Dal flusso di energia solare alla produzione di cibo per l'umanità
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Dal flusso di energia solare alla produzione di cibo per l’umanità a cura di Gianfranco D’Onghia Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Bari Aldo Moro Questo articolo è presente sul sito www.vglobale.it (D’Onghia G., 2008. Dal flusso di energia solare alla produzione di cibo per l’umanità. Stiamo minando la “fabbrica” del cibo. Villaggio Globale, L’energia che verrà, Anno XI, Numero 43, Settembre 2008, (on-line www.vglobale.it ). Energia solare e produttività degli ecosistemi Ogni giorno il sole fornisce al nostro pianeta un’enorme quantità di energia: in media 3000-4000 Kcal/m2/giorno corrispondenti a circa 1,1-1,5 milioni di Kcal/ m2/anno (Odum e Barrett, 2007). Circa il 30% di questa energia è assorbita e riflessa dallo strato atmosferico, mentre poco meno del 70% di tale energia, grazie a processi termoregolatori realizzati dall’atmosfera e dagli oceani, determina il clima del nostro pianeta consentendo la vita nelle sue varie forme, dagli organismi agli ecosistemi, adattate a differenti condizioni, da quelle più calde (equatoriali) a quelle più fredde (polari). Una frazione esigua dell’energia radiante (in media circa l’1%) costituisce il vero e proprio propellente della vita che struttura e alimenta gran parte dei sistemi viventi sulla terra e negli oceani, dalla più piccola pianticella di geranio presente sul nostro balcone all’intera foresta tropicale con tutti gli organismi ivi presenti, dalle piccole patelle distribuite lungo le nostre coste rocciose fino alle barriere coralline che ospitano una notevole varietà di forme di vita. Sulla terra, come nel mare, soltanto gli organismi vegetali (e numerose specie di microrganismi) possono captare l’energia radiante e inglobarla, attraverso il processo di fotosintesi, nei legami chimici di molecole organiche utilizzate per le proprie necessità vitali compreso la crescita e la riproduzione. E’ attraverso questo processo di conversione dell’energia del sole che i vegetali hanno strutturato le foreste del pianeta, i boschi, le praterie e tutti i sistemi viventi della biosfera anche quelli dove i vegetali sono microscopici e dominano le biomasse animali, come nel mare. Un’eccezione a questo propellente della vita si rinviene nelle profondità degli oceani dove esistono anche organismi e comunità che dipendono dalla chemiosintesi batterica. A parte questa eccezione, è soprattutto attraverso la fotosintesi che viene prodotto il cibo dei viventi, in modo diretto per gli erbivori ed indiretto per i carnivori e i decompositori. La frazione di energia del sole che diventa biomassa vivente è così bassa (in media l’1% ed è nota come efficienza ecologica di fotosintesi) perché non tutte le lunghezze d’onda dello spettro solare sono utilizzate nella fotosintesi. Infatti, i vegetali terrestri usano la parte visibile della radiazione (non l’ultravioletto né l’infrarosso) nella banda del rosso e del blu. Inoltre, una grossa frazione della radiazione, anche di quella utile, non viene captata dai sistemi fotosintetici delle piante ma finisce sul suolo nudo, sulle rocce, sulla sabbia dei deserti, sui ghiacci polari e su tante altre superfici dove non ci sono vegetali e/o sistemi fotosintetici (come la corteccia degli alberi). Poiché i vegetali sono in grado di “produrre il cibo” autonomamente, a partire da energia radiante e semplici molecole inorganiche, come acqua, anidride carbonica e sali minerali, sono noti come organismi autotrofi, in particolare foto-autotrofi. La velocità di trasformazione dell’energia radiante in energia chimica è nota come produttività primaria per cui gli organismi che la realizzano sono anche noti come produttori. I vegetali, comunque, come tutti gli esseri viventi, utilizzano parte di questa energia chimica per i vari processi vitali tra cui
anche l’assorbimento dell’acqua e dei nutrienti. Quindi, dell’energia radiante trasformata in energia chimica (produttività primaria lorda), una parte più o meno cospicua viene spesa nel mantenimento (respirazione). Quello che rimane al netto di questi costi di mantenimento costituisce l’accumulo di sostanza organica da parte dei vegetali ed è nota come produttività primaria netta. Questa è, dunque, la fonte di sostentamento di tutti gli organismi eterotrofi ossia di quelli che prendono energia alimentare mangiando altri organismi (erbivori e carnivori) o utilizzando sostanza organica morta (detritivori e decompositori). Pertanto, la produttività primaria netta è la risorsa di cibo del pianeta. Attraverso il processo di fotosintesi gli organismi vegetali producono ogni anno circa 170 miliardi di tonnellate di sostanza organica. I due terzi sono prodotti sulle terre emerse (circa 115 miliardi di tonnellate) e un terzo negli oceani (circa 55 miliardi di tonnellate) (Whittaker, 1975). La maggior produttività delle terre emerse è principalmente dovuta alla rilevante (sebbene notevolmente ridotta dall’uomo) copertura vegetale rappresentata dalle foreste e, in misura minore, dalle praterie e dalle terre coltivate. Foreste e boschi, savane e praterie, brughiere e macchie, costituiscono ecosistemi di vastissime estensioni in cui l’habitat è strutturato da organismi vegetali che producono cibo