare unicamente la struttura e le fasi del processo-
giudizio. Supponiamo di avere una famiglia numerosa e di disporre di una sola lavatrice. Potremo
anche accorciarne o modificarne il ciclo, ma se la quantità di panni che dovremo lavare è sempre
altissima, il risultato complessivamente non migliorerà. Anzi il rischio sarà non solo che i singoli
panni ne escano lavati sommariamente, ma anche che alcuni panni vengano lavati dopo mesi o,
addirittura, anni, quando ormai non serviranno più. Occorrerà quindi mettere meno panni in lavatrice.
Per fare questo i componenti della famiglia dovranno imparare a - ed essere “assistiti” per - mettere
sempre meno panni in lavatrice, e cominciare sempre più spesso a lavarli a mano. Solo così potranno
apprezzare di più anche la lavatrice, quando sarà necessario utilizzarla. Per imparare a lavare bene a
mano, piuttosto che usare la lavatrice, servono percorsi di formazione diversi: così come diversi sono
i percorsi di formazione professionale necessari per fare accordi rispetto a quelli necessari per
ottenere decisioni1: la scienza della negoziazione e il diritto.
Per produrre accordi, piuttosto che decisioni, occorre preparare professionalmente dei tecnici che
siano in grado di “assistere” (e non di “rappresentare”) le parti in una negoziazione diretta o in una
mediazione, esattamente così come gli avvocati sono perfettamente in grado di “rappresentare” le
parti nel processo-giudizio.

    II.     Per l’efficacia della mediazione, la Suprema Corte di Cassazione indica una “figura
            professionale nuova”: il negoziatore
Per “assistere” le parti in mediazione non occorre imparare a “mediare” (questa è un’attività
riservata al “mediatore”), ma occorre imparare a negoziare e, cioè, apprendere gli interessi di
entrambe le parti e “combinarli” per generare soluzioni al problema comune anche al di là del thema
decidendum che si pone sul piano giuridico. La preparazione tecnico-professionale di chi “assiste”
una parte in mediazione è, dunque, basata sullo studio della scienza della negoziazione2. A ben

1
 Cfr. G. COSI, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017.
2
 D. T. MALHOTRA – M. H. BAZERMAN, Negotiation Genius, Harvard Business School, Bantam Books, 2007, p. 19:
“Under the false assumption that negotiation is “all art and no science,” most people fail to prepare adequately for
negotiation”.

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vedere, infatti, è proprio questo il senso di quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con
la propria pronuncia n. 8473/20193. Riferendosi all’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento -
ad opera del D. Lgs. 28/2010 (come novellato nel 2013) - della presenza necessaria dell’avvocato in
mediazione, la Corte ha infatti chiarito che l’efficacia di questo strumento – la mediazione, appunto
– richiede la “… progressiva emersione di una figura professionale nuova, con un ruolo in parte
diverso e alla quale si richiede l'acquisizione di ulteriori competenze di tipo relazionale e umano,
inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”.
E’ quindi chiaro che, se per affrontare un processo-giudizio (e, quindi, per ottenere una decisione) ci
vuole un avvocato che “rappresenti” la parte (cioè la “escluda” dal procedimento) e che sappia parlare
il linguaggio della “decisione”, per affrontare una mediazione (e, quindi, per ottenere un accordo) ci
vuole un professionista “… esperto in tecniche negoziali che "assiste" la parte nella procedura di
mediazione ...”; un professionista, cioè, che sappia far utilizzare alla parte il linguaggio dell’accordo.
Non è dunque sufficiente che questo professionista abbia acquisito il titolo di avvocato sulla base di
una preparazione tecnico-giuridica, ma è necessario che abbia una specifica preparazione in scienza
della negoziazione. Pertanto, sebbene il D.Lgs. n. 28/2010 imponga la presenza dell’avvocato in
mediazione (richiedendo, in apparenza, la mera presenza di un soggetto con la relativa abilitazione e,
quindi, con una preparazione tecnico-giuridica) in realtà ciò che è – e dovrebbe, anzi, essere
esplicitamente – richiesto dalla legge è che il professionista che “assiste” la parte in mediazione abbia
una specifica preparazione professionale di tipo tecnico-negoziale e non (solo) di tipo tecnico-
giuridico. La “figura professionale nuova” cui si riferisce la Cassazione non è – e non può essere –
dunque l’avvocato in quanto tale, richiedendosi che tale soggetto – a seguito di apposito processo di
formazione universitaria o post-universitaria – sia divenuto anche un “negoziatore” ovvero un
professionista dotato di speciale competenza in scienza della negoziazione. E’ il negoziatore che
“assiste” la parte in mediazione (anche se ha il tesserino da avvocato), non l’avvocato. E qualora un
avvocato abbia studiato anche scienza della negoziazione, concentrando in sé, sia la preparazione
tecnico-giuridica, sia la preparazione tecnico-negoziale, è fondamentale che in mediazione dispieghi
quest’ultima e non la prima; pena la trasformazione della mediazione, come sempre più spesso
accade, in un “giudizio anticipato”. E sì, perché la mediazione non è affatto un “giudizio anticipato”
da poter gestire con le logiche dei tecnici del diritto (del resto, come detto, non deve produrre una
“decisione”), ma una negoziazione fra le parti - che devono quindi essere necessariamente presenti4
- “assistita” dai negoziatori delle parti stesse.

    III.    Il primo tema di riforma. La scienza della negoziazione come materia obbligatoria nelle
            nostre università.
Da tutto quanto sopra discendono due importanti conseguenze:
Ø in mediazione, ai lati del mediatore, dovrà richiedersi la presenza di (una, anzi, due) “figure
    professionali nuove” e, cioè, di professionisti che – indipendentemente dall’aver acquisito
    l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato – abbiano studiato scienza della
    negoziazione;

3
  Muovendo dall’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento - ad opera del D. Lgs. 28/2010 (come novellato nel 2013)
- della presenza necessaria dell’avvocato in mediazione, la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che proprio tale
normativa “[…] con l'affiancare all'avvocato esperto in tecniche processuali che "rappresenta" la parte nel processo,
l'avvocato esperto in tecniche negoziali che "assiste" la parte nella procedura di mediazione, segna anche la progressiva
emersione di una figura professionale nuova, con un ruolo in parte diverso e alla quale si richiede l'acquisizione di
ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle
pretese giuridiche avanzate." (v. Cass. Civ. n. 8473/2019).
4
  In tal senso, la conferma della necessaria presenza delle parti viene dalla stessa Cass. Civ. n. 8473/2019: “Il successo
dell'attività di mediazione è riposto nel contatto diretto tra le parti e il mediatore professionale il quale può, grazie alla
interlocuzione diretta ed informale con esse, aiutarle a ricostruire i loro rapporti pregressi, ed aiutarle a trovare una
soluzione che, al di là delle soluzioni in diritto della eventuale controversia, consenta loro di evitare l'acuirsi della
conflittualità e definire amichevolmente una vicenda potenzialmente oppositiva con reciproca soddisfazione, favorendo
al contempo la prosecuzione dei rapporti commerciali”.

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Ø siccome a tali figure professionali si richiede lo studio di una materia diversa dal diritto – quale
     è la scienza della “negoziazione”5 – è evidente che questa scienza dovrà essere introdotta e
     diventare centrale nel nostro sistema universitario.
Il legislatore non potrà far altro – prima o poi – che prendere atto, e dare finalmente attuazione, a
quanto sopra prevedendo espressamente che la scienza della negoziazione divenga materia
obbligatoria nelle nostre università.
E ciò avrebbe gradualmente importanti conseguenze nell’ottica di riduzione del numero dei
contenziosi che ingolfano il nostro sistema giudiziario; un obiettivo deflattivo che si continua invece
a perseguire attraverso (ipotesi) di riforme che riguardano unicamente la struttura dello stesso
processo–giudizio (v. parag. I) oppure – per incidere sul rapporto tra questo e la mediazione –
unicamente attraverso il dibattito sull’estensione del novero delle controversie soggette a mediazione
obbligatoria (cfr. art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28)6. L’introduzione della scienza della negoziazione
come materia universitaria e, quindi, la formazione “nuove figure professionali” (quali sono i
“negoziatori”) è dunque la premessa delle riforme: la riforma di base. Del resto, senza disporre di
“nuove figure professionali” in grado di “assistere” le parti verso la produzione di “accordi” e non
solo verso la produzione di “decisioni”, non solo si continuerebbe ad affidare l’”assistenza” in
mediazione a puri tecnici del diritto (e, quindi, a tecnici formati per ottenere “decisioni”), ma il
dibattito sull’efficacia della mediazione in sé e/o sull’effetto deflattivo rispetto al processo-giudizio
continuerebbe ad essere viziato da “preconcetti” legati ad un punto di osservazione “parziale”,
piuttosto che da analisi empiriche sui risultati raggiunti dallo strumento della mediazione una volta
che lo stesso sia stato però messo in grado di funzionare efficacemente.

    IV.      L’estensione delle “materie” soggette a mediazione obbligatoria: una riforma sufficiente?
Ad uno sguardo attento emerge chiaramente che il D. Lgs. 4 marzo 2010, n. 28 non è stato tanto il
frutto di un disegno complessivo di riforma, quanto piuttosto il risultato della volontà di perseguire
in via immediata lo scopo pratico della deflazione del processo pensando che, a tal fine, sarebbe stata
sufficiente la semplice creazione di una sorta di “anticamera”. Le peculiarità del processo di
mediazione non emergono pienamente dalla disciplina legislativa la quale – al contrario – ne mortifica
le caratteristiche riducendola ad una mera occasione di “incontro” per tentare una “conciliazione” su
una controversia già delineata sul piano giuridico; un incontro che, alla fine, avviene spesso senza le
parti e senza che ci sia stata una preparazione (professionale) prodromica all’incontro stesso. In effetti

5
  La stessa Cassazione, del resto, riferendosi alla “…acquisizione di ulteriori competenze di tipo relazionale e umano,
inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”, ha definitivamente
chiarito che la preparazione professionale di chi risolve conflitti in mediazione non deve essere incentrata sulla capacità
di confronto fra “diritti soggettivi” (diritto), ma anche sulla capacità di confronto degli interessi (negoziazione).
6
  Proprio quest’ultima discussione del resto – se posta in questi esatti termini – rischia di porre a diretto confronto due
posizioni apparentemente difficili da conciliare: quella dei cittadini alla “deflazione” dei processi e quella degli operatori
del diritto al mantenimento e consolidamento delle proprie prerogative professionali. Anche in questo caso, dunque, i
principi della scienza della negoziazione possono rivelarsi utili a risolvere il problema. Anziché tentare di “ravvicinare”
posizioni, può essere opportuno provare a “combinare” interessi. In effetti, piuttosto che discutere unicamente (e rimanere
prigionieri) del problema della estensione o meno dell’ambito di ”obbligatorietà” della mediazione oppure di ipotesi di
“ritualizzazione” della mediazione stessa (ipotesi che, come detto, ne snaturerebbero l’efficacia), occorrerebbe intanto
procedere con la introduzione dello studio della scienza della negoziazione come requisito di preparazione necessario per
poter “assistere” una parte in mediazione. Tale soluzione, del resto, potrebbe gradualmente soddisfare non solo l’interesse
degli operatori professionali ad essere protagonisti nel mercato della risoluzione dei conflitti (semplicemente integrando
la propria preparazione), ma anche quello della collettività a veder pian piano aumentare l’efficacia dello strumento della
mediazione e, conseguentemente, l’effetto deflattivo sulla macchina della giustizia. A ben vedere, infatti, sebbene
l’obbligatorietà della mediazione per alcune categorie di controversie civili e commerciali sia stata fino ad oggi
indubbiamente fondamentale per la diffusione della cultura della mediazione (nell’ambito di una società che, come la
nostra, considera il diritto statale il mezzo principale, se non l’unico, per risolvere i conflitti), non è a partire da questa
previsione normativa che va pensato l’ulteriore sviluppo della cultura della mediazione. La mediazione è – e deve - per
sua natura rimanere una “scelta” delle parti. L’obiettivo è fare in modo che – proprio attraverso il “suggerimento” e
l’“assistenza” di professionisti appositamente formati – la mediazione diventi la prima scelta delle parti rispetto al
processo-giudizio.

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il quadro complessivo che emerge dalla regolamentazione legislativa appare molto riduttivo rispetto
alle effettive potenzialità di uno strumento dell’ordine negoziato quale è la mediazione7. Pertanto, per
come è stato disciplinato – e successivamente modificato – il procedimento di mediazione farà fatica
a dare i suoi frutti per raggiungere quel risultato pratico che il legislatore pure si era prefissato: e,
cioè, l’alleggerimento del carico che grava sulla macchina della giustizia. Certamente, come detto,
l’estensione del novero delle materie per le quali la mediazione diverrebbe “obbligatoria” potrebbe
apportare un incremento sensibile del numero di mediazioni, ma un tal provvedimento potrebbe di
per sé non rivelarsi sufficiente poiché – anche a voler prescindere dalla contraddizione in termini fra
“obbligatorietà” e “mediazione”8 – lo stesso rischierebbe di continuare ad “imporre” alle parti e ai
loro avvocati uno strumento ancora “sconosciuto” dal punto di vista tecnico (poiché non vi una
preparazione professionale alla base) e, quindi, di mettere a disposizione di tutti uno strumento
potenzialmente “potentissimo” che però continuerebbe ad essere scambiato per un semplice
“incontro” in cui ci si limita a dirsi – in base alla posizione di partenza – se si è intenzionati o meno
a trovare un accordo. Insomma, si rischierebbe di imporre ancor più l’utilizzo di un’automobile a chi
non la sa (e, anche per questo motivo, non la vuole) guidare. Ben venga dunque un provvedimento
che preveda l’estensione del novero delle materie soggette a mediazione obbligatoria, purchè si
consenta, però, non solo alle parti di disporre di uno strumento che “funziona” correttamente
(il che equivale a dire che le parti debbano poter disporre della corretta “assistenza”
professionale), ma anche ai professionisti coinvolti di crearsi – e quindi di poter beneficiare –
di un nuovo spazio di opportunità professionale ed anche economica.
Il tutto per fare in modo che, pur passando inizialmente da una previsione di “obbligatorietà
della mediazione” (più estesa di quella attuale), alla fine di tale previsione non vi sia più
sostanzialmente bisogno, poiché saranno le stesse parti e, soprattutto, i professionisti che le
“assistono” ad avere acquisito la cultura e la professionalità della mediazione.

    V.       Modificare l’incontro o la “preparazione” dell’incontro? Necessità per i cittadini e
             opportunità professionale.
Proprio alla luce di quanto sopra, se si volesse immaginare una complessiva ed efficace proposta di
riforma della normativa in questione, occorrerebbe partire da un principio fondamentale: quello cioè
secondo cui la mediazione non è nient’altro che una negoziazione fra le parti (e non certo fra gli
avvocati) guidata dal mediatore. La mediazione, quindi, è – e deve rimanere – un procedimento
autonomo ed informale che non tollera “regole procedurali” poste dall’esterno (da soggetti e/o entità
terze diverse dalle parti e/o dalla legge) pena la palese “distorsione” dell’efficacia del meccanismo
che deve invece lasciare alle parti la disponibilità del controllo non solo sulle tempistiche e sulle
modalità di incontro, ma anche sulla sostanza del conflitto. Gli avvocati non possono “rappresentare”
le parti (e cioè sostituirle), ma devono “assisterle” (cioè, “prepararle” ed “affiancarle”). Cambia il
servizio professionale. Non è più quello tipico dell’avvocato, ma quello del negoziatore: un servizio
che chi è già avvocato può – previa adeguata formazione – svolgere egregiamente sia pur con la
presenza necessaria delle parti. Del resto, in mediazione si producono accordi. Non decisioni. E
l’accordo è delle parti. E’ evidente, dunque, che la modifica della disciplina della mediazione
non può riguardare lo svolgimento dell’incontro in sé (che, come detto, deve rimanere
autonomo ed informale), ma la “preparazione” dell’incontro di mediazione. E tale modifica,
oggi, non è solo una necessità per lo Stato e per i cittadini, ma diventa una straordinaria opportunità
professionale, soprattutto per gli avvocati. Proviamo dunque ad immaginare quali potrebbero essere
i correttivi in grado di dare un impulso a questo strumento tenendo conto di quanto sopra. Per fare

7
     A. MONORITI, Dall’ordine imposto, all’ordine negoziato, in Ratio Juris (ISSN2420-7888), Marzo 2021
https://www.ratioiuris.it/dallordine-imposto-allordine-negoziato/
8
  Come evidenziato da G. COSI, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017,
p. 173 con riferimento all’introduzione del tentativo obbligatorio di mediazione da parte del D.Lgs. n. 28/2010: “Non è
una bella norma: una conciliazione obbligatoria è una contraddizione in termini, quasi un ossimoro”.

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questo, però, occorre fare un passo indietro. Occorre muovere dal funzionamento del cervello umano
e dal modo in cui vengono percepiti i fatti della vita.

    VI.     Il funzionamento del cervello umano. I fatti e la percezione dei fatti.
Le percezioni sono il nostro modo di vedere il mondo e ciò che ci circonda. Siamo portati a credere
che la realtà, così come la vediamo, sia oggettiva e assoluta, senza essere consapevoli della relatività
e della soggettività della nostra percezione. La realtà, invece, per ciascuno di noi, è un’esperienza
altamente soggettiva filtrata dal pensiero. Non può esistere una realtà unica e indiscutibile, ma
esisteranno sempre “più realtà”. In base a “come” un fatto viene percepito da un individuo, questo
può assumere un valore e un significato diverso. Quindi, così come noi percepiamo la “nostra” realtà,
anche il nostro interlocutore percepisce la “sua realtà”.

Il fatto è identico. Qualcuno percepirà un volto di donna, qualcun altro un sassofonista. Di fronte ad
un conflitto, dunque, gli individui non si relazionano mai sulla base di una oggettiva e razionale
analisi dei dati di fatto e delle “questioni materiali”. Nell’interpretazione dei “fatti” gli individui sono
influenzati dalle loro esperienze passate, dai loro legami sociali (i.e. il sentimento di connessione con
un individuo o con un gruppo)9, dall’immagine che hanno di sé10. Come diceva Carl Gustav Jung:
“Non vediamo le cose come sono, ma vediamo le cose come siamo”. In altre parole, il nostro cervello
tende ad elaborare ed interpretare le informazioni (i fatti, le immagini, ecc.) in maniera selettiva in
modo, cioè, da trascurare tutto ciò che non è conforme ai nostri desideri, alle nostre aspettative e alla
nostra prospettiva11. Vediamo, insomma, quello che vogliamo vedere. Questo fenomeno viene

9
  F. GINO, Sidetracked, Harvard Business Review Press 2013, 26: “A feeling of connection to another person, a group,
an organization, or even a country can come from many sources: a shared history or experience, shared preferences
(such as liking Italian food) or characteristics (such as being from Italy), or a direct relationship”.
10
   F. GINO, Sidetracked, Harvard Business Review Press 2013, 26: “We commonly think that we are luckier, better drivers,
more capable, healthier, and better investors than our peers. Research in behavioral decision making and social
psychology refers to these inflated perception as better-than-average beliefs, and they’ve been demonstrated in a wide
range of contexts, including intelligence, performance on tasks and tests, and the possession of desiderable characteristics
(such as attractiveness and wealth) or personality traits (such as honesty and confidence). (...) viewing ourselves as more
capable and competent than others may also cause us to give more weight to our own ideas and carefully gathered
information than to ideas and information that others provide”.
11
   v. MAX H. BAZERMAN, The power of noticing, Simon & Schuster 2014, 23: “... research in the field of behavioral ethics
has found that when we have vested self-interest in a situation, we have difficulty approaching that situation without bias,

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definito percezione selettiva12. La percezione selettiva è una distorsione cognitiva molto comune.
Influenza il meccanismo di percezione facendoci vedere, ascoltare o concentrare su stimoli basati
sulle nostre aspettative, tralasciando il resto delle informazioni. Questo fenomeno si verifica anche
nel momento in cui affrontiamo un conflitto. Il nostro cervello seleziona solo le informazioni e le
circostanze “utili” a sostenere la nostra posizione. Tendiamo automaticamente a non considerare,
ovvero a considerare “non valide”, alcune informazioni, dichiarazioni e/o circostanze solo perchè
dette o fatte dall’altra parte. Quindi il più delle volte il conflitto – anche se apparentemente esistente
sulla sostanza delle cose – in realtà sta nelle “percezioni di ciascuna parte”; non sta sui fatti, ma
sulla diversa percezione di quegli stessi fatti13. Pertanto, in ottica negoziale, tentare di convincere
l’altro sulla sostanza così come essa si presenta dal “proprio punto di vista” è un atteggiamento
inefficace. Un negoziatore deve comprendere “come l’altro vede le cose” per avere un “quadro
complessivo” del problema; problema che, come evincibile da quanto sopra, il più delle volte si
colloca nel modo in cui l’altra parte vede e percepisce la sostanza del negoziato14. Comprendere
il modo di pensare e di sentire dell’altra parte consente di mantenere sempre “separate le persone
dal problema” e, quindi, di spostarsi dal “sentiero” che porta ad una decisione e “viaggiare”
sull’autostrada che consente di addivenire ad un accordo.

    VII.    La “prospettiva” di parte e la “rappresentanza” dell’avvocato.
Normalmente nella vita le parti dispongono di diverse informazioni riguardo ad un identico fatto.
Tuttavia, anche quando le parti hanno a disposizione le stesse identiche informazioni, le loro
conclusioni sono sempre influenzate dal “pregiudizio di parte”15. Una parte seleziona, e presta
attenzione, alle informazioni e ai fatti che supportano la sua “ragione”, cancellando le altre. E l’altra
parte tende a fare lo stesso. Il “pregiudizio di parte” si consolida nel momento in cui il cliente si

no matter how well-calibrated we believe our moral compass to be.... In many cases, what you see isn’t all there is because
you have reasons to decide it isn’t even there.... As far back as 1954, psychologists Albert H. Hastorf and Hadley Cantril
published a famous study involving student football fans at Princeton and Dartmouth. The fans all watched the same
short film of clips from an important, hard-fought football game between the two schools in which numerous players were
injured. The researchers found that the two groups of students “saw a different game”. Members of each side thought
players on the opposing team engaged in unethical behavior but did not view the infractions committed by their own team
to be severe”
12
   V. E. ARIELLI - G. SCOTTO, Conflitti e mediazione, Milano 2003, 31: “Se non è possibile interpretare le informazioni
nuove in maniera coerente con le credenze acquisite, si tende a dare dei fatti un’interpretazione che richiede il minor
cambiamento possibile del proprio sistema di credenze, secondo i principi che regolano la risoluzione delle dissonanze
cognitive. Questo esito può essere ottenuto semplicemente ignorando l’informazione disturbante, scoprendo un
significato nascosto nel messaggio, oppure screditando la fonte di informazione (...). (...) la percezione selettiva è causa
di forti asimmetrie di valutazione, di favoritismi di parte, spesso frutto di una distorsione involontaria del giudizio. (...)
Questo meccanismo può avere effetti paradossali quando nel corso del conflitto una parte tenta un approccio
conciliatore: il fatto stesso che la proposta provenga dall’avversario costituisce un buon motivo per ritenerla nel migliore
dei casi inconsistente, nel peggiore un trucco o una trappola”.
13
   W. URY, Getting Past No, Bantam Books 2007, 5: “(...) I remember my uncle Mel once coming visit me at my Harvard
Law School office when he returned to campus for his twenty-fifth alumni reunion. At one point he took me aside and
said: “You know, Bill, it has taken me twenty-five years to unlearn what I learned at Harvard Law School. Because what
I learned at Harvard Law School is that all that counts in life are the facts — who’s right and who’s wrong. It’s taken me
twenty-five years to learn that just as important as the facts, if not more important, are people’s perceptions of those
facts. Unless you understand their perspective, you’re never going to be effective at making deals or settling dispute
14
   Per superare le errate percezioni, secondo R. FISHER, W. URY E B. PATTON, Getting to yes. Negotiating Agreement
Without Giving In, Random House Business Book, 2012, 34 ss è utile:
     1. mettersi nei panni dell’altra parte;
     2. non dedurre le intenzioni altrui dalle nostre paure;
     3. non prendersela con l’altra parte per il proprio problema;
     4. discutere le reciproche impressioni;
     5. cercare di agire in modo diverso dai pregiudizi che l’altro ha su di noi;
     6. coinvolgere la controparte rispetto al risultato;
     7. salvare la faccia dell’altra parte.
15
   Cfr. I. BOHNET, What works – Gender equality by design, The Belknap press of Harvard University Press, 2016, 45.

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rivolge ad un avvocato. L’avvocato è un tecnico formato professionalmente per risolvere i conflitti
con uno fra i diversi metodi a disposizione: il diritto16. Il diritto consente di risolvere i conflitti
attraverso una decisione. La logica che guida l’intervento di un avvocato – anche in quella fase che
viene definita “stragiudiziale” – ha sempre come parametro di riferimento una potenziale decisione.
Ora, l’avvocato raramente assiste alla nascita del conflitto. Viene coinvolto nel conflitto, nella
stragrande maggioranza dei casi, quando questo è ormai divenuto controversia. La controversia è il
prodotto del conflitto, la sua concreta manifestazione. Le parti hanno già preso “posizione” e la
comunicazione si è interrotta. La controversia è su uno specifico oggetto materiale ed è meno
ampia rispetto al conflitto. L'avvocato è quindi sollecitato a intervenire quando il contrasto tra le
parti si è cristallizzato su un punto specifico ed esibisce ormai una chiara divergenza di posizioni. La
differente percezione di valori, interessi, emozioni, aspirazioni, preferenze che sta alla base di questa
controversia non è più chiaramente visibile. Nel momento in cui il cliente incontra il proprio
avvocato, del resto, si sono già verificate le due circostanze che impediscono a quest’ultimo di
“vedere” il conflitto “a monte” e lo costringono a gestire la mera controversia:
     - l’interruzione della comunicazione fra il cliente e il suo interlocutore (che diventa, così, la sua
         “contro” parte);
     - il “posizionamento” del cliente e il consolidamento della sua percezione dei fatti come una
         percezione “di parte”.
Del resto, ogniqualvolta la comunicazione fra le parti risulta carente o assente questo distorce in senso
negativo la percezione dell’altro; l’incomunicabilità produce pregiudizi che generano false identità.
Per effetto di ciò, ciascuna parte genera l’immagine del “nemico” e raggiunge il convincimento che
per uscire dal conflitto non debba e non possa dissolvere il conflitto interagendo con l’altra parte, ma
debba “vincere la controversia” contro l’altra parte. La stessa parte chiede, dunque, di “accedere” ad
un terzo (il giudice) che gli dia “ragione” 17. Per “vincere” sull’altra parte. Escludendo l’uso della
forza, per “vincere” sull’altra parte occorre farsi “rappresentare” da qualcuno con una professionalità
tecnico-giuridica quale quella alla base della formazione dell’avvocato. L’avvocato risolve
controversie attraverso il diritto. Non dissolve conflitti. L’avvocato, dunque, ricevuta la visita del
cliente, “selezionerà” ancora di più le informazioni disponibili mantenendo quelle che – alla luce di
quanto previsto dalle regole giuridiche – risultano favorevoli al cliente e scartando quelle che non lo
sono. E così farà l’avvocato dell’altra parte. Di fronte allo stesso identico fatto, l’avvocato dell’attore
si concentrerà sulle informazioni più favorevoli alla propria parte, mentre l’avvocato del convenuto
solo sulle informazioni più favorevoli all’altra parte. Del resto, le ricerche scientifiche dimostrano
che questa lettura “di parte” delle informazioni è inevitabile e si verificherebbe anche nel caso in cui
venisse richiesto all’avvocato di assumere un atteggiamento “neutrale”. Una volta “saputo” chi debba
rappresentare, un soggetto perde l’abilità di analizzare le informazioni oggettivamente e diviene
vittima di un pregiudizio auto-indotto18. Al riguardo, basti pensare che frequentemente – anzi, quasi
sempre – la valutazione in termini percentuali dell’esito della controversia fatta dall’avvocato
dell’attore è sempre diversa da quella dell’avvocato del convenuto. E frequentemente, all’esito di tali
valutazioni, sommando le percentuali di successo fornite separatamente alle parti dai propri avvocati
16
   I metodi di gestione dei conflitti possono essere immaginati, infatti, come una piramide il cui vertice è rappresentato
dalla forza, il centro dal diritto e la base dagli interessi. Essi perseguono diversi obiettivi: accertare chi ha più potere
(forza), stabilire chi ha ragione sulla base di una regola (diritto), conciliare gli interessi delle parti (interessi). I conflitti si
originano sempre nell'area alla base della piramide, quella degli interessi, poiché sono proprio gli interessi i motivi che
danno impulso all’azione umana. Si può scegliere di gestirli con metodi caratteristici della stessa area in cui sorgono
(negoziazione, mediazione), oppure – risalendo la piramide – con metodi propri di altre aree, come quella del diritto
(arbitrato, giudizio) e della forza (autotutela, guerra). Al riguardo, v. G. COSI – G. ROMUALDI, La mediazione dei conflitti
– Teoria e pratica dei metodi ADR, Torino, 2012.
17
    G. CONTE, Cultura della iurisdictio vs. cultura della mediazione, in Mediazione e progresso, persona, società,
professione, impresa a cura di Paola Lucarelli e Giuseppe Conte, 2012, p. 235 ss: “Quando il cliente varca la soglia di
uno studio professionale, anche solo al fine di acquisire un parere o indicazioni specifiche sulla controversia, ha già
maturato – nella maggioranza dei casi – la convinzione che la controversia che lo vede coinvolto sia meritevole di una
definizione giudiziale”.
18
   Cfr. I. BOHNET, What works – Gender equality by design, The Belknap press of Harvard University Press, 2016, 46.

