CAPODANNO 2014-15 Fondazione Teatro La Fenice di Venezia

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CAPODANNO 2014-15 Fondazione Teatro La Fenice di Venezia
Fondazione
             Teatro La Fenice di Venezia

                             Concerto di
CAPODANNO                                     2014-15

in collaborazione con

Regione del Veneto e Arte                  FONDAZIONE TEATRO LA FENICE
                                                   DI VENEZIA
CAPODANNO 2014-15 Fondazione Teatro La Fenice di Venezia
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albo dei soci

                soci fondatori

                soci sostenitori
CAPODANNO 2014-15 Fondazione Teatro La Fenice di Venezia
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FONDAZIONE TEATRO LA FENICE
            DI VENEZIA

in coproduzione con

                        TEATRO LA FENICE
               martedì 30 dicembre 2014 ore 17.00
              mercoledì 31 dicembre 2014 ore 16.00
          giovedì 1 gennaio 2015 ore 11.15 diretta Rai 1

                              con il contributo di

                             in collaborazione con
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Daniel Harding.
                  foto © Julian Hargreaves
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LUDWIG VAN BEETHOVEN
       Die Weihe des Hauses (La consacrazione della casa)
                      ouverture op. 124
              Sinfonia n. 8 in fa maggiore op. 93
                     Allegro vivace e con brio
                      Allegretto scherzando
                        Tempo di menuetto
                          Allegro vivace

                     GIOACHINO ROSSINI
                    La gazza ladra: Sinfonia
                    GAETANO DONIZETTI
         Lucia di Lammermoor: «D’immenso giubilo»
                       GIACOMO PUCCINI
                          La bohème:
«Che gelida manina» - «Mi chiamano Mimì» - «O soave fanciulla»
                         NINO ROTA
               Napoli milionaria: Boogie-woogie
                   AMILCARE PONCHIELLI
          La Gioconda: Can-can dalla Danza delle ore
                        GIUSEPPE VERDI
           Luisa Miller: «Quando le sere, al placido»
             La traviata: «Sempre libera degg’io»
            Nabucco: «Va’ pensiero sull’ali dorate»
              La traviata: «Libiam ne’ lieti calici»
                            direttore
                     Daniel Harding
                Maria Agresta soprano
              Matthew Polenzani tenore
         Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
           maestro del Coro Claudio Marino Moretti
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1.   Ludwig van Beethoven
2.   Gioachino Rossini
3.   Gaetano Donizetti
4.   Giacomo Puccini
5.   Nino Rota
6.   Amilcare Ponchielli
7.   Giuseppe Verdi             7
Roberto Mori
Note al programma

LUDWIG VAN BEETHOVEN, Die Weihe des Hauses op. 124
Tra il 1801 e il 1822 Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770 – Vienna, 1827) compone
undici ouverture, fra cui le tre Leonore e Fidelio op. 72c concepite per la sua unica ope-
ra teatrale: Fidelio. Le altre sono musiche di scena destinate a tragedie, commedie e bal-
letti di altri autori: le più note ed eseguite sono Coriolano op. 62 ed Egmont op. 84;
meno frequentate e interessanti Le creature di Prometeo op. 43, Re Stefano op. 117,
Le rovine d’Atene op. 113 e La festa onomastica op. 115.
    L’ultima, in ordine cronologico, è Die Weihe des Hauses op. 124 (La consacrazio-
ne della casa, ovvero L’inaugurazione del teatro), scritta nel 1822 per la riapertura del
restaurato Theater in der Josephstadt a Vienna. Si tratta di una pagina che per la con-
cezione formale unitaria, la complessità di alcuni sviluppi e la sapienza dell’orchestra-
zione supera la dimensione del semplice pezzo di circostanza. Ideata in uno spirito
quasi händeliano, è caratterizzata da sonorità grandiose, solenni e, soprattutto, dalla
presenza dell’elemento contrappuntistico, con l’inseguimento delle voci in una scrittu-
ra fugata.
    I cinque accordi dell’orchestra (Maestoso e sostenuto) che aprono l’Ouverture sem-
brerebbero preludere a un clima drammatico, ma a prevalere poco dopo è un caratte-
re di marziale festosità. Sul pizzicato degli archi, i fiati intonano infatti un tema solen-
ne ripreso successivamente da tutta l’orchestra a ritmo di marcia. Seguono una vivace
fanfara affidata a trombe e timpani, contrappuntata dai fagotti (Un poco più vivace), e
un passaggio interamente staccato (Meno mosso) che porta a una parentesi più intimi-
sta dei soli archi. A partire dall’Allegro con brio la scrittura si infittisce e si risolve in
una fuga scattante e luminosa, non senza qualche affinità con alcuni passaggi della No-
na Sinfonia che non a caso appartiene, insieme con la Missa solemnis, allo stesso pe-
riodo creativo in cui nasce questa ouverture.

LUDWIG VAN BEETHOVEN, Sinfonia n. 8 in fa maggiore op. 93
È la più breve e atipica delle sinfonie di Beethoven. La meno amata dal pubblico e la
più discussa dalla critica: una specie di Cenerentola. Le dimensioni ridotte, la presenza
di numerosi stilemi preromantici, di tratti umoristici e burleschi, fanno della Sinfonia
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n. 8 in fa maggiore op. 93 un’opera disorientante, antitetica rispetto all’immagine del
titano da sempre associata al genio di Bonn.
    La composizione inizia nel 1811 e viene completata tra l’estate e l’autunno del
1812, quasi in parallelo alla stesura della Settima. La prima esecuzione pubblica ha
luogo, sotto la direzione dell’autore, nella Redoutensaal di Vienna il 27 febbraio 1814,
in un concerto che comprende anche la Sinfonia n. 7 op. 92 e La vittoria di Welling-
ton op. 91. Stando a un resoconto pubblicato dalla «Allgemeine musikalische Zei-
tung», l’opera non viene accolta con particolare entusiasmo. L’imbarazzo del pubbli-
co e dei primi commentatori si spiega con l’inatteso ritorno di Beethoven ai modi di
Haydn e Mozart dopo tante esperienze innovatrici: quasi un voltafaccia rispetto al mi-
to sinfonico da lui stesso costruito.
    Il ritorno all’antico è evidente soprattutto nel Tempo di menuetto – che recupera la
danza simbolo del Settecento galante – e nel Trio centrale con l’uso dei fiati soli in sti-
le di serenata settecentesca; pure il Finale riallaccia i legami con i finali giocosi di
Haydn. Questi richiami formali al passato, tuttavia, non vanno interpretati come un
momento di disimpegno o un passo indietro. Si tratta piuttosto di una affermazione di
umorismo e di vitalità capace di sorprendere e di giocare con le forme. Non a caso la
sapienza costruttiva, la leggerezza scherzosa e il misurato gusto ritmico dell’Ottava sa-
ranno oggetto di ammirazione da parte di Stravinskij e indurranno il musicologo Paul
Bekker a individuare in questo lavoro «la liberazione da ogni peso terrestre, l’assoluto
superamento della materia, verso una forma di pura saggezza speculativa».
    La sinfonia sembra scandire le tappe di un itinerario che da un inizio festoso e sere-
no arriva alla massima tensione dell’ultimo tempo, spalancando profondità improvvi-
se e inattese aperture di grande pathos.
    Il primo movimento, Allegro vivace e con brio, ha una struttura bitematica. Il pri-
mo motivo, energico e cantabile, si presenta senza introduzione e, a sorpresa, si incep-
pa poco dopo. Dall’arresto si genera un ostinato ritmico, quasi un ticchettio, che per-
corre l’intero movimento e, con opportune variazioni, tutta la sinfonia. Viene in mente
il meccanismo di un pendolo, pulsante e nervoso, che richiama quello famoso innesca-
to da Haydn nella Sinfonia n. 101 in re maggiore (L’orologio). Subito dopo appare a
sorpresa il secondo tema, più dolce e meditativo. Lo sviluppo, tra inceppamenti e ri-
prese, procede tumultuosamente, ma più che drammaticità genera un diffuso senso di
ironia, a tratti perfino di sarcasmo, per approdare – con effetto straniante – a una co-
da che si spegne in pianissimo con la citazione dell’inciso iniziale.
    Il canonico tempo lento è sostituito nell’Ottava da un breve Allegretto scherzando,
basato sul tema di un canone composto da Beethoven in omaggio all’inventore del mo-
derno metronomo, Johann Nepomuk Mälzel. L’impalcatura ritmica a «tic-tac» dei le-
gni sostiene una linea melodica degli archi, ora incisiva ora grottesca, continuamente
variata, in un ‘montaggio’ meccanico e oggettivo che tanto piacerà a Stravinskij.
    Uno spirito settecentesco aleggia, a gloria dei minuetti haydniani, nel successivo
Tempo di menuetto. Non si tratta, tuttavia, della riesumazione nostalgica di una forma
superata. L’operazione è sempre ironica, ma questa volta l’ironia ha qualcosa di greve
NOTE AL PROGRAMMA                                                                                                  7