in forma di fibre, foglie, frutti, semi, fiori, linfa ed essenze vegetali. Tutta energia alimentare utilizzata in prima battuta dagli erbivori ma che sosterrà, indirettamente, anche la vita dei carnivori e dei decompositori. La produttività degli oceani, invece, è principalmente dovuta al fitoplancton, ossia un complesso di organismi microscopici unicellulari, con breve ciclo vitale, che galleggiano in prossimità della superficie delle acque dove vi è disponibilità di radiazione solare. Le dimensioni microscopiche del fitoplancton precludono l’accumulo di biomassa vegetale in mare aperto. Oltre i 200 m di profondità (la profondità media degli oceani è di circa 3800 m) la penetrazione della radiazione solare è trascurabile e, pertanto, non è possibile la vita vegetale nelle profondità marine. Nelle zone costiere, invece, la presenza di organismi vegetali di maggiori dimensioni (alghe e piante superiori) ancorati sul fondo dove arriva la radiazione solare, determina un notevole incremento di biomassa e parallelamente di produttività. Possono strutturarsi così, anche nel mare, ecosistemi in cui la componente vegetale costituisce l’habitat di numerosi organismi erbivori, carnivori e decompositori. Energia ausiliaria e uso della produttività in ambiente terrestre Alcuni ecosistemi si presentano particolarmente produttivi poiché, oltre alla disponibilità di energia radiante, di acqua e nutrienti (azoto, fosforo), usufruiscono di apporti ausiliari di energia. L’energia fondamentale che i vegetali trasformano in energia chimica, attraverso la fotosintesi, è quella del sole. Gli apporti ausiliari di energia si configurano in meccanismi ambientali che consentono di ridurre i costi di mantenimento a favore della crescita dei vegetali. Per esempio, una corrente marina che renda disponibili maggiori quantità di azoto e fosforo per le alghe che potranno assorbirli con minore spesa energetica, determinerà un incremento di produttività primaria netta. L’intervento dell’uomo nei sistemi agricoli, dall’irrigazione alla concimazione, dal controllo dei parassiti alla selezione genetica, si configura come energia ausiliaria che riduce i costi di mantenimento delle colture a favore di una maggiore produttività. Così il frumento o il mais spendono molto meno per assorbire acqua e nutrienti o per difendersi dai parassiti e quello che non viene speso per queste “faccende”, risolte dall’uomo con investimenti energetici (ed economici), può essere accumulato nei tessuti eduli. Attraverso la selezione genetica è stato favorito in molte colture il “rapporto di resa” ossia il rapporto tra la parte commestibile e quella non commestibile. Però piante con un elevato rapporto di resa dispongono di minore strutture e fibre per la propria autoprotezione, per cui deve intervenire l’uomo con energie ausiliarie che forniscano protezione da parassiti e insetti nocivi. 2
Stando alle stime riportate da Whittaker (1975), le terre coltivate, che coprono una superficie di circa 14 milioni di kilometri quadrati, producono annualmente circa 9 miliardi di tonnellate annue di sostanza organica. Questa cifra corrisponde a circa l’8% della produttività primaria netta delle terre emerse. Ovviamente, non tutta questa produttività corrisponde a prodotti alimentari per il consumo umano. Il raccolto destinato al consumo animale (mucche, cavalli, maiali, pecore, polli) supera di 5 volte quello destinato al consumo umano (Odum, 2001). Inoltre, molti terreni coltivati sono destinati alla produzione di fibre, di legno e, negli ultimi tempi, di biomasse vegetali per ottenere combustibili. Infine, esiste una notevole quantità di scarti dai raccolti (radici, foglie, cortecce, rami etc.) rispetto alle parti commestibili. Anche questi scarti, comunque, potrebbero essere utilizzati in differenti modi, dalla concimazione dei terreni alla produzione di energia. Vitousek e collaboratori in un famoso articolo del 1986 (Human appropriation of the products of photosynthesis) indicavano che l’uomo utilizza ogni anno per se e per gli animali domestici soltanto il 3% della produttività terrestre come fonte di cibo ma se ne appropria di circa il 40% per altri scopi, tra cui la produzione di beni non commestibili, risorse di vario tipo estratte dalle foreste, tagli e incendi boschivi, pastorizia, rimozione di territorio naturale per attività umane (strade e infrastrutture), erosione dei suoli e conseguente desertificazione. La produzione di cibo dall’agricoltura è aumentata enormemente nel secolo scorso grazie alla meccanizzazione, irrigazione, impiego di fertilizzanti e pesticidi. Ma questo è avvenuto soprattutto nei paesi industrializzati che dispongono di risorse economiche (energia ausiliaria) per muovere macchine, trattori e pompe nonché per produrre fertilizzanti e pesticidi. L’agricoltura intensiva dei paesi industrializzati è sostenuta da una fonte energetica gratuita e pressoché inesauribile, quella radiante, e da una a costi sempre più elevati perché in esaurimento, quella del petrolio. L’agricoltura intensiva dei paesi industrializzati ha aumentato la produzione di cibo destinato al consumo umano, ma anche determinato profonde alterazione dell’habitat. Basti pensare al disboscamento o all’inquinamento delle acque prodotto dall’uso di fertilizzanti e pesticidi. Pertanto, per una corretta valutazione del reale beneficio sociale derivante da questo tipo di agricoltura bisognerebbe aggiungere ai costi energetici ausiliari quelli del degrado ambientale. Considerando che per raddoppiare il rendimento dei raccolti bisognerebbe decuplicare gli input di energia ausiliaria (Odum, 2001), si capisce perché la produzione di cibo nei paesi in via di sviluppo è ancora molto bassa rispetto alle esigenze della popolazione. Nella parte povera del pianeta, l’incremento nella produzione di cibo è determinato soprattutto dall’aumento di terra coltivata piuttosto che dall’aumento dei rendimenti delle colture. Purtroppo, l’aumento di terra da coltivare viene realizzato con il taglio della foresta tropicale ottenendo risultati tragici su differenti fronti. Infatti, i suoli dei tropici sono poveri di nutrienti poiché il loro ciclo si realizza soprattutto all’interno della biomassa vivente degli alberi con il supporto di organismi simbionti, come funghi delle micorrize, alghe e licheni. Una volta tagliata la foresta l’humus esposto all’intensa radiazione solare e alle elevate temperature dei tropici si esaurisce in breve tempo e così i pochi nutrienti presenti in questi suoli vengono in breve tempo dilavati dalle piogge torrenziali. A causa del regime climatico il suolo subisce una profonda erosione per cui l’agricoltura, così come realizzata nei paesi industrializzati, risulterebbe fallimentare per gli ingenti investimenti economici necessari per rigenerare idonee condizioni per le colture. A tutto questo si deve aggiungere la perdita della biodiversità della foresta tropicale nonché del ruolo che questa ha nel riciclo dell’anidride carbonica a livello planetario. Come prima detto, una grossa frazione della produttività primaria è utilizzata anche per altri scopi. Tra questi vi è la produzione di combustibili. Anche se questo uso della produttività terrestre costituisce un tema di grande attualità a causa dell’esaurimento del petrolio, di fatto si tratta di un uso vecchio quanto l’umanità. Senza considerare il petrolio, 3
che in realtà si tratta di produttività primaria trasformata, sotto la superficie terrestre, nel corso di ere geologiche, il legno costituisce per oltre la metà della popolazione mondiale il combustibile principale. In alcuni paesi più poveri è usato dal 99% della popolazione come unico combustibile. Viene usato per cucinare, riscaldamento e illuminazione nonché per l’industria leggera spesso ad una velocità superiore a quella necessaria per ricrescere (Odum e Barrett, 2007). Da un pò di tempo anche nei paesi industrializzati si sta pensando di utilizzare le biomasse provenienti sia dalle foreste che dall’agricoltura per far fronte alla crisi energetica dovuta alle ridotte disponibilità di petrolio. Alcune delle opzioni possibili richiederanno ulteriore terra per la coltivazione di piante da cui estrarre combustibili (come biodiesel dall’olio di colza) o su cui far crescere alberi a rapida crescita e da tagliare in breve tempo (“foreste combustibili”), determinando competizione tra produzione di cibo e di combustibili in terreni arabili ed aggravando la situazione alimentare nei paesi in via di sviluppo. Rispetto alle azioni da intraprendere, è di fondamentale importanza tener presente che foreste, boschi, praterie, zone umide e altri ecosistemi naturali sostengono la vita sul pianeta attraverso la produzione di beni e servizi per tutti i viventi e, quindi, per il funzionamento della biosfera. Bisognerà acquisire la saggezza di non erodere ulteriormente questo capitale naturale. I processi dissipativi nella catena alimentare limitano il cibo per i consumatori La produttività primaria netta accumulata nei vegetali si rende disponibile per gli animali (organismi eterotrofi) presenti nei differenti livelli delle reti alimentari di ecosistemi terrestri e acquatici. Questi ultimi organismi sono noti come “consumatori”. Produttori e consumatori durante il loro ciclo vitale rinnovano cellule e tessuti eliminando rifiuti organici che sono riciclati dagli organismi decompositori. Alla morte di tutti gli esseri viventi, siano essi produttori, consumatori o decompositori, la sostanza organica dei loro “corpi” si rende disponibile ancora per questi ultimi (gli spazzini della natura), soprattutto microrganismi, in grado di decomporla e renderla nuovamente inorganica (per esempio come sali di azoto e fosforo) disponibile per i produttori. Questi processi di funzionamento della vita negli ecosistemi terrestri e acquatici sono possibili grazie al continuo flusso di energia solare. Però mentre la materia subisce numerose trasformazioni e quindi può essere riciclata e riutilizzata, l’energia nel suo fluire si degrada in quanto soggetta a processi dissipativi. Dalla termodinamica sappiamo che 1) l’energia si conserva, non si può creare né distruggere; 2) ad ogni trasformazione l’energia si degrada. In altri termini, quando facciamo il pieno di gasolio nella nostra auto il motore consente di trasformare l’energia contenuta nel gasolio in energia di movimento ma soltanto una frazione diventa energia dinamica di movimento mentre frazioni rilevanti si “perdono” nel raffreddamento, attrito, gas di scarico, radiazione del motore etc. Così, non tutta l’energia contenuta nella radiazione solare captata dai sistemi fotosintetici viene trasformata in energia chimica, una parte consistente è perduta in forma di “calore” non utilizzabile. Non esistono macchine perfette con rendimenti del 100% nell’uso dell’energia; frazioni rilevanti si perdono in forma di energia degradata (entropia o disordine termodinamico). Processi dissipativi che producono entropia si verificano anche nelle reti alimentari nelle quali oltre ai principi della termodinamica intervengono processi di tipo biologico. Pertanto, l’energia chimica contenuta nelle piante ovvero nel primo livello della catena alimentare non può essere completamente trasferita in quella degli animali erbivori ovvero del secondo livello della catena alimentare. Per esempio, un erbivoro nel suo pascolare non consuma totalmente i vegetali di cui si ciba, infatti, le radici o le parti più dure e meno appetibili non vengono mangiate. Eppure anche nelle radici e in tutte gli altri tessuti, siano essi duri o teneri, vi è energia chimica derivante dalla trasformazione di energia solare. Quindi, questa frazione di energia non viene utilizzata. Inoltre, delle parti consumate non tutto viene assimilato e, quindi, alcuni tessuti vegetali non digeribili vengono eliminati con le deiezioni. Infine, di 4
quanto è stato assimilato non tutto viene convertito in biomassa; una frazione consistente sarà utilizzata nei differenti processi metabolici che consentono le funzioni vitali dell’erbivoro, a partire dall’energia spesa per mangiare e per il movimento a quella spesa per processi di secrezione, digestione, riproduzione etc. degradandosi nel cosiddetto “calore respiratorio”. Quindi, a fronte di una certa quantità di energia contenuta negli organismi vegetali (produttori) soltanto una parte (circa il 10%) diventerà sostanza organica degli erbivori (consumatori primari). Così di tale sostanza organica soltanto una frazione (variabile da 1 a 20%) diventerà sostanza organica dei carnivori (consumatori secondari). Infatti, anche per il trasferimento dell’energia dal secondo livello alimentare, quello degli erbivori, al terzo livello, quello dei carnivori valgono le medesime considerazioni energetiche. Un leone che cattura e uccide una zebra non è in grado di consumarla in tutte le sue parti, tra cui le strutture scheletriche, i denti o gli zoccoli che pure contengono energia chimica. Quindi, questa frazione di energia non viene utilizzata. Così di quello consumato una parte non sarà assimilata e della parte assimilata una frazione rilevante sarà utilizzata per il fabbisogno metabolico del leone (anche per la cattura della zebra) che implica anche in questo caso un degrado come “calore respiratorio”. Questo flusso di energia che parte dai vegetali e continua con erbivori pascolanti e carnivori che mangiano erbivori costituisce le catene alimentari del “pascolo”. L’energia non utilizzata e non assimilata può essere ancora recuperata nelle catene alimentari del “detrito” che partono dalla sostanza organica (resti di organismi, rifiuti organici, feci etc.) e vedono l’intervento degli spazzini della natura (detritivori, decompositori) fino ai loro predatori. Tutto il calore respiratorio prodotto in entrambi i tipi di catene alimentari non può essere più recuperato e va ad aggiungersi all’entropia o “disordine” dell’universo. Di fatto, le catene alimentari sono sequenze tra loro interconnesse che costituiscono reti alimentari attraverso le quali fluisce l’energia radiante convertita in sostanza organica. A fronte di quanto appena riportato, è evidente che passando da un livello alimentare al successivo c’è sempre meno energia (e meno cibo) disponibile per gli organismi negli ecosistemi. Questo fatto incontrovertibile viene rappresentato attraverso piramidi alimentari in cui la quantità (numerica, in biomassa ed energetica) dei vegetali è maggiore di quella degli erbivori, quella di questi ultimi è maggiore di quella dei carnivori e così via fino ai carnivori terminali che sono gli organismi più rari del pianeta. Sempre meno bocche possono essere sfamate passando dal livello dei produttori a quello dei consumatori all’apice di tali piramidi. Le proteine della carne sono presenti nella dieta dei popoli più ricchi, che possono permettersi il lusso di coltivare terra per produrre alimenti per gli animali domestici e vivere anche come consumatori secondari e terziari, mentre i poveri del mondo mangiano (quando possibile) riso, cereali e patate vivendo soltanto come consumatori primari. La notevole perdita di energia ad ogni passaggio da un livello alimentare al successivo impone un limite al numero di tali livelli nelle reti trofiche. L’evoluzione probabilmente non ha prodotto un predatore del leone non tanto perché il leone è così impossibile da uccidere e mangiare (il pianeta ha conosciuto predatori più grossi e terribili del leone) quanto perché ci sarebbe poca energia per sostenere un livello trofico al di sopra di quello del leone. Il fatto che i piccoli del leone possano essere predati dalle iene dipende dalla complessità delle interazioni tra organismi nelle reti trofiche e non significa che la iena occupa stabilmente un livello trofico al di sopra di quello del leone. Nel mare le catene alimentari si presentano più lunghe perché sia il consumo che l’assimilazione soprattutto da parte degli erbivori e, in misura minore, dei carnivori è in genere più efficiente nel trasferire energia da un livello trofico al successivo. In pratica ad ogni passaggio si perde un pò meno energia nelle catene alimentari marine. Infatti, i vegetali marini sono più piccoli e teneri e, quindi, più facili da consumare e digerire anche da parte di erbivori a loro volta molto piccoli (zooplancton) mentre quelli terrestri, invece, sono più grandi e con solide strutture di sostegno, spesso molto dure, 5
coriacee e spinose. Comunque, nel mare le reti alimentari sono persino più complesse in quanto la gran parte degli organismi si riproduce attraverso la produzione di uova e larve e, pertanto, molte specie prede mangiano uova e larve dei loro predatori. Inoltre, le cose sono ulteriormente complicate dal fatto che molti organismi marini passano da un livello trofico al successivo durante la loro crescita. Energia solare, alghe microscopiche e produzione di cibo nel mare Il cibo che l’umanità ricava dal mare è soprattutto di origine animale (pesci, molluschi, crostacei) e deriva principalmente dalle catene alimentari il cui primo anello è rappresentato da alghe microscopiche (fitoplancton) la cui distribuzione è limitata alla disponibilità di luce, più o meno nei primi 200 m di profondità. La produttività primaria dovuta al fitoplancton è correlata non soltanto alla disponibilità di luce ma anche a quella di nutrienti (azoto, fosforo, ferro etc.) nonché a particolari fonti di energia sussidiaria (correnti ascendenti, flussi di marea etc.) (Nybakken, 1997). Pertanto, essa si differenzia moltissimo tra acque costiere, estuari, mare aperto, zone con correnti ascendenti delle acque e così via. L’energia fissata dai produttori primari viene trasferita nei successivi anelli delle catene alimentari marine. Come prima riportato, nei processi di trasferimento si verifica una consistente perdita di energia e pertanto la sua quantità, insieme alla biomassa, si riduce passando dai primi agli ultimi livelli trofici, generalmente occupati dai carnivori terminali (o predatori di vertice delle piramidi alimentari). Assumendo un’efficienza di trasferimento del 10% tra il primo e il secondo livello trofico, occorrerebbero 100 kg di fitoplancton per formarne 10 kg di zooplancton. Considerando ancora un’efficienza del 10% nei successivi passaggi, dai 10 kg di zooplancton si potrà formare 1 kg di alici e soltanto 100 g di tonno. A fronte di tale esempio, si comprende che la quantità di risorse presenti in una determinata area marina dipenderà non soltanto dalla produttività primaria ma anche dall’efficienza di trasferimento nella piramide alimentare. Poiché l’efficienza di trasferimento nel mare è generalmente maggiore che negli ecosistemi terrestri (produttori e consumatori primari sono soprattutto organismi microscopici o molto piccoli di più facile consumo e assimilazione) le catene alimentari possono presentarsi più lunghe (anche con 6-7 livelli trofici). Comunque, l’energia disponibile per i predatori di vertice è sempre piuttosto esigua e questo spiega non soltanto la rarità di questi organismi negli ecosistemi ma anche il fatto che maggiori quantità di risorse (e di cibo) si ricavano nei primi livelli trofici piuttosto che negli ultimi. Le stime effettuate da Pauly e Christensen (1995) indicano che in media l’8% della produttività primaria globale del mare sostiene la pesca a livello mondiale o, in altri termini, questa è la percentuale di produttività primaria che diventa cibo per l’uomo. Questa percentuale si abbassa per l’oceano aperto (circa 2%) e aumenta nelle zone costiere e con correnti ascendenti (tra 24 e 35%) confermando la maggiore produttività di questi ultimi sistemi ambientali anche in termini di risorse sfruttate dall’uomo. Le statistiche della FAO (2002) riportano che le catture degli organismi marini a livello mondiale si attestano intorno a 90 milioni di tonnellate per anno. Considerando le catture non controllate dalle statistiche ufficiali nonché quelle non regolate o illegali è probabile che le catture mondiali di specie marine oscillino tra 100 e 140 milioni di tonnellate/anno (King, 1995). I pesci costituirebbero oltre l’85% di queste catture, i molluschi circa il 9% e i crostacei soltanto il 5-6%. In base a quanto prima detto sulla produttività dei sistemi acquatici, le rese medie per l’oceano aperto sarebbero di appena 0,02 tonnellate/km2/anno per le acque tropicali e 0,5 per quelle temperate, 2 e 6 tonnellate/km2/anno per le acque della piattaforma continentale rispettivamente temperata e tropicale fino a circa 18 tonnellate/km2/anno per le zone con correnti ascendenti delle acque (Marten e Polovina, 1982). 6
Pesci, cefalopodi, crostacei e altri organismi, costituiscono risorse del mare utilizzati dall’uomo, soprattutto per scopi alimentari ma anche per la produzione di farine di pesce, prodotti per l’acquacoltura e prodotti artigianali e ornamentali di vario tipo. Queste risorse sono potenzialmente rinnovabili (gli organismi, nascono, crescono, si riproducono e muoiono) ma non inesauribili. La loro consistenza ed evoluzione è legata ai numerosi fattori selettivi che agiscono nell’ecosistema marino (condizioni idrografiche, produttività, predazione etc.) nonché alle attività umane, prima fra tutte l’attività di pesca. La sovrapesca e l’accorciamento delle reti alimentari La pesca è una delle attività più antiche dell’umanità. Infatti, ancor prima dell’agricoltura, la pesca ha assunto un ruolo fondamentale per l’uomo come fonte di cibo. Sebbene nel corso della lunga storia dell’umanità siano variate le tecniche del prelievo e le quantità di organismi raccolti, il rapporto uomo-organismi nell’attività di pesca si configura unicamente come un rapporto di predazione. L’uomo si pone, quindi, ad un livello trofico superiore a quello degli organismi pescati. Nel corso dei millenni e fino al XIX secolo, l’uomo non ha ritenuto, neppure lontanamente, di poter causare il depauperamento o persino l’estinzione delle popolazioni sfruttate, anzi riteneva che le risorse del mare fossero inesauribili e quindi per poterne ottenere una maggiore quantità bisognava dedicare più tempo e potenziare i mezzi impiegati nel loro prelievo, ossia aumentare il cosiddetto “sforzo di pesca”. In realtà, sebbene le popolazioni delle specie acquatiche siano rinnovabili esse non sono inesauribili. La sostenibilità dello sfruttamento di queste specie si basa sul presupposto che l’ammontare della biomassa pescata in mare debba essere proporzionale alla sua capacità di rinnovo. Infatti, un eccessivo prelievo impedisce l’adeguata ricostituzione delle popolazioni determinandone il depauperamento e generando una serie di problemi economici e sociali. L’incremento di catture che a volte, ma sempre più raramente, è possibile registrare in alcune aree è generalmente dovuto all’aumento della flotta e al miglioramento delle tecnologie di pesca piuttosto che ad una maggiore disponibilità di risorse nel mare. In tali situazioni lo sforzo di pesca mantenuto ad alti livelli potrebbe determinare il collasso di una o più risorse nelle aree di distribuzione. Tristemente famoso è il caso del collasso dello stock canadese del merluzzo Atlantico (Walters e Maguire, 1996). Attualmente il 47% degli stock ittici mondiali risultano pienamente sfruttati, il 18% sovrasfruttati e il 10% in una condizione di depauperamento. Soltanto il 25% degli stock risulterebbero, invece, moderatamente sfruttati o sottoutilizzati dalla pesca (FAO, 2002). Il termine sovrapesca (overfishing) può essere considerato rispetto a due principali processi biologici di incremento della biomassa degli stock ittici ossia reclutamento (le nuove generazioni di pesci si uniscono allo stock adulto) e accrescimento (gli individui crescono in lunghezza e peso). Pertanto, si può determinare una condizione di sovrapesca quando uno stock è depauperato ad un livello tale che i pochi adulti rimasti risultino insufficienti a produrre abbastanza nuovi individui da rinnovare la popolazione. Questo tipo di sovrapesca si verifica più frequentemente nelle specie pelagiche dove gli individui sono aggregati in banchi ad alta densità, facili da individuare con gli strumenti di bordo (ecosonar) e quindi facili da catturare anche quando l’intero stock risulta sovrasfruttato. Altri organismi che possono andare incontro a questa sovrapesca sono quelli con basse capacità riproduttive, come le tartarughe, gli squali e i mammiferi. La vulnerabilità di questi organismi all’azione della pesca può determinare non soltanto il collasso degli stock ma persino l’estinzione della specie (Roberts e Hawkins, 1999; Jackson et al., 2001). Spesso la sovrapesca si riferisce al fatto che gli individui di una popolazione sono catturati quando sono ancora molto piccoli ovvero la pesca cattura questi individui non dando loro il tempo di raggiungere dimensioni che possano fornire biomasse pescabili di una certa entità. Oltre tutto, a questi individui catturati prematuramente non viene consentito di riprodursi almeno una volta nell’ambito del loro ciclo 7
vitale. Questo tipo di overfishing si verifica soprattutto nelle specie demersali (quelle che vivono in prossimità del fondale marino) le quali vengono catturate principalmente con attrezzi (reti a strascico) che non selezionano le differenti taglie degli individui nello stock ma catturano anche le forme giovanili. Molti stock demersali mediterranei sono in una condizione di sovrapesca di questo tipo. Passando da una singola popolazione all’insieme di specie sfruttate dalla pesca in una realtà multispecifica, come quella mediterranea, un altro concetto delineatosi più di recente è quello di “ecosystem overfishing” (Pauly, 1983). Questo tipo di sovrapesca si riferisce al fatto che la riduzione in biomasse e taglie di popolazioni ittiche originariamente abbondanti non è compensata dal contemporaneo o successivo incremento di biomassa di altre popolazioni ittiche. Pertanto, un ecosistema relativamente maturo, stabile ed efficiente dominato da specie longeve e di grosse dimensioni si trasformerebbe in uno relativamente instabile, immaturo ed inefficiente dominato da specie più piccole e opportuniste. In altri termini, gli organismi dei livelli trofici superiori e i predatori di vertice, più vulnerabili al prelievo non soltanto per le loro maggiori dimensioni ma anche in relazione alle loro strategie vitali (crescita lenta, maturità sessuale raggiunta dopo alcuni anni, bassa fecondità) diventano sempre più rari mentre aumentano i consumatori dei primi livelli trofici non più soggetti al controllo da parte dei loro predatori rimossi dalla pesca. Questa condizione spiega la riduzione dei vertebrati, squali e pesci ossei più longevi, e l’incremento degli invertebrati a breve ciclo vitale nelle aree sovrasfruttate dall’attività di pesca, riflettendosi in un accorciamento della rete alimentare (“fishing down marine food web”) (Pauly et al., 1998). La tragedia dei beni comuni e il necessario cambio di rotta Gli effetti negativi, sia dal punto di vista ecologico che economico, generati dallo sfruttamento incontrollato di risorse comuni, sia se si tratti di terra per il pascolo o pesci in mare, sono stati presentati in un famoso lavoro intitolato “The tragedy of the commons” (Hardin, 1968), in cui viene spiegato che chi partecipa al prelievo di una risorsa pur essendo consapevole della necessità di conservarla ne causa l’esaurimento. A fronte di quanto riportato, è evidente che sia l’uso della terra (per qualsiasi destinazione) che l’attività di pesca pur fornendo beni e generando profitti, possono causare, non soltanto sovrasfruttamento delle risorse (suolo, stock ittici) ma negatività a livello di ecosistema (inquinamento del suolo e delle acque; alterazione della biodiversità e della struttura delle reti alimentari). Dalla preistoria ai tempi attuali, l’uso delle risorse naturali da parte dell’uomo ha attraversato differenti fasi legate principalmente all’incremento demografico e allo sviluppo della tecnologia. Questa se da un lato ha consentito di estrarre e prelevare risorse anche in ambienti remoti e inaccessibili (per esempio il sottosuolo o le profondità degli oceani), dall’altro ha determinato effetti di vario tipo ed entità nell’ambiente (Commoner, 1972). Nel caso dell’agricoltura nei paesi industrializzati, al vantaggio di rendimenti elevati delle colture, che deriva dall’investimento in energia ausiliaria attraverso l’uso estensivo di macchine, fertilizzanti e pesticidi, si contrappongono le conseguenti ripercussioni ambientali. Inoltre, la cattiva gestione del territorio, tra cui il disboscamento e l’urbanizzazione (complessi abitativi e strade) in zone rurali, ha provocato rilevanti perdite dei suoli. Nei paesi in via di sviluppo, la crescente pressione demografica e le condizioni di povertà hanno spinto alla deforestazione per ricavare legna, coltivare prodotti agricoli e far pascolare gli animali domestici, aggravando i processi di desertificazione già favoriti dal regime climatico. Poiché il suolo costituisce il supporto base per realizzare la produttività primaria in ambiente terrestre, la diminuzione delle superfici coltivabili implicherà una riduzione di prodotti alimentari per l’uomo e gli animali. Nel caso della pesca, all’investimento economico per la gestione dell’impresa da pesca, dalla costruzione dell’imbarcazione ai costi del gasolio, corrispondono profitti derivanti dalla 8
vendita del pescato. Oltre che dal punto di vista ecologico, anche in termini economici, la sovrapesca determina effetti negativi sul capitale naturale rappresentato dalle popolazioni acquatiche. Infatti, questo capitale produce di anno in anno “interessi” in forma di nuovi organismi da pescare. Se si intacca questo capitale le nuove entrate si ridurranno e, quindi, si tenderà ad intaccare ulteriormente il capitale per poter ricavare almeno le medesime entrate. Tale processo protratto nel tempo condurrà alla riduzione del capitale fino al suo esaurimento condizionando negativamente le successive attività economiche. Se le modalità con cui viene effettuato il prelievo sono appropriate, ossia bilanciano le capacità rigenerative delle popolazioni di pesci, crostacei e molluschi, gli effetti saranno positivi e così il profitto economico; se, invece, il prelievo eccede la ricostituzione di tali popolazioni gli effetti saranno negativi generando situazioni di inefficienza economica. Gli effetti a livello ecologico ed economico si rifletteranno su quelli sociali, soprattutto in termini di occupazione, reddito e qualità della vita degli operatori del settore (Spagnolo, 2006). La incessante crescita della popolazione umana richiede una maggiore quantità di risorse, innescando un processo irreversibile di maggiore consumo al di sopra delle capacità portanti del pianeta. Poiché questo non è poi tanto grande, da un pò di tempo, è stata ravvisata la necessità di un cambio di rotta nella gestione del patrimonio naturale. La crescita della popolazione (ma anche quella economica) non può essere illimitata rispetto a risorse limitate (Ehrlich ed Ehrlich, 1991). L’efficienza ecologica di fotosintesi nella biosfera è in media dell’1%, ma mentre per la foresta tropicale è intorno al 3,5% per i deserti è di circa lo 0,05%. Per avere più cibo e risorse conviene mantenere la foresta o aumentare il deserto? La risposta è scontata e implica una gestione del capitale naturale che miri alla conservazione degli ecosistemi e dei processi che consentono il mantenimento della vita. A livello mondiale sia l’erosione dei suoli (e la relativa desertificazione) che il prelievo delle risorse marine rappresentano problematiche ambientali ormai affrontate in termini globali e su principi di sostenibilità. Il concetto di sviluppo sostenibile, ossia di uno sviluppo che risponda ai bisogni del presente senza compromettere quelli delle generazioni future, è stato introdotto dalla Commissione Mondiale