Adolescenti e giovani nel mondo dell'immigrazione: alcune riflessioni
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
Adolescenti e giovani nel mondo dell’immigrazione: alcune riflessioni 1) La complessità del fenomeno Per affrontare il tema degli adolescenti e dei giovani nel mondo dell’immigrazione occorre chiarire alcuni concetti basilari come, appunto, adolescente, identità, cultura; inoltre conviene anche ricordare che se ogni storia di migrazione ha dei punti di contatto con le altre, ogni storia di migrazione è una storia a sé. Bisogna anche sapere distinguere partendo dalle situazioni concrete: esistono varie categorie di adolescenti e giovani immigrati o figli d’immigrati. Anche perché vi è una differenza tra chi ha vissuto l’esperienza migratoria (e può essere definito immigrato) e chi no (ed è figlio/a d’immigrati). Le situazioni sono variegate; per esempio: 1) l’adolescente o il giovane immigrato cioè quello che ha vissuto l’esperienza migratoria e che aveva già vissuto la propria infanzia nel paese di origine: la partenza, lo sradicamento, il viaggio e le difficoltà dell’inserimento nel paese di accoglienza; 2) l’adolescente o il giovane immigrato arrivato molto piccolo in Italia con i genitori e che praticamente ha passato una parte consistente della propria infanzia qui; 3) quello che è nato in Italia da genitori stranieri della stessa nazionalità; 4) quello che è nato in Italia da genitori stranieri di diverse nazionalità; 5) quello che è nato in Italia da un padre straniero e una madre italiana; 6) quello che è nato in Italia da un padre italiano e una madre straniera. A questo voglio aggiungere altri elementi per la nostra riflessione e mostrare che, quando parliamo di immigrazione, abbiamo a che fare con la complessità: il fatto di essere di sesso maschile o di sesso femminile cambia anche i vissuti; se poi a questo si sommano i modelli di relazione familiare, uomo-donna, genitori e figli che sono fortemente condizionati dai contesti storico-culturali di provenienza si comprende che l’operatore sociale o pedagogico deve saper leggere la complessità di ogni storia concreta. La storia di ogni migrante è una storia a sé che non può essere assimilata ad un’altra; ovviamente questo discorso vale per i figli dei migranti. Nel caso dei bambini, degli adolescenti e dei giovani c’è anche la storia migratoria della famiglia che determina spesso la loro traiettoria e il loro sviluppo; la storia familiare prima, durante e dopo il viaggio, i mutamenti intervenuti con la partenza, le motivazioni, le condizioni del viaggio e dell’arrivo. Sono tutti elementi che sono importanti per la comprensione del loro vissuto e anche del modo come affrontano l’adattamento alla situazione nuova. Per esempio è diverso se i genitori si spostano insieme e lo decidono insieme da una situazione in cui decide solo il marito seguito, successivamente, dalla moglie che può vivere tutto ciò con grande sofferenza. Altra cosa ancora se la storia parte da una donna che arriva sola in Italia, incontra un suo connazionale e si sposa qui. Insomma per capire la condizione di sviluppo e il vissuto dell’adolescente figlio o figlia d’immigrati occorre partire dalla complessità di ogni storia, che al di là delle generalizzazione, rappresenta un percorso specifico. L’importante è che questo o questa adolescente possa raccontare la propria storia, esprimere i propri vissuti e conferire senso a tutto ciò. Anche la storia familiare precedente alla storia migratoria è importante; molti di questi adolescenti hanno anche dei nonni nei propri paesi di origine e i nonni, soprattutto nelle situazioni di lontananza, possono rappresentare un punto di riferimento importante. I nonni sono anche spesso dei punti di riferimento nella costruzione dell’immagine di sé e nella strutturazione della sicurezza interiore. I nonni svolgono anche spesso per gli adolescenti immigrati o figli di immigrati la funzione di “oggetti transizionali” affettivi (per riprendere l’espressione di Winnicott) che facilita la ricerca di un modello di sé accettabile. Quindi non bisogna mai dimenticare il carattere complesso e molteplice dei processi psico-sociali e storico-culturali nei quali sono inseriti gli adolescenti nel mondo dell’immigrazione. Complessità e molteplicità che sono anche il prodotto di un modello del sé costruito attraverso un processo di proiezione, identificazione ed interiorizzazione: proiezione delle proprie emozioni e dei vissuti su alcune figure del sistema di relazione familiare e culturale di origine e non (abbiamo sopra fatto accenno ai nonni ma si può anche pensare ad “oggetti relazionali” diversi come alcuni tratti della 1
