Gennaio-marzo 2020. Raccolta di Flash news dal sito www.ilcosmo.net

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                                   Gennaio-marzo 2020.

                        Mappa dei giacimenti di ghiaccio d'acqua nel sottosuolo di Marte.

            Questa raccolta consente l’archiviazione
 personale di tutte le Flash news comparse sulla
        homepage del nostro sito nel periodo sopra
                                                             indicato.

Non vi sono ulteriori commenti alle notizie. Sono
         impaginate in ordine cronologico di uscita.

La redazione.

Assemblato da Luigi Borghi.

Associazione Culturale “Il C.O.S.MO.” (Circolo di Osservazione Scientifico-tecnologica di Modena); C.F.:94144450361                     pag.: 1 di   54
Questa raccolta, le copie arretrate, i suoi articoli, non possono essere duplicati e commercializzati. È vietata ogni forma di riproduzione, anche
parziale, senza l’autorizzazione scritta del circolo “Il C.O.S.Mo”. La loro diffusione all’esterno del circolo e’ vietata.
Può essere utilizzata solo dai soci per scopi didattici. - Costo: Gratuito sul WEB per i soci .
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1/1/2020- Acqua su Marte: novità!
Abbiamo finito il 2019 con due notizie interessanti, non possiamo che cominciare il 2020 con una
molto promettente per l’esplorazione spaziale. La tanto discussa e più volte indirettamente trovata
acqua su Marte sembra sia veramente più accessibile del previsto. In questo articolo di Alive
Universe, tratto da uno studio pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters, intitolato
"Widespread Shallow Water Ice on Mars at High and Mid Latitudes", sembra proprio che si possa
trovare nel “cortile davanti all’uscio” della colonia marziana con la paletta e il secchiello. Beh..
non sarà proprio acqua, sarà ghiaccio sporco, ma pur sempre facile da recuperare! È la notizia
che potrebbe dare il via ad una vera missione umana sul pianeta rosso. Il ghiaccio d’acqua infatti è
l’elemento chiave per generare cibo, acqua potabile, combustibile per i razzi e ossigeno da
respirare.
Basta solo avere energia (tanta … e questo è un altro elemento critico che si risolverà a mio avviso
solo con il nucleare. Ne abbiamo già parlato e ne riparleremo successivamente).
Insomma, oltre ai probabili laghi sotterranei, a decine di metri di profondità, dove l’acqua è allo
stato liquido (ma certamente non potabile), ora sembra si possa recuperare ghiaccio con mezzi
molto meno complicati di una perforatrice (visti anche gli scarsi risultati del lander InSight).
Questa novità ora crea anche una profonda discussione tra gli addetti al lavori sulla scelta del
luogo di atterraggio del futuro equipaggio: meglio il caldo (si fa per dire) dei tropici marziani (ma
poveri di acqua) o sono più adatte le zone settentrionali, con un’atmosfera più densa (ideale per
decelerare la nave di arrivo) e ricche di ghiaccio?
Staremo a vedere.
Eccovi l’articolo:
https://agupubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1029/2019GL083947
https://aliveuniverse.today/speciale-missioni/marte/4274-marte-acqua-a-portata-di-mano

                                                 Marte: acqua a portata di mano.

   Questa mappa mostra il ghiaccio d'acqua nel sottosuolo di Marte: i colori freddi indicano
    profondità minori (circa 30 centimetri), i colori caldi, profondità maggiori. La zone nere
indicano aree piene di regolite e polveri sottili, in cui un veicolo spaziale affonderebbe. La zona
 incorniciata indica invece il luogo ideale per far atterrare una futura missione con astronauti.
Alla mappa, sono stati sovrapposti i siti di atterraggio delle missioni robotiche passate, presenti e
                  future.Crediti: NASA/JPL-Caltech/ASU - Elisabetta Bonora

Associazione Culturale “Il C.O.S.MO.” (Circolo di Osservazione Scientifico-tecnologica di Modena); C.F.:94144450361                     pag.: 2 di   54
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I futuri astronauti che atterreranno su Marte, potranno trovare un po' d'acqua con un colpo
di pala. Una recente mappa mostra, infatti, che in alcuni punti il ghiaccio d'acqua si trova
sepolto sotto appena 2,5 centimetri di terreno ed importanti serbatoi entro i 30 centimetri di
profondità.

Dati alla mano, il team di ricerca ha individuato una grande zona in Arcadia Planitia ideale
per lo sbarco di futuri esploratori umani.

La ricerca di acqua sul Pianeta Rosso rappresenta una vera e propria caccia al tesoro per la NASA
perché è una risorsa indispensabile per pianificare missioni con astronauti. Invece di trasportarla
dalla Terra, trovare acqua in loco semplificherebbe notevolmente le operazioni, sia in termini
economici che ingegneristici e consentirebbe facilmente di poter accedere ai sui elementi base,
idrogeno ed ossigeno, per una serie di attività indispensabili.
Ogni missione con equipaggio su Marte deve tenere conto di due requisiti generali: interesse
scientifico e praticità.

Come spiega la press release, “La maggior parte degli scienziati predilige le medie latitudini
settentrionali e meridionali, dove c'è luce solare abbondante e temperature più calde rispetto ai
poli. Ma c'è una forte preferenza per l'atterraggio nell'emisfero settentrionale che, generalmente,
ha quote topografiche più basse e, quindi, offre più atmosfera per rallentare un veicolo spaziale in
fase di atterraggio. Ed ora sappiamo che contiene anche abbondante ghiaccio d'acqua, il che
rafforza l'idea di far sbarcare lì una missione con equipaggio".
Ma non solo. L'individuazione di acque sotterranee, ghiacciate e non, può costituire un ulteriore
passo in avanti nell'individuazione di habitat adatti ad ospitare la vita. Tale aspetto unitamente
al problema delle bizzarre fluttuazioni di metano ed all'altrettanto strano andamento delle molecole
di ossigeno potrebbe aiutare gli scienziati a ricostruire il puzzle ancora incompreso sull'abitabilità di
Marte passata e presente.

Ormai grazie a decenni di esplorazione, sappiamo per certo che l'acqua scorreva in passato sul
pianeta, creando laghi e fiumi. Oggi però, è completamente sparita dalla vista se non, forse, per
qualche fugace apparizione stagionale mai veramente ed unanimemente confermata. L'acqua ancora
presente sul pianeta si trova congelata (forse non tutta! N.d.R.) sotto la superficie.

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters, intitolato
"Widespread Shallow Water Ice on Mars at High and Mid Latitudes", mostra una mappa
aggiornata della risorsa basata sui dati rilevati dal Mars Reconnaissance Orbiter (MRO) e
da Mars Odyssey.
In particolare, gli scienziati si sono basati sui dati provenienti da tre strumenti: il Climate
Sounder di MRO ed il Thermal Emission Imaging System (THEMIS) di Mars Odyssey,
sensibili al calore ed il Gamma Ray Spectrometer (GRS) sempre di Mars Odyssey che può
identificare l'acqua ed altri elementi nella regolite marziana.

L'autore principale, Sylvain Piqueux del Jet Propulsion Laboratory della NASA, ha dichiarato
nel comunicato stampa: "Stiamo continuando a raccogliere dati sul ghiaccio sepolto su Marte,
concentrandoci sui luoghi migliori in cui gli astronauti potranno atterrare".
Inoltre, sono stati effettuati controlli incrociati con i dati radar che mostrano i depositi di ghiaccio
sotterranei e con immagini che lander, rover ed orbiter hanno fornito nel corso degli anni.

Associazione Culturale “Il C.O.S.MO.” (Circolo di Osservazione Scientifico-tecnologica di Modena); C.F.:94144450361                     pag.: 3 di   54
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                                                                                                    Nel 2008, ad esempio, il
                                                                                                    lander Phoenix catturò immagini
                                                                                                    del ghiaccio nascosto subito
                                                                                                    sotto la superficie. (in alto).
                                                                                                    Altre conferme della presenza di
                                                                                                    ghiaccio a profondità ridotte
                                                                                                    arriva dagli impatti meteorici
                                                                                                    monitorati dalle sonde in orbita.
                                                                                                    Ne è un esempio il cratere da
                                                                                                    impatto largo 6
                                                                                                    metri, fotografato da MRO nel
                                                                                                    2008 e poi nel 2009, a tre mesi
                                                                                                    distanza. (In basso).

                                                                                                    Crediti: NASA/JPL-
                                                                                                    Caltech/University of
                                                                                                    Arizona/Texas A&M
                                                                                                    University.

                                                                                                    Questa analisi è solo un passo
                                                                                                    verso la comprensione del
                                                                                                    ghiaccio d'acqua sepolto di
                                                                                                    Marte.     Piqueux     sta  già
                                                                                                    pianificando uno studio più
                                                                                                    completo che tenga conto degli
                                                                                                    andamenti stagionali, perché la
                                                                                                    sua accessibilità e abbondanza
                                                                                                    possono variare nel tempo.
                                                                                                    Altre informazioni su questo
                                                                                                    articolo
                                                                                                    Copyright:© Copyright Alive
                                                                                                    Universe

                                                                                                    Commentato da Luigi Borghi.

6/1/2020 – Quando e come la materia inorganica diventa vita?
L’abiogenesi è quella branca della scienza che studia il processo naturale con il quale la vita, come
semplici composti organici, si origina a partire da materia non vivente. Sulla Terra non è stato un
singolo evento ma piuttosto un processo graduale di aumento di complessità del sistema. Un
processo che coinvolge la biologia molecolare, la paleontologia e la biochimica che insieme stanno

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cercando di dare strumenti all’astrobiologia, cioè il ramo scientifico che si occupa della vita oltre
la Terra.
La risposta alla “domandina” del titolo di certo sconvolgerebbe, anzi sconvolgerà buona parte del
nostro modo di vedere il mondo e l’universo intero. È da molto tempo che la comunità scientifica
sta lavorando a questo quesito. Un problema che va ben oltre la teoria dell'evoluzione di Charles
Darwin. Un tema intrigante che ho affrontato anche nell’ultimo libro “La grande avventura del
quark Q” (http://www.edizioniilfiorino.com/catalogo/scienze-e-varie/0580/la-grande-avventura-
del-quark-%E2%80%9Cq%E2%80%9D.htm) e cioè: quando, come e perché una aggregazione di
molecole complesse, da materia inerte diventa vita?
Nel 1953 un giovane chimico americano, Stanley Miller, propose al suo professore Harold Urey un
esperimento per verificare l’ipotesi del biochimico russo Alexander Oparin che la vita, nella fase
iniziale del suo processo evolutivo sulla Terra, si sia generata dal mondo inorganico.
Fecero quindi un esperimento (di Miller-Urey) che dimostrò per la prima volta che nelle giuste
condizioni ambientali (calore e fulmini) le molecole organiche si possono formare spontaneamente
a partire da sostanze inorganiche più semplici (idrogeno, ammoniaca, metano e acqua).
Ma non era ancora vita!
L'astrobiologia è un campo di studio giovane, relativamente parlando, e una delle domande urgenti
e non banali che deve affrontare è: come si può definire la vita? E di conseguenza come si definisce
l'abitabilità di un pianeta extrasolare? Sembra banale, ma non lo è! Nascere, vivere, alimentarsi,
difendersi, riprodursi e morire, sono attitudini che, oltre che nei vegetali sono presenti anche nella
vita artificiale di un robot dotato di AI.
Non c’è bisogno di andare su un pianeta alieno per scoprire che la vita, anche qui sulla Terra, nel
momento in cui riesce a manifestarsi, è poi quasi impossibile da estinguere. Le cinque gradi
estinzioni note sul nostro pianeta hanno dimostrato che qualche forma di vita riesce sempre a
resistere e ad evolversi. Tutta la “vita” che conosciamo noi è basata sul DNA e sul carbonio: sarà
così anche altrove?
L’articolo che vi propongo tratto da Smithsonian Magazine, fa il punto ad oggi di questa
interessantissima branca della scienza.
Eccolo:
Fonte:https://www.smithsonianmag.com/science-nature/searching-key-lifes-beginnings-180972759/

                                       Alla ricerca della chiave per l'inizio della vita

                                                                                                  La rappresentazione della Terra
                                                                                                    di un artista durante l'Eone
                                                                                                  Archeano, da 4 a 2,5 miliardi di
                                                                                                 anni fa, quando la vita consisteva
                                                                                                   solo di microbi monocellulari
                                                                                                  senza nucleo (procarioti). Come
                                                                                                 questi organismi primitivi si siano
                                                                                                  formati per la prima volta dalle
                                                                                                 reazioni chimiche rimane uno dei
                                                                                                      più grandi misteri della
                                                                                                      scienza. (Peter Sawyer /
                                                                                                      Smithsonian Institution)

Associazione Culturale “Il C.O.S.MO.” (Circolo di Osservazione Scientifico-tecnologica di Modena); C.F.:94144450361                     pag.: 5 di   54
Questa raccolta, le copie arretrate, i suoi articoli, non possono essere duplicati e commercializzati. È vietata ogni forma di riproduzione, anche
parziale, senza l’autorizzazione scritta del circolo “Il C.O.S.Mo”. La loro diffusione all’esterno del circolo e’ vietata.
Può essere utilizzata solo dai soci per scopi didattici. - Costo: Gratuito sul WEB per i soci .
Gennaio-marzo 2020. Raccolta di Flash news dal sito www.ilcosmo.net
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Dagli esopianeti alle reazioni chimiche, gli scienziati si avvicinano alla risoluzione del grande
mistero di come la vita si forma dalla materia inanimata.

Di David W. Brown, SMITHSONIANMAG.COM, 30 LUGLIO 2019.
Prima del 1976, quando Viking 1 e 2 diventarono il primo veicolo spaziale ad atterrare e operare
con successo sulla superficie di Marte, l'immaginazione globale desiderava disperatamente un
pianeta rosso che ospitasse la vita. I lander Viking furono progettati per testare i microbi, ma la vera
speranza, sostenuta anche dagli scienziati planetari più navigati, era che la navicella spaziale della
NASA avrebbe scoperto una vita complessa su Marte - qualcosa anche di primitivo. Dopo tutto,
Marte era la nostra ultima, migliore speranza dopo che gli astronomi (e la navicella
spaziale Mariner 2 ) per sempre hanno sconfitto il concetto di dinosauri che calpestavano paludi
umide e venusiane. Era Marte o nulla; Mercurio era troppo vicino al sole e, al di là della fascia degli
asteroidi, si credeva che vi si trovassero terre senza microbi, giganti gassosi e lune ghiacciate.
Oggi gli oceani della luna di Giove Europa sono quelli che erano le paludi di Venere e i canali di
Marte per il ventesimo secolo: forse la migliore opzione per annientare la solitudine umana. La
prossima nave ammiraglia dei pianeti esterni della NASA, Europa Clipper , tenterà di determinare
l'abitabilità della luna ghiacciata. Qualche futuro lander o nuotatore dovrà trovare la vita se è lì. La
zona abitabile del sistema solare ora include, potenzialmente, ogni pianeta del sistema
solare. Encelado e Titano , orbitando Saturno, sono buoni candidati, così come sono Tritone intorno
a Nettuno . Come l'acqua, la vita potrebbe essere ovunque.
Eppure, l’abbiamo trovata solo qui, dove pullula, dove è apparentemente indistruttibile, nonostante
molteplici eventi a livello di estinzione. Un asteroide si scontra con la Terra e cancella quasi tutto? I
microbi ospitano le crepe causate dall'impatto killer e tutto ricomincia. Sulla base del nostro
campione di un solo mondo, una volta che la vita inizia, è molto, molto difficile far andare via. E
così continuiamo a cercare.
L'accendersi della vita dalla mancanza di vita, noto come abiogenesi, è un processo che gli
scienziati stanno solo iniziando a capire.
Astronomi, biologi, chimici e scienziati planetari lavorano insieme per ricostruire minuziosamente
un puzzle che attraversa discipline e oggetti celesti. Ad esempio, le condriti carbonacee - alcune
delle rocce più antiche del sistema solare - sono state recentemente scoperte per ospitare l'acido
piruvico, che è essenziale per il metabolismo. Quando i condriti piovvero su questo pianeta come
meteoriti, potrebbero aver fertilizzato una Terra senza vita. Questa teoria non risponde alla
domanda onnicomprensiva, "Da dove veniamo?" Ma rappresenta ancora un altro indizio nella
ricerca di come tutto ebbe inizio.
L'abiogenesi non richiede nemmeno il DNA - o almeno, non il DNA come esiste in tutte le
forme di vita conosciute.
Il DNA è composto da quattro basi nucleotidiche, ma all'inizio di quest'anno i genetisti hanno creato
un DNA sintetico usando otto basi . (Lo hanno soprannominato hachimoji DNA.) Questo strano
codice genetico può formare doppie eliche stabili. Può riprodursi. Può persino mutare. Gli scienziati
non hanno creato la vita; hanno tuttavia dimostrato che la nostra concezione della vita è nella
migliore delle ipotesi provinciale.
“Simile alla Terra”
Mentre il lavoro nei laboratori aiuterà a definire come la vita potrebbe nascere dalla materia
inanimata, i telescopi spaziali come Keplero , che ha terminato le operazioni lo scorso anno,
e TESS , lanciato lo scorso anno, stanno trovando nuovi pianeti da studiare. Questi veicoli spaziali
cercano esopianeti usando il metodo del transito, rilevando minime diminuzioni nella luce di una
stella mentre un pianeta passa tra di essa e noi. Venticinque anni fa, l'esistenza di pianeti in orbita
attorno ad altre stelle era ipotetica. Ora gli esopianeti sono reali come quelli che circondano il

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nostro sole. Keplero da solo ha scoperto almeno 2.662 esopianeti. La maggior parte è inospitale per
la vita come la conosciamo, anche se una manciata di loro è caratterizzato come "simile alla Terra".
"Quando diciamo:" Abbiamo trovato il pianeta più simile alla Terra ", le persone a volte indicano
che il raggio è giusto, la massa è giusta e deve trovarsi nella zona abitabile", afferma John Wenz,
autore di The Lost Planets , la storia dei primi tentativi di caccia agli esopianeti, che sarà pubblicata
alla fine dell'anno da MIT Press. “Ma sappiamo che la maggior parte di quegli esopianeti
scoperti sono attorno a stelle nane rosse. Il loro ambiente non è destinato ad essere molto
simile alla Terra, e c'è una buona probabilità che molti di loro non abbiano atmosfere.”
Non è che la Terra sia il pianeta più speciale di tutto l'universo. Nel nostro sistema solare, Venere si
registrerebbe facilmente ai cacciatori di esopianeti alieni come gemello della Terra. Ma i pianeti
come la Terra sono più difficili da trovare, sia perché sono più piccoli dei giganti gassosi, sia perché
non orbitano attorno alle loro stelle ospiti tanto quanto i pianeti attorno a nane rosse.
"Potrebbe essere che i veri pianeti simili alla Terra siano incredibilmente comuni, ma che non
abbiamo le risorse da dedicare alla loro ricerca", afferma Wenz. L'esopianeta di Earth 2.0 più
promettente trovato finora è Kepler-452b, che è un po' più grande della Terra, con un po' più di
massa, e ha una piacevole orbita di 385 giorni attorno a una stella simile al sole.
Il problema è che potrebbe non esistere , come suggerito da uno studio dell'anno scorso. Potrebbe
essere semplicemente un rumore statistico, poiché il suo rilevamento era ai margini delle
capacità di Keplero e il veicolo spaziale è morto prima che fossero condotte ulteriori
osservazioni.
Una volta lanciato nei primi anni del 2020, il James Webb Space Telescope prenderà di mira
molti dei pianeti extrasolari scoperti da Keplero e TESS. Sarà solo in grado di risolvere i mondi
distanti in un pixel o due, ma risponderà a domande urgenti nella scienza degli esopianeti, come se
un pianeta in orbita attorno a una stella nana rossa possa mantenere la sua atmosfera nonostante i
frequenti bagliori ed eruzioni da tali stelle. JWST potrebbe anche presentare prove indirette di
oceani alieni.
"Non vedrai i continenti", dice Wenz. "[Ma] potresti guardare qualcosa e vedere un punto blu, o il
tipo di sfasamento che potresti immaginare da un ciclo di evaporazione continuo."
La zona di abiogenesi.
Il Catalogo degli esopianeti abitabili elenca attualmente 52 mondi al di fuori del nostro sistema
solare che potrebbero sostenere la vita, anche se le notizie potrebbero non essere così
elettrizzanti. Essere alla giusta distanza da una stella affinché le temperature superficiali si
collochino sopra il gelo e sotto l'ebollizione non è l'unico requisito per la vita, e certamente non è
l'unico requisito per iniziare la vita . Secondo Marcos Jusino-Maldonado, un ricercatore
dell'Università di Puerto Rico a Mayaguez, la quantità corretta di luce ultravioletta (UV) che
colpisce un pianeta dalla sua stella ospite è un modo in cui la vita potrebbe sorgere da molecole
organiche in ambienti prebiotici (anche se non l'unico modo).
"Per reazioni che consentano la comparsa dell'abiogenesi, un pianeta deve trovarsi all'interno della
zona abitabile perché ha bisogno di acqua di superficie liquida", afferma Jusino-
Maldonado. "Secondo la teoria della zuppa primordiale, le molecole e l'acqua salata reagiscono e
alla fine originano la vita". Ma si ritiene che quelle reazioni scatenino solo in un luogo chiamato
zona di abiogenesi. "Questa è l'area critica intorno alla stella in cui le molecole precursori
importanti per la vita possono essere prodotte da reazioni fotochimiche".
Le radiazioni UV potrebbero essere state la chiave per innescare reazioni che portano alla
formazione di elementi costitutivi della vita sulla Terra, come nucleotidi, aminoacidi, lipidi e infine
RNA. La ricerca del 2015 ha suggerito che l'idrogeno cianuro - probabilmente portato sulla Terra
quando il carbonio nei meteoriti ha reagito con l'azoto nell'atmosfera - avrebbe potuto essere un
ingrediente cruciale in queste reazioni guidate dalla luce UV.

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Per testare ulteriormente la teoria, l'anno scorso, come riportato nelle riviste Science
Advances and Chemistry Communications , gli scienziati hanno usato lampade UV per irradiare una
miscela di idrogeno solforato e ioni di acido cianidrico. Le risultanti reazioni fotochimiche sono
state quindi confrontate con la stessa miscela di sostanze chimiche in assenza di luce UV e i
ricercatori hanno scoperto che le radiazioni UV erano necessarie per le reazioni per produrre i
precursori dell'RNA necessari per la vita.
Affinché la fotochimica UV produca questi elementi costitutivi cellulari, la lunghezza d'onda della
luce UV deve essere compresa tra 200 e 280 nanometri. Jusino-Maldonado afferma che nel suo
lavoro questo concetto è stato applicato al modello esopianeta abitabile . "Di tutti gli esopianeti
abitabili, solo otto di essi si trovano nella zona abitabile e nella zona di abiogenesi."
Sebbene tutti e otto si trovino sia in zone abitabili che in zone di abiogenesi, nessuna è
particolarmente favorevole alla vita, afferma Jusino-Maldonado. Ognuno degli otto mondi è o una
"super-Terra" o un "mini-Nettuno". I candidati più probabili sono Kepler-452b (se esiste) e forse τ
                                                                              Cet e (se il suo raggio è
                                                                              appropriato). Non sono
                                                                              stati ancora scoperti
                                                                              mondi delle dimensioni
                                                                              della Terra sia nelle
                                                                              zone abitabili che in
                                                                              quelle di abiogenesi.

                                                                                                                   Sopra: Un mosaico di
                                                                                                                   Europa, la quarta
                                                                                                                   luna più grande di
                                                                                                                   Giove,       fatta     di
                                                                                                                   immagini            prese
                                                                                                                   dall'astronave Galileo
                                                                                                                   nel 1995 e 1998.
                                                                                                                   Si ritiene che Europa
                                                                                                                   abbia      un     oceano
                                                                                                                   sotterraneo       globale
                                                                                                                   con più acqua della
                                                                                                                   Terra, rendendolo uno
                                                                                                                   dei      luoghi       più
                                                                                                                   promettenti           del
                                                                                                                   sistema solare per gli
                                                                                                                   astrobiologi a cercare
                                                                                                                   la vita. (NASA / JPL-
                                                                                                                   Caltech       /     SETI
                                                                                                                   Institute)

                                                                                                                   Sotto: Grafico degli
                                                                                                                   esopianeti
                                                                                                                   potenzialmente
                                                                                                                   abitabili. (Abel
                                                                                                                   Mendez / Planetary
                                                                                                                   Habitability Lab /
                                                                                                                   UPR-Arecibo)

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Standard di impostazione.
Mentre la ricerca di un mondo alieno veramente abitabile avanza, gli astrobiologi stanno tentando di
creare un quadro per classificare, discutere e studiare questi pianeti. I grandi sforzi scientifici per
lavorare richiedono standard di definizione e misurazione. L'astrobiologia è un campo di studio
giovane, relativamente parlando, e una delle domande urgenti e non banali che deve affrontare è,
come si definisce l'abitabilità? Come definisci la vita?
"Lavoro su questo problema da dieci anni", afferma Abel Mendéz, astrobiologo planetario e
direttore del Planetary Habitability Laboratory dell'Università di Puerto Rico ad Arecibo. “Sapevo
che il problema dell'abitabilità aveva bisogno di lavoro. Tutti avevano a che fare con il modo di
definirlo. ” All’inizio di quest'anno, alla 50° conferenza annuale sulla scienza lunare e planetaria a
Houston, in Texas, Mendéz ha presentato il suo recente lavoro su un modello di abitabilità della
superficie globale applicabile ai pianeti sia nel nostro sistema solare che al di fuori di esso.
Dopo aver analizzato la letteratura, si rese conto che gli astrobiologi non erano i primi a incorrere in
problemi di definizione, categorizzazione e uniformità in termini di abitabilità. Quarant'anni fa, gli
ecologisti stavano affrontando la stessa sfida. "Tutti stavano definendo l'abitabilità come
desideravano in diversi documenti", afferma Mendéz. Negli anni '80, gli ecologi si sono uniti per
creare una definizione formale. Hanno definito le medie per misurare l'abitabilità, sviluppando un
sistema con un intervallo compreso tra 0 e 1, con 0 inabitabile e 1 altamente abitabile.
Avere una struttura singolare era fondamentale per il progresso dell'ecologia, ed è stata gravemente
carente di astrobiologia, dice Mendéz. La costruzione di un modello di abitabilità per interi pianeti è
iniziata con l'identificazione di variabili che possono essere misurate oggi. "Una volta sviluppato un
sistema formale, è possibile costruire sistemi da quello e creare una libreria di abitabilità per
contesti diversi."
Innanzitutto, Mendéz ha dovuto affrontare l'unica misura di idoneità dell'habitat di "1" nell'universo
noto. "Se stai proponendo un modello di abitabilità, devi far funzionare la Terra", afferma. Il suo
laboratorio ha usato il suo modello per confrontare gli habitat di vari biomi, come deserti, oceani,
foreste e tundra.
“Se calcoliamo l'abitabilità di una regione — non considerando la vita, ma quanta massa ed energia
è disponibile per la vita indipendente — si tratta più di una misurazione ambientale. Correliamo ciò
con una misurazione effettiva della produttività biologica in una regione: la nostra verità
fondamentale. Questo è il nostro test. ” Quando il suo gruppo ha mappato l'abitabilità ambientale e
la produttività biologica, hanno scoperto quelle che Mendéz ha descritto come “ belle correlazioni ”.
Oggi, il modello di Mendéz per l'abitabilità prende in considerazione la capacità dei pianeti
rocciosi di sostenere le acque superficiali, l'età e il comportamento delle loro stelle, la
dinamica orbitale e le forze di marea che agiscono su questi mondi.
Il modello considera la massa e l'energia all'interno di un sistema e la percentuale di tale massa ed
energia disponibile per una specie o biosfera. (Quella percentuale è la parte più difficile
dell'equazione. Non si potrebbe rivendicare, per esempio, il 100% della massa terrestre, disponibile
per la vita.)
Limitato allo "strato sottile vicino alla superficie di un corpo planetario", il modello fissa
l'abitabilità della superficie della Terra a 1. Marte ha un parametro inferiore o uguale a 0,034
e Titano risulta essere inferiore o uguale a 0,000139.
Il modello è indipendente dal tipo di vita in esame - animali contro piante, per esempio - e mondi
come Europa con "biosfere sottosuolo" non sono ancora stati presi in considerazione.
Tali basi sono inestimabili, ma sono ancora limitate nella sua capacità di prevedere l'abitabilità, in
parte perché si applica solo alla vita come la conosciamo. Nel 2017, i ricercatori di Cornell
hanno pubblicato un documento che rivela prove della molecola di acrilonitrile (vinil cianuro) su
Titano, che, ipoteticamente, potrebbe essere la chiave della vita a base di metano in un mondo

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Questa raccolta, le copie arretrate, i suoi articoli, non possono essere duplicati e commercializzati. È vietata ogni forma di riproduzione, anche
parziale, senza l’autorizzazione scritta del circolo “Il C.O.S.Mo”. La loro diffusione all’esterno del circolo e’ vietata.
Può essere utilizzata solo dai soci per scopi didattici. - Costo: Gratuito sul WEB per i soci .
Gennaio-marzo 2020. Raccolta di Flash news dal sito www.ilcosmo.net
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privo di ossigeno - una vita davvero aliena, a differenza di qualsiasi altra che abbiamo mai
conosciuto.
Se la vita dovesse prosperare in un mondo così inospitalmente convenzionale come Titano, e
dovremmo trovarlo, Mendez scrive in un estratto descrivendo il suo modello, "Un'anticorrelazione
tra misure di abitabilità e biosegnature può essere interpretata come un processo abiotico o come la
vita come noi non sappiamo "
In ogni caso, la mancanza finora di mondi esteriormente favorevoli alla vita significa che il genere
umano deve continuare a migliorare i suoi osservatori e rivolgere gli occhi verso regni remoti.
La Via Lattea è una grande galassia, piena di delusioni! Non speriamo più che i marziani scavino
dei corsi d'acqua sul pianeta rosso o che dei dinosauri mangino il muschio sugli alberi venusiani, ma
sogniamo ancora di vedere nuotare dei calamari attraverso i mari sepolti di Europa e chissà cosa si
nasconde nei laghi idrocarburi di Titano. Se anche questi mondi non riusciranno a fornire risultati,
la vita oltre la Terra dipenderà dagli esopianeti, che sono appena al di fuori delle nostre capacità di
osservazione e molto lontani da casa.
Informazioni su David W. Brown
David W. Brown è l'autore di One Inch From Earth (Custom House, 2020), su un gruppo di
scienziati che ha studiato Europa, aveva bisogno di saperne di più e ha trascorso vent'anni a
convincere la NASA a montare una missione di punta lì. Il suo lavoro appare anche sul New York
Times , su Scientific American e sull'Atlantico .

Commentato da Luigi Borghi.

11/1/2020 – Carpentieri spaziali: meglio se lo lasciamo fare ai robot!
Smontare dal costruttore in Italia e riassemblare dal cliente finale a Detroit una grossa macchina
automatica, come per esempio un sistema di produzione robottizzato (parlo per esperienza
vissuta), sembrerebbe una impresa difficile, ma in realtà basta avere la capacità di rimettere
cavi, tubi, bulloni e bit, nello stesso posto dove si trovavano in Italia ed è scontato che, se girava
bene tutto in Italia, sarà così anche in USA (considerando ovviamente la diversa fonte di
energia).
Ma riassemblare nello spazio qualche struttura che è stata collaudato sulla Terra, è tutta
un’altra storia. Una storia talmente diversa che a volte non conviene neanche tentare di provare
e quindi assemblare sulla Terra qualche cosa che deve funzionare perfettamente nello spazio. Le
ragioni sono essenzialmente 4:
    1) Nello spazio siamo in condizioni di microgravità (si intende la gravità reciproca dei
        singoli corpi fluttuanti nello spazio o in caduta libera. Per semplificare potrei dire che
        “assenza di gravità” ci assomiglia molto), quindi le dinamiche sono completamente
        diverse. Non esiste il peso, ma solo la massa, una condizione impossibile da realizzare
        sulla Terra se non per pochi secondi.
    2) Nel giro di mezz’ora si passa da +120 gradi centigradi di temperatura a -100 c°.
    3) Portare nello spazio attrezzature costa parecchio. Oggi siamo mediamente sopra i
        20.000$ al Kg, quindi più leggera è la struttura che bisogna portare in orbita e meno
        costa.
    4) Per le ragioni di cui ai punti precedenti vengono progettate strutture spaziali adatte a
        gestire le masse in gioco, ma non i pesi, quindi sulla Terra queste strutture sono difficili
        da collaudare.
Poi c’è il problema sicurezza e resistenza allo stress ed alle condizioni ambientali. Un astronauta
in carne ed ossa, anche dentro ad una comoda tuta spaziale (si fa per dire), non si trova proprio

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a suo agio. Ha delle grosse limitazioni nei movimenti, una autonomia di poche ore ed infine
rischia parecchio. Rischia non solo perché può sempre succedere qualche cosa di irrimediabile
(uno strappo nella tuta, un micrometerorite, la rottura del sistema di sopravvivenza nello zaino),
ma comunque nel periodo che resta fuori in EVA (Extravehicular activity) è sottoposto ad un
flusso di radiazioni decisamente superiore alla normale soglia di sopravvivenza dentro alla
stazione.
Insomma, una bella squadra di robot possono lavorare 24 ore al giorno, senza patire freddo o
caldo. Le moderne tecniche di “deep learnig” e di “machine learning” possono permettere
all’automazione di fare bene e forse anche meglio degli umani. Ma non pensate a robot
antropomorfi o androidi simili a quelli che si vedono nei film di fantascienza o semplicemente nei
filmati della Boston Dynamic. No, i robot che assembleranno strutture nello spazio o sulla Luna
o su Marte, avranno strutture adatte a ciò che richiede la loro specializzazioni. Quindi
potrebbero non assomigliare per nulla ad un qualsiasi tipo di animale. Il “muratore” che
costruirà una postazione fissa sulla Luna non avrà l’aspetto umano, bensì quello di una
scavatrice che avrà al posto della benna il terminale di una stampante 3D che trasforma la
polvere lunare in una miscela simile al cemento.
Vi propongo l’articolo che segue che illustra come si sta muovendo la NASA in vista degli
impegni con il progetto Artemis.
Eccolo:

https://www.astronautinews.it/2020/01/sistemi-robotici-modulari-per-la-costruzione-di-strutture-
spaziali/

                                                                                                  Sistemi robotici modulari per la
                                                                                                  costruzione di strutture spaziali.
                                                                                                  DI LUCA           FRIGERIO 7
                                                                                                  GENNAIO 2020

                                                                     Il logo del Progetto Assemblers.
                                                                       (C) NASA/Langley Research
                                                                                  Center
                                                                    Fin dagli anni ’70 del secolo
                                                                    scorso gli ingegneri hanno iniziato
a pensare alla costruzione di grandi strutture nello spazio e a come rendere questi processi veloci,
sicuri ed economici. Da allora molti studi sono stati completati, ma con l’avanzare della robotica si
è naturalmente pensato di integrare questi due campi di ricerca per realizzare dei robot che fungano
da carpentieri spaziali, al fine di costruire autonomamente le strutture del futuro. Oggi pensare a
delle schiere di robot al lavoro per assemblare un campo di pannelli solari sulla superficie della
Luna è divenuta una visione plausibile grazie al progetto che stanno portando avanti alcuni
ingegneri della NASA.
                                         Il progetto Assemblers
Attualmente i sistemi robotici vengono progettati per eseguire singoli compiti specifici e generano
pertanto costi ingegneristici non ricorrenti; tuttavia i nuovi avanzamenti della ricerca hanno portato
allo sviluppo di quella che viene definita robotica modulare, che è di fatto un nuovo paradigma in
grado di portare a una drastica riduzione dei costi.
Il progetto Assemblers, premiato con la Early Career Initiative (ECI) promossa dal Langley
Research Center della NASA, mira proprio all’avanzamento della tecnologia robotica, hardware e
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software, per consentire processi autonomi di assemblaggio nello spazio – una tecnologia
fondamentale per la futura esplorazione umana del Sistema solare, con verosimili applicazioni
anche sulla Luna e su Marte.
L’ECI consente ai tecnici della NASA di condurre progetti di sviluppo concreti, di fornire
tecnologie di trasformazione, di collaborare con innovatori di livello mondiale e di esplorare nuovi
approcci alla ricerca e allo sviluppo. «L’obiettivo del progetto Assemblers è di incrementare il
livello di maturità della tecnologia dell’assemblaggio autonomo nello spazio tramite i robot
modulari, e di sviluppare un prototipo per dei test a terra» ha spiegato James Neilan, principal
investigator del progetto.
Il prototipo sarà un sistema che utilizza piattaforme modulari da connettere in qualsiasi
dimensione per consentire configurazioni multiple destinate all’assemblaggio di componenti
nello spazio. vedi filmato: https://youtu.be/_9Bncie6AmM
Esso userà un software che consentirà a robot di varie configurazioni e capacità di poter lavorare
assieme. Infine, sarà dotato di un componente per il rilevamento degli errori che potrebbe
essere utilizzato durante e dopo una fase di costruzione, per identificare e risolvere eventuali
problemi. Proseguendo con l’esempio del campo di pannelli solari lunari, questa nuova tecnologia
potrebbe sfruttare delle risorse già disponibili. Un sistema riutilizzabile come l’Assemblers
ridurrebbe i rischi e diminuirebbe la massa da trasportare sulla Luna perché il sistema sarebbe già in
loco; infatti ci sarebbero solo da trasportare le strutture da montare.
I robot Assemblers consistono in piattaforme “impilate”, fornite di attuatori in grado di garantire 6
gradi di libertà di movimento fra due basi, e di sensori per fornire feedback sulla posizione dei vari
componenti. Il team sta lavorando sugli algoritmi per permettere ai robot di essere in grado di
scegliere quante piattaforme impilare e i corretti accessori da usare. Il software sarà inoltre in grado
di calcolare le traiettorie in modo da rendere i tragitti sicuri e di identificare e correggere gli
eventuali errori durante il processo di costruzione.
«Il software è paragonabile al responsabile di un cantiere qui sulla Terra che gestisce i materiali
e le persone durante il lavoro. Stiamo cercando di scrivere un software in grado di fare lo stesso
con i robot e con gli attrezzi» ha detto Iok Wong, responsabile per l’architettura robotica e per
l’integrazione. Il software per la gestione delle attività e la rilevazione degli errori può essere
utilizzato anche sulla Terra e non solo per applicazioni spaziali. Per esempio, una sua potenziale
applicazione potrebbe essere in agricoltura; la raccolta robotizzata di prodotti agricoli è un processo
molto delicato che potrebbe essere rifinito tramite gli avanzamenti dell’apprendimento automatico
(machine learning) nell’ambito delle ricerche sull’intelligenza artificiale.
Oppure si potrebbero utilizzare i robot per esplorare nuovi ambienti prima dell’invio di esseri
umani, sulla Terra e altrove.
Il team di ingegneri sta lavorando con diversi partner, inclusi Virginia Tech e Honeybee Robotics.
Questi ultimi aggiungeranno degli stagisti ai propri team e collaboreranno con esperti che hanno
sviluppato in precedenza hardware e software integrabili nel progetto Assemblers. Il premio ECI
fornisce 2,5 milioni di dollari in due anni, per permettere al gruppo di lavoro di riunire in un
sistema unitario le parti che sono state in “incubazione” in precedenza, di aggiungere le parti
mancanti e di portare questa tecnologia a maturazione. Inoltre, consente ai dipendenti agli inizi della
loro carriera di acquisire esperienza utilizzando la metodologia agile, contribuendo così a
modificare la gestione dei progetti NASA facendo proseguire il lavoro a piccole ma rapide tappe
con brevi soste per le opportune verifiche, invece di fare grandi pause per permettere le revisioni su
larga scala. La NASA incoraggia i tecnologi più promettenti selezionando le proposte per l’ECI.
Questi progetti sono sostanzialmente delle iniziative autonome e pratiche da parte di piccoli team
composti e guidati principalmente da impiegati della NASA agli inizi della propria carriera. Questi
team sviluppano tecnologie di trasformazione per le sfide ad alta priorità che l’agenzia sta
affrontando nell’ambito dei programmi legati al futuro dell’esplorazione umana, come il
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Programma Artemis, che consentirà l’esplorazione sostenibile della Luna e che porterà
all’esplorazione umana di Marte.
Il finanziamento è fornito dallo Space Technology Mission Directorate della NASA.
                                                         Il team del Progetto Assemblers
                                                         © NASA/James Neilan

                                                                                       Fonti: NASA; Virginia Tech Department
                                                                                       of Mechanical Engineering

                                                                                       Commentato da Luigi Borghi.

16/01/2020 – Starlink, Kuiper, OneWeb … la comunità astronomica spera che le
nuove megacostellazioni di satelliti per telecomunicazioni intraprendano la via
del Lato Oscuro.

Per Elon Musk, il 2020 è iniziato col “botto”, infatti il 6 gennaio 2020 la SpaceX ha immesso in
orbita 60 satelliti Starlink.
Dopo i due lanci di maggio e novembre dello scorso anno, questo è il terzo dispiegamento di massa
di questa megacostellazione di satelliti per telecomunicazione posizionata in orbita terrestre bassa.
Il progetto prevede 12.000 satelliti operativi entro il 2027.
Attualmente è in corso una prima fase comprendente “solo” 1.600 satelliti nei primi anni,
necessari per sperimentare e migliorare le tecnologie.
Ogni satellite circa 227 kg ed è relativamente “leggero” rispetto ai classici satelliti per
telecomunicazioni in modo da permettere di inviarne il maggior numero in un singolo lancio.
Per regolare la loro posizione sull’orbita, mantenere l’altitudine prevista ed effettuare le
operazioni di de-orbiting, i satelliti Starlink dispongono di propulsori a effetto Hall alimentati a
krypton, che ha un costo inferiore di circa il 90% rispetto al classico xenon.
Un sistema di navigazione con star-tracker garantisce un preciso puntamento e tutti i satelliti sono
in grado di tracciare i detriti in orbita, evitando autonomamente la collisione. Inoltre, il 95% di
tutti i componenti brucerà rapidamente nell’atmosfera terrestre alla fine delle operazioni.
Il progetto ha lo scopo di creare una rete di connettività globale nelle telecomunicazioni capace di
raggiungere ogni punto del nostro pianeta con servizi Internet a banda larga affidabili e
convenienti
Esiste però un rovescio della medaglia: questa megacostellazione genererebbe un inquinamento
elettromagnetico che potrebbe rendere difficili le osservazioni astronomiche in ambito sia radio
che ottico
Questa moltitudine di satelliti, soprattutto se si considerano tutti i progetti in corso di realizzazione,
“Starlink” di SpaceX (12.000 satelliti), “Kuiper” di Amazon (3.250 satelliti), “OneWeb” (650
satelliti), ecc. solleva il problema dell'inquinamento luminoso spaziale del cielo notturno, che si

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aggiungerà all'inquinamento luminoso terrestre anche a causa della loro superficie altamente
riflettente.
Nell’articolo seguente viene riportato quanto emerso durante il 235° Meeting dell’American
Astronomical Society (AAS), nel corso di un incontro focalizzato sugli effetti delle
megacostellazioni di satelliti sulle osservazioni astronomiche.
SpaceX ha dimostrato di essere sensibile al problema ed ha iniziato la sperimentazione di soluzioni
per ridurre la luminosità dei satelliti Starlink con il lancio di un prototipo modificato denominato
DarkSat. Intraprendere la via del Lato Oscuro sarà sufficiente?
Il link dell’articolo:
https://spacenews.com/spacex-astronomers-working-to-address-brightness-of-starlink-satellites/

