A proposito del progetto di legge costituzionale del governo Renzi

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A proposito del progetto di legge costituzionale del
                      governo Renzi
                                    di Carlo Fusaro
                                     4 aprile 2014

       1. Una prima premessa. Le valutazioni che seguono non hanno alcuna pretesa
di scientificità, hanno nulla di accademico e poco di meramente o prevalentemente
tecnico. Ciò di cui si discute è materia intrinsecamente politica. Naturalmente
contano anche gli aspetti tecnici, in particolare quando una determinata formulazione
rischia di produrre l'effetto opposto rispetto a quello voluto. Ma al netto di veri e
propri errori di progettazione tecnica, la sostanza è di politica istituzionale, dunque
per citare Salvador De Madariaga altamente ed eminentemente politica. Del resto
certe pregiudiziali opposizioni a cosa rispondono se non a legittime opzioni politiche
(di politica istituzionale, appunto), ancorché troppo spesso ammantate dell'aura di
cattedre più o meno prestigiose (ed è appunto questo ciò che irrita insieme all'antica e
ricorrente pretesa, purtroopo assecondata da una stampa facilona e a caccia del
titoluccio a effetto, di parlare a nome di intere categorie: tipo le dozzine di "appelli"
mai "di", sempre "dei" costituzionalisti)? E invece no: su questi temi, almeno in
relazione agli aspetti e alle scelte essenziali, le opinioni e le preferenze dei grandi
accademici - dal momento che siamo in democrazia - valgono quelle dei politici,
degli accademici minori e meno popolari, di ciascun cittadino.

       2. Una seconda premessa. Qualsiasi valutazione sul progetto governativo deve
prendere le mosse da un'appropriata considerazione del contesto in cui questo nuovo
tentativo riformatore si colloca. Mi è difficile immaginare di poter anche solo
stabilire un dialogo e una conversazione proficui se non con chi condivide almeno i
punti essenziali dell'analisi di contesto dalla quale come molti altri, a partire dal
presidente della Repubblica per finire - riassuntivamente - e dai colleghi saggi e
sagge della Commissione dei 35 + 7, ritengo necessario muovere.
       Per rispettare il paziente lettore mi esprimo in sintesi: non ritengo che 35 anni
circa (ma a ben vedere oltre 40) di tentativi di riforma di aspetti importanti - anche
fondamentali - della nostra Costituzione siano stati frutto di una gigantesca illusione
collettiva che avrebbe abbagliato gran parte delle classi politiche (e non solo
politiche) dirigenti italiane di più generazione; tanto meno ritengo si sia trattato di