cultura di origine; vedi per esempio l’islam per molti giovani maghrebini in Europa); identificazione con alcuni modelli rappresentati da figure o comportamenti e interiorizzazione di questi modelli – spesso contraddittori o conflittuali come lo vedremo – per conferire senso al proprio mondo interiore e al proprio esistere. Tutti questi ragionamenti ci portano tuttavia a fare uno sforzo di chiarificazione di alcuni concetti chiave come identità, cultura, adolescenza, métissage per capire meglio quello che succede a molti giovani nel mondo dell’immigrazione. 2) Alcuni concetti Prima di proseguire conviene tuttavia chiarire alcuni concetti che vengono utilizzati regolarmente quando si parla d’immigrazione; concetti che possono sembrare ovvi; ma non dimentichiamo mai che i concetti sono le categorie che organizzano il nostro spazio mentale e ci orientano nel monde delle relazioni. Ci facciamo una immagine di noi stessi e degli altri attraverso la mediazione di concetti; i concetti sono la nostra rappresentazione del mondo, per dirla con Kant la nostra comprensione dell’universo; sono le nostre categorie interpretative. Inoltre i concetti svolgono sempre una funzione sociale a secondo il contesto e il loro utilizzo. L’emigrato-immigrato: la traiettoria Dall’inizio abbiamo parlato di immigrazione e di adolescenti; partendo da una considerazione fatta da Abdelmalek Sayad nel suo libro “La doppia assenza: dall’illusione dell’emigrazione alla sofferenza dell’immigrazione”; si può affermare che l’immigrato prima di essere un immigrato è un emigrato cioè una persona che viveva in un altro paese, con una sua storia familiare, affettiva sociale e culturale e che ad un cero punto decide di andarsene. In questa traiettoria è tutto il sistema relazionale di riferimento del migrante che viene coinvolto: la famiglia, che in molti casi significa una rete allargata, la coppia, i figli. Le conseguenze della partenza rappresentano un cambiamento non solo per chi va via ma anche per chi resta; le aspettative e le speranze riguardano gli uni e gli altri. Questi mutamenti producono anche una rappresentazione della propria terra di origine attraverso la famiglia che può funzionare come meccanismo di difesa di fronte alle difficoltà e alle disillusioni ma anche come ostacolo al cambiamento e alla ridefinizione di sé in un processo complesso. L’adolescente vive questa situazione in termini ancora più drammatici e intensi visto il periodo di transizione che vive comunque; il fatto di dover fare i conti con il punto di partenza, la terra di origine, gli affetti familiari, il mondo degli amici, i sistemi di valori, le concezioni diverse del mondo ecc; tutto ciò lo mette spesso in una situazione di sofferenza. Vogliamo anche sottolineare il fatto che è necessario andare al di là dei luoghi comuni sul giovane immigrato diviso tra due mondi; anche qui le cose sono talvolta molto più complicate. Il giovane immigrato o figlio di migranti deve fare i conti con la propria famiglia di origine, il suo gruppo sociale, il suo gruppo culturale, con il fatto che è marocchino ma di origine berbera, che parla l’arabo ma anche il amazigh (che è la sua lingua materna), che magari ha fatto poi la scuola in francese, e che si ritrova a vivere in Italia. La traiettoria non è poi solo spaziale ma soprattutto mentale e psico-sociale; il trovarsi a sperimentare situazioni diverse, ad assimilare anche codici e linguaggi diversi senza “perdersi” rappresenta una sfida continua per il giovane immigrato e /o figlio/a di migranti. Tutto ciò non significa che le “radici” non esistono ma che si fa fatica a riconoscerle e a “connettersi a sé” nella variegata esperienza della vita. La traiettoria vuol dire anche ritrovare le tracce di un percorso che è il frutto di scelte e produttore di senso. Ecco questo giovane deve mediare dentro e fuori di sé con una molteplicità di mondi che lo compongono e che l’interpellano continuamente nella quotidianità: la famiglia, la scuola, il lavoro, il condominio e i rapporti con i vicini, il gruppo dei pari, la vita sociale e culturale. Deve riuscire a non perdersi, a non estraniarsi da se stesso nel passaggio da un contesto e da una situazione all’altra. In più deve fare i conti con lo sguardo della 2
