Il game designer implicito

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Il game designer implicito
Il game designer implicito
    Il ruolo delle aspettative nell'esperienza dei mondi artificiali.
                Nele Van de Mosselaer e Stefano Gualeni·25/01/2021

L’esistenza di un autore è di primaria importanza quando si parla di
opere di finzione. Quando ne interpretiamo una, come ad esempio
un romanzo, lo facciamo in base a ciò che crediamo l’autore voglia
dire o in base agli effetti che pensiamo l’autore voglia suscitare.
Le ipotesi di chi fruisce di un’opera di finzione sulle intenzioni degli
autori non solo determinano come l’opera stessa verrà interpretata,
ma sono fondamentali anche per capire il mondo che questa ci
presenta, e per le nostre aspettative su quel mondo. È proprio
perché pensiamo che un mondo di finzione ci sia presentato per un
motivo preciso che anche il suo più piccolo dettaglio diventa
significativo. Viceversa, tendiamo a escludere dal senso che
attribuiamo a un’opera tutto quello che non ci sembra
intenzionalmente offerto dall’autore (come errori di battitura, sviste,
contraddizioni, e così via).
Questo non significa che sia necessario conoscere i propositi di un
autore per capire la sua opera: di fatto, si possono apprezzare un
romanzo o un film senza essere sicuri di quali siano le intenzioni
dell’autore, o addirittura fraintendendole. Quando interpretiamo
un’opera lo facciamo quindi in una maniera in qualche misura
indipendente dalle aspirazioni e dai propositi reali del suo autore.
Come possiamo dunque accordare questa irriducibile libertà
interpretativa con il fatto che, altrettanto innegabilmente, veniamo
guidati da quelle che pensiamo essere le intenzioni di chi sta dietro
l’opera? Nel contesto della critica letteraria, per riconciliare queste
due posizioni divergenti, viene usato il concetto di autore implicito.
Wayne C. Booth lo spiega così:

Scrivendo, [l’autore reale presenta] una versione implicita di sé stesso che
differisce sostanzialmente da quella che troviamo in opere altrui. […] L’immagine
che si fa il lettore di questa entità è uno degli effetti più importanti che può avere un
autore. Per quanto provi a essere impersonale, il suo lettore si costruirà
inevitabilmente l’immagine di un [autore implicito]

Booth 1961, 70-71.

L’autore implicito non è determinato dal solo autore o dalle sue
intenzioni: è chi fruisce l’opera che lo ‘costruisce’ dinamicamente
durante la fruizione. Chi legge si fa un’idea dell’autore implicito sulla
base della propria interpretazione, e al contempo interpreta il testo
in base alle intenzioni attribuite a questo autore implicito. Il lettore
ascrive, cioè, un certo significato agli oggetti, spazi, ed eventi
descritti in un romanzo attribuendoli alle intenzioni di questa figura.
In questo articolo vogliamo proporre una definizione di ‘(game)
designer implicito’ analoga a quella dell’autore implicito di Booth:

Il (game) designer implicito è l’idea che chi gioca si fa del designer sulla base della
propria interpretazione dell’esperienza di gioco (in senso lato, includendo cioè
elementi para-ludici e trovate di marketing). Chi gioca ascrive a questa figura tutte
le intenzioni relative alla creazione del gioco.

Van de Mosselaer & Gualeni, 2020

Nei videogiochi, il designer implicito non solo influenza
l’interpretazione dei mondi di gioco, ma anche come giocatrici e
giocatori si pongono interattivamente rispetto a questi mondi (tra cui
anche gli obiettivi che questi si prefissano al loro interno).
                                      DALL'ARTICOLO ORIGINALE
                     The Implied Designer and the Experience of Gameworlds
PUBBLICATO DA
                                   DiGRA
                          TRADUZIONE E ADATTAMENTO DI
                               Stefano Caselli
                                     Link

In altre parole, le intenzioni che chi gioca riconosce essere alla base
del funzionamento di un mondo di gioco determinano il modo in cui
darà un senso alla propria esistenza al suo interno.
Come accennato prima, la costruzione di un designer implicito non
avviene sulla base delle sole caratteristiche del gioco, ma anche in
relazione alla conoscenza ludica pregressa, alla sensibilità, alle
preferenze, e al contesto socioculturale di chi gioca. In questo
senso, la nostra idea di designer implicito fa leva su un approccio al
videogioco comprensivo, e che va oltre i limiti del gioco in questione
come artefatto: come in ogni altra forma espressiva, anche nel
videogioco il significato emerge dalla relazione dinamica tra opera,
interprete, e contesto.

Costruire il designer implicito
Nel corso di ogni partita, chi gioca costruisce un (game)
designer implicito interpretando elementi e caratteristiche del mondo
di gioco. Alcune delle intenzioni del designer implicito possono
essere chiaramente materializzate nel gioco, come ad esempio
quando gli NPC (non playable characters—personaggi non giocanti)
spiegano a chi gioca come usare il controller durante le fasi iniziali
di un gioco, o quando pop-up di testo suggeriscono a chi gioca cosa
fare o dove andare durante il gameplay.
Altre intenzioni possono manifestarsi in modi più sottili: tracce di
sangue sul pavimento possono dare indizi su cosa sia accaduto in
una stanza e consigliare il cammino da seguire per andare avanti.
Allo stesso modo, un nemico troppo forte incontrato in una nuova
area di gioco suggerisce di far salire il livello del proprio
personaggio (o di visitare altre aree prima di questa), e ricompense
opportune indicano quali azioni siano da considerare virtuose e
quali no. Tutti questi indizi ci vengono offerti per raffinare la nostra
comprensione del mondo di gioco e per darci un’idea di come
sarebbe desiderabile comportarsi al suo interno, e questo avviene
proprio perché percepiamo quegli elementi e indizi come
intenzionali.
C’è poi da tenere in considerazione il ruolo che hanno i fattori
soggettivi di chi gioca e interpreta durante la costruzione di
un ‘designer implicito’. Nello specifico, visto che prendere in
considerazione la vastissima gamma di fattori socioculturali in
campo porterebbe troppo lontano, ci concentreremo in massima
parte sull’influenza della cultura ludica pregressa. Possiamo
osservare questa influenza con particolare evidenza nei casi in cui
chi gioca non abbia sufficiente familiarità con certe convenzioni
videoludiche, e quindi non riesca a ricostruire correttamente le
intenzioni del designer durante una partita. Lo si vede bene in alcuni
video sul canale Youtube REACT, che inquadra diversi giocatori e
giocatrici mettendo in risalto le loro reazioni durante il gameplay.
In uno di questi, alcuni giocatori anziani sono alle prese con le
prime fasi del videogioco The Last of Us (Naughty Dog, 2013).
Quando il filmato introduttivo giunge al termine, la telecamera
attraverso cui osserviamo il mondo di gioco si fissa poco dietro alle
spalle della protagonista. È interessante osservare come i giocatori
anziani non riescano a riconoscere questo movimento di camera
come uno stimolo all’azione e come un’indicazione che il gioco è
passato ad una fase interattiva. Uno degli utenti anziani mostrati nel
video esprime disappunto perché la protagonista non sta facendo
nulla, per quanto le sia stato appena detto di cercare suo padre. Di
nuovo, non essendo dotati di sufficiente alfabetizzazione
videoludica, gli anziani giocatori del video non riescono a capire che
il movimento di camera e la richiesta di cercare il padre della
protagonista siano indicazioni di cosa il designer vuole che si faccia
in quel momento.
Succede qualcosa di simile quando gli stessi giocatori mettono le
mani sul videogioco di azione Grand Theft Auto V (Rockstar North,
2013). Molti di loro guidano le macchine del gioco con grande
attenzione, cercando di non investire nessuno e fermando il proprio
veicolo a ogni semaforo rosso. Alla domanda “perché ti sei fermata
così all’improvviso?” una signora esclama “c’era un segnale di
stop!”. Vedendo lo stop nel gioco, la signora ha intuito di doversi
fermare. Ha cioè costruito, come altri giocatori e altre giocatrici nello
stesso video, un designer implicito molto diverso da quello che
avrebbe costruito in possesso di una maggiore esperienza
videoludica, o di una maggiore conoscenza della serie di Gran Theft
Auto, nota per inseguimenti d’auto, sparatorie, e crimini di ogni tipo.

Gone Home (Credits: The Fulbright Company)
Altro elemento che contribuisce alla creazione più o meno accurata
di un designer implicito è la conoscenza pregressa di specifiche
convenzioni di genere. Videogiochi pubblicizzati come appartenenti
al genere horror, per esempio, vengono giocati con l’aspettativa che
il designer implicito vorrà indurre tensione in chi gioca, e
spaventarlo. Un titolo abbastanza noto per avere fatto leva su
questo aspetto è l’avventura in prima persona Gone Home (Gaynor
2013), videogioco che il materiale para-ludico (trailer, immagine di
copertina, suoni e aspetto del menu) presenta come appartenente
al genere horror, e ambientato in una casa isolata e misteriosa
durante una notte tempestosa. Le fasi iniziali del gioco calcano la
mano sulla tensione, accogliendo chi gioca con una nota sulla porta
d’ingresso che dice di non addentrarsi e non cercare di scoprire
cosa sia accaduto. Le aspettative vengono però sovvertite quanto ci
si rende conto che Gone Home non è un horror, ma una sorta di
romanzo di formazione interattivo.
Il (game) designer implicito è dunque un costrutto che emerge dal
rapporto interpretativo e interattivo tra le caratteristiche del
videogioco e quelle contestuali di chi gioca, che ovviamente
includono anche livello di abilità, esperienza videoludica, e
familiarità col genere o col franchise dell’opera in questione. Di
conseguenza, è ragionevole supporre che se sufficientemente bene
informati, diversi giocatori e giocatrici tenderanno a
costruire designer impliciti molto simili tra loro.

Mondi di gioco e designer impliciti
La costruzione del designer implicito è un’attività che prelude ogni
rapporto con i mondi di gioco digitali: chi gioca interpreta e reagisce
agli eventi in quei mondi solo dopo aver costruito un (game)
designer implicito.
Il mondo di gioco stesso e ogni oggetto o evento al suo interno
vengono interpretati come se avessero un significato preciso proprio
perché presentati intenzionalmente a chi gioca, analogamente a
quanto avviene in qualsiasi altra opera di finzione. Quando
leggiamo un romanzo, è ragionevole pensare che ogni elemento nel
mondo narrativo venga descritto per un motivo specifico. La
differenza tra un romanzo e un videogioco è che chi gioca non solo
è consapevole dell’artificialità del mondo di finzione, ma è tenuto ad
agire all’interno dello stesso.
Essere consapevoli dell’artificialità e intenzionalità dei mondi di
gioco significa spesso essere guidati nel nostro essere-al-mondo-di-
gioco da caratteristiche apparentemente banali. Cose che nella vita
reale sarebbero del tutto normali diventano importanti indizi quando
incontrati all’interno di mondi di gioco. Una pianta cresciuta in modo
curiosamente contorto, un particolare riflesso della luce, la direzione
in cui soffia il vento diventano tutti segnali significativi per chi gioca,
che li interpreta come elementi realizzati e presentati nel mondo di
gioco per un motivo preciso. Non è difficile trovare esempi di questo
tipo di inferenza.
In The Legend of Zelda: The Wind Waker (Nintendo EAD, 2002),
per esempio, chi gioca deve attraversare un labirinto infinito
composto di stanze con quattro porte ciascuna. Ogni stanza di
questo labirinto è abitata da un solo nemico armato di spada
(Phantom Ganon). Per uscire, chi gioca deve sconfiggere Phantom
Ganon e procedere poi passando dalla porta verso cui punterà la
sua spada, caduta a terra dopo la sua sconfitta.
The Legend of Zelda: The Wind Waker (Credits: Nintendo)
Il modo in cui si risolve il puzzle e si esce dal labirinto di The Wind
Waker sarebbe del tutto insensato nella vita reale: si deve infatti
fare attenzione alla porta che la spada di Phantom Ganon indica
dopo la morte del suo proprietario, e aprire quella per proseguire. In
un videogioco, scegliere una porta sulla base al modo in cui una
spada cada a terra ha un senso preciso, che viene suggerito
dall’attenta osservazione della situazione di gioco.
Non solo le stanze del labirinto sono del tutto vuote e le porte
identiche tra loro, cosa che rende la spada a terra uno dei pochi
elementi su cui basare la propria scelta, ma alla sconfitta di
Phantom Ganon questa cade a terra in maniera enfatica,
sottolineata da un effetto sonoro, e si allinea sempre curiosamente
in direzione di una delle porte della stanza. Con attenzione e
sufficiente esperienza si percepirà questo movimento della spada
non come un mero evento, ma come una precisa scelta
di design del (game) designer implicito.
Un altro chiaro esempio di un simile processo di inferenza avviene
quando chi gioca incontra, nel mondo di gioco, grandi quantità di
oggetti, armi o elementi in grado di risollevare l’energia del
personaggio principale, o quando il gioco effettua un auto-
salvataggio all’improvviso. Questi elementi suggeriscono
l’approssimarsi di una sfida particolarmente ardua o un incontro
pericoloso (come una boss fight).
Questo vale anche per videogiochi che non danno a chi gioca scopi
espliciti da soddisfare. I videogiochi sandbox, per esempio, sono
creati per offrire una gamma di possibilità più vasta di quelle offerte
dai giochi narrativi, e per consentire a chi gioca di scegliere
autonomamente cosa fare invece che imporgli obbiettivi e criteri di
successo. Questo non significa però che in questo caso le
esperienze di chi gioca siano indipendenti dal (game)
designer implicito. Al contrario chi gioca esplora, sperimenta e
conosce il mondo di gioco in modo creativo proprio perché pensa
che il designer implicito abbia previsto esattamente questo tipo di
attitudine e questo tipo di comportamento.
In generale, allora, chi gioca ascrive un certo significato al mondo di
gioco indipendentemente dal suo carattere narrativo, e sulla base di
un ampio spettro di canali espressivi. La barra degli HP (punti vita)
in qualsiasi gioco, per esempio, indica che il designer implicito ha
voluto rendere l’utenza vulnerabile al cospetto dell’ambiente o di
qualche nemico. La mancanza di HP in giochi
come Journey (Thatgamecompany, 2012) invita l’interpretazione
opposta, ovvero che il gioco è pensato per la cooperazione e
un’esplorazione pacifica e non per stimolare competizione e conflitti.
Anche certi oggetti o strumenti, come il piccone
in Minecraft (Mojang, 2011), anticipano azioni che si potranno
effettuare in gioco. Enormi specchi d’acqua, scogliere, e montagne
scoscese stabiliscono tendenzialmente un confine per lo spazio di
gioco, e sono chiare indicazioni che oltre con tutta probabilità non
c’è nulla da esplorare al di là di questi.
Il comportamento di chi gioca nei confronti di creature ostili, ostacoli
o puzzle, poi, fa spesso leva sulla convinzione che le sfide nel gioco
possano essere superate e che si possa vincere, per quanto la
situazione possa sembrare disperata. Percepire ogni problema
come artificiale implica che quel problema sia stato creato per avere
una soluzione. Se si trova una porta chiusa, per esempio,
ragionevolmente si pensa che da qualche parte intorno ci sia una
chiave per aprirla.
In conclusione, sapere che un mondo di gioco è artificiale influenza
in maniera determinante come ci relazioniamo o comportiamo al
suo interno. È proprio perché si costruisce un designer implicito che
l’esperienza di questi mondi diventa significativa. Essendo le
    intenzioni del designer implicitamente presenti nel modo stesso in
    cui il mondo di gioco si presenta e risponde a chi gioca, ogni
    elemento viene percepito come pensato per essere appositamente
    lì, e quindi come foriero di certi significati e finalizzato a suggerire
    determinati comportamenti. In altre parole, potremmo dire che chi
    gioca ha un ‘bias di sensatezza’. Tende cioè a interpretare come
    importanti, sensati, e pertinenti anche i più banali elementi di questi
    mondi.
    E questo vale per i mondi videoludici, ma più in generale per ogni
    mondo virtuale percepito come artificiale da chi vi fa ingresso.

    Bibliografia
•   Booth, W. C. 1983 [1961]. The Rhetoric of Fiction. Chicago (IL):
    Chicago University Press.
•   Gaynor, S. 2013. Gone Home [Windows]. Videogioco sviluppato e
    pubblicato da The Fulbright Company.
•   Mojang. 2011. Minecraft [Windows]. Videogioco diretto da Markus
    Persson e Jens Bergensten, e pubblicato da Mojang.
•   Naughty Dog. 2013. The Last of Us [PlayStation 3]. Videogioco
    diretto da Straley, B. e Druckmann, N. e pubblicato da Sony
    Computer Entertainment.
•   Nintendo EAD. 2002. The Legend of Zelda: The Wind
    Waker [Nintendo GameCube]. Videogioco diretto da Aonuma, E., e
    pubblicato da Nintendo.
•   Rockstar North. 2013. Grand Theft Auto V [PlayStation 4].
    Videogioco diretto da Benzies, L. e Sarwar, I., e pubblicato da
    Rockstar Games.
•   Van de Mosselaer, N. and Gualeni, S. (2020). “The Implied
    Designer and the Experience of Gameworlds”. Proceedings of
    DiGRA 2020.

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