e il risultato è parodistico. Si pensi ai bruschi accordi sforzati che scuotono a tratti la
melodia principale, o all’irrompere, poco prima del Trio, di un motivo di fanfara rin-
forzato dai colpi dei timpani: sembra quasi che la danza ancien régime debba soccom-
bere simbolicamente all’assalto rivoluzionario. Nel Trio la parodia si trasforma in no-
stalgica poesia: sopra il borbottio asmatico dei violoncelli, i corni e il clarinetto ridanno
vita alla serena, giovanile melodia di un minuetto composto da Beethoven nel 1792.
    La meccanicità parodistica si afferma anche nell’Allegro vivace finale. Concitato e
scattante, è una ripresa sofisticata del finale burlesco alla Haydn, con qualche risvolto
di allegria rossiniana ante litteram. Il movimento, dalla forma labirintica, è uno strano
amalgama di sonata e rondò, dove l’estro inventivo è pari alla sapienza polifonica. L’ef-
fetto ironico, in questo caso, nasce non solo dal disordine formale, ma anche da altri
elementi, come il goffo ticchettio ripreso dal primo tema del primo movimento, legger-
mente variato, o il do diesis a piena orchestra che qua e là irrompe beffardo, sbarran-
do il passo anche al tema principale.
    Beethoven sembra quasi ridere di se stesso e della sinfonia tout court. E in questo
ironico distacco, che sposta l’attenzione dai contenuti dell’opera d’arte ai suoi mecca-
nismi, Maynard Solomon arriverà a intravedere, oltre alla «dissoluzione dello stile eroi-
co», anche lo spirito della festa che «rovescia le regole della società».

La gazza ladra al PalaFenice, 1998; direttore Giancarlo Andretta, regia di Florian Malte Leibrecht, scene e costu-
mi di Mauro Pagano. Archivio storico del Teatro La Fenice. Lucia e Ninetta vezzeggiano la gazza nella sua gab-
bia, senza immaginare che la bestiola dispettosa è la ladra delle posate d’argento per il cui furto Ninetta rischierà
la condanna a morte.

GIOACHINO ROSSINI, Sinfonia dalla Gazza ladra
Vuoi per il carattere ‘semiserio’ e il gusto larmoyant, vuoi per le dimensioni abnormi di
una partitura quanto mai impegnativa, La gazza ladra (1817) suscita un impatto di-
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Lucia di Lammermoor al Teatro La Fenice, 1973, direttore Gianandrea Gavazzeni, regia di Alberto Fassini, sce-
ne di Pierluigi Samaritani, costumi di David Walker. Archivio storico del Teatro La Fenice. Il coro «D’immenso
giubilo» è interrotto dall’arrivo di Raimondo che annuncia che la novella sposa, Lucia, è impazzita e ha pugnala-
to lo sposo.
NOTE AL PROGRAMMA                                                                         9

verso rispetto ad altre opere di Rossini. Giocata sul mobile trapasso fra commedia e
tragedia, non raggiunge infatti l’astratta brillantezza virtuosistica del repertorio buffo,
né i vertici drammatici e belcantistici di quello serio. Ciononostante la Gazza tiene ban-
co con l’indiscussa bellezza e comunicativa di molte pagine, tra cui la celeberrima Sin-
fonia che apre la seconda parte di questo concerto.
    Composto in tempi rapidi, secondo quanto affermato dallo stesso Rossini (anche se
in una lettera di dubbia attendibilità), il brano è aperto da un triplice rullo di tamburo,
attorno al quale è nata una ricca aneddotica, che ipotizza il tentativo del compositore
di catturare l’attenzione di un pubblico chiassoso e distratto. Dal solenne Maestoso
marziale, che allude all’atmosfera militaresca che aleggia nell’opera, al celebre tema e
ai tipici effetti di crescendo dell’Allegro, fino all’altrettanto celebre secondo tema enun-
ciato dall’oboe a cui i violini rispondono con delicatezza impalpabile, questa pagina è
tutto un susseguirsi di invenzioni e schermaglie sonore, di estro e vitalismo.

GAETANO DONIZETTI, «D’immenso giubilo» da Lucia di Lammermoor
Dopo Rossini, è difficile immaginare una pagina di Lucia di Lammermoor (1835) che
presenti effetti sonori festosi e travolgenti. Tratto da un romanzo ‘gotico’ di Walter
Scott e ambientato sullo sfondo dei paesaggi nebbiosi e dei tetri manieri della Scozia, il
capolavoro di Donizetti esprime l’essenza dell’opera italiana degli anni trenta dell’Ot-
tocento, l’aspirazione del melodramma a specchiarsi nelle cupe inquietudini del primo
Romanticismo, nella dimensione del perturbante. Ambientazione e paesaggio fungono
da terreno propizio allo scatenarsi di passioni sconvolgenti, ricondotte però entro i li-
miti di un lirismo idealizzante, che ha come baricentro formale il canto, inteso come
veicolo espressivo privilegiato e diretto di quelle passioni.
   In questo quadro, tuttavia, nella terza scena del terzo atto figura il coro «D’immenso
giubilo» che, su un vivace ritmo di danza, accompagna i festeggiamenti per le nozze di
Lucia e Lord Arturo e il relativo accordo politico tra i Ravenswood e gli Ashton. Una mu-
sica festosa che fa da contrasto con la situazione drammatica incentrata su un matrimo-
nio di convenienza e, soprattutto, con la successiva apparizione di Raimondo che inter-
rompe canti e danze annunciando che Lucia, in preda a un raptus, ha pugnalato lo sposo.