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un'astuta messinscena volta in realtà solo o prevalentemente a nascondere contingenti
problemi di gestione del potere o - peggio ancora - a contrabbandare una sostanziale
restrizione della democrazia o addirittura fantomatiche derive autoritarie. Ritengo al
contrario che da gran tempo fosse matura nella coscienza collettiva del paese e dei
suoi rappresentanti l'esigenza di adeguare istituti ed assetti della parte II della
Costituzione: e che non averlo saputo fare (questo sì per far prevalere esigenze
politiche di breve periodo e una sorta di miope patriottismo partitico) è ciò che ha
minato la legittimazione di quella che è stata chiamata Prima repubblica (cioè il
sistema dei partiti strutturatosi nel 1948 ed imploso dal 1992) e ciò che rischia di
minare gli assetti politico-istituzionali che vi sono seguiti a seguito della strategia
referendaria e delle riforme elettorali del biennio 1991-1993. Anche in questa
occasione l'incapacità di coerenti adeguamenti della parte II della Costituzione (e
quindi certo: la sostanziale inconsistenza della classe dirigente politica) ha minato il
consolidamento del tentativo di uscire per la via maggioritaria dalla crisi della fase
precedente nonché dalle pesanti eredità lasciate dai costituenti (che si riassumono in
una parola nel tradimento dell'ordine del giorno Perassi dell'autonno 1946).
       Dico di più. Le vicende dell'avvio della presente XVII legislatura
simboleggiano una crisi che è arrivata al livello di autentica emergenza: i "fatti
costituzionali" che segnalano questa emegenza sono la mancata elezione di un nuovo
presidente della Repubblica (con i leader dei partiti tradizionali costretti a invocare
come unica soluzione la rielezione di una quasi nonagenario che non aveva fatto
mistero di non considerarsi disponibile, e poi obbligati a subirne le sferzanti
rampogne e il pungolo incessante) e la sentenza 1/2014 con la quale la Corte
costituzionale, facendosi protagonista della maggiore forzatura in sessant'anni di
onorata storia con una sentenza imbarazzantemente pasticciata e contraddittoria, ha
dichiarata illegittima la legge elettorale in vigore, mettendo in mora e e d'altra parte
rischiando di delegittimare le due camere del Parlamento. Con ciò, aggiungo,
paradossalmente incoraggiando coloro che nulla vogliono cambiare proprio nel
momento stesso in cui la Corte sembra assecondare l'insistito incoraggiamento
presidenziale alle riforme.
       Considero l'avvio della XVII legislatura alla stregua di una "nostra Algeria". E,
tanto più considerata la legislazione elettorale di risulta regalataci dalla Corte
costituzionale, penso che un soprassalto di dignità della politica parlamentare proprio
qui ed ora in questa legislatura s'imponga per rimettere in moto un paese esausto e
prima ancora un sistema politico-istituzionale palesemente non in grado di fornire le
prestazioni che da esso si devono pretendere.
       Si tratta di rompere un vero e proprio circolo vizioso che si è venuto
progressivamente a creare e che le elezioni del febbraio 2013 hanno concorso a
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aggravare e incistare nell'ordinamento. A seguito del comportamento degli attori del
sistema partitico che si è delineato, caratterizzato da un inedito tripolarismo nel quale
una delle tre principali forze parlamentari è indisponibile ad alcuna collaborazione
con le altre due, queste, teoricamente alternative, sono costrette a faticose
collaborazioni, potenzialmente costose dal punto di vista elettorale, proprio a
vantaggio della forza indisponibile a condividere vantaggi e svantaggi di una pur
temporanea cooperazione. Sicché la situazione delineatasi nel 2013 è stata questa:
paese in crisi in base a tutti gli indicatori possibili, ordinamento politico non in grado
di accennare risposte all'altezza delle istanze di cambiamento pur a parole condivise e
comunque concordate a livello europeo; conclamata esigenza di riforme anche
costituzionali con astratta larga condivisione degli obiettivi e in molti casi anche delle
soluzioni, ma unita ad apparente impotenza a procedervi; inopportunità generalmente
affermata, e comunque reiteratamente riaffermata dal presidente della Repubblica, di
elezioni anticipate che risulterebbero potenzialmente non risolutive, nel senso che
riprodurrebbero probabilmente - a legislazione elettorale e ad assetti costituzionali
vigenti - gli stessi equilibri fotografati dalle elezioni del febbraio 2013: situazione
ulteriormente aggravata dall'intervento della Corte costituzionale che con la sent.
1/2014 ha imposto una pur cedevole disciplina elettorale proporzionale transitoria,
seriamente peggiorata dalla incredibile introduzione ope sententiae delle preferenze
(perfino dove non c'erano mai state).
       In tale contesto, in attesa di qualche lieve miglioramento della situazione
economico-finanziaria rimesso sostanzialmente al traino delle altre economie in un
quadro di disoccupazione crescente, la nuova segreteria del Pd ha ritenuto di attaccare
il circolo vizioso sopra descritto perseguendo un'intesa su legge elettorale e prime
riforme costituzionali (bicameralismo e titolo V) fra i due maggiori partiti (Pd, Fi),
ferma la indisponibilità del terzo (M5S), e si è assunta poi in prima persona la guida
di questo processo sulla base di un'iniziativa incalzante e senza respiro, volta a
superare le mille prevedibili resistenze: allo scopo di superare l'immobilismo della
fase precedente, anche in ambiti diversi dal sistema politico-istituzionale (fisco,
mercato del lavoro, politica economico-finanziaria europea).

       3. Vanno allora innanzitutto respinti i tentativi di delegittimazione preventiva e
di demonizzazione aprioristica dello sforzo riformatore del governo condotti da
alcuni intellettuali e da qualche costituzionalista.
       Quanto ai tentativi di delegittimazione preventiva (tesi secondo la quale dopo
la sent. 1/2014 il Parlamento non sarebbe legittimato altro che a riforme minimali e -
in materia elettorale - sarebbe legittimato solo alle riforme... che rispettano
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l'interpretazione della medesima sentenza di alcuni orientatissimi studiosi), non
bastasse una lettura appena appena diversa della pur discutibilissima decisione della
Corte (che non ha nascosto però la sua pur contraddittoria volontà di non incidere
sulla durata della legislatura), dovrebbe bastare il confermato atteggiamento del
presidente della Repubblica il quale non si è sognato di procedere allo scioglimento
delle Camere, ma da un lato a continuato a pungolarle all'azione riformatrice in
continuità con il senso stesso che ha inteso attribuire alla sua disponibilità ad essere
rieletto presidente il 20 aprile 2013; dall'altro ha regolarmente proceduto alla nomina
di un nuovo presidente del Consiglio, dopo le dimissioni di Enrico Letta, e alla
formazione della compagine governativa guidata da Matteo Renzi, caratterizzata da
marcata politicità e programma fortemente riformatore.
       Quanto alle demonizzazioni (v. in particolare l'appello di alcuni intellettuali
pubblicato su un quotidiano il 28 marzo, sotto il moderato titolo La svolta
autoritaria; v. anche le interviste pubblicate sul "Corriere della Sera" del 2 aprile
successivo, p. 8, titolo Quegli intellettuali contro: così si ribalta la democrazia) con
esse si lascia intendere che i fautori delle riforme, presi dall'ansia improvvisa di
cambiare per cambiare si muoverebbero con superficialità, senza approfondimenti,
ignorando le «ragioni profonde - nelle democrazie - delle seconde camere», frase
attribuita a G. Zagrebelsky). Sono critiche stupefacenti, tanto più da parte di un
collega di così vasta dottrina. Sembra si dimentichi: primo, che il bicameralismo del
1948 nacque come nacque - come altri aspetti della forma di governo - per la
profonda reciproca sfiducia dei maggiori partiti dell'epoca; secondo, che da subito
esso pose problemi rilevanti tanto da indurre le forze politiche a eliminare le modeste
differenziazioni che i costituenti avevano introdotto: di fatto uniformando la
legislazione elettorale a quella della Camera e ricorrendo, poi, al sistematico
scioglimento anticipato del solo Senato per eleggere insieme le due camere; terzo,
che in pratica non si è mai cessato di discutere di composizione, funzioni e ruolo
della seconda camera e che almeno dal 1982 (istituzione dì due Comitati di studio
"per l'esame dei problemi istituzionali", uno alla Camera e uno al Senato) il
Parlamento ne ha ripreso l'esame in chiave riformatrice; quarto, che tentativi di
riforma del bicameralismo, in particolare, sono stati condotti dalla Commissione
Bozzi (1983-1985), dalla X legislatura (progetto approvato in prima lettura al Senato,
1990), dalla Commissione De Mita-Iotti (1992-1994), dalla Commissione D'Alema
(1997-1998), dalla XIV legislatura (progetto approvato dalle camere in doppia
lettura, ma non confermato dal referendum popolare, 2005-2006), dalla XV
legislatura (progetto c.d. Violante elaborato in I Commissione alla Camera, 2007),
dalla XVI legislatura (progetto approvato in prima lettura dal Senato, 2012).
       Con tutto ciò e con quel po' po' di elaborazioni dottrinali che hanno preceduto,
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C. FUSARO - A PROPOSITO DEL PROGETTO DI LEGGE COSTITUZIONALE DEL GOVERNO RENZI

affiancato e seguito questi tentativi riformatori, dipingere lo sforzo del governo Renzi
come una specie di fulmine a ciel sereno, frettoloso e non ben meditato prodotto di
riformatori dell'ultim'ora, mi pare davvero eccessivo. Del resto la relazione finale
della Commissione delle riforme (i 35 + 7 nominati dal governo Letta) pochi mesi fa
(17 settembre 2013) iniziava con queste parole: «La Commissione ha svolto i suoi
lavori nella consapevolezza della gravità della crisi italiana e delle connessioni
esistenti tra il perdurare di una recessione che minaccia la coesione sociale da un lato
e la debolezza delle istituzioni politiche dall’altro. La Costituzione del 1947 ha
consentito di raggiungere importanti risultati che oggi corrono il rischio di essere
perduti. La necessità della riforma delle istituzioni nasce proprio dall’esigenza di non
vanificare i risultati sinora conseguiti». E poi: «Per superare la crisi... la
Commissione unanime ritiene necessari interventi di riforma costituzionale, i cui
punti principali sono...: 1. Il rafforzamento del Parlamento attraverso la riduzione del
numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo paritario, una più
completa regolazione dei processi di produzione normativa e, in particolare, una più
rigorosa disciplina della decretazione di urgenza. 2. Il rafforzamento delle prerogative
del Governo in Parlamento attraverso la fiducia monocamerale, la semplificazione del
processo decisionale e l’introduzione del voto a data fissa di disegni di legge. 3. La
riforma del sistema costituzionale delle Regioni e delle Autonomie locali che riduca
significativamente le sovrapposizioni delle competenze...».
       Come si vede si tratta precisamente delle materie affrontate dal progetto
governativo. Non è allora un caso che promotrici dell'appello del "fronte del no"
siano (anche) le uniche due componenti di quella Commissione dimessesi
dall'incarico (Lorenza Carlassare e Nadia Urbinati). Legittimo dissenso, ovviamente:
meno legittimo, invece, accompagnarlo con accuse ai riformatori (superficiale
faciloneria, ignoranza, "sgrammaticatura" e - perfino - implicita propensione verso
derive autoritarie), evidentemente rivolte non a intavolare una discussione, quanto
appunto a demonizzare l'avversario "a prescindere" (come coloro i quali, più
rozzamente, ma non diversamente cercano di accreditare nella pubblica opinione la
folle idea di un'unica strategia istituzionale che dal progetto di Licio Gelli arriverebbe
direttamente a Boschi-Renzi passando per Craxi e Berlusconi: della serie, per
delegittimarti ti dipingo come chi rappresenta - rectius: è stato rappresentato come -
il male, più o meno "assoluto").