per lo Sviluppo e l’Ambiente (Commissione Brundtland, 1987). Tale concetto evidenzia la necessità di un’equità intergenerazionale nell’uso delle risorse. Con la conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, vengono definite le azioni da intraprendere per coniugare esigenze di sviluppo con principi di sostenibilità. In particolare, è attraverso l’adozione dell’agenda per il XXI secolo (Agenda 21) che vengono definite le linee programmatiche dirette ad assicurare la cooperazione internazionale nello sfruttamento sostenibile delle risorse e la protezione dell’ambiente. Per esempio, per contrastare l’innesco di processi di desertificazione occorre agire soprattutto sul mantenimento e sul controllo della copertura vegetale dei suoli nonché sull’utilizzo dei residui e rifiuti vegetali che concorrono alla loro fertilità e alla loro capacità di trattenere acqua. Qualora il suolo venga sottoposto ad agricoltura intensiva è necessario che le colture siano compatibili con le caratteristiche naturali dei terreni e dell’ambiente e che le comunità locali siano coinvolte nel ripristino di pratiche tradizionali che non soltanto riducano l’erosione ma anzi adottino processi di tipo conservativo che permettano di formare il suolo anziché consumarlo. Le più recenti convenzioni internazionali considerano lo sfruttamento delle risorse biologiche del mare su base ecosistemica ossia che includa una gestione sostenibile non soltanto degli stock ittici commerciali, ma anche del sistema ecologico che ne supporta la produzione. Tutti siamo consapevoli che il prezzo che paghiamo comprando il pesce dipende dai costi sostenuti per catturalo e per venderlo, ma quasi nessuno tiene conto del lavoro fatto dall’ecosistema marino per produrlo a partire dall’energia del sole. Per questo è fondamentale conservare intatte strutture e funzioni ecosistemiche che possano continuare a produrre beni e servizi per la vita sul pianeta. 9
L’approccio ecosistemico è stato specificamente trattato nella Conferenza di Reykjavik del 2001 sulla “Pesca responsabile negli ecosistemi marini”. Tale approccio considera gli impatti che la pesca ed altre attività umane determinano sull’ecosistema marino con l’obiettivo di contribuire alla sicurezza alimentare nel lungo periodo, allo sviluppo umano nonché alla conservazione degli habitat e delle relative risorse (Garcia et al., 2003). Le conclusioni di Reykjavik sono state ulteriormente ribadite, per esempio nel World Summit sullo Sviluppo Sostenibile tenutosi nel 2002 a Johannesburg, Sud Africa. Gli oceani, mari, isole e aree costiere costituiscono componenti essenziali ed integrate dell’ecosfera. Essi rappresentano aree critiche per la sicurezza alimentare globale e per sostenere la prosperità economica di differenti nazioni e soprattutto dei paesi in via di sviluppo. Bibliografia Commissione Brundtland G.H., 1987. Commissione mondiale indipendente sull’ambiente e lo sviluppo. Il futuro di noi tutti. Bompiani Editore. Commoner B., 1972. Il cerchio da chiudere. Garzanti. Ehrlich P., Ehrlich A., 1991. Un pianeta non basta. Muzzio Editore. FAO 2002. The state of the world fisheries and aquaculture 2002. FAO, Rome. Garcia S.M., Zerbi A., Aliaume C., Do Chi T., Lasserre G., 2003. The ecosystem approach to fisheries. Issue, terminology, principles, institutional foundations, implementation and outlook. FAO Fisheries Technical Paper, N. 443: 71 pp. Hardin G., 1968. The tragedy of the commons. Science, 162: 1243-48. Jackson J.B.C., Kirby M.X., Berger W.H., Bjorndal K.A., Botsford L.W., Bourque B.J., Bradbury R.H., Cooke R., Erlandson J., Estes J.A., Hughes T.P., Kidwell S., Lange C.B., Lenihan H.S., Pandolfi J.M., Peterson C.H., Stenek R.S., Tegner M.J., Warner R.R., 2001. Historical Overfishing and the Recent Collapse of Coastal Ecosystems. Science, 293: 629- 638. King M., 1995. Fisheries Biology, Assessment and Management. Fishing News Books. Blackwell Science. Marten C.G., Polovina J.J., 1982. A comparative study of fish yields from various tropical ecosystems. In: Theory and management of tropical fisheries (eds Pauly D. & Murphy G.I.). ICLARM Conference Proceedings, 9. Nybakken J.W., 1997. Marine Biology. An ecological approach. Addison-Wesley Educational Publishers Inc. Odum E.P., 2001. Ecologia: un ponte tra scienza e società. Piccin. Odum E.P., Barrett G.W., 2007. Fondamenti di ecologia. Piccin. Pauly D., 1983. Some simple methods for the assessment of tropical fish stocks. Fish. Tech. Pap. 234: 52 pp. Pauly D., Christensen V., 1995. Primary production required to sustain global fisheries. Nature, 374: 255-257. Pauly D., Christensen V., Dalsgaard J., Froese R., Torres R.F.Jr., 1998. Fishing down marine food webs. Science, 279: 860-863. Roberts C.M., Hawkins J.P., 1999. Extinction risk in the sea. TREE, 14: 241-245. Spagnolo M., 2006. Elementi di economia e gestione della pesca. FrancoAngeli. Vitousek P.M., Ehrlich P.R., Ehrlich A.H., Matson P.A., 1986. Human Appropriation of the Products of Photosynthesis. BioScience, 36 (6): 368-373. Walters C., Maguire J.-J., 1996. Lessons for stock assessment from the northern cod collapse. Reviews in Fish Biology and Fisheries, 6: 125-137. Whittaker R.H., 1975. Communities and Ecosystems, 2nd Ed. Macmillan, London. 10
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