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si giunge ad un valore superiore al 100%. Stessi fatti, percezioni diverse, posizioni opposte.
L’interpretazione dei fatti da parte dell’avvocato non potrà (e non dovrà) mai essere neutrale, ma è
anche vero che per risolvere controversie con il metodo del diritto non bisogna essere neutrali. Del
resto, come detto, il parametro di riferimento “virtuale” per risolvere una controversia con il metodo
del diritto è pur sempre una decisione (che può essere a favore dell’uno o dell’altro) e non un accordo.
L'avvocato non è un recettore neutrale dei fatti poiché, nel momento in cui questi gli vengono esposti,
inizia già a operare raffronto ed un filtro in base alle norme in astratto applicabili. Pertanto,
l'intervento dell'avvocato “è molto selettivo già nella fase della raccolta delle informazioni
riguardanti la vicenda in fatto, il che finisce per instaurare un movimento circolare in cui i fatti e le
qualificazioni giuridiche si rincorrono e ridefiniscono a più riprese” 19. Per svolgere
professionalmente il proprio lavoro, l'avvocato che raccoglie elementi di fatto deve necessariamente
collegarli a qualificazioni di diritto; via via che gli elementi di fatto vengono acquisiti, l’avvocato
deve riformulare progressivamente le qualificazioni giuridiche, innescando ripetuti rinvii tra fatti e
qualificazioni20. L’avvocato ricostruisce – selezionando – il perimetro dei soli fatti che hanno rilievo
giuridico. Si definisce un orizzonte limitato e di parte. Una tesi. E per ogni tesi – dall’altra parte – ci
sarà anche un’antitesi. Ci si confronta, dunque, senza comunicare veramente, senza “scambiarsi
informazioni” e con percezioni divergenti. E ciò è normale poiché nessuna parte, da sola, può
disporre della “verità”, ma sarà un terzo a rivelarla sotto forma di “vittoria” e, quindi, a stabilire chi
prevale, chi ha ragione, chi “vince” secondo la regola. Pertanto, questo processo “selettivo” di
informazioni – già insito nei meccanismi di funzionamento del nostro cervello - è fisiologico per un
avvocato. Anzi, è proprio oggetto della sua formazione ed è l’espressione della miglior capacità
tecnica per un professionista del diritto. In effetti, un professionista del diritto “seleziona”
informazioni e, in particolare, quelle che gli consentono di dimostrare che esiste un diritto soggettivo.
Solo chi ha un diritto soggettivo ha ragione. E vince. L’altro perde. L’avvocato deve “vincere”21.
L’avvocato è un professionista del diritto. E’ un tecnico formato per risolvere una controversia in
termini giuridici (decisione) e non per dissolvere un conflitto in termini negoziali con un accordo.
Egli deve “rappresentare” il proprio cliente (cioè sostituirlo) e “vincere”. L’avvocato prende, dunque,
posizione. Il fatto è il medesimo. Ma vi sarà comunque una contrapposizione. E questa
contrapposizione, laddove per puro caso non si delineasse una zona di possibile accordo sul singolo
oggetto della controversia, porterà a – e richiederà una – decisione. Secondo le regole. Secondo
diritto. Si noterà, tuttavia, che, anche a seguito di una decisione, risolta la controversia, non sarà
dissolto il conflitto. Perché risolvere una controversia (con una decisione) e dissolvere un conflitto
(con un accordo) sono due cose completamente diverse22.

19
   G. CONTE, Cultura della iurisdictio vs. cultura della mediazione, in Mediazione e progresso, persona, società,
professione, impresa a cura di Paola Lucarelli e Giuseppe Conte, 2012, p. 241
20
   G. COSI - G. ROMUALDI, La mediazione dei conflitti - Teoria e pratica dei metodi ADR, Torino 2012, 12: “E’ ovvio che
l’avvocato agisca scegliendo tra le eventualità offerte dal diritto positivo la più favorevole possibile agli interessi del suo
cliente. Fenomenologicamente, egli oggi non può più essere un giurista nel senso pieno e classico del termine: parrebbe
invece assumerne, sia pure preterintenzionalmente, le caratteristiche la coppia contrapposta dei legali, personificando
professionalmente il “pro” e il “contro” che il giurista integrale dovrebbe dibattere dentro di sé. La giurisprudenza
nascerebbe come sintesi ed equilibrio delle opposte pressioni argomentative unilaterali, concretizzandosi nel momento
giurisdizionale attraverso la decisione del giudice. Il singolo avvocato sarebbe quindi un giurista a metà: e la sua stessa
posizione di intermediario tra la vita normale e la “vita” giuridica a delinearne in questi termini il ruolo e la funzione,
almeno nell’ambito del processo”.
21
   G. COSI - G. ROMUALDI, La mediazione dei conflitti - Teoria e pratica dei metodi ADR, Torino 2012, 12: “All’avvocato
che esce dall’aula non si domanda se ha, sia pure indirettamente, contribuito a determinare il migliore possibile diritto
consentito dalle circostanze; vi si chiede se ha vinto o se ha perso”.
22
   G. COSI - G. ROMUALDI, La mediazione dei conflitti - Teoria e pratica dei metodi ADR, Torino 2012, 46: “(...) Come
certi medicinali, il diritto sembra dunque capace di trattare soprattutto i sintomi, e non le cause, di un malessere. La
pace assicurata dal diritto, rimanendo alla “superficie” degli eventi, si dimostra spesso carente sia sul piano etico
generale, sia su quello pratico dell’effettiva risoluzione del conflitto: sul piano etico, non solo non spinge i contendenti
alla consapevolezza delle proprie reali motivazioni, ma non va oltre la mera tolleranza, senza pervenire a un vero
riconoscimento dell’altro; sul piano pratico, confonde quasi sempre la verità con la vittoria, lasciando lo sconfitto solo
col suo rancore e il suo desiderio di rivalsa. Ciò perché essa segue a una procedura che di fatto tende ad assimilare i