       4. Per questo è utile, prima di tutto, partire dall'identificazione pedante
dell'oggetto del progetto governativo di cui discutiamo. Esso non "stravolge" affatto
la Costituzione, e neanche la sola parte II. Interviene certo su 44 articoli di essa, ma
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ASTRID RASSEGNA - N.7/2014

in 21 casi si tratta di mero coordinamento formale derivante dalle scelte sostanziali
contenute in uno o più dei 23 articoli sui cui l'incidenza, maggiore o minore, è
effettiva (per cui è inciso circa un quarto della parte II Costituzione e meno di un
15% dell'intero testo). Naturalmente una revisione costituzionale non si misura (solo)
quantitativamente: si tratta di valutare l'impatto delle singole modificazioni e poi di
esse nel loro complesso.
        Vediamo, dunque, contenuto ed oggetto del progetto:
         a) composizione, funzioni e ruolo della seconda camera; conseguenzialmente
assetto e caratteri del bicameralismo nell'ordinamento italiano: esso, da paritario
indifferenziato diventa ineguale differenziato;
        b) procedimento legislativo: diventa - con limitate eccezioni - monocamerale o
a prevalenza Camera dei deputati (in caso di intervento del Senato), anche se a
maggioranza qualificata per talune materie;
        c) rafforzamento delle prerogative del Governo all'interno del procedimento
legislativo, in pendant con una costituzionalizzazione dei limiti alla decretazione
d'urgenza di cui alla legge 400/88;
        d) revisione del titolo V°, caratterizzata da: abolizione della competenza
regionale concorrente, mera individuazione di una ampliata competenza esclusiva
statale con competenza legislativa residuale alle Regioni, clausola di supremazia
generale dello Stato, espunzione di ogni riferimento alle province (ad eccezione della
città metropolitana, l'ente di area vasta risulta de-costituzionalizzato e affidato alla
competenza esclusiva statale) ;
        e) soppressione del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro;
        f) elezione dei cinque giudici costituzionali oggi eletti dal Parlamento in seduta
comune, tre dalla Camera e due dal Senato delle autonomie.
        Questa arida e neutrale elencazione permette di integrare il dato numerico degli
articoli incisivi permettendo di misurare ambito ed estensione del progetto che appare
certamente rilevante ma comunque significativamente più contenuto non solo se
misurato in relazione al progetto della terza bicamerale (D'Alema), che riscrisse
l'intera parte II dall'inizio alla fine, ma anche rispetto alla riforma del governo
Berlusconi bocciata dal referendum del 26 giugno 2006 e forse anche rispetto alla
stessa relazione finale della lontana commissione Bozzi (che conteneva numerose
modifiche della parte I Cost.). Il progetto risponde quasi alla lettera alle indicazioni,
come detto sopra unanimi, della Commissione Quagliariello e - cosa decisiva - pur
incidendo indirettamente sulla forma di governo (niente rapporto fiduciario con la
seconda Camera, procedimento legislativo) rinvia a un'eventuale fase successiva (in
ogni caso a legislature future) ogni intervento diretto sulla forma di governo: inclusi
emendamenti da gran tempo condivisi da tutti e di rilevanza poco più che simbolica
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(come l'espressa previsione della potestà di revoca dei ministri da parte del presidente
del Consiglio).
       Come un intervento del genere possa essere dipinto quale tentativo di «creare
un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali» (così recita
l'appello di Urbinati, Zagrebelsky, Rodotà, Pace, Azzariti e altri) mi risulta
razionalmente incomprensibile ovvero spiegabile in modi che il rispetto personale per
questi colleghi mi sconsiglia di esplicitare (tanto più se si considera che il progetto di
cui si discute segue il procedimento ex art. 138 Cost. e non la pur ingiustamente
vituperata procedura in deroga, ormai abbandonata).