GIACOMO PUCCINI, «Che gelida manina», «Mi chiamano Mimì»
e «O soave fanciulla» dalla Bohème
Tutt’altre atmosfere contrassegnano invece La bohème (1896), che forse più di ogni al-
tra opera rispecchia l’anima di Puccini, incline alla penombra, alle atmosfere crepusco-
lari, ai sentimenti fugaci. Facendo leva sulla componente elegiaca, Puccini finisce col ri-
spondere in pieno alle aspettative musicali della borghesia italiana di fine Ottocento,
sensibile alle sirene di un canto malinconico, espressione di sentimenti languidi. Di qui
l’adozione di un linguaggio nuovo, aderente alla poesia delle piccole cose, più sugge-
stivo ed evocativo che verista.
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«O soave fanciulla» nel primo atto della Bohème al Teatro La Fenice, 2011; direttore Juraj Valcuha, regia di Fran-
cesco Micheli, scene di Edoardo Sanchi, costumi di Silvia Aymonino. In scena: Sébastien Guèze (Rodolfo) e Lilla
Lee (Mimì). Foto © Michele Crosera. Archivio storico del Teatro La Fenice.
NOTE AL PROGRAMMA                                                                         11

    Lo stile melodico assume un’impronta libera, ai limiti dell’improvvisazione, mentre
le frasi tendono a uscire da schemi precisi e regolari, per dare un’impressione di spon-
taneità e naturalezza. Viene alla ribalta anche l’aspetto della vocalità, «il calore sensuale
e lo struggente fulgore della linea vocale» (Carner). Ci sono momenti in cui le emozio-
ni esplodono e conquistano i sentimenti dell’ascoltatore con la loro immediata orec-
chiabilità. È il caso dell’aria di Rodolfo «Che gelida manina», a cui seguono a ruota nel
primo atto (e nel programma di questa sera) l’aria del soprano «Mi chiamano Mimì»
e il duetto «O soave fanciulla». Di primo acchito si ha la sensazione di un discorso fon-
dato su motivi facili e sinuosi. Ma a una analisi più attenta si individua un linguaggio
estremamente mobile, organizzato attorno a un canto di conversazione sorretto da un
tessuto orchestrale finemente sinfonico, anche se a volte dissimulato da una vocalità
espansa.

NINO ROTA, Boogie-woogie da Napoli milionaria
Un salto di quasi un secolo e arriviamo all’eclettismo musicale di Napoli milionaria, ul-
timo lavoro composto per il teatro lirico da Nino Rota, ricavato dall’omonima com-
media di Eduardo De Filippo e rappresentato per la prima volta al Festival di Spoleto
nel 1977. Accolta freddamente dal pubblico e censurata da quasi tutta la critica italia-
na dell’epoca, l’opera è stata ripesa di recente e in parte rivalutata. Quello che sembra-
va un calderone tra verismo, canzone napoletana, frammenti di colonne sonore cine-
matografiche e musical americano, ora appare una operazione in cui codici e linguaggi
disuguali (musica, prosa, melodramma, cinema, danza) si contaminano e si fondono in
modo spesso efficace. Non un capolavoro, dunque, ma un lavoro interessante, costrui-
to con un sapiente gioco di incastri e contenente pagine di indubbia suggestione.
   Nel secondo atto Rota gioca con il repertorio americano – dal jazz al musical, da
Gershwin a Bernstein – contaminandolo con autocitazioni di temi attinti alle proprie
colonne sonore. La musica del boogie-woogie, danzato allegramente dai soldati ameri-
cani e dalle «segnorine» al seguito, è infatti un motivo che compare originariamente
nella Dolce vita di Fellini (un tema intitolato Cadillac) e confluisce poi nella colonna
sonora di un altro capolavoro felliniano, 8 e ½.

AMILCARE PONCHIELLI, Can-can dalla Danza delle ore nella Gioconda
Contesa fra sussurri e grida, volgarità e finezze, La Gioconda di Amilcare Ponchielli
(1876) è un feuilleton a suo modo esemplare per la fitta rete di intrighi, l’azione ricca
di movimento e colpi di scena. Se il libretto di Boito mette a punto una summa del ro-
manticismo «anatemico e macàbro» al limite della parodia, Ponchielli smorza con lo
scavo e la pertinenza della musica le vuote acrobazie di un testo artificioso. Senza tan-
ti proclami, il compositore dimostra di aver assimilato la lezione del Verdi ‘progressi-
vo’, in cammino verso la parola scenica, e di saperla sviluppare, infondendo linfa me-
lodica a incisi che in altre mani sarebbero caduti nell’anonimato. Riesce così a
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conciliare la tradizione del canto italiano con le nuove acquisizioni armoniche, sinfoni-
che e strutturali derivate dalla scuola francese e dal teatro di Wagner.
   La Danza delle ore si inserisce come una sospensione del dramma nel corso del ter-
zo atto. Nel corso di un ricevimento alla Ca’ d’Oro di Venezia, Alvise Badoero – in-
quisitore di Stato che ha appena imposto il suicidio alla moglie fedifraga – riceve gli
ospiti proponendo uno spettacolo in cui le ballerine raffigurano le ore del giorno. Il mo-
mento più celebre di questa pagina («le ore del giorno») mima modelli settecenteschi,
evocando una galanteria falso-rococò che contrasta nettamente con lo stile del galop fi-
nale (eseguito nel concerto di questa sera) desunto dalla contemporaneità francese: uno
scatenato can-can che potrebbe tranquillamente figurare in una operetta di Offenbach.

GIUSEPPE VERDI, «Quando le sere, al placido» da Luisa Miller
Altro cambio di atmosfera con Luisa Miller (1849), una tragedia romantica di amore
e morte ricavata dal dramma di Schiller Kabale und Liebe (Amore e raggiro), di cui il
libretto di Cammarano ridimensiona la portata politica e il contesto ideologico. E non
solo per problemi di censura. Accantonate le deluse aspirazioni unitarie e risorgimen-
tali, a Verdi interessa il dramma interiore dei singoli, più che la descrizione di un pote-
re disumano e fondato sul crimine. Orientamento non a caso proseguito – e affinato –
in Stiffelio, Rigoletto e soprattutto nella Traviata. Diversamente dalla tragedia di Schil-

«Quando le sere, al placido», aria di Rodolfo (Giuseppe Sabbatini) nel secondo atto di Luisa Miller al Teatro La
Fenice, 2006; direttore Maurizio Benini, regia di Arnaud Bernard, scene di Alessandro Camera, costumi di Carla
Ricotti. Foto © Michele Crosera. Archivio storico del Teatro La Fenice.
NOTE AL PROGRAMMA                                                                         13

ler, insomma, Luisa Miller non è un atto di denuncia contro l’assolutismo: è un’opera
intimista, centrata sul tormento amoroso della protagonista.
    Verdi la considerava tuttavia «opera da tenore». E al tenore è affidata non a caso la
pagina più celebre: «Quando le sere, al placido». Collocata nel secondo atto e soste-
nuta da una orchestrazione curata e raffinata, la struggente aria strofica di Rodolfo si
muove quieta su gradi contigui e si contraddistingue per l’estasi cantabile e la dolce me-
lodia amorosa di stampo belliniano.

GIUSEPPE VERDI, «Va’ pensiero sull’ali dorate» da Nabucco
Gli ultimi tre brani, a rigore, non avrebbero bisogno di presentazioni. Ogni esecuzione
di «Va’ pensiero» conferma del resto la capacità di presa popolare di un’opera che, die-
tro le sagome degli eroi biblici, lascia intravedere la speranza di risorgimento e indi-
pendenza di un popolo.
    Vero è che Nabucco (1842) risulta discontinuo nell’empito guerresco e porta in sce-
na un popolo quasi sempre impaurito o devotamente in preghiera. Ed è vero inoltre che
certa mitologia è stata costruita a posteriori. È solo dopo l’unità d’Italia che «Va’ pen-
siero» entra nella memoria collettiva come simbolo dell’era risorgimentale, allegoria di
eventi lontani e idealizzati.
    Tuttavia, bisogna considerare che da questa mitologia oggi non si può prescindere:
nelle opere politiche verdiane del periodo 1842-1849, il carattere risorgimentale è espli-
cito e, in qualche caso, rappresenta il cuore stesso della composizione, il germe ispira-
tore. Nabucco, in particolare, segna la nascita di una poetica patriottica e di sentimen-
ti nazionalistici assenti nei lavori precedenti (Oberto e Un giorno di regno).
Naturalmente non si tratta di una componente esclusiva. Nabucco è sì una tragedia co-
rale, agitata dallo scontro di grandi passioni e di ancor più grandi fedi, ma contiene pu-
re espansioni liriche e nostalgie belcantistiche toccanti, lascia ampio spazio all’afflato
mistico, a quello dolente e smarrito. Il suo fascino, in fondo, nasce proprio dalla con-
vivenza di elementi contraddittori.

