Art. 50 - Consenso dell'avente diritto - Filodiritto

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                              Direttore responsabile: Antonio Zama

                   Art. 50 - Consenso dell’avente diritto
                                    a cura di Vincenzo Giuseppe Giglio

1. Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente
disporne.

  Rassegna di giurisprudenza
  Ai fini della configurazione di una causa di giustificazione, l’imputato è gravato da un mero onere
  di allegazione, essendo tenuto a fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari
  all’accertamento di fatti e circostanze altrimenti ignoti che siano in astratto idonei, ove riscontrati,
  a configurare in concreto la causa di giustificazione invocata; ove tale onere di allegazione sia
  positivamente adempiuto dall’imputato, l’onere di dimostrare la non configurabilità della causa di
  giustificazione invocata grava sulla parte pubblica e, nei casi in cui residui il dubbio sull’esistenza di
  essa, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato (nella fattispecie,
  avente ad oggetto l’occupazione abusiva di un alloggio di edilizia popolare, la Corte, in applicazione del
  principio enunciato, ha disposto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata) (Sez. 2,
  35024/2020).
  L’esimente del consenso dell’avente diritto, quantomeno nella forma putativa è rinvenibile solo quando
  sussista un’obiettiva situazione che possa ragionevolmente indurre in errore l’agente sull’esistenza delle
  condizioni fattuali corrispondenti alla configurazione della scriminante (Sez. 3, 7186/1990, richiamata da
  Sez. 5, 50497/2018).
  Non integra il reato di lesione personale, né quello di violenza privata, la condotta del medico che
  sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato
  prestato il consenso informato, nel caso in cui l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle "
  leges artis", si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento
  delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza
  che vi fossero indicazioni contrarie da parte dello stesso (SU, 2437/2008).
  È noto tutto il travaglio dottrinario e giurisprudenziale circa il ruolo del consenso – espresso o non
  espresso dal paziente – intorno all’atto medico cui è sottoposto o si sottopone. A partire dalla
  innovativa sentenza 5639/1992, che sanzionò – a titolo di omicidio preterintenzionale – l’attività del
  chirurgo che sottopose il paziente, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, ad un intervento
  operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo
  aveva informato preventivamente e che solo era stato da quegli consentito, ritenendo irrilevante sotto il
  profilo psichico – la finalità pur sempre curativa della sua condotta, numerose sono state le decisioni che
  si sono occupate delle conseguenze – sotto il profilo penale – dell’attività medica "arbitraria", perché
  svolta contro o senza la volontà del paziente, spesso divergendo sulla soluzione da prediligere.
  Infatti, a meno di dieci anni dalla precedente pronuncia, la sezione quarta di questa Corte aveva –
   capovolgendo il precedente indirizzo – esclusa la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale
  qualora, in assenza di urgente necessità, fosse stata eseguita un’operazione chirurgica demolitiva, senza
  il consenso del paziente, prestato per un intervento di dimensioni più ridotte rispetto a quello poi
  eseguito, che ne avesse determinato la morte, poiché, per integrare l’omicidio preterintenzionale, era
In senso ancora più liberatorio per il medico si era espressa la sezione prima con la sentenza 26446/2002,
sul presupposto che il medico fosse sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato
necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di
esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto
eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l’omissione dell’intervento potesse
cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte (solo
in caso di dissenso espresso la Corte aveva ritenuto configurabile – in caso di morte del paziente –
 il diverso reato di violenza privata). Indirizzo confermato da Sez. 4, 11335/2008, sul rilievo che –
 a parte situazioni anomale e patologiche – la finalità curativa comunque perseguita dal medico è da
ritenere concettualmente incompatibile con la consapevole intenzione di provocare un’alterazione lesiva
dell’integrità fisica della persona offesa invece necessaria per l’integrazione degli atti diretti a
commettere il reato di lesioni richiesti dall’art. 584. Sul punto sono poi intervenute, come è noto, le
Sezioni unite (SU, 2437/2009), le quali hanno escluso la responsabilità del chirurgo – che abbia operato
senza il consenso del paziente – sia sotto il profilo della violenza privata che delle lesioni volontarie, a
fronte di un esito fausto dell’intervento. Questa sentenza, che ha affrontato un caso parzialmente diverso
da quello per cui è processo (caratterizzato, invece, da esito infausto), ha però sviluppato argomenti –
 già accennati nelle precedenti decisioni – che servono alla risoluzione della questione sottoposta
all’attenzione del collegio. Le Sezioni unite, con la sentenza sopra richiamata, hanno attuato il
sostanziale recepimento – in sede penale – della tesi civilistica della cosiddetta autolegittimazione
dell’attività medica, "la quale rinverrebbe il proprio fondamento, non tanto nella scriminante tipizzata
del consenso dell’avente diritto, come definita dall’art. 50, quanto nella stessa finalità, che le è propria,
di tutela della salute, come bene costituzionalmente garantito". L’attività sanitaria – ha precisato la Corte
– proprio perché destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute ed
attuare la prescrizione contenuta nell’art. 2 della Carta, ha base di legittimazione "direttamente nelle
norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale
dell’individuo". Ne è prova il fatto – ha aggiunto la Corte – che l’art. 359 inquadra fra le persone
esercenti un servizio di pubblica necessità proprio i privati che esercitano la professione sanitaria,
ritenuta "di pubblica necessità", cosicché sarebbe davvero eccentrico che una professione siffatta
abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda l’antigiuridicità di condotte
strumentali al trattamento medico. A tali riflessioni – che il collegio fa proprie – si aggiunge il rilievo
che le scriminanti tipizzate – a cui si appellano le tesi imperniate sulla esclusivistica natura "liberatrice"
del consenso – sono volte a neutralizzare gli effetti penali di condotte altrimenti illecite, perché contrarie
a norme di convivenza (come postulata dall’ordinamento), sicché ancor più eccentrico appare il loro
accostamento all’attività medica, che rappresenta una della massime espressioni del genio e della
solidarietà umana, oltre che una della arti più nobili e utili all’uomo. Da qui la prima conclusione che
il trattamento medico-chirurgico – compiuto nel rispetto delle leges artis – costituisce un’attività
intrinsecamente lecita, in quanto non offensiva dell’interesse protetto da alcuna delle norme
incriminatrici contemplate dal nostro ordinamento, anche se, per attuarsi, abbisogna di "maltrattare" la
persona che ad esso si sottopone, giacché le incisioni (e le altre attività manipolatorie) praticate sulla
persona del paziente sono connaturate, in maniera ineliminabile, all’attività chirurgica e perdono, nella
valutazione unitaria dell’intervento, la loro carica lesiva, per essere funzionali alla cura del soggetto che
vi si sottopone. Gli effetti penali di questa scelta si traducono – nell’ordinario dell’attività terapeutica –
 nella esclusione dell’attività suddetta dalla tipicità delle lesioni personali o di altri reati; essa non
abbisogna, per legittimarsi, né di scriminanti né di cause di esclusione della punibilità, anche se il
concreto esercizio della stessa può essere subordinato, per l’attuazione di altri interessi ugualmente
rilevanti, a condizioni e adempimenti prescritti da altre fonti. Altro passaggio
– che contrassegna, anch’esso, l’iter logico delle Sezioni unite nella sentenza sopra richiamata –
 e che si appalesa utile alla risoluzione della res iudicanda, è costituito dalla definizione del concetto di
"malattia", che rileva, pur’esso, nella valutazione della condotta incriminata (sotto l’aspetto, che verrà
esaminato nel prosieguo, della riconduzione dell’operato dei medici alla fattispecie delle lesioni
personali volontarie). Le Sezioni unite, aderendo ad un più recente orientamento manifestatosi nella
giurisprudenza di legittimità, hanno accolto, infatti, un concetto "funzionale" di malattia (necessario per
la sussistenza del reato di cui all’art. 582, siccome evento naturalistico di detto reato), intesa come
"processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante
compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo", con la conseguenza che non sono state ritenute
rilevanti – per l’integrazione del reato di cui all’art. 582 – le mere alterazioni anatomiche che non hanno
interferenza con il profilo funzionale della persona. Hanno inoltre adottato un concetto "oggettivo" di
malattia, disancorato dalla personale valutazione della vittima. A tale lettura dell’art. 582 il collegio
senz’altro aderisce, perché si tratta di lettura aderente alla lettera e alla funzione della norma (volta a
sanzionare le aggressioni più significative all’incolumità personale e a rimarcare la distanza dal reato di
percosse, praticamente abrogato dall’interpretazione estensiva dell’art. 582) e perché garantisce una
oggettività necessaria al delitto di lesioni personali, esposto, altrimenti, a una forte soggettivizzazione
(sarebbe rimessa alla vittima la decisione sulla esistenza della "malattia", e quindi del reato, qualora la
valutazione clinica divergesse dalla valutazione personale del paziente. Il reato di lesioni personali
verrebbe posto a tutela non solo della incolumità personale, ma anche della libertà di determinazione,
indebitamente inglobata nella oggettività giuridica delle lezioni personali). Inoltre, tale lettura tiene
conto degli apporti della giurisprudenza – richiamata nella stessa sentenza delle Sezioni unite –
 più sensibile all’applicazione del principio costituzionale di colpevolezza. La conseguenza, sul piano
dell’attività medico-chirurgica "arbitraria", di tale impostazione, è che, se una soluzione di continuo
operata sul derma del paziente e sui suoi tessuti può integrare la nozione di "lesione", ciò è ancora
inconferente agli effetti della integrazione del precetto, se ad essa non consegua una alterazione
funzionale dell’organismo. Ma è soprattutto sul terreno dell’elemento soggettivo che si apprezza il
mutamento di prospettiva, giacché è in relazione alla "malattia" conseguente all’intervento
chirurgico (assentito in modo viziato, per quanto si è detto) che va apprezzato l’atteggiamento
psicologico dell’agente, al fine di individuare il nesso che occorre per l’imputabilità dell’evento.
Il riconoscimento di una fonte autonoma di legittimazione dell’attività medico-chirurgica non ha – ad
ogni modo – impedito alle Sezioni unite di sottolineare la necessarietà del consenso del paziente nel
concreto espletarsi dell’attività suddetta. Attraverso il richiamo e l’analisi di numerose fonti di
produzione normativa: la Costituzione (artt. 2 e 32), la legislazione sovranazionale (Convenzione sui
diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con legge
28 marzo 2001; Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989; Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), la legislazione
nazionale (legge 21 ottobre 2005, n. 219, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione
nazionale di emoderivati; legge 19 febbraio 2004, n. 40, Norme in materia di procreazione medicalmente
assistita; L. 833/1978, Istituzione del servizio sanitario nazionale), il codice di deontologia medica, le
Sezioni unite di questa Corte hanno ribadito – come già fatto dalla totalità della dottrina e della
giurisprudenza – che il presupposto indefettibile di ogni trattamento sanitario risiede nella scelta, libera e
consapevole – salvo i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere – della persona che
a quel trattamento si sottopone. Tanto perché tutta la normativa sopra richiamata mostra di considerare la
"persona" non più destinataria di prestazioni etero-determinate, ma soggetto attivo e partecipe dei
processi decisionali che lo riguardano; e perché appare ormai superata la visione del medico come
depositario e detentore di una "potestà" di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto medico-
– sotto il profilo giuridico – di questa impostazione dogmatica non possono che essere rappresentate
dalla tendenziale "illiceità" dell’atto medico compiuto senza il consenso del paziente (o con
consenso viziato). La violazione di regole deontologiche e, prima ancora, legislative, quali sopra
richiamate, rimanda sicuramente ad una responsabilità del medico per l’attività non assentita, perché
spezza il circuito virtuoso necessario al perseguimento del miglior risultato possibile per la salute del
paziente. Ed infatti la giurisprudenza civile è consolidata nel ravvisare un inadempimento contrattuale a
carico del medico che ometta di fornire un’informazione completa ed esaustiva intorno alla diagnosi
effettuata, ai rischi cui il paziente è esposto, alle cure praticabili e alle possibili alternative terapeutiche,
ponendo a carico del medico l’onere della prova di aver adempiuto all’obbligo relativo (Cass. Civ.
14642/2015; Sez. 3, 2854/2015; Sez. 3, 19731/2015; Sez. 3, 27751/2013; Sez. 3, 19220/2013).
Ciò non vuol dire, però, che sia sempre ravvisabile – a carico dal sanitario – una responsabilità penale,
per la semplice e ovvia ragione che il diritto penale è informato al principio di tipicità, per cui solo le
condotte coincidenti con la previsione normativa possono assurgere a fonte di responsabilità.
Per la punizione del medico che attui un intervento "arbitrario" è quindi necessario che la sua
condotta sia inquadrabile in una delle fattispecie penali tipizzate, che possono essere interpretate
estensivamente, ma non analogicamente, e che la condotta imputata al medico sia offensiva
proprio dell’interesse tutelato dalla norma penale. Pertanto, se è consolidata l’opinione che considera
illecita, anche dal punto di vista penale, la condotta del medico che abbia operato – quasi in corpore vili –
 "contro" la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere
dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, "trattandosi di condotta che quanto meno
realizza una illegittima coazione dell’altrui volere" (2437 del 18/12/2008); e se è da ritenere illecita –
 anche dal punto di vista penale – la condotta del medico che attui una informazione volutamente
lacunosa o decipiente al fine di perseguire scopi altrimenti illeciti (21799 del 20/4/2010, che ha
sanzionato – a titolo di lesioni volontarie – il chirurgo che aveva praticato un intervento diverso da
quello assentito, ingannando il paziente) – giacché in questo caso egli si pone volontariamente fuori del
contesto (terapeutico) entro cui è, per norma, legittimato ad operare – a conclusione diversa deve
pervenirsi allorché – come nella specie – il consenso all’intervento, prestato dal paziente in un ambito
caratterizzato comunque da finalismo terapeutico, sia da ritenere viziato, perché non preceduto da
adeguata informazione. Situazioni siffatte non appaiono inquadrabili, infatti, in nessuna delle fattispecie
penali codificate. Infatti, per quanto si vogliano estendere ed ampliare le nozioni di violenza e minaccia
sottese all’art. 610, giammai è possibile ricondurre ad esse la condotta del medico che attui una
informazione superficiale in vista di un intervento operatorio da lui consigliato, giacché manca ad essa il
connotato che più la caratterizza: la prospettazione di un male – la cui verificazione dipende dall’agente –
 o lo spiegamento di una energia fisica o morale diretta a coartare il volere della vittima. Nemmeno può
il reato di lesioni personali volontarie (aggravate, nella specie), giacché tale reato presuppone –
 come è già stato evidenziato in fattispecie analoghe – una attività diretta a cagionare un male alla
persona, da cui deriva una malattia nel corpo o nella mente. Richiede, cioè, secondo principi noti, che
non occorre richiamare, il verificarsi di una malattia (elemento oggettivo) e la coscienza e volontà di
provocarla (elemento soggettivo, con le modulazioni proprie del dolo). Ebbene, è fuori discussione che il
medico, allorché agisce per fini terapeutici (e non per fini sperimentali, di lucro, di prestigio o per altri
fini altrimenti speculativi), non pone in essere alcuna attività diretta a procurare un "male", ma agisce
(bene o male, non è questa la sede per discuterne) per risolvere una patologia.
Egli – tanto più se è prudente ed esperto nella sua arte – "prevede" la possibilità di aggravare le
condizioni del paziente (cioè, di procurargli una lesione di cui derivi una malattia, ulteriore rispetto a
quella per cui è stato investito: elemento oggettivo del reato di lesioni), ma non la "vuole"; anzi, è
disvolente rispetto ad essa ed opera perché non si concretizzi. Se, nonostante i suoi sforzi, la "malattia"
– essendo conseguenza dell’evoluzione del male, che egli non è riuscito a contrastare – e perché manca
un profilo di imputazione a livello soggettivo. Non è, quindi, solo nella fattispecie esaminata dalle
Sezioni unite (esito fausto dell’intervento) che l’assenza di consenso al trattamento terapeutico –
 non maliziosamente procurato – non è idoneo a fondare la responsabilità del medico a titolo di lesioni
personali volontarie, giacché è proprio il finalismo terapeutico che esclude il dolo di lesioni, per la logica
incompatibilità tra essi esistente (perché, come è stato messo in evidenza in altre pronunce e come le
stesse Sezioni Unite hanno mostrato di condividere, «una condotta "istituzionalmente" rivolta a curare e,
dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a
cagionare quel "male"). In questa maniera non si trasforma il reato di cui all’art. 582, pacificamente a
dolo generico, in reato a dolo specifico, come opinato nella sentenza impugnata e da taluni
commentatori, giacché la "specificità" attiene ai motivi dell’agere e agli scopi dell’agente, mentre, nella
specie, la finalità curativa pone la volontà del medico in rapporto di contraddizione con l’evento tipico.
Egli, infatti, non vuole né accetta di procurare una "malattia", anche se la prevede o può prevederla;
opera ugualmente, per obbligo professionale e perché "costretto" dalla natura del male che è chiamato a
curare. In ciò sta, infatti, la fondamentale differenza tra il medico e qualsiasi volgare attentatore alla
incolumità altrui: che il medico, chiamato a confrontarsi col male, non può sottrarsi all’obbligo di
cooperare per risolverlo; il soggetto attivo nel reato di lesioni non è mosso da nessuna necessità (anzi,
contravviene ad un obbligo di astensione) ed opera per infliggere una sofferenza (per questo, ogni
energia da lui spiegata sul corpo o la mente della vittima gli è addebitabile e l’eventuale malattia che ne
consegue rientra nel fuoco della volontà). Deve convenirsi, pertanto, con quanto affermato in altre
pronunce di questa Corte, secondo cui la valutazione del comportamento del medico sotto il profilo
che qui interessa (sussistenza del reato di lesioni personali dolose) "non ammette un diverso
apprezzamento a seconda che l’attività sia stata prestata con o in assenza di consenso, non
presentando il giudizio sulla sussistenza della colpa e sul nesso di causalità differenze di sorta a
seconda che vi sia stato o meno il consenso informato del paziente". Affermazione, questa, che il
collegio ritiene di sottoscrivere alla fondamentale condizione – più volte espressa e che qui viene
ulteriormente rimarcata – che l’opera del medico sia inequivocabilmente sorretta da un "finalismo
curativo" non inquinato da scopi e interessi diversi, come sono quelli rimarcati nella sentenza
impugnata (scopi di lucro, di carriera, o sperimentali, che vanno – comunque – pur sempre provati), i
quali, se sussistenti, inciderebbero proprio sulla fonte di legittimazione dell’attività medica (Sez. 5,
16678/2016).
In tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva, non sussistono i
presupposti di applicabilità della causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto con riferimento
al cosiddetto rischio consentito (art. 50), né ricorrono quelli di una causa di giustificazione non
codificata ma immanente nell’ordinamento, in considerazione dell’interesse primario che l’ordinamento
statuale riconnette alla pratica dello sport, nell’ipotesi in cui, durante una partita di calcio ma a gioco
fermo, un calciatore colpisca l’avversario con una gomitata al naso, in quanto imprescindibile
presupposto della non punibilità della condotta riferibile ad attività agonistiche è che essa non travalichi
il dovere di lealtà sportiva, il quale richiede il rispetto delle norme che regolamentano le singole
discipline, di guisa che gli atleti non siano esposti ad un rischio superiore a quello consentito da quella
determinata pratica ed accettato dal partecipante medio; ne deriva che la condotta lesiva esente da
sanzione penale deve essere, anzitutto, finalisticamente inserita nel contesto dell’attività sportiva, mentre
ricorre l’ipotesi di lesioni volontarie punibili nel caso in cui la gara sia soltanto l’occasione dell’azione
violenta mirata alla persona dell’antagonista. (Sez. 5, 45210/2005).
In tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva che implichi l’uso della
forza fisica e il contrasto anche duro tra avversari, l’area del rischio consentito è delimitata dal rispetto
delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con
riferimento all’elemento psicologico dell’agente il cui comportamento può essere – pur nel
travalicamento di quelle regole – la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente
esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario approfittando della
circostanza del gioco (Sez. 4, 9559/2016).
In tema di lesioni colposamente cagionate a terzi nell’esercizio di attività sportive, ai finì
dell’affermazione di penale responsabilità è necessario accertare se l’evento lesivo si sia o meno
verificato nel corso di una tipica azione di gioco, specificamente ricostruita in punto di fatto, non
potendo essere desunta la natura colposa della condotta unicamente dalla circostanza della rilevazione di
un "fallo" fischiato dall’arbitro (Sez. 4, 28772/2011).
La cosiddetta scriminante del rischio consentito è operativa nell’ambito delle competizioni sportive
, che si svolgono secondo regole stabilite dagli organismi di categoria – se ed in quanto quelle regole
vengono rispettate – e ricevono protezione statuale in considerazione dei benefici che la pratica sportiva
è suscettibile di arrecare ai praticanti, e non già nell’ambito di manifestazioni più o meno folkloristiche
imperniate sulla violenza pura e gratuita, che mette a rischio l’incolumità delle persone e di trascinare
nel suo vortice manifestanti e spettatori. Del tutto arbitraria è, infatti, l’assimilazione di manifestazioni
del genere a quelle sportive e del tutto improprio è, di conseguenza, il richiamo delle scriminanti,
codificate o non codificate (Sez. 5, 15170/2016).
Nessuna efficacia esimente può attribuirsi alla causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto,
quando i beni che costituiscono oggetto della condotta delittuosa appartengono alla pubblica
amministrazione o comunque rientrino in una destinazione di rilievo pubblicistico (SU, 19054/2013).
Non è applicabile la scriminante putativa del consenso dell’avente diritto ove debba escludersi, in
base alle circostanze, la ragionevole persuasione di operare con l’approvazione della persona che può
validamente disporre del diritto. Ai fini dell’applicabilità dell’art. 50 cod. pen., è necessario il requisito
della effettività e a nulla vale la convinzione ipotetica ed eventuale che il consenso sarebbe stato dato se
richiesto (Sez. 6, 20944/2011).
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