       5. Ciò che caratterizza il progetto è il tentativo di riassestare il bicameralismo
ereditato dai padri costituenti, e poi corretto fino al suo assetto definitivo del 1963,
per metterlo in linea vuoi con le esigenza di razionalità e funzionalità
dell'ordinamento italiano vuoi con tutte le altre esperienze costituzionali europee.
Ritengo questa, da molto tempo, la priorità delle priorità: sia in sé sia in quanto essa
condiziona anche la possibilità di migliorare il funzionamento della forma di governo
attraverso appropriata (e legittima) legislazione elettorale1 (che è poi la ragione vera
delle mura inopinatamente erette a difesa dell'attuale bicameralismo).
       Caposaldo di questa trasformazione del bicameralismo attualmente vigente è la
composizione non direttamente elettiva della seconda camera. Esattamente come
caposaldo del bicameralismo paritario indifferenziato (c.d. perfetto) fu - storicamente
parlando: si vedano gli atti della Costituente - la scelta dell'elezione diretta. Fu lì che i
monocameralisti vinsero la partita, apparentemente perdendola: i bicameralisti che
erano larga maggioranza, ma divisi sul tipo di bicameralismo da introdurre in
costituzione, ottenero la seconda camera, ma alla condizione che essa fosse
direttamente elettiva così come la prima; una volta sancito questo compromesso, ne
derivò l'identicità di funzioni (se entrambe le camere parimenti anche se non
ugualmente rappresentano il sovrano corpo elettorale, perché e come differenziarne le
funzioni rendendole ineguali?). Quindi il Senato come camera di mera riflessione,
semplice duplicazione procedurale a scopo di reciproca rassicurazione e
rallentamento decisionale, suscettibile peraltro di alimentare un forte incremento del
ceto politico parlamentare.
       Del tutto marginale è, in sè, la questione delle indennità dei componenti del
Senato riformato: ma, al di là delle forzature demagogiche, il prevedere che essi non
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 Sin dal 2007 era stata segnalata l'inconciliabilità delle formule elettorali con premio di maggioranza con un
bicameralismo paritario e indifferenziaro come il nostro.

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ne godano appare coerente con la natura di delegati (di diritto o per designazione)
degli enti substatali di cui al rinnovato art. 114 (senza le province, cioè); ed è
coerente, soprattutto, col nuovo ruolo che ci si aspetta che la seconda camera assuma:
la famosa sede istituzionale di raccordo fra Stato ed enti substatali di cui quasi tutti
hanno parlato da vent'anni in qua, che - secondo l'opinione di un altro insigne
studioso e apprezzato presidente della Corte costituzionale formulata trenta anni fa,
parlo di Livio Paladin - rappresenta l'unica residua ragione strutturale che giustifichi
parlamenti bicamerali e che, infine, era stata implicitamente promessa dall'art. 11
della l. cost. 3/2001.
       Ma sul punto cruciale della estrazione indiretta dei componenti del nuovo
Senato vi è di più. Essa appare decisiva anche dalla prospettiva della prassi, del
possibile funzionamento concreto delle istituzioni politiche: ad evitare cioè che in via
di prassi una seconda Camera comunque espressione diretta del corpo elettorale,
ancorché giuridicamente priva del potere di dismettere il Governo, trovi il modo di
affermare comunque una capacità di condizionamento decisiva sulla stabilità
dell'esecutivo. Mi limito a richiamare al riguardo l'esperienza giapponese: in quel
paese, che al di là di profonde differenze culturali rispetto al nostro, ha sviluppato nel
secondo dopoguerra un sistema politico dai caratteri per più versi simili a quello
italiano, la Camera dei consiglieri non condivide il rapporto fiduciario con il Governo
e nondimento - direttamente eletta - è venuta affermando un proprio ruolo
determinante e in grado di condizionarne la permanenza in carica (in particolare nelle
fasi in cui al suo interno si affermi una maggioranza diversa e contrapposta rispetto a
quella della Camera dei rappresentanti, unica titolare teorica del rapporto fiduciario).
Anche per questo, l'unica seconda camera direttamente eletta fra i 15 ordinamenti
bicamerali dell'Ue, oltre al nostro Senato, è il Senado spagnolo (gli altri tredici sono
parlamenti monocamerali).
       Questa dunque è la scelta di fondo da compiere: Senato a composizione non
direttamente elettiva in rappresentanza degli enti territoriali sub-statali per tutelare al
centro dell'ordinamento gli interessi substatali e le esigenze amministrative degli enti,
questi sì direttamente elettivi, che ne sono espressione. Sul resto occorre ragionare -
con l'urgenza che l'emergenza impone - ma con la volontà di tenere conto di ogni
possibile apporto accademico, culturale, politico: e soprattutto senza - da parte di
nessuno - la pretesa di considerare irrinunciabile o non negoziabile alcuna ipotesi,
ferma la scelta di fondo.