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VIII. Rappresentanza in giudizio e assistenza in mediazione
Orbene, è chiaro che la formazione e la capacità tecnica che l’avvocato esprime per risolvere una
controversia con il metodo del diritto mal si concilia con il procedimento di mediazione. La
mediazione non è un metodo che consente ad una parte di ottenere una decisione, è un metodo che
consente alle parti di arrivare ad un accordo. La mediazione sfugge alla logica della
contrapposizione. E’ un modello di risoluzione dei conflitti diverso da quello della iurisdictio. Non
vi è un terzo che decide. Non si applicano regole procedurali, a meno che non siano le parti a
determinarle e ad accettarle concordemente. Non c’è bisogno per le parti di prendere posizione e di
contrapporsi. Il mediatore non ha alcuna legittimazione ad imporre una soluzione. La soluzione deve
essere trovata dalle parti che possono avvantaggiarsi di un esito completamente innovativo rispetto
alle posizioni di partenza. La composizione della lite non avviene per mezzo di una decisione, ma di
un accordo. Un atto negoziale. Pertanto, se è diverso il mezzo con cui si giunge a dissolvere il conflitto
(ripetesi, non più una decisione, ma un accordo), diverso è anche il servizio di “assistenza
professionale” che deve essere fornito a ciascuna parte. Un professionista in questo caso non dovrà
“rappresentare il proprio cliente per vincere”, ma dovrà “assistere” il proprio cliente per far sì che
questi contribuisca a risolvere il problema più grande (conflitto) di entrambe le parti. Lo sguardo non
sarà più rivolto al passato per trovare e attribuire responsabilità all’altro, ma al futuro per generare
opzioni e per scrivere la nuova costituzione del rapporto (l’accordo). L’ottica cambia radicalmente:
non si “selezionano” informazioni, ma si “acquisiscono più informazioni possibili”. Nel caso in cui
un professionista sia chiamato a svolgere attività di “assistenza” in mediazione, dovrà quindi acquisire
la più ampia quantità di informazioni e di un genere (anche) diverso rispetto a quelle che solitamente
sono rilevanti per gestire una controversia con il metodo del diritto. Il servizio non è più un servizio
di “difesa”, ma un servizio di intelligence informativa. In altre parole, se è vero, come detto, che
l’impostazione di una difesa giudiziale impone di essere molto selettivi nella raccolta delle
informazioni e conduce ad una visione “atomistica” della questione (perchè il processo è un
ingranaggio che tende a semplificare la vicenda in fatto in modo da poter più agevolmente operare le
necessarie qualificazioni giuridiche), è vero anche che in una negoziazione diretta o in una
mediazione non si tratta più di “selezionare” gli elementi di fatto rilevanti rispetto ad una regola
poiché non si deve ottenere “ragione” attraverso una decisione. Occorre invece interpretare i fatti
non solo dal punto di vista del proprio assistito, ma anche dal punto di vista dell’altra parte per
verificare e “riallineare” le diverse percezioni sugli stessi fatti e identificare i reciproci interessi.
Come noto, la preparazione tecnico-professionale dei giuristi si basa su un principio: ciò che
conta sono i fatti e, quindi, conta solo “chi ha ragione e chi ha torto” tenuto conto delle regole
che disciplinano quei fatti. Per “assistere” una parte in mediazione occorre invece muovere da
un altro principio e, cioè, che quello che rileva – prima di tutto – sono le “percezioni” che
entrambe le parti hanno di quegli stessi fatti. Senza cogliere la prospettiva ed il punto di vista
anche dell’altra parte, un professionista non potrà mai essere efficace nel produrre accordi. In questo
senso, il professionista deve estendere le sue valutazioni anche ad elementi ed informazioni quali il
tempo, la relazione, le emozioni, le necessità, i bisogni di ciascuna parte che sono all’origine del
conflitto e che, invece, per il diritto sono irrilevanti. Si passa, dunque, dallo studio dei diritti
soggettivi, alla ricerca degli interessi umani. Del resto, all’origine di qualsivoglia tipologia di conflitto
si trovano sempre e comunque gli interessi degli individui. Gli interessi possono essere definiti
come l’insieme dei desideri, dei bisogni e delle preoccupazioni che motivano le persone; le
esigenze interiori dell’agire umano. Gli interessi sono ciò che si cela dietro la posizione
socialmente assunta dagli individui23. Gli interessi sono un insieme molto più grande di quello dei
diritti soggettivi. Pertanto, considerato che non tutti gli interessi trovano un diritto soggettivo

contendenti più alla figura del nemico che non a quella dell’avversario. (...) E il conflitto diventa ingestibile soprattutto
perché il bisogno percepito come fondamentale è quello di avere ragione, non quello di trovare una soluzione”.
23
   R. FISHER - W. URY - B. PATTON, Getting to Yes. Negotiating Agreement Without Giving In, Random House Business
Book 2012, 43: “Such desires and concerns are interests. Interests motivate people; they are the silent movers behind the
hubbub of position. Your position is something you have decided upon. Your interests are what caused you to so decide”.

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corrispondente tutelato dall’ordinamento, lo spazio di lavoro professionale diventa molto più
grande.
Colui che “assiste” la parte in mediazione dovrà acquisire e sviluppare questa specifica professionalità
ovvero quella capacità che è stata definita dalla stessa Suprema Corte di Cassazione come la
“…capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate” (v.
Cass. Civ. n. 8473/2019).