GIUSEPPE VERDI, «Sempre libera degg’io» e «Libiam ne’ lieti calici» dalla Traviata
Nessuno sfondo storico ingombrante, invece, per La traviata, titolo strettamente lega-
to alla Fenice (1853). Opera scarna, fulminea, ha un linguaggio musicale ridotto al-
l’osso e una concentrazione drammatica mozzafiato. Si tratta, a tutti gli effetti, di una
tragedia da salotto borghese, incentrata sui conflitti intimi e psicologici: la virtuosistica
cabaletta che chiude il primo atto, «Sempre libera», esprime ad esempio, attraverso un
canto di coloratura impegnativo, i conflitti di Violetta lacerata fra ansia di godimento
e rinuncia, tra il piacere e l’amore vero, sentimento che la protagonista ancora non co-
nosce e di cui però presagisce l’altra faccia: quella del sacrificio.
    Musicalmente, il nucleo conflittuale si basa sulla contrapposizione fra vita monda-
na e domestico-borghese. Di qui il continuo alternarsi di un registro orchestrale came-
14                                                                                        ROBERTO MORI

«Libiam ne’ lieti calici»: il Brindisi della Traviata nell’allestimento che inaugurò (novembre 2004) il Tea-
tro La Fenice ricostruito; direttore Lorin Maazel, regia di Robert Carsen, scene e costumi di Patrick Kin-
month. In scena: Patrizia Ciofi (Violetta), Alfredo Saccà (Alfredo). Foto © Michele Crosera. Archivio sto-
rico del Teatro La Fenice.

ristico-intimista, espressione del lato privato della vicenda, e di un registro sinfonico
brillante, legato alle manifestazioni di mondanità. A queste ultime appartiene il cele-
berrimo «Libiam ne’ lieti calici», che chiude festosamente il concerto di questa sera. In-
tonato da Alfredo e ripreso da Violetta e poi dal coro, il Brindisi è un ampio concerta-
to dove il brillante dialogo fra i due protagonisti, impegnati in una serie di frasi a
domanda e risposta, rispecchia a ritmo di valzer l’ansiosa voglia di vivere del demi-
monde.
Roberto Mori
Programme Notes

LUDWIG VAN BEETHOVEN, Die Weihe des Hauses op. 124
Between 1801 and 1822 Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770 – Vienna 1827) com-
posed eleven overtures, including the three Leonore and Fidelio op. 72c, written for his
only opera: Fidelio. The others were to be scene music for tragedies, comedies and bal-
lets by other authors; the most famous and frequently performed are Coriolanus op. 62
and Egmont op. 84; less common and interesting are The Creatures of Prometheus op.
43, King Stephen op. 117, The Ruins of Athens op. 113 and Zur Namensfeier op. 115.
    The last in chronological order is Die Weihe des Hauses op. 124 (The Consecration
of the House, or the Inauguration of the Opera House), composed in 1822 for the re-
opening of Theater in der Josephstadt in Vienna after restoration. Owing to its united
formal conception, the complexity of some of its developments and its skilful orches-
tration, this composition is much more than a piece simply written for an occasion.
Conceived in what is almost a Händel-like spirit, it is characterised by majestic and
solemn sonority and, above all, by the counterpoint element, with the succession of
voices in a fugato composition.
    The five orchestra chords (Maestoso e sostenuto) that open the Overture seem to be
announcing a dramatic atmosphere but almost immediately a more martial-like festive
climate prevails. To the plucking of the strings, the woodwind strike up a solemn mo-
tif that is then repeated by the whole orchestra in a march rhythm. This is followed by
a lively fanfare played by trumpets and kettledrums, counterpointed by bassoons. With
the Allegro con brio the composition becomes denser, ending in a vivacious, brilliant
fugue that is reminiscent of some passages of the Ninth Symphony that was also writ-
ten in the same period as this overture, as was the Missa Solemnis.

LUDWIG VAN BEETHOVEN, Symphony no. 8 in F major op. 93
This is the shortest and most atypical of Beethoven’s symphonies. It is the least popu-
lar with the public and the most controversial with critics: a sort of Cinderella. Its re-
duced length, the presence of countless pre-romantic stylistic elements, light-hearted
and burlesque passages all make Symphony no. 8 in F major, op 93 a disconcerting
work that is anti-ethical to the image of the titan that has always been associated with
the genius from Bonn.
14                                                                         ROBERTO MORI

    Beethoven began the work in 1811, completing it in the summer/autumn of 1812,
almost parallel to his composition of the Seventh. Conducted by the composer himself,
it had its debut in the Redoutensaal in Vienna on 27 February 1814 in a concert that
also included Symphony no. 7, op. 92 and Wellington’s Victory op. 91. According to a
review printed in the “Allgemeine musikalische Zeitung”, the opera was not received
with particular enthusiasm. The public’s embarrassment and the first comments explain
Beethoven’s unexpected return to Haydn and Mozart’s stylistic features, after countless
innovative experiences: a sort of about-turn compared to the symphonic myth he him-
self had created.
    A return to the past is particularly clear in the Tempo di menuetto, which revives the
symbol dance of the gallant eighteenth century, and in the central Trio with its use of
solo wind instruments in an eighteenth-century serenata style; the Finale also evokes
ties with Haydn’s joyful finales. Nevertheless, these formal allusions to the past are not
to be interpreted as a moment of disengagement or a step backwards. On the contrary,
they are an affirmation of humour and a vitality that knows how to surprise and play
with forms. It is no coincidence that Stravinsky admired the constructive skill, playful
lightness and measured rhythmic delight of the Eighth; it was these that the musicolo-
gist Paul Bekker was to identify in this piece as “the liberation of any earthly burden,
the total overcoming of material, towards a form of pure speculative wisdom”.
    The symphony seems to mark the stages of an itinerary that has a festive, serene be-
ginning, reaching the greatest tension in the last tempo, opening up sudden depths and
unexpected openings of the greatest pathos.
    The first movement, Allegro vivace e con brio has a bipartite thematic structure. The
first motif is energetic and cantabile, and is presented without any introduction; after a
while it unexpectedly stalls. This generates a rhythmic persistence that is a sort of pit-
ter-patter that pervades the entire movement and, with apt variations, the symphony. It
evokes the mechanism of a pulsating, nervous metronome that is reminiscent of
Haydn’s famous one in his Symphony no. 101 in D major (The Clock). The second
theme appears unexpectedly immediately afterwards and is sweeter and more contem-
plative. With stops and starts, the development continues tumultuously but instead of
generating a sense of dramatic power it creates a diffused sense of irony, at times even
sarcasm, before developing into a coda that dies out in pianissimo with a reference to
the initial inciso, creating an alienating effect.
    In the Eighth Symphony the canonic lento is replaced by a short Allegretto scher-
zando, based on the theme of a canon Beethoven composed to pay homage to the in-
ventor of the modern metronome, Johann Nepomuk Mälzel. The rhythmic “tick-tock”
rhythm of the woodwind supported by a melodic line by the strings, alternating the dis-
tinct with the grotesque, continues in a variation of a mechanical and objective “as-
semblage” that was to please Stravinsky so much.
    In the Tempo di menuetto that follows, an eighteenth-century spirit is floating in the
glory of Haydn’s minuet. However, this is no nostalgic resurrection of a form from days
gone by. Once again it is ironic, but this time there is something serious about the irony
PROGRAMME NOTES                                                                          15