       6. Dico la mia in pillole:
       i) se la funzione del Senato delle autonomie dev'essere rispettosa del nomen,
corrispondente a sua volta alla opzione prioritaria più volte richiamata, mi unisco a
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coloro che non comprendono cosa ci facciano i famosi ventun componenti di nomina
presidenziale; disposizione da sopprimere, anche nella prospettiva di quanto dico al
punto iii) (i ventuno di nomina presidenziale parteciperebbero all'elezione del capo
dello Stato, il che è impensabile, tanto più dopo la rottura della prassi della non
rielezione...);
        ii)    "risparmiati" i ventuno, si potrebbe procedere a una blanda
proporzionalizzazione regressiva delle ventun delegazioni regionali alla maniera del
Parlamento europeo e prima ancora del Bundesrat; inutile giocherellare coi numeri,
si concepisca una formula ragionevole, per esempio a partire dalle regioni/province
sotto il milione di abitanti (sono sei), per passare a quelle fra un milione e tre (sono
sei), fra tre milioni e sei (otto) per finire con la Lombardia;
        iii) va presa in considerazione la questione della composizione del
Parlamento in seduta comune per le funzioni elettive (in generale e del presidente
della Repubblica in particolare); qui la fantasia può sbizzarrirsi: si può pensare a
raddoppiare le delegazioni regionali integrandole per l'occasione; si può pensare a
delegati ad hoc, espressione dei consigli; in ogni caso non v'è motivo per cui gli
esecutivi, per questa specifica funzione, siano a tal fine privilegiati rispetto alle
rappresentanze consiliari; ricordo che nel modello tedesco vengono eletti tanti
rappresentanti dei Länder quanti i componenti del Bundestag, eletti su base
proporzionale dai consigli2;
        iv) va discussa senza pregiudizi l'estrazione della rappresentanza nel Senato
delle autonomie; io non mi accodo alla moda antiregionalista più di recente:
nondimeno conosco la storia istituzionale del mio paese e so che ancor oggi il ruolo
delle città è molto forte e la legittimazione dei sindaci per lo più salda, più di quella
dei presidenti di regione ancorché parimenti elettivi; mi affascina, inoltre, il modello
tedesco e l'idea della vera rappresentanza territoriale, per delegazioni che votano
unitariamente, ma mi domando se si possibile e come si concili con una estrazione
doppiamente differenziata di quella delegazione medesima (regione - comuni,
esecutivi - consigli); pensare che si possa evitare che, all'interno del Senato delle
autonomie, ci si pronunci sulle singole questioni influenzati dalle scelte partitiche e di
maggioranza/opposizioni nazionali mi pare illusorio: perfino in Germania ciò accade
regolarmente (ma lì - appunto - salvo casi di scuola, Land per Land); si può però

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 Art. 54.3 GG: «... einer gleichen Anzahl von Mitgliedern, die von den Volksvertretungen der Länder nach
den Grundsätzen der Verhältniswahl gewählt werden...».

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cercare di evitare ciò e trovare una soluzione equilibrata, sapendo che le vie di mezzo
sono suscettibili di rendere l'organo meno autorevole e influente, almeno sulla carta
(si v. sul punto la nota 1 di Valerio Onida, pag. 36 della relazione finale della
Commissione Quagliariello);
       v)     quanto alle funzioni legislative e d'informazione di cui al nuovo art. 70
Cost. a me pare che il progetto sia nel complesso equilibrato e condivisibile; troppo
estesa mi pare però la competenza legislativa di rango costituzionale (leggi
costituzionali e di revisione costituzionale): la limiterei alle sole leggi e alle sole
disposizioni costituzionali che disciplinano il Senato delle autonomie medesimo e le
sue attribuzioni nonché all'intero titolo V°, senza andare oltre. Oppure, prevederei
anche in questa materia la prevalenza Camera: imponendo però il referendum nel
caso di mancata approvazione conforme da parte del Senato. Non vedo, invece, che
spazio vi possa essere per le competenze aggiuntive che si vanno ipotizzando: mi
paiono campate per aria, del tutto incoerenti con il modello (rappresentanza
territoriale al centro dell'ordinamento) e in ultima analisi volte o a ostacolare il
progetto riformatore, o a sabotarlo di fatto, o ad aggiungere funzioni a mo' di
contentino nel tentativo di dare nulla più che l'impressione di una improbabile e del
resto inopportuna parità. Perciò niente funzioni di controllo, di garanzia, niente
competenza sui diritti civili (s'è sentito anche questo: ma allora andrebbe
completamente cambiata - non modificata o corretta - la composizione dell'organo) o
altro. Occorre esser seri e rinunciare alla tentazione delle scelte contraddette la riga
dopo. (In realtà l'obiettivo di alcuni è quello di una seconda camera di contrappeso -
sia pure su certe tematiche - rispetto alla prima, e - soprattutto - eletta direttamente su
base proporzionale, v. C. De Fiores, Un Senato di garanzia a suffragio universale:
cioè non un correttivo, ma una radicale alternativa rispetto al progetto del Governo).

       7. Sul procedimento legislativo ho poco da dire. La soluzione delineata mi pare
congrua e, quanto al voto entro sessanta giorni sui disegni di legge per i quali il
Governo lo chieda, esso sarebbe una delle novità maggiormente benvenute dell'intera
riforma: prima sarà, meglio sarà. E' l'unica strada, del resto, come si va dicendo da
qualche decennio, per ridimensionare una volta per tutte la decretazione d'urgenza, al
di là dei limiti già previsti dall'art. 17 della legge 400/88 di cui si propone la pur
opportuna costituzionalizzazione (tanto più in combinato disposto con la sempre più
incisiva giurisprudenza costituzionale in materia). Non ci sono da attendersi miracoli:
ma almeno al nostro sgangherato e slabbrato sistema delle fonti si eviterà, in qualche
materia, l'ingiuria di successioni di norme solo transitoriamente vigenti e mutevoli

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C. FUSARO - A PROPOSITO DEL PROGETTO DI LEGGE COSTITUZIONALE DEL GOVERNO RENZI

(l'incertezza del diritto divenuta prassi costante)3.
       Cose simili si possono sinteticamente dire della soppressione del CNEL: anche
qui - tanto più in un contesto complessivo di semplificazione degli assetti istituzionali
(nuovo bicameralismo, decostituzionalizzazione dell'ente di area vasta, unioni e
fusioni di comuni) - prima sarà meglio sarà. Se una specie di centro studi, dove si
incontrino e cooperino alla ricerca di una piattaforma conoscitiva comune
imprenditori, categorie produttive e sindacati, può esser utile, non si vede proprio
perché esso debba avere o mantenere natura, nientepopodimeno che, di "organo di
rilevanza (o di rilievo) costituzionale" (con tutta la pompa e gli oneri che il rango
inevitabilmente comporta). Anche qui: serietà.

       8. Last ma nient'affatto least l'intervento sul Titolo V°. Non sono un esperto di
questa materia. Fors'anche per questa ragione, essa mi pare - e di gran lunga - quella
più complessa e tecnicamente difficile dell'intero testo costituzionale. E' anche una di
quelle che solleva i maggiori contrasti d'interesse che si traducono in dispute
interpretative e conflitti che - non mediati e affrontati o anzi prevenuti a livello
politico - si scaricano a livello giurisdizionale. Personalmente non sono neppure così
certo che la riforma del 2001 meriti l'opinione così universalmente negativa e i
giudizi così impietosamente critici che sembrano accomunare pubblica opinione,
politici e parte del mondo accademico.
       Registro che vi è una più che maggioritaria condivisione dell'idea che una serie
di messe a punto, anche incisive, siano indispensabili (mi rimetto anche in questo
campo allo stato dell'arte delle opinioni qualificate che emerge dalla relazione della
Commissione Quagliariello).
       La soluzione scelta dalla proposta del governo si caratterizza per l'abolizione
della competenza legislativa concorrente (come categoria, ma in concreto non del
tutto4). Questa si accompagna a un'ampia competenza legislativa residuale delle
Regioni (peraltro integrata da una serie di esemplificazioni: "con particolare
riferimento", discutibile quanto meno sotto il profilo del buon drafting), quali risulta
al netto di un accresciuto elenco di materie (e funzioni) di competenza esclusiva dello

3
  Mi concedo un'autocitazione: vedi http://www.camera.it/_dati/leg09/lavori/stampati/pdf/ 16630001.pdf
dove si ritrova l'AC 1663 (primi firmatari Fusaro, Battaglia), IX legislatura, presentato l'8 maggio 1984, art.
2: vi si ritrovano, quasi alla lettera, i commi 4 e 5 dell'art. 77 Cost. secondo il progetto.
4
 Infatti, laddove su certi oggetti il nuovo art. 117.2, nell'elencare le materie e funzioni riservate allo Stato,
parla di "norme generali" a me par chiaro che si ripropone di fatto una sorta di competenza ripartita o
concorrente... v. lettere g), m), n), s), u) con le conseguenti esigenze interpretative.

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ASTRID RASSEGNA - N.7/2014

Stato (in qualche caso limitate alla sola "normazione generale"). Mi paiono grosso
modo materie già assicurate allo Stato dalla giurisprudenza costituzionale, per lo più.
Ad ogni buon conto un comma aggiuntivo dell'art. 117 introduce una sorta di clausola
di supremazia, in virtù della quale lo Stato può legiferare su qualsiasi materia e
funzioni: un contributo alla chiarezza. Compare nel 117, riveduto, il terzo comma
dell'attuale art. 116: sotto forma di potestà di delega dallo Stato alle Regioni (anche
solo ad una o ad alcune di esse, ed anche per un tempo determinato), dell'esercizio
della potestà legislativa esclusiva (salve enumerate eccezioni). Su qualsiasi materia o
funzione sua propria lo Stato può delegare alle Regioni la potestà regolamentare.
Importante notare che l'art. 118 (sussidiarietà, differenziazione) resta così com'è.
       Al di là delle scelte di fondo, il testo è appesantito da una serie di disposizioni
di marca centralistica e in qualche caso di tono per nulla costituzionale, che sarebbe
bene espungere (penso a quella sugli emolumenti per esempio; penso alla pretesa che
la competenza esclusiva in materia di enti di area vasta sia dello Stato e penso
all'analoga competenza esclusiva in materia di forme associative fra comuni: ma
perché mai?). Si tratta di disposizioni da rimuovere, che troppo concedono a una
demogogia di breve respiro e alle ossessioni centralistiche delle burocrazie
ministeriali.
       Invece, per ciò che riguarda l'impianto generale della riforma, la mia
preoccupazione è che il titolo V° (diversamente dal resto) non si presti ad essere
affrontato con la necessaria rapidità: e del resto che, a ben vedere, per questa parte
non c'è quella urgenza che invece l'emergenza impone per il resto del progetto. Il mio
suggerimento è di stralciare questa parte ovvero ridurla a ciò che è davvero pacifico
e unanimente condiviso, se c'è (la corrrezione degli elenchi su alcune materie?):
rinviando al nuovo Parlamento, col nuovo Senato, la riforma del titolo V°.
Pienamente legittimato dalla sua nuova estrazione territoriale, sarebbe il Senato delle
autonomie l'interlocutore naturale e decisivo di una Camera, a sua volta legittimata
dalla forza del voto popolare: per rivedere questa parte della Costituzione, e insieme
ad essa, anche la forma di governo, la magistratura e quant'altro meriti una messa a
punto e un adeguamento. Il progetto di riforma ora in discussione ne guadagnerebbe
in coerenza, omogeneità, compattezza: ed anche in giustificata velocità di
approvazione. I fautori della tesi secondo la quale il corpo elettorale deve potersi
esprimere attraverso una pluralità di referendum, senza dover decidere su un
pacchetto unico di emendamenti, troverebbero, oltretutto, soddisfazione. Il Paese
avrebbe presto, volendo in pochi mesi, ciò di cui ha prioritariamente bisogno: e
potrebbe rimettersi in cammino con più slancio e gambe politico-istituzionali un po'
più ferme.

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