SpaceX, gli astronomi chiedono di risolvere il problema della luminosità dei satelliti Starlink.
DI JEFF FOUST 8 GENNAIO 2020
HONOLULU - SpaceX afferma di essersi impegnata a lavorare con la comunità astronomica per
affrontare la luminosità dei suoi satelliti Starlink, ma alcuni astronomi rimangono preoccupati per
gli effetti dannosi che il sistema Starlink, ma anche altre megacostellazioni, avrà sul loro campo di
studi.
Nell’ultimo lancio del 6 gennaio uno dei 60 satelliti Starlink presentava un rivestimento
sperimentale studiato per ridurne la luminosità. SpaceX ha dichiarato che nelle prossime settimane
esaminerà l’efficacia e le prestazioni del satellite prima di decidere come procedere.
"Il livello di luminosità e visibilità dei nostri satelliti è stata una sorpresa per noi", ha affermato lo
scorso 8 gennaio Patricia Cooper, Vicepresidente per l’area satelliti di SpaceX, durante il 235°
Meeting dell’American Astronomical Society (AAS) nel corso di un incontro focalizzato sugli
effetti delle megacostellazioni di satelliti sulle osservazioni astronomiche.
Inoltre, anche il Presidente di SpaceX, Gwynne Shotwell, nello scorso mese di dicembre ha
dichiarato che SpaceX è rimasta sorpresa dalla luminosità riscontrata nei propri satelliti.
Patricia Cooper ha dichiarato che la luminosità è influenzata da diversi fattori. I satelliti Starlink
inizialmente risultano luminosi quando vengono rilasciati nell’orbita di parcheggio inferiore;
durante l’innalzamento all’orbita operativa più alta avviene l’apertura del grande pannello solare
che può, a sua volta, influenzarne la luminosità. Una volta raggiunta l'orbita operativa finale di 550
chilometri, la luminosità del veicolo spaziale diminuisce fino a circa una magnitudine cinque,
rendendoli visibili ad occhio nudo solo nei cieli notturni più bui.
La Vicepresidente ha inoltre dichiarato che la particolare struttura del satellite ha reso difficile
determinare con esattezza a priori il motivo per cui il veicolo spaziale rifletta così tanta luce.
"Pensiamo che la configurazione delle superfici diffonda e rifletta la luce in modo tale da
contribuire in modo significativo", ha affermato. Ciò ha portato allo sviluppo ed alla
sperimentazione di un satellite, soprannominato "DarkSat", con superfici ridisegnate in modo da
ridurne la riflettività.
Un prototipo di DarkSat è stato mandato in orbita con l’ultimo lancio, ma ci vorrà del tempo per
verificarne l’efficacia. Patrick Seitzer, un astronomo dell'Università del Michigan che sta studiando
gli effetti delle costellazioni satellitari sull'astronomia ottica, ha dichiarato in una successiva
conferenza stampa che il satellite probabilmente non raggiungerà la sua orbita operativa fino alla
fine di febbraio, ed ha affermato che: "Solo allora potranno iniziare misurazioni serie".
Patricia Cooper ha dichiarato che SpaceX avrebbe lavorato rapidamente per ridurre la luminosità
dei propri satelliti, ma non ha fornito informazioni sullo stato di sviluppo delle sperimentazioni in
corso e dei tempi di realizzazione. Nel frattempo, la società continuerà a lanciare i satelliti Starlink

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nella loro configurazione iniziale, progettati per essere operativi per cinque anni: un piano alcuni
astronomi hanno criticato durante l'incontro.
"Non sappiamo ancora se queste mitigazioni saranno utili ed efficaci", ha detto Patricia Cooper.
"Intendiamo lavorare sul problema con rapidità, testando soluzioni, facendo esperienza e
sviluppando soluzioni".
Jeff Hall, direttore dell'Osservatorio Lowell in Arizona e presidente del comitato dell'AAS, ha
dichiarato che SpaceX si è resa disponibile ad incontrare un comitato dell'AAS per discutere le
preoccupazioni della comunità astronomica riguardo a Starlink e per esaminare i modi per mitigarle.
Tale lavoro ha incluso una mezza dozzina di teleconferenze e l’incontro dell’8 gennaio, durante il
meeting dell'AAS.
“Non abbiamo dovuto convincere SpaceX in alcun modo. Sono stati molto ricettivi e propositivi ",
ha detto. Le discussioni, inizialmente, si sono concentrate sui piani di schieramento dei satelliti
Starlink da parte di SpaceX, ma recentemente sono stati più un semplice "tenersi in contatto"
mentre SpaceX si preparava a lanciare il suo DarkSat sperimentale.
Hall ha aggiunto che è prematuro discutere delle normative sulla luminosità dei satelliti. "La
regolamentazione di una situazione da “selvaggio West” è necessaria, ma ci vorrà molto tempo per
attuarla", ha detto, mentre il problema posto da Starlink e da altre costellazioni è una questione di
breve termine che deve essere affrontata ora.
Hall e altri astronomi hanno affermato che anch’essi, come SpaceX, sono rimasti sorpresi dalla
luminosità dei satelliti Starlink.
"Ciò che ha sorpreso tutti - la comunità astronomica e SpaceX - è stato la luminosità dei loro
satelliti", ha affermato l’astronomo Pat Seitzer. "Sapevamo che stavano arrivando queste decine di
migliaia di megacostellazioni, ma in base alle dimensioni e alle forme degli oggetti attualmente in
orbita, ci si aspettava che risultassero di ottava o nona magnitudine. Non ci aspettavamo
magnitudine due o tre. "
Sia gli astronomi che SpaceX hanno dichiarato di sperare, come primo passo, di oscurare i satelliti
Starlink abbastanza da non essere visibili ad occhio nudo anche nei cieli più bui.
Il prossimo passo sarà capire cos'altro si può fare per mitigare i loro effetti sui principali osservatori,
in particolare il nuovo LSST (ex Large Synoptic Survey Telescope), ridenominato Osservatorio
Vera Rubin, in costruzione in Cile.
Gli astronomi hanno affermato che i telescopi a largo campo come LSST, sono particolarmente
minacciati da Starlink e da altre megacostellazioni di satelliti.
Hall ha dichiarato che il suo comitato dell’American Astronomical Society prevede di iniziare un
confronto anche con OneWeb alla fine di questo mese, poco prima che la società inizi lo
spiegamento su larga scala della sua costellazione. Sei satelliti di dimostrazione OneWeb sono
attualmente in orbita, ad altitudini più elevate di quelli lanciati da SpaceX.
Pat Seitzer ha detto che i satelliti sono di magnitudine otto, troppo scuri per essere visti ad occhio
nudo, ma in alcuni casi pongono maggiori preoccupazioni per gli astronomi professionisti rispetto ai
satelliti Starlink in quanto, alla loro altitudine, possono essere visibili per tutta la notte, piuttosto che
solo intorno al tramonto e all'alba.
Con SpaceX in procinto di schierare 1.500 satelliti Starlink nel solo 2020 e con OneWeb e altre
costellazioni in fase di sviluppo, gli astronomi hanno avvertito che la situazione sta diventando un
problema. "La questione delle megacostellazioni e dell'astronomia è una questione seria", ha
affermato Pat Seitzer. "Abbiamo poco tempo per affrontare questo problema."

Commentato da Roberto Castagnetti

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