and the result is parodistic. For example, the sudden sforzato chords that shake the
main melody at times, or the outburst of a fanfare motif supported by the beat of the
kettledrums just before the Trio: it is almost as if the ancien régime dance has to sym-
bolically succumb to the attack of the revolution. In the Trio the parody becomes nos-
talgic poetry: above the asthmatic murmur of the cellos, the horns and clarinet revive
the serene, youthful melody of a minuet Beethoven composed in 1792.
    The parodistic mechanicalism reappears in the final Allegro vivace. Excited and ag-
ile, it is a sophisticated revival of a Haydn-style burlesque finale, with a touch of Rossi-
ni’s ante litteram cheerfulness. With its labyrinthine form, the movement is a strange
melting pot of a sonata and rondo, in which inventive inspiration equals polyphonic
skill. In this case the ironic effect not only comes from the formal disorder, but also
from other elements such as the clumsy ticking revived from the first theme in the first
movement, in a slight variation, or the C-sharp with the whole orchestra that interrupts
the mockery every now and then, blocking the passage of the main theme as well.
    Beethoven almost seems to be laughing at himself and the symphony tout court. And
it is in this ironic detachment that moves one’s attention from the contents of the opera
to its mechanisms that Maynard Solomon glimpses not only the “dissolution of the
heroic style” but also the spirit of the celebration that “overturns the rules of society”.

GIOACHINO ROSSINI, Overture of the Thieving Magpie
Whether because of its “semi-serious” nature, larmoyant style, or its unusual dimen-
sions and highly challenging score, The Thieving Magpie (1817) certainly creates a to-
tally different impact compared to Rossini’s other operas. Indeed, bordering on a fine
line between the comic and the tragic, it achieves neither the abstract virtuoso bril-
liance of the buffo repertoire nor the dramatic and bel canto heights of the serious
repertoire. Nevertheless, the Magpie matches the undisputed beauty and expansive na-
ture of many other pages, including the famous Overture that will open the second
half of this concert.
    Composed within a very short period according to Rossini (although in a letter of
questionable credibility), the passage starts with a triple drum roll that was at the ori-
gin of a wealth of anecdotes that say the composer might have been trying to catch the
attention of a noisy, distracted audience. With its solemn Maestoso marziale that al-
ludes to the military atmosphere enshrouding the opera, the famous theme and typical
crescendo effects of the Allegro, and the equally famous second theme played by the
oboes to which the violins reply with impalpable delicacy, this page offers a sequence
of sound inventions and skirmishes, creativity and vitality.

GAETANO DONIZETTI, “D’immenso giubilo” from Lucia di Lammermoor
After Rossini it is hard to imagine a piece from Lucia di Lammermoor (1835) that of-
fers festive, sweeping effects. Based on a “Gothic” novel by Walter Scott and set in a
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«Mi chiamano Mimì» nel primo atto della Bohème al Teatro La Fenice, 2011; direttore Juraj Valcuha, regia di
Francesco Micheli, scene di Edoardo Sanchi, costumi di Silvia Aymonino. In scena: Sébastien Guèze (Rodolfo) e
Lilla Lee (Mimì). Foto © Michele Crosera. Archivio storico del Teatro La Fenice.

foggy landscape with the gloomy fashions of Scotland, Donizetti’s masterpiece ex-
presses the very essence of Italian opera in the 1830s, the aspiration of melodrama to
reflect itself in the bleak restlessness of early Romanticism in the form of disquiet. The
setting and landscape act as the perfect terrain for an outburst of overwhelming pas-
sion that leads back, however, to the limits of an idealising lyricism that has canto as
its formal barycentre, in the sense of the privileged and direct expressive vehicle of
those passions.
PROGRAMME NOTES                                                                         17

   Here, however, in the third scene of the third act is the chorus “D’immenso giubi-
lo” that, to a lively dance rhythm accompanies the celebrations for Lucia’s and Lord
Arturo’s wedding and the relative political agreement between the Ravenswoods and
the Ashtons. Festive music to contrast the dramatic situation that focuses on a marriage
of convenience and, above all, with Raimondo who then appears, interrupting the
songs and dances with his announcement that Lucia, in a fit of rage, has stabbed the
groom.

GIACOMO PUCCINI, “Che gelida manina”, “Mi chiamano Mimì”
and “O soave fanciulla” from La Bohème
The atmosphere of La Bohème (1896) could not be more different; it is probably this
opera more than any other that reflects Puccini’s soul, tending to the shadows, a twi-
light atmosphere and fleeting sentiments. Playing on the elegiac element, with its at-
mosphere of the melancholic song of sirens and expression of languid sentiments Puc-
cini meets the musical expectations of the Italian bourgeoisie at the end of the
nineteenth century perfectly. Here he adopts a new language, one that adheres to the
poetry of small things and is more suggestive and evocative than veristic.
    The melodic style is free in character, reaching the limits of improvisation, while the
phrases tend to go beyond precise, regular patterns, creating an impression of spon-
taneity and naturalness. The vocal aspect, “the sensual warmth and poignant brilliance
of the vocal line” (Carner) also come to the fore. There are moments when the emo-
tions explode, conquering the listeners’ emotions with their immediate catchiness. This
is the case with Rodolfo’s aria, “Che gelida manina”, followed in the first act (and in
this evening’s programme) by the soprano’s aria “Mi chiamano Mimi” and the duet “O
soave fanciulla”. One immediately has the sensation of a discourse that is founded on
easy, sinuous motifs. But a more careful analysis reveals an extremely mobile language
that is arranged around a canto of conversation that is supported by a finely symphonic
orchestral fabric, even if it is at times disguised by extensive vocality.

NINO ROTA, Boogie-woogie from Napoli milionaria
Fast-forwarding almost one century and we come to the musical eclecticism of Napoli
milionaria, the last piece Nino Rota wrote for the opera, based on the same-named
comedy by Eduardo De Filippo; it had its debut at the Spoleto Festival in 1977. The
public gave it a frosty reception and it was censored by nearly all the Italian critics of
that time; it has only recently been revived and partially reassessed. What seems to be
a medley of verism, Neapolitan songs, fragments of film soundtracks and American
musicals now appears as an operation in which different codes and languages (music,
prose, melodrama, cinema and dance) infect one another and merge together, often to
great effect. This is therefore not a masterpiece but an interesting piece that has been
constructed by skilfully intertwining pages that are of unquestionable fascination.
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Eduardo De Filippo e Nino Rota autori dell’opera Napoli milionaria a Spoleto, durante le prove della prima rap-
presentazione, nel 1977. Venezia, Fondazione Giorgio Cini onlus, Archivio Nino Rota.

   In the second act Rota plays with the American repertoire – ranging from jazz to the
musical, Gershwin to Bernstein – contaminating it with pieces from his own sound
tracks. Danced so merrily by the American soldiers and “segnorine” afterwards, boo-
gie-woogie music is, in fact, a motif that originally appeared in Fellini’s Dolce vita (a
theme called Cadillac) before flowing into the sound track of another of Fellini’s mas-
terpieces, 8 e ½.