Peraltro, una volta acquisita anche questa specifica capacità, l’ “assistenza” in mediazione di un
professionista che ha già di base anche una preparazione tecnico-giuridica (avvocato) si rivelerà di
fondamentale importanza per le parti nel momento finale del processo e, cioè, quello in cui il diritto
ritornerà ad avere un ruolo: il momento in cui - qualora la mediazione dovesse avere esito positivo –
occorrerà redigere un accordo. Sebbene l’accordo non rappresenti il fine di una mediazione (posto
che il fine di una mediazione è rappresentato dalla combinazione degli interessi), ma solo il
mezzo, esso rappresenta la “sintesi” del nuovo rapporto costituito fra le parti e diventa, quindi,
uno strumento rilevante giuridicamente. Ecco, dunque, che in quest’ottica la presenza in
mediazione (anche) di una professionalità tecnico-giuridica, oltre a quella tecnico-negoziale di base,
potrà essere di ulteriore ausilio per consentire alle parti di avere piena consapevolezza e puntuale
cognizione anche delle conseguenze giuridiche cui rimarranno esposte sottoscrivendo l’accordo. Per
far sì dunque che gli avvocati recitino un ruolo da “protagonisti” nel processo di mediazione occorrerà
prima “professionalizzare” il loro apporto dal punto di vista tecnico-negoziale, di modo che possano
“assistere” le parti e farle uscire dalla logica di contrapposizione; quella logica, cioè, che ha un senso
solo se si agisce nella “presunzione” che le parti non possano mantenere il controllo del conflitto e
che, quindi, sia sempre inevitabile l’intervento di un terzo per applicare una regola e per attribuire
ragione o torto. Ecco, dunque, l’obiettivo della nuova “figura professionale” invocata dalla
Cassazione e che dovrà “risiedere” in entrambi i professionisti che “assistono” le parti in
mediazione: consentire alle parti di mantenere esse stesse il controllo sul conflitto in corso.
Solo così potremo ottenere il risultato di “rimarcare la responsabilità sociale che grava
sull’avvocato, in modo da evitare che l'assolvimento dell'incarico professionale di curare gli interessi
del cliente possa ottundere le responsabilità che ricadono sul professionista come membro di una

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comunità più ampia, come cittadino, come uomo”24. Alla luce di quanto sopra, se è vero – com’è vero
–che il servizio di un professionista in mediazione non è – e non può essere – una mera rappresentanza
tecnico-giuridica (basata sui diritti soggettivi), ma un’assistenza tecnico-negoziale (basata sugli
interessi), è facile comprendere che la prima fondamentale operazione che questa “nuova figura
professionale” deve saper svolgere professionalmente costituisce esplicazione nel fondamentale
principio del “mettersi nei panni degli altri”.

    IX.      Mettersi nei panni dell’altra parte.
Per effetto del meccanismo delle percezioni, ognuno di noi tende a vedere unicamente i meriti delle
proprie argomentazioni e i difetti di quelle dell’altro. E questa impostazione si “riproduce”
nell’attività di analisi tipica dei “professionisti del diritto” i quali hanno l’obiettivo di dimostrare che
la parte ha “ragione” secondo la regola e, quindi, è nel “giusto”. Un negoziatore, al contrario, deve
vedere la situazione “così come la vede l’altro” e cercare di capire come l’altro percepisce i fatti. Non
è sufficiente dirsi che l’altro pensa e vede le cose in modo diverso, ma è necessario comprendere quali
sono gli interessi, i sentimenti e la dimensione emotiva dell’altra parte. Occorre vedere non solo i
difetti, ma anche i meriti delle altrui argomentazioni. Perchè? Perchè per fare accordi (non decisioni)
occorre percorrere una strada a due corsie: non è possibile soddisfare i nostri interessi senza
riconoscere e provare a soddisfare gli interessi dell’altro; interessi che, quindi, occorre prima
di tutto identificare. Quindi solo il “mettersi nei panni dell’altro” può consentire di riesaminare le
proprie convinzioni, ridurre le zone di potenziale conflitto, far progredire il proprio interesse sotto
una luce diversa e, soprattutto, combinare i propri interessi con quelli degli altri. Insomma, per fare
accordi occorre essere “assistiti” professionalmente a “mettersi nei panni degli altri”.
Ma quale strumento pratico può essere utilizzato a tal fine da un professionista della mediazione?

    X.       Il secondo tema di riforma. Un nuovo servizio professionale: l’analisi del quadro
             negoziale.
Abbiamo visto che il professionista in mediazione non sostituisce la parte, la “assiste” mettendosi al
suo fianco e che questa “assistenza” si sostanzia nel supportare la parte stessa a “mettersi nei panni
degli altri” per rilevarne gli interessi “al di là delle pretese giuridiche avanzate”. Il professionista deve
dunque preparare non solo sè stesso, ma anche la parte. Il professionista non può limitarsi a valutare
le ragioni del proprio cliente, i suoi diritti; non può solo “selezionare” informazioni, ma deve
“ampliare” il raggio delle informazioni disponibili. Egli deve svolgere un’attività che, sebbene non
richiesta dal punto di vista tecnico-giuridico (cioè nella logica del diritto), risulta essenziale dal punto
di vista tecnico-negoziale e, cioè, estendere sin da subito le proprie valutazioni al “punto di vista
dell’altra parte”. Il professionista deve “vedere”, “analizzare” e valutare la questione “mettendosi nei
panni dell’altra parte”. E poi trasferire e discutere queste valutazioni con il proprio cliente. Si tratta
di identificare, non solo la posizione dell’altra parte (cosa vuole?), ma anche: (i) i suoi interessi
(perché lo vuole?) per poi determinare altresì (ii) la migliore alternativa all’accordo negoziato, (iii) le
possibili opzioni, (iv) il/i punto/i di resistenza, e (v) la/le zone di possibile accordo. Il ruolo del
professionista è centrale per condurre il cliente ad acquisire piena consapevolezza non solo dei propri
reali interessi, ma anche degli interessi dell'altra parte. Ricordiamo sempre che il servizio
professionale offerto alla parte è – e deve essere funzionale - alla ricerca di un accordo, non di
una decisione. E per poter identificare gli spazi per un accordo occorre comprendere non solo
cosa c’è nella testa del proprio cliente, ma anche cosa c’è nella testa dell’altra parte e, cioè, quali
sono i reali motivi del loro agire (i loro reciproci interessi): proprio quelli che in diritto non sono
rilevanti. Ma vediamo meglio questo percorso logico. A fronte alla rappresentazione dei fatti offerta
dal proprio cliente, un professionista non potrà limitarsi a identificare la posizione di quest’ultimo
(what?), ma dovrà analizzare la controversia “dal punto di vista dell’altra parte”. A tal fine dovrà
raccogliere più informazioni possibili al fine – in particolare – di identificare i reali interessi (why?)

24
   G. CONTE, Cultura della iurisdictio vs. cultura della mediazione, in Mediazione e progresso, persona, società,
professione, impresa a cura di Paola Lucarelli e Giuseppe Conte, 2012, p. 260.

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