società sulla sua famiglia; l’essere marocchino o albanese non è un valore sociale positivo come non lo era essere italiano in Belgio nel secondo dopo guerra. L’adolescente e il giovane si trova a dovere confrontarsi con l’etichettamento sociale mediato dalla sua appartenenza ad un gruppo culturale e familiare; altra traiettoria quella del conflitto e della tensione con i genitori che rischia di diventare frattura e dove può scattare nel rapporto con loro la logica individuata da René Girard della “vendetta mimetica”. I genitori vengono visti come responsabili di tutte le sofferenze e colpevoli per la scelta fatta; poi c’è tutta la complessità dei rapporti con la figura paterna e quella materna. Il rischio del discorso sull’identità: le identità meticce È Georges Devereux, il fondatore dell’etnopsichiatria moderna, che parlava del rischio dell’identità; lui ne parlava come conoscitore di se stesso; nato in una famiglia magiara di origine ebraica, secolarizzato prima in magiaro e successivamente in rumeno (perché la sua città natale passò nel 1918 alla Romania); si trasferisce a Parigi, va vivere e lavorare negli Stati Uniti, viaggia tra le popolazioni del Sud Vietnam e gli indiani delle riserve dell’Arizona. Scriveva in due lingue diverse dalla sua lingua materna cioè l’inglese e il francese. Ma cosa intendeva Devereux per rischio dell’identità? Intendeva una concezione unidimensionale dell’identità cioè la tendenza ad identificare se stesso o l’altro con una dimensione sola del suo essere storico e socio-culturale; è quello che chiamava il “superinvestimento dell’identità etnico-culturale”. Questa tendenza a ridurre l’identità con un aspetto solo; l’essere musulmano, l’essere sikh, l’essere nero, l’essere ebreo ecc… è riduttiva della molteplicità che compone la storia della persona. Il rischio per Devereux è anche quello di utilizzare dei concetti culturali per spiegare la storia e la traiettoria di una persona; e per spiegarsi meglio usava la metafora dello spazio: nella relazione per me l’altro è fuori e io sono dentro mentre per lui io sono fuori e lui è dentro; pensava anche che ognuno di noi è affetto di “strabismo culturale” cioè si costruisce una immagine deformante di se stesso; questo perché non si riesce a riconoscere se stesso in tutta la complessità e molteplicità di esperienze concrete e vissute. Lo dice anche per l’adolescente di cui l’adulto in tutte le società e in tutte le culture si fa una certa immagine; ed è questa immagine interiorizzata che determina il comportamento stesso e il modo di essere dell’adolescente. Le cose si complicano nei processi di acculturazione nella misura in cui la persona investita dal contatto con una altra cultura e un altro modo di vivere ne viene contaminata (sarebbe meglio dire fecondata-espressione di Raimon Panikkar), a quel punto le vecchie mappe mentali devono fare i conti con quelle nuove; per potersi orientare e ridefinire nel nuovo contesto il migrante deve usare delle nuove mappe che non liquidano quelle vecchie ma che le aggiornano per poter vivere ed adattarsi nelle nuova realtà. E proprio nelle situazioni di “dissonanza semantica e cognitiva” che avviene la difficoltà della comprensione e quindi di costruire nuove relazioni senza perdere se stesso (come dice Devereux rimanendo “connesso a sé”). L’adolescente immigrato o figlio/a d’immigrati vive spesso una condizione di quel tipo. Quel che importa forse non è tanto l’identità quanto la capacità di conferire senso e significato a se stesso, alla propria traiettoria, alla propria esistenza e di poter raccontarsi e narrare a sé e agli altri la propria storia. I rischi di una identificazione unidimensionale non riguarda solo il giovane immigrato o figlio di immigrati ma anche chi lo guarda anche con la pretesa di aiutarlo (operatore sociale, insegnante, educatore, terapeuta ecc…); la lettura culturalista rischia di assolutizzare un aspetto solo della personalità e anche di farlo in modo deformante. Il cosiddetto rispetto della diversità culturale è spesso un alibi per non comprendere la storia concreta del singolo soggetto con la sua narrazione, il suo vissuto e la sua capacità di raccontarsi quindi di fornire senso alla sua storia. La categorizzazione culturale non permette di riconoscere le vere differenze che sono quelle dell’esperienza di vita dell’adolescente in carne ed ossa. 3
Invece di identità Devereux preferiva parlare di “modello di sé” che vedeva come una configurazione psicologica, base di una personalità integrata a tre livelli: 1) il comprendere: il comprendere il mondo vitale e sociale dove si è inserito; 2) il comprendersi: il comprendere se stesso in relazione con il mondo e gli altri; 3) l’essere compreso: l’essere compreso nella propria specifica storia. Tutto questo funziona come un processo dinamico e aperto; è quando avviene un cortocircuito in questo processo che si crea un blocco e una sofferenza. È proprio nella sofferenza psichica che emerge, secondo Devereux, la similitudine tra tutti gli esseri umani; i meccanismi psichici del profondo sono identici per tutti a prescindere dall’appartenenza etnico-culturale; per questa ragione si può parlare di “unità psichica del genere umano”. È anche quello che affermava Lev Vygotsky quando parlava dell’identità storico-culturale: per lo psicologo sovietico la cultura è il sociale cioè è l’insieme delle relazioni sociali e delle mediazioni che permette agli uomini di vivere insieme e di riconoscersi; in questo sistema di mediazioni il linguaggio ha una importanza decisiva in quanto non si tratta solo di uno strumento funzionale alla comunicazione ma anche in quanto veicola dei codici e un modo di vedere le cose. La comunicazione sociale precede la comunicazione interiore (l’interpsichico precede l’intrapsichico) e fornisce gli strumenti per organizzare le proprie emozioni e dare un senso ai propri sentimenti. Qual è il linguaggio sociale dell’adolescente o del giovane immigrato? Visto così ci si rende conto che il problema è molto complesso e che ogni intervento educativo e sociale ne deve tener conto. L’adolescenza e le adolescenze: il caso concreto di Kuribga (Marocco) Anche qui ci sarebbe molto da dire; ricordiamo il titolo di un vecchio testo dello psicologo di origine belga Gérard Lutte “Sopprimere l’adolescenza?”; era una domanda provocatoria che nascondeva tuttavia un invito a riflettere sul concetto di adolescenza e sul suo significato sociale e culturale. In effetti sappiamo ormai che il concetto di adolescenza non ha lo stesso significato in tutti i contesti storico-culturali ma sappiamo anche che non ha avuto sempre lo stesso significato in Europa. È con la rivoluzione industriale e Jean-Jacques Rousseau che l’adolescenza acquisisce un senso e uno statuto diverso; il cittadino di Ginevra parla addirittura di “seconda nascita”. Non dimentichiamo che l’adolescente e giovane dell’immigrazione si trova a fare i conti con una percezione diversa dei genitori e del loro ruolo di genitori nel contesto nuovo; questo è importante per i processi di identificazione. Cambiano l’immagine sia della figura paterna che della figura materna; spesso i genitori vengono vissuti come inferiori socialmente e questo può produrre dei conflitti sia interiori che interpersonali nel nucleo familiare. Per di più l’adolescente nato e cresciuto in Italia usa un codice linguistico diverso da quello dei genitori, non sono rare le situazioni in cui il figlio risponde in italiano al padre o alla madre che li parlano in arabo o in wolof. Qui i processi sono complicati; se è vero quello che afferma Françoise Dolto quando parla di metafora del gambero cioè di un adolescente che perde la vecchia pelle per produrne una nuova; nel caso dell’adolescente dell’immigrazione le cose si complicano perché la pelle nuova è fatto di codici del tutto nuovo non sempre compatibile con quelli del gruppo di origine. Ma occorre tener conto anche di un altro aspetto importante; molti adolescenti e giovani immigrati o figli di migranti provengono da paesi che conoscono cambiamenti profondi e che, come le nostre società, sono colpiti dai cosiddetti processi di globalizzazione. Significa dei mutamenti anche nel contesto di partenza che producono spesso situazioni di destrutturazione per i giovani e gli adolescenti, questo prima di vivere l’avventura migratoria. I fattori socio-culturali dei paesi di origine che vivono le mutazioni delle strutture tradizionali e degli stili di vita è interiorizzato dagli adolescenti quando arrivano in Italia. Prendiamo il caso concreto degli adolescenti marocchini di Bologna che provengono in gran parte da Kuribga (una città a circa 200 km ad est di Casablanca); durante un viaggio di studio e di ricerca sul campo per comprendere le cause e le motivazioni della migrazione da quella zona del Marocco verso l’Italia ci siamo trovati di fronte ad una situazione inaspettata. In quanto ricercatore ci 4
aspettavamo trovare una condizione drammatica sul piano economico e una zone depresse; invece dal primo impatto con la città (circa 70.000 abitanti) abbiamo capito che le cose erano diverse dal nostro immaginario sociale di partenza. La città è ordinata e respira anche un certo benessere; ci sono non lontano le mine di fosfato (il Marocco è il 3° produttore mondiale) e si vedono in giro tante macchine targate dall’Italia. È evidente che vi è una certa ricchezza dovuta alle miniere e alle rimesse degli emigranti ma vi è anche una crisi occupazionale per i giovani e una assenza di prospettiva (ma è qualcosa che incontriamo anche in Italia, in particolare in certe zone del Mezzogiorno). Allora come spiegare la “fuga” dei giovani di Kuribga verso l’Italia (parlando al Bar un ragazzo di 16 anni mi dice che il futuro è l’Italia)? Problemi complessi legati alla globalizzazione e non riducibili alla povertà economica o ai fenomeni connessi alla religione. Alain Goussot 5
Puoi anche leggere