AMILCARE PONCHIELLI, Can-can from Dance of the Hours in La Gioconda
Torn between whispers and shouts, vulgarity and elegance, with its dense network of
intrigue, action and coup de theatre Amilcare Ponchielli’s La Gioconda (1876) is an ex-
emplary feuilleton. While Boito’s libretto portrays a summa of “anathematic and
macabre” romanticism bordering on parody, Ponchielli softens the acrobatic voids of
a contrived text with the depth and pertinence of its music. Without much ado, the
PROGRAMME NOTES                                                                                    19

La danza delle ore nella Gioconda, allestimento del Teatro La Fenice in Campo Sant’Angelo, luglio 1945;
direttore Antonino Votto, regia di Augusto Cardi.

composer shows he has assimilated Verdi’s ‘progressive’ lesson, on his way towards the
scenic word, and knows how to develop it by imbuing melodic sap to passages that, in
other hands, would have fallen into oblivion. He thus manages to reconcile the tradi-
tion of Italian canto with the new harmonic, symphonic and structural acquisitions
from the French school and Wagner’s theatre.
    The introduction of the Dance of the Hours acts as a suspension of the drama that
is underway in the third act. During a reception at the Ca’ d’Oro in Venice, Alvise Ba-
doero, a State inquisitor who has just made his faithless wife commit suicide, is receiv-
ing his guests and offering them a performance in which the ballerinas portray the
hours of the day. The most famous moment of this composition (“the hours of the
day”) imitates eighteenth-century models, evoking fake-rococo gallantry that is in clear
contrast to the style of the final gallop (performed in this evening’s concert) based on
French contemporaneity: an unrestrained can-can that could easily be in one of Offen-
bach’s operettas.
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GIUSEPPE VERDI, “Quando le sere, al placido” from Luisa Miller
We then have a total change of atmosphere with Luisa Miller (1849): a romantic
tragedy of love and death, the libretto of which is by Cammarano and is based on
Schiller’s Kabale und Liebe (Intrigue and Love), moderating the political significance
and ideological context – and not only because of problems regarding censorship. The
hopes for unification and the Risorgimento put aside, Verdi is more interested in the in-
terior drama of the individuals than the description of an inhumane power founded on
crime. A direction that he deliberately continues and refines in Stiffelio, Rigoletto and,
above all, in La Traviata. In other words, unlike Schiller’s tragedy, Luisa Miller is not
a condemnation of absolutism: it is an intimist opera that focuses on the protagonist’s
amorous anguish although Verdi actually regarded it as a “tenor’s opera”. Which is
why he gave the tenor the most famous page: “Quando le sere, al placido”. In the sec-
ond act and supported by careful, refined orchestration, Rodolfo’s moving strophic aria
glides gently across contiguous degrees, standing out for its singable ecstasy and its
sweet amoroso melody reminiscent of Bellini.

«Va’ pensiero sull’ali dorate», coro degli ebrei nel terzo atto di Nabucco al Teatro La Fenice, 2008; direttore Re-
nato Palumbo, regia e scene di Günter Krämer, costumi di Falk Bauer. Foto © Michele Crosera. Archivio storico
del Teatro La Fenice.

GIUSEPPE VERDI, “Va’ pensiero sull’ali dorate” from Nabucco
Strictly speaking, the last three pieces need no presentation. Every performance of “Va’
pensiero” is further confirmation of the popularity of an opera that, behind the shad-
ows of biblical heroes, offers a glimpse of the hope of the Risorgimento and independ-
ence of a people.
PROGRAMME NOTES                                                                           21

    What is true, however, is that the war-like vehemence in Nabucco (1842) is sporadic
and it presents a people that are almost always frightened or praying devotedly. It is al-
so true that some of the mythology was created afterwards. It was only after the Uni-
fication of Italy that “Va’ pensiero” became part of the collective memory as a symbol
of the Risorgimento, an allegory of idealised events in a distant past.
    Nevertheless, one must also bear in mind that today this mythology cannot be ig-
nored: In Verdi’s political works in the period from 1842 to 1849, their Risorgimento
character is explicit and, in the odd case, it is actually the real heart of the composition,
its inspirational embryo. Nabucco, in particular marks the birth of a patriotic poetry
and nationalistic sentiments that were absent in his earlier works (Oberto and Un gior-
no di regno). Obviously this was not the only element. Nabucco is a choral tragedy, ag-
itated by the conflict of great passions and even greater beliefs; but it also contains lyri-
cal warmth and touching bel canto nostalgia, as well as leaving considerable room for
mystic, sorrowful and bewildered inspiration. Its fascination basically lies in the com-
bination of contradictory elements.

GIUSEPPE VERDI, “Sempre libera degg’io” and “Libiam ne’ lieti calici” from La Traviata
On the other hand, there is no wieldy historical background behind La Traviata, an
opera with close ties to La Fenice (1853). An essential opera as quick as a flash, its mu-
sical language is reduced to the bare minimum and its dramatic concentration is breath-
taking. To all intents and purposes, it is a tragedy from the bourgeoisie circles, hinging
on intimate and psychological conflict: with its demanding coloratura canto, the virtu-
oso cabaletta at the end of the first act, “Sempre libera”, expresses, for example, Vio-
letta’s heartbreaking conflict between enjoyment and sacrifice, pleasure and true love,
a sentiment that the protagonist does not yet know although she already has a premo-
nition of its other face: sacrifice.
    The conflictual heart of the opera is based on the contrast of everyday and domes-
tic-bourgeoisie life. Hence the continuous succession of a chamber-intimist orchestral
register as an expression of the private aspect of the affair, and of a brilliant symphon-
ic register that is related to the display of high society life. The famous “Libiam ne’ li-
eti calici” belongs to the latter, bringing to a festive end this evening’s concert. Started
by Alfredo and then taken up first by Violetta and then the choir, the Toast is a large-
scale concertato in which the sparkling dialogue between the two protagonists with an
exchange of questions and answers reflects in a Waltz rhythm the demi-monde’s anx-
ious desire to live.
                                                             Translated by Tina Cawthra
Testi vocali
GAETANO DONIZETTI
Lucia di Lammermoor: «D’immenso giubilo»
(Galleria nel castello di Ravenswood, vaga-      di lido in lido,
mente illuminata per festeggiarvi le nozze       e avverta i perfidi
di Lucia. Dalle sale contigue si ascolta la      nostri nemici
musica di liete danze. Sopraggiungono            che a noi sorridono
molti gruppi di dame e cavalieri sfavillanti     le stelle ancor.
di gioia)                                      Che più terribili,
CORO                                             che più felici
D’immenso giubilo                                ne rende l’aura
   s’innalzi un grido:                           d’alto favor.
   corra la Scozia                                            (testo di Salvadore Cammarano)

GIACOMO PUCCINI
La bohème: «Che gelida manina!» - «Mi chiamano Mimì» -
«O soave fanciulla»
RODOLFO (tenendo la mano di Mimì)                V’entrar con voi pur ora
Che gelida manina!                                  ed i miei sogni usati
Se la lasci riscaldar.                              tosto si dileguar.
Cercar che giova? Al buio non si trova.          Ma il furto non m’accora,
Ma per fortuna è una notte di luna,                 poiché vi ha preso stanza
e qui la luna l’abbiamo vicina.                     la dolce speranza!
Aspetti, signorina,                              Or che mi conoscete,
le dirò con due parole                              parlate voi. Chi siete?
chi son, che faccio e come vivo. Vuole?             Vi piaccia dir.
(Mimì tace)                                    MIMÌ
   Chi son? Sono un poeta.                          Vi piaccia dir.Sì.
       Che cosa faccio? Scrivo.                  Mi chiamano Mimì,
       E come vivo? Vivo.                        ma il mio nome è Lucia.
   In povertà mia lieta                          La storia mia
       scialo da gran signore                    è breve. A tela o a seta
       rime ed inni d’amore.                     ricamo in casa e fuori.
   Per sogni, per chimere                        Sono tranquilla e lieta
       e per castelli in aria                    ed è mio svago
       l’anima ho milionaria.                    far gigli e rose.
   Talor dal mio forziere                        Mi piaccion quelle cose
       ruban tutti i gioielli                    che han sì dolce malìa,
       due ladri: gli occhi belli.               che parlano d’amor, di primavere,
TESTI VOCALI                                                                                     23

   di sogni e di chimere,                        (Rodolfo la bacia)
   quelle cose che han nome poesia...
                                                 MIMÌ (svincolandosi)
   Lei m’intende?
                                                 No, per pietà!
RODOLFO
                                                 RODOLFO
   Lei m’intende?Sì, sì.
                                                 No, per pietà!Sei mia!
MIMÌ
                                                 MIMÌ
    Mi chiamano Mimì,
                                                 V’aspettan gli amici…
    ed il perché non so.
    Sola, mi fo                                  RODOLFO
    il pranzo da me stessa.                      V’aspettan gli amici…Già mi mandi via?
    Non vado sempre a messa,                     MIMÌ
    ma prego assai il Signore.                   Vorrei dir... ma non oso...
    Vivo sola, soletta:                          RODOLFO
    là in una bianca cameretta                   Di’.
    guardo sui tetti e in cielo;
                                                 MIMÌ (con graziosa furberia)
    ma quando vien lo sgelo
                                                 Di’.Se venissi con voi?
    il primo sole è mio,
    il primo bacio dell’aprile è mio!            RODOLFO (sorpreso)
    Germoglia in un vaso una rosa…               Di’.Se venissi con voi?Che?… Mimì?
    Foglia a foglia la spio!                     (Con intenzione tentatrice)
    Così gentile                                 Sarebbe così dolce restar qui.
    il profumo d’un fiore!                       C’è freddo fuori.
    Ma i fior ch’io faccio, ahimè! non           MIMÌ
                                [hanno odore.    C’è freddo fuori.Vi starò vicina!…
Altro di me non le saprei narrare.               RODOLFO
Sono la sua vicina                               E al ritorno?
che la vien fuori d’ora a importunare.
                                                 MIMÌ (maliziosa)
(Mimì si avvicina alla finestra per modo che     E al ritorno?Curioso!
i raggi lunari la illuminano: Rodolfo, volgen-
                                                 RODOLFO
dosi, scorge Mimì avvolta come da un nim-
                                                 Dammi il braccio, o mia piccina.
bo di luce, e la contempla, quasi estatico)
                                                 MIMÌ (dà il braccio a Rodolfo)
RODOLFO                                          Obbedisco, signor!
O soave fanciulla, o dolce viso                  (S’avviano)
di mite circonfuso alba lunar,
                                                 RODOLFO
in te, vivo ravviso
                                                 Che m’ami di’…
il sogno ch’io vorrei sempre sognar!
Fremono già nell’anima                           MIMÌ (con abbandono)
le dolcezze estreme,                             Che m’ami di’…Io t’amo!
nel bacio freme amor!                            RODOLFO
MIMÌ                                             Che m’ami di’…Io t’amo!Amore!
(Oh! come dolci scendono                         MIMÌ
le sue lusinghe al core...                       Che m’ami di’…Io t’amo!Amore!Amor!
tu sol comandi, amore!...)
                                                           (testo di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica)
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GIUSEPPE VERDI
Luisa Miller: «Quando le sere, al placido»
RODOLFO                                    Allor ch’io muto, estatico
Quando le sere, al placido                    da’ labbri suoi pendea,
  chiaror d’un ciel stellato,                 ed ella in suon angelico
  meco figgea nell’etere                      «amo te sol» dicea,
  lo sguardo innamorato,                      tal che sembrò l’empireo
  e questa mano stringermi                    aprirsi all’alma mia!…
  dalla sua man sentia…                           ah!… mi tradia!…
     ah!… mi tradia!…                                     (testo di Salvadore Cammarano)

GIUSEPPE VERDI
La traviata: «Sempre libera degg’io»
VIOLETTA                                   Nasca il giorno, il giorno muoia
Sempre libera degg’io                        sempre lieta ne’ ritrovi
  folleggiar di gioia in gioia,              a diletti sempre nuovi
  vo’ che scorra il viver mio                dee volare il mio pensier.
  pei sentieri del piacer.                                 (testo di Francesco Maria Piave)

GIUSEPPE VERDI
Nabucco: «Va’ pensiero sull’ali dorate»
EBREI (incatenati e costretti al lavoro)   Arpa d’or dei fatidici vati,
Va’ pensiero sull’ali dorate,                perché muta dal salice pendi?
   va’, ti posa sui clivi, sui colli,        Le memorie nel petto raccendi,
   ove olezzano tepide e molli               ci favella del tempo che fu!
   l’aure dolci del suolo natal!           O simìle di Solima ai fati
Del Giordano le rive saluta,                 traggi un suono di crudo lamento,
   di Sïonne le torri atterrate…             o t’ispiri il Signore un concento
   Oh mia patria sì bella e perduta!         che ne infonda al patire virtù!
   Oh membranza sì cara e fatal!                                (testo di Temistocle Solera)
TESTI VOCALI                                                                                                 25

«Sempre libera degg’io», cabaletta di Violetta (Francesca Dotto) nel primo atto della Traviata al Teatro La Feni-
ce, 2014; direttore Diego Matheuz, regia di Robert Carsen, scene e costumi di Patrick Kinmonth. Foto © Miche-
le Crosera. Archivio storico del Teatro La Fenice.
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GIUSEPPE VERDI
La traviata: Brindisi
ALFREDO                           Godiam, c’invita un fervido
Libiam ne’ lieti calici             accento lusinghier.
   che la bellezza infiora,       TUTTI
   e la fuggevol ora              Godiam, la tazza e il cantico
   s’inebrii a voluttà.             le notti abbella e il riso;
Libiam ne’ dolci fremiti            in questo paradiso
   che suscita l’amore,             ne scopra il nuovo dì.
   poiché quell’occhio al core
   onnipotente va.                VIOLETTA
Libiamo; amor fra i calici        La vita è nel tripudio…
   più caldi baci avrà.
                                  ALFREDO
TUTTI                               Quando non s’ami ancora.
Libiamo; amor fra i calici
                                  VIOLETTA
   più caldi baci avrà.
                                    Nol dite a chi l’ignora.
VIOLETTA
                                  ALFREDO
Tra voi saprò dividere
                                    È il mio destin così…
   il tempo mio giocondo;
   tutto è follia nel mondo       TUTTI
   ciò che non è piacer.          Godiam, la tazza e il cantico
Godiam, fugace e rapido             le notti abbella e il riso;
   è il gaudio dell’amore;          in questo paradiso
   è un fior che nasce e muore,     ne scopra il nuovo dì.
   né più si può goder.                           (testo di Francesco Maria Piave)
Biografie

                           DANIEL HARDING
                           Nato ad Oxford, Daniel Harding ha iniziato la carriera come assistente di Sir Simon Rattle alla
                           City of Birmingham Symphony Orchestra, con la quale ha debuttato nel 1994. È stato poi assi-
                           stente di Claudio Abbado presso i Berliner Philharmoniker con i quali ha debuttato nel 1996. È
                           direttore musicale della Sveriges Radios Symfoniorkester, direttore ospite principale della London
                           Symphony Orchestra e partner musicale della New Japan Philharmonic. È direttore artistico del-
                           la Ohga Hall di Karuizawa in Giappone ed è stato recentemente nominato direttore onorario a
                           vita della Mahler Chamber Orchestra, di cui è stato direttore principale e direttore musicale dal
foto © Julian Hargreaves
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2003 al 2011. È stato inoltre direttore principale della Trondheim Symfoniorkester (1997-2000),
direttore ospite principale della Norrköpings Symfoniorkester (1997-2003) e direttore musicale
della Deutsche Kammerphilharmonie Bremen (1997-2003). Collabora regolarmente con orchestre
quali Wiener Philharmoniker, Dresden Staatskapelle (che ha entrambe diretto al Festival di Sali-
sburgo), Koninklijk Concertgebouworkest, Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks, Ge-
wandhausorchester di Lipsia, Orchestra Filarmonica della Scala, ed è stato ospite di Berliner Phil-
harmoniker, Münchner Philharmoniker, Orchestre National de Lyon, Oslo-Filharmonien, London
Philharmonic, Kungliga Filharmonikerna di Stoccolma, Orchestra Nazionale di Santa Cecilia, Or-
chestra of the Age of Enlightenment, Rotterdams Philharmonisch, hr-Sinfonieorchester, Orchestre
des Champs-Elysées. Tra le orchestre americane da lui dirette vi sono la New York Philharmonic,
la Philadelphia Orchestra, la Boston Symphony Orchestra, la Los Angeles Philharmonic e la Chi-
cago Symphony Orchestra. Nel 2005 ha inaugurato la stagione della Scala di Milano con Idome-
neo, seguito nel 2007 da Salome di Strauss, nel 2008 dal Castello del duca Barbablu di Bartók e
Il prigioniero di Dallapiccola, nel 2011 da Cavalleria rusticana e Pagliacci (Premio Abbiati) e nel
2013 da Falstaff. Ha inoltre diretto Ariadne auf Naxos, Don Giovanni e Le nozze di Figaro al Fe-
stival di Salisburgo con i Wiener Philharmoniker, The Turn of the Screw e Wozzeck al Covent Gar-
den, Die Entführung aus dem Serail alla Bayerische Staatsoper di Monaco, Die Zauberflöte alle
Wiener Festwochen e Wozzeck al Theater an der Wien. Collabora regolarmente con il Festival di
Aix-en-Provence dove ha diretto nuovi allesti-
menti di Così fan tutte, Don Giovanni, The
Turn of the Screw, La traviata, Evgenij Onegin
e Le nozze di Figaro. Nel 2013 ha debuttato
alle Staatsoper di Berlino e Vienna con Der
fliegende Holländer. Vincitore di numerosi
premi discografici (Grammy, Choc de l’année,
Académie Charles Cros, Gramophone), nel
2002 è stato nominato Chevalier de l’Ordre
des Arts et des Lettres dal governo francese e
nel 2012 è stato eletto membro dell’Accademia
reale svedese di musica.

MARIA AGRESTA
Vincitrice di numerosi concorsi canori, Maria
Agresta debutta ufficialmente nel 2007. Il pri-
mo grande successo arriva dopo qualche an-
no, nel 2011, con I vespri siciliani al Teatro
Regio di Torino diretti da Gianandrea Nose-
da. Da allora riceve inviti dai maggiori palco-
scenici internazionali. Canta Norma (ruolo
eponimo) a Tel Aviv, è Mimì nella Bohème al-
l’Arena di Verona, al San Carlo di Napoli, al
Teatro Regio di Torino, al Festival di Torre del
                                                   foto © Alessandro Moggi

Lago e alla Bayerische Staatsoper di Monaco,
Gemma di Vergy al Teatro Donizetti di Berga-
mo, Elvira in Don Giovanni alla Scala. Seguo-
no Il trovatore al Palau de les Arts di Valencia
BIOGRAFIE                                                                                       29

con Zubin Mehta, Carmen (Micaëla) al Masada Opera Festival in Israele e La traviata alla Sta-
atsoper di Berlino. Nel 2012 torna al Teatro alla Scala nella Bohème, dove ottiene un grandissi-
mo successo personale. Ottiene un altro grande successo nella Giovanna d’Arco in concerto a
Graz con la ORF Radio-Symphonieorchester di Vienna e canta Simon Boccanegra a Roma con
Riccardo Muti, I masnadieri e La bohème a Venezia, la Messa da Requiem di Verdi al San Car-
lo di Napoli diretta da Nicola Luisotti e alla Staatsoper di Berlino diretta da Daniel Barenboim,
Oberto conte di San Bonifacio alla Scala, Otello a Valencia con Mehta, La vestale a Dresda. Re-
centemente, La traviata all’Arena di Verona e a Guangzhou, Otello a Zurigo e a Genova, una
nuova produzione dei Puritani all’Opéra Bastille di Parigi, Il trovatore alla Scala, La bohème a
Tel Aviv e all’Opéra Bastille, Simon Boccanegra a Dresda diretto da Christian Thielemann. Ha
iniziato la stagione 2014-2015 con il debutto al Covent Garden nei Due Foscari diretti da An-
tonio Pappano e con Simon Boccanegra al Teatro La Fenice di Venezia diretto da Myung-Whun
Chung. Nel 2014 ha vinto il Premio Abbiati dell’Associazione nazionale dei critici musicali co-
me miglior soprano della stagione.

MATTHEW POLENZANI
Acclamato per la versatilità artistica e il fresco lirismo, ha iniziato la stagione 2014-2015 con la
Nona Sinfonia di Beethoven a Chicago con Muti, il Requiem di Verdi alla Scala con Chailly e Ido-
meneo (ruolo eponimo) al Covent Garden
di Londra. Vincitore del Premio Richard
Tucker nel 2004 e del Metropolitan Ope-
ra’s Beverly Sills Artist Award nel 2008, si
esibisce regolarmente al Metropolitan di
New York dove ha cantato in oltre 285 re-
cite, molte delle quali dirette dal suo men-
tore James Levine: tra queste Don Gio-
vanni, Così fan tutte, Die Zauberflöte,
L’italiana in Algeri, Il barbiere di Siviglia,
L’elisir d’amore, Maria Stuarda, Don Pa-
squale, Rigoletto, La traviata, Falstaff, Ro-
méo et Juliette, Die Meistersinger von Nür-
nberg, Salome. Ha inoltre interpretato Die
Entführung aus dem Serail, La clemenza di
Tito, La traviata, Roméo et Juliette, Les
contes d’Hoffmann e Werther alla Lyric
Opera di Chicago, Die Entführung aus
dem Serail, Il barbiere di Siviglia e Les con-
tes d’Hoffmann alla San Francisco Opera,
e Die Zauberflöte alla Los Angeles Opera.
Dopo il debutto in Lakmé di Delibes al-
l’Opéra di Bordeaux nel 1998, si è esibito
sui maggiori palcoscenici europei: Idome-
neo a Torino, Don Giovanni al Festival di
                                            foto © Dario Acosta

Salisburgo, Così fan tutte al Covent Gar-
den e all’Opéra di Parigi, I Capuleti e i
Montecchi a Parigi e Monaco di Baviera,
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