XL - Centrale Fies/Chapter IV - Storia Notturna/Chapter VI - Hyperlocal - Persinsala

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XL – Centrale Fies/Chapter IV
– Storia Notturna/Chapter VI
– Hyperlocal
written by Fabrizio Migliorati | Agosto 20, 2020
          Il primo weekend dell’edizione XL di Centrale Fies si
         è concluso con due importanti momenti dedicati
         all’arte. Il primo ha visto prendere vita le opere
        della mostra Storia Notturna a cura di Simone Frangi
e Denis Isaia, mentre il secondo è stato rappresentato
dall’imponente installazione del progetto OHT [Office for a
Human Theatre], 19 luglio 1985 – Una tragedia alpina

L’esposizione Storia Notturna nasce intorno al testo omonimo
di Carlo Ginzburg apparso nel 1989, importante opera “laica”
che indaga le pratiche sabbatiche, magiche e ritualistiche.
Storie di uomini e donne il cui intreccio con le pratiche
liminari, crepuscolari, giunse spesso alla condanna del potere
inquisitorio (quest’ultimo sovente creatore ex nihilo di
quelle stesse pratiche). I sette artisti invitati dai curatori
hanno occupato la grande sala comando installando opere
enigmatiche, dove il minimalismo corteggiava il folklorico, e
il cliché e il kitsch nascondevano un potere evocativo.
L’inaugurazione della mostra ha offerto la possibilità non
solamente di guardare quelle opere posizionate in quel
determinato modo, ma anche quello di assistere al passaggio
dall’oggetto alla vita. C’è qualcosa dell’ordine del magico
nell’attivazione della staticità dell’opera, come se si
potesse, al fine, restituirla alla sua realtà, al suo naturale
movimento che l’ha vista sorgere e vivere. Viene così ad
emergere tutto l’assurdo dell’esposizione fissa, della fissità
mortifera che attiene proprio al concetto di “mostra”.
L’esposizione è esposizione di se stessi, messa in visione
alla mercé dell’avventore, che sia egli preparato oppure no.
L’aspetto definitivo dell’inchiodamento immaginale si frantuma
nel momento taumaturgico del “tocco”, dell’infrangersi del
mondo della distanza per attivare quello della prossimità
immediata. L’entrata in contatto con l’opera è già la
dichiarazione del fallimento dell’esposizione in quanto tale
(di ogni esposizione) e lo sprofondamento all’interno del
maelstrom dannato dell’opera vivente. Ecco che la serie di
performance di questo meriggio domenicale appartiene
maggiormente al movimento stesso dell’opera, all’eventuarsi
dell’immagine, facendo sì che si possa percepire lo scatto che
la attiva e che le permette di realizzarsi. Momento
(ri)sorgivo che restituisce all’opera il materiale
dell’invisibile, la ragione del suo essere lì, così, dinnanzi
a noi. Non per questo, però, il movimento d’attivazione deve
per forza scivolare all’interno dell’esegesi. Esso sembra,
invece, accostarsi maggiormente a quello dell’ermeneutica, ad
una risignificazione temporale e culturale dell’aspetto
cultuale.

L’utilizzo del materiale artistico, che avviene, in molti
casi, attraverso una vestizione, spoglia nel suo movimento
quello stesso materiale dallo strato sacrale dell’immagine
transitando verso una ritualità che fa del movimento la sua
stessa carne. È come se si passasse dall’ostensione del corpo
cristico     reale     (Crocifissione)       o    simbolica
(transustanziazione) alla partecipazione diretta o rievocata
della sua potenza. Il limes tra il nostro mondo e quello
invisibile è materializzato dall’oscurità che esigono le
pratiche del sabba. L’attivazione della mediazione con il
divino oscuro, con le forze invisibili, l’incarnazione di
metamorfosi teratologiche e animalesche, non può avvenire
“alla luce del sole”, ma solamente sotto il cielo fattosi
culla notturna. All’esterno della sala comando la giornata sta
giungendo al termine e l’oscurità inizia ad abbracciare la
Centrale, provocando una pertinenza (quasi) inattesa con la
presa di vita delle opere all’interno. Durante la day-long
performance, Ayla Parisi e Carolina Lorenzi hanno attivato
l’opera dell’artista argentina Mercedes Azpilicueta, mostrando
l’aspetto ludico della vestizione e un trasformismo che qui
diviene inerente il costume stesso. Un elegante abito da sposa
assume le sembianze di una lunga coda entomomorfica. Il cambio
di funzione spalanca il campo delle possibilità e le due
performers si producono in un lavoro simbiotico costituendo
una forma ibrida di essere cieco in movimento guidato
solamente da parole senza voce. Le Sculture-fischietto di
Chiara Camoni hanno declinato il passaggio oggetto-vita
attraverso la matericità lieve del suono. Otto performers
hanno dato fiato ad oggetti che parevano semplici (ma pur
sempre bizzarri) bibelots, in un brevissimo concerto dove
l’evocazione ha imbrigliato l’emