Il danno morale: dal "dommage moral" alla San Martino del 2019 - Filodiritto

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                              Direttore responsabile: Antonio Zama

Il danno morale: dal “dommage moral” alla San Martino
                        del 2019
                                                 21 Febbraio 2022
                                                Luigi Maria Misasi

Abstract
Il danno morale è normalmente definito come l’ingiusto “turbamento dello stato d’animo” del danneggiato,
o anche come il “patema d’animo” o “stato d’angoscia transuente” generato da un illecito. Previsto
dall’Articolo 2059 Codice Civile, i danni morali, in passato, venivano riconosciuti solo in favore di
soggetti vittime di un illecito penale. Ma, nel tempo, la Cassazione ha modificato questo aspetto. Questa
breve disamina, che di certo non può avere il carattere dell’esaustività, si prefigge di evidenziare le
incertezze che da sempre accompagnano la materia del danno non patrimoniale, ed esaminare l’attuale
stato dell’arte.

Introduzione
L’espressione “danno morale”, traduzione letterale del francese “dommage moral”, sempre viva nei
contributi degli interpreti, non ha mai trovato, e non ancora oggi non trova riscontro nel dato normativo
italiano. Il nostro Legislatore le ha preferito la germanizzante locuzione “danno non patrimoniale”,
concettualmente non omologa, e da noi relativamente recente, dato che l’ordinamento italiano si occupa
esplicitamente del problema solo a partire dall’entrata in vigore del Codice Penale vigente in cui,
all’Articolo 185, quella locuzione fa la prima (espressa) comparsa. Il Codice Civile del 1942 la reitera,
dedicandovi l’Articolo 2059 Codice Civile.
Notevole è stato il travaglio, sfociato nel riconoscimento della riparabilità di una voce di pregiudizio che, in
esperienze più sensibili e disincantate, non richiesto sforzi. Su di una linea, forse vaga, di affinità di
esperienze giuridiche, giova ricordare, al di là della sicura possibilità riparatoria riconosciuta dal diritto
romane, come dottrina e giurisprudenza transalpine non abbiano mai esitato a leggere il termine “dommage
”, di cui all’Articolo 1382 Code Napoléon, come comprensivo di qualsivoglia conseguenza pregiudizievole
di un illecito, ed abbiano pertanto, sin dall’origine, acconsentito all’assegnazione di una somma di danaro
anche a ristoro del “dommage moral”.
Il dibattito non è mancato ma, differentemente da quanto si è verificato riguardo all’Articolo 1151 Codice
Civile del 1865, pur speculare all’Articolo 1832 Cod. Nap., non concerneva tanto l’an debeatur, quanto il
quomodo.
Anche nell’esperienza italiana, durante la vigenza del Codice Civile del 1865, non mancò chi, opponendosi
a quegli autori che opinavano essere immorale porre in relazione “dolore” e “denaro”, vivacemente osservò
la necessità di ristorare qualsiasi voce di pregiudizio, nel disegno di doverosa ed intesta tutela
dell’individuo.
Nel sempre lento processo di adeguamento legislativo alla realtà dell’esperienza, il Legislatore, pur con
scelta parziale, dispose l’obbligo riparatorio, ponendo fine ad una disputa ma, inevitabilmente, avviandone
una nuova, anche se su profili differenti.
La scelta codicistica del 1942 consente di annoverarne il risultano normativo nel cd. “sistema affermativo”,
ma restrittivo, in quanto riconosce l’obbligo riparatorio del danno non patrimoniale, ma limitatamente ai
casi contemplati dalla legge: a questo sistema può essere iscritto anche l’ordinamento tedesco, che
circoscrive i casi di riparazione e, tra i più significativi, si possono ricordare quello relativo al danno che è
conseguenza di una lesione corporale, di un’offesa alla salute, o della privazione della libertà (§ 847 B.G.B,
§ 253 e 1300 B.G.B). Soluzione fondamentalmente restrittiva è anche quella dell’ordinamento svizzero
(Artt.28 Codice Civile e 49 cod. obbl.).
Ma torniamo ai nostri giorni.

La nozione
All’interno dell’ampia categoria dei danni non patrimoniali rientra, quindi, il “danno morale”, il quale
consiste nell’ingiusto turbamento psicologico del danneggiato in conseguenza dell’illecito.
Tale turbamento viene solitamente inteso come “patema d’animo”, “stato d’angoscia transuente” o
“sofferenza psichica strettamente personale”, che il danneggiato subisce a seguito della lesione di un
interesse giuridicamente protetto, prescindendo dalla durata dall’intensità e dalla durata nel tempo della
sofferenza, le quali assumo rilievo non tanto al fine dell’esistenza del danno, ma solo alla quantificazione
del risarcimento: «il cd. danno morale può essere inteso e valutato alla stregua di “patema d’animo”, cioè
di sofferenza interiore o perturbamento psichico, vale a dire di “danno morale subiettivo”, od in termini di
pregiudizio arrecato alla dignità od integrità morale quale massima espressione della personalità di ogni
individuo» (v. Cass., n.1361/14).
Esclusa la risarcibilità in favore delle persone giuridiche («la cd. sofferenza transuente (…) non può essere
riconosciuta ad una persona giuridica che non è, logicamente, in grado di provarla», v. Cass. n.67/20)
, esso viene frequentemente riconosciuto in ambito lavorativo (es. ne ha diritto il lavoratore che non abbia
ottenuto l’adempimento di reintegra ed il risarcimento del danno). Il danno morale, inoltre, è stato
riconosciuto a favore delle vittime di violenza sessuale, tenuto conto – nella determinazione –
«dell’intensità della violazione della libertà morale e fisica nella sfera sessuale (…), del turbamento
psichico cagionato e delle conseguenze sul piano psicologico individuale e dei rapporti intersoggettivi,
degli effetti proiettati nel tempo nonché dell’incidenza del fatto criminoso sulla personalità della vittima»
(v. Cass., n.10802/18).
Per lungo tempo, il danno morale è stato fatto coincidere con il danno non patrimoniale, previsto
dall’Articolo 2059 Codice Civile, e identificato con unicamente col “patema d’animo transuente”
: di conseguenza, la risarcibilità coincideva con quella del danno non patrimoniale e, nello specifico, veniva
riconosciuta la risarcibilità ai sensi degli Artt.2059 Codice Civile e 185 Codice Penale.
Tale impostazione si basava su un’interpretazione restrittiva dell’Articolo 2059 Codice Civile, in
combinato disposto con l’Articolo 185 Codice Penale, limitando il riconoscimento di una somma di denaro
al solo caso di fatto reato: il danno morale era risarcibile solo quando l’illecito che lo aveva prodotto
integrava gli estremi di una fattispecie penale, ovvero fosse espressamente previsto per casi determinati.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n.184/1986, nel tentativo di conciliare la risarcibilità della lesione,
anche in assenza di reato, con il limite previsto dall’Articolo 2059 Codice Civile, affermò la tesi in base
alla quale l’Articolo 2059 Codice Civile ricomprendesse esclusivamente il “danno morale soggettivo”,
inteso come patema d’animo e, quindi, dichiarò non rientrare in tale norma tutti i pregiudizi non
patrimoniali scaturenti dalla lesione di diritti fondamentali, come tali disciplinati dall’Articolo 2043 Codice
Civile.

L’evoluzione giurisprudenziale
La tradizionale affermazione per cui il danno non patrimoniale si identificava con il cd. “danno morale
soggettivo” è ormai superata: già nel 2000, la Giurisprudenza affermava che il danno non patrimoniale e il
danno morale sono nozioni distinte (v. Cass., n.2367/00): il primo ricomprende ogni conseguenza
pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria di mercato, non possa
essere oggetto di risarcimento sebbene di riparazione, mentre il secondo nella cd. pecunia doloris.
Con le “sentenze gemelle” (nn.8827/03 e 8828/03) la Corte di Cassazione, con l’interpretazione
costituzionalmente orientata fornita dalla sentenza n.233/03 della Corte Costituzionale, ha fatto venir meno
l’iniziale coincidenza tra danno morale e danno non patrimoniale. In queste pronunce viene prospettata,
con un’incredibile ricchezza di argomenti, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’Articolo
2059 Codice Civile, tesa a ricomprendere qualsiasi danno di natura non patrimoniale derivante da lesione
di valori inerenti la persona: sia il danno morale soggettivo, sia il danno biologico, sia il danno derivante
dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti la persona.
Con la celebre sentenza delle Sezioni Unite (n.26972/08) la Cassazione ha confermato le precedenti
pronunce apportando, tuttavia, significative novità.
In particolare, i giudici di legittimità, partendo da principio che il risarcimento deve essere integrale, nel
senso che deve ristorante interamente il pregiudizio subito (ma non oltre), precisano che il danno di cui
all’Articolo 2059 Codice Civile, identificatosi con il danno determinato dalle lesioni inerenti la persona
non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria che non è suscettibile di suddivisione
in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, comunque denominati, risponde ad
esigenze meramente descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno: sarà
compito del giudicante affermare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome
attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul “valore-uomo” si siano verificate e provvedendo
all’integrale riparazione.
Accantonata definitivamente la figura del “danno morale soggettivo”, la “sofferenza morale” si
caratterizza come la sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di un più
complesso pregiudizio non patrimoniale: il danno morale ricorre in caso di turbamento dell’animo,
dolore intimo sofferto, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nell’identità personale, senza lamentare
degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte, si rientra nel perimetro del danno biologico,
del quale ogni patologia fisica o psichica, per sua natura intrinseca, ne costituisce componente.
Le Sezioni Unite, infatti, hanno statuito che il giudice potrà riconoscere e liquidare il solo danno
morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, per evitare –
dunque – una indebita duplicazione di risarcimento, tramite la congiunta attribuzione di danno
biologico e danno morale. Esse, inoltre, hanno abbandonato la concezione standardizzata ed uniforme del
dolore, con una maggiore considerazione per le diverse graduazioni con cui esso può manifestarsi:
l’intensità e la durata nel tempo, come già evidenziato precedentemente, non assumo rilevanza ai fini della
sussistenza del danno, ma solo ai fini della quantificazione del risarcimento.
In seguito a tali pronunce delle Sezioni Unite, il danno morale ha ricompreso anche la lesione della “dignità
della persona: il Legislatore ha introdotto, nel sistema normativo, il DPR n.181/2009 (in tema di danni alle
vittime del terrorismo) che definisce il danno morale come un «pregiudizio non patrimoniale costituito
dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sé considerato» ed il DPR n.37/2009 (relativo a
particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all’estero;
abrogato dal D. Lgs. n.66/10) che descrive il danno morale come la «sofferenza e il turbamento dello stato
d’animo, oltre che della lesione alla dignità della persona».

Il danno morale e il danno biologico: contrasti giurisprudenziali
La tesi che nega in assoluto la possibilità di un’autonoma liquidazione del danno morale è stata confermata
dalla giurisprudenza: il carattere unitaria della liquidazione del danno non patrimoniale ex Articolo 2059
Codice Civile preclude la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di
sofferenza patite dal soggetto leso, che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie (v. Cass.,
n.21716/13; più di recente: Cass., n.3035/18).
Tuttavia, non mancano pronunce della stessa Corte di Cassazione che tendono ad affermare l’autonomia
del danno morale (v. Cass., n.22585/13; n.11851/15): la Suprema Corte ha ritenuto che il danno morale,
pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in
quest’ultimo, e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto espressamente stabilito a livello
normativo nel caso sottoposto alla sua attenzione (Articolo 5, d.lgs. n.37/09) ma anche in ragione della
differenza ontologica esistente tra essi, corrispondendo -infatti- tali danni a due momenti essenziali della
sofferenza dell’individuo, ossia 1) il dolore interiore e 2) la significativa alterazione della vita quotidiana.
Ed ancora, «posto che ogni vulnus arrecato a un interesse della persona di rango costituzionale si
caratterizza per la sua doppia dimensione di danno relazionale (…) e danno morale (…) sono erronee le
statuizioni con cui il giudice di merito, dopo aver individuato un danno psicologico ulteriore rispetto al
danno morale, abbia liquidato un supposto danno biologico complessivo, precisando che il danno morale
è incluso nel calcolo tabellare, onde il suo riconoscimento avrebbe comportato una duplicazione
risarcitoria, senza nemmeno specificare i criteri di valutazione delle varie componenti del danno alla
salute in tutti i suoi aspetti dinamico-relazioni» (v. Cass., n.901/18).
Recentemente, la Suprema Corte (v. sentenza n.19158/18) ha affermato che nel procedere all’accertamento
e alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve tener conto, da una parte,
dell’insegnamento della Corte Costituzionale (sentenza n.235/14, pt.10.1 ss.) e, dall’altra, dell’intervento
legislativo sugli Artt.138 e 139 del Codice delle Assicurazioni (come modificati dall’Articolo 1, co.17 L.
n.124/17) la cui novellata rubrica (“danno non patrimoniale” e non più “danno biologico”) e il cui
contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale da quello morale. Ne
deriva che il giudice deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la compiuta fenomenologia della
lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto, quanto quello dinamico-
relazionale, destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto.
La misura, per così dire, “standard” del risarcimento, così come prevista dalla legge o dal criterio
equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito, può essere poi aumentata, nella sua
componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale,
eccezionali e estremamente peculiari: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili,
secondo l’id quod plerumque accidit, non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del
risarcimento de danno “dinamico-relazionale”.
Concludendo sul punto, «il giudice deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la compiuta
fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd.
danno morale, sub specie del dolore, come in ipotesi della vergogna, della disistima di sé, della paura,
ovvero della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale destinato ad incidere in senso peggiorativo
su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto» (v. Cass., n.19158/18).
Nonostante le numerose pronunce orientate in maniera divergente, l’orientamento che appare
predominante, nonché maggiormente rispettoso delle Sezioni Unite, sembra essere quello secondo il quale
le sofferenze morali costituiscono un pregiudizio del quale il giudice deve tener conto nella valutazione del
danno biologico, operando come fattore di correzione dei criteri standard di liquidazione del risarcimento,
non essendo tali sofferenze suscettibili di valutazioni medico-legali.
«In presenza di un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di
una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, anche personalizzato, e di una ulteriore
somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi (…) che non hanno fondamento medico-legale, perché non
aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità
permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (…); parimenti il danno non patrimoniale
conseguente alla lesione di beni-interessi diversi dalla salute ma costituzionalmente tutelati può essere
liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto dei pregiudizi patiti dalla
vittima nella relazione con sé stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue
possibili forme, id est il danno morale interiore)» (v. Cass., sez. lav., n.30578/19).

La differenza tra danno morale e danno esistenziale
Per danno esistenziale s’intende la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante della
persona, che incida sulla sfera reddituale della vittima alterando il suo sistema di espressione e di
realizzazione della personalità nel mondo esterno.
Da questa definizione è possibile cogliere gli elementi che delineano la differenza con il danno morale che
rimane circoscritto, invece, nella sfera interiore del sentire, non destinata all’obbiettiva esteriorizzazione.
La giurisprudenza ha ampiamente affermato la differenza strutturale delle due figure di danno
: nell’ambito del danno non patrimoniale ex Articolo 2059 Codice Civile sono individuabili la categoria del
danno morale, riconducibile alla sofferenza morale soggettiva, quella del danno biologico, riconducibile
alla lesione dell’integrità psicofisica e, cioè, alla compromissione della salute, e quella del danno
esistenziale, riconducibile alla sfera realizzatrice dell’individuo e attinente al “fare” del soggetto leso
(v. Cass., n.3023/10; più di recente: Cass., n.2788/19).
Senza voler inutilmente ripetersi e alla luce di quanto argomentato, anche in questo caso, la Cassazione ha
confermato il principio della “liquidazione unitaria ed integrale” del danno non patrimoniale, che deve
essere effettuata dal giudice, il quale, nell’ambito di una quantificazione congiunta, deve procedere ad una
liquidazione unitaria (v. Cass., n.7249/18; n.4878/19).

L’accertamento e la valutazione. La forma della riparazione
Fra le ragioni che hanno contribuito ad ammantare di disfavore la riparazione del danno non patrimoniale
vi è, sicuramente, la difficoltà di provare la sussistenza di quel pregiudizio e di quantificarne l’entità
pecuniaria. Di qui, il tentativo di avvalorare l’idea che, dati certi atti lesivi di determinati diritti (si pensi al
diritto della personalità) sia in re ipsa la conseguenza pregiudizievole non patrimoniale: il problema
probatorio non va enfatizzato, poiché la difficoltà della prova non equivale ad assoluta impossibilità di
dimostrare che un soggetto ha sopportato un pregiudizio (non patrimoniale), specie se si osserva che non
sussiste dubbio alcuno in merito alla legittimità di fare largo impiego delle presunzioni.
è sicura, comunque, l’operatività anche riguardo all’azione di riparazione, del fondamentale
principio di cui all’Articolo 2697 Codice Civile: l’onus probandi non può fare difetto in assenza di
un’espressa norma.
La capacità dell’attore a presentare un insieme di circostanze che siano «gravi, precise e concordati»
, l’intelligente impiego delle massime d’esperienza, la saggezza e la prudenza del giudice che dovrà, con
equilibrio, verificarne la sussistenza di codeste circostanze per risalire da un fatto noto a quello ignorato,
dovrebbero consentire di approdare, con ragionevole certezza, all’affermazione del diritto alla riparazione.
L’assegnazione di una somma di denaro è, certamente, il modo canonico di attuazione della riparazione,
ma il reale problema è quello della quantificazione: è nota la singolarità dell’esperienza italiana, adusa a
parsimoniose entità pecuniarie a favore di chi abbia sofferto un danno non patrimoniale. Non troppo tempo
fa si è affacciato, anche nel nostro ordinamento, qualche timido segnale di maggiore attenzione nei
confronti delle vittime, essendosi statuito sul quantum con adeguatezza rispetto all’atto lesivo ed al bene
violato, e non solo in dipendenza, quindi, del mutato potere d’acquisto della moneta.

Conclusioni: la “San Martino 2019” e l’attuale stato dell’arte
Nella Giurisprudenza di legittimità dell’ultimo periodo, la distinzione tra “sofferenze biologiche” e
“sofferenze morali” è tornata definitivamente in auge ed a risplendere: anche il “San Martino 2019”
si è posto in questa precisa direzione (v. ex multis: Cass., n.28989/19).
Nello specifico, in base a questi approdi, fenomeno logicamente inoppugnabile, è fondato ed occorre
distinguere tra la “sofferenza psicofisica” (ovvero “sofferenza biologica”, oppure “sofferenza
menomazione-correlata”) che si riferisce a plurimi tipi di dolori comportanti effetti invalidanti medico
legalmente apprezzabili ed accertabili (il “dolore neuropatico”, causato dall’interessamento del sistema
nervoso centrale e/o periferico; il “dolore psichico”, attivato da situazioni psico-relazionali; il “dolore
misto” tale da annoverare la presenza di più o tutte le componenti precedenti) e, dall’altro, la “sofferenza
morale” (o “patema d’animo”, noto ancora come “sofferenza interiore”) categoria fenomeno logicamente
variegata e complessa, inclusiva di tutti i risvolti negativi dell’evento dannoso apprezzabili in
relazione alla sfera del pathos, cioè la «sfera dell’intimo sentire» (v. Cass., n.4712/08).
Al centro di questa categoria si pone l’aspetto interiore, e “più intimo”, del danno non patrimoniale,
ossia la sofferenza morale in tutti i suoi aspetti: l’elenco, come puntualizzato dalla stessa Cassazione,
non è esaustivo: dolore dell’animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione, spaventi, angosce,
timori, rimorso, malinconia, stress, fastidi, frustrazioni, prostrazioni, disagi, dispiacere, imbarazzi,
sentimenti di rabbia ed altre innumerevoli emozioni negativo non costituiscono un numerus clausus.
Per “sofferenza interiore” la Suprema Corte, ad oggi, intende «il moto d’animo, manifestazione emotiva
che può o meno accompagnarsi alla lesione della salute e che non assume rilevanza clinica prescindendo
pertanto da qualsiasi verifica oggettiva secondo i criteri della medicina-legale» (v. Cass., n.9685/20).
Peraltro, proprio con quest’ultima ordinanza, con riferimento specifico all’Articolo 139 del Codice delle
Assicurazioni, ha condivisibilmente puntualizzato che «l’accertamento e la liquidazione del danno morale
(sofferenza interiore) non deve essere confuso con il differente criterio di “personalizzazione del danno
biologico”» essendo, quest’ultima, «del tutto estranea all’autonoma voce di danno inerente la sofferenza
interiore (danno morale)», sicché l’aumento del 20% previsto dal comma 3 dell’Articolo 139 Cod.Ass. non
riguarda il danno morale, ciò sia in riferimento a tale norma nella sua versione precedente (già citata) della
Legge n.127/17 atteso ivi l’espresso riferimento al “danno biologico”, sia in relazione alla nuova
formulazione, la quale rinvia dal comma 1 ai valori tabellari storicamente stabiliti per il solo danno
biologico.
Questa ordinanza si pone in piena conformità con la restaurata distinzione tra danno morale e danno
biologico, risultando (finalmente) isolato (l’infelice) precedente n.14364/2019, che in un caso con rilevanti
menomazioni fisiche, aveva sostenuto che le modalità di liquidazione del danno morale si sarebbero
identificate nella personalizzazione del danno biologico, come operata dai giudici di merito.
Deve aggiungersi come rilevante giurisprudenza, sempre valorizzando la distinzione tra le due categorie di
danno, abbia ribadito come, tramite la categoria del danno morale, il giudice possa attribuire rilievo a
particolari aspetti dell’elemento soggettivo della condotta tali da aggravare la sofferenza interna del
danneggiato (il cd. danno morale aggravato dalla condotta). Ad esempio, i limiti massimi tabellari, di cui
alle Tabelle di Milano, possono anche essere superati «quando la specifica situazione presa in
considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanza di cui il parametro tabellare non possa aver
già tenuto conto», situazione che può verificarsi quando l’illecito è stato commesso con dolo, ad esempio
(v. Cass., n.32787/19).
Ad oggi, sembra che la Cassazione abbia archiviato in modo netto la dottrina della reductio ad unum
, supportata dalle Sezioni Unite denominate “San Martino 2008”, per le quali il danno biologico avrebbe
dovuto “fagocitare” il danno morale.
Ciò premesso, la questione che continua ad insistere sul tavolo degli interpreti, è se in questo rinnovato
scenario bipartito possa continuare a trovare spazio la tradizionale presunzione del danno morale
“standard” da lesione psicofisica, ossia, più specificatamente, quella quota di “dolore morale” di base
presunta nella canonica spannometrica misura tra ¼ ed ½ del danno biologico “standard” che
contraddistingueva il sistema di liquidazione precedente il “San Martino 2008” ed è stato poi ripreso, e
consolidato, proprio onde scongiurare ricadute negative per i danneggiati a seguito della reductio
dell’11.11.2008, in seno alle Tabelle di Milano post SS.UU. del 2008.

TAG: Danno morale, Danno biologico, Danno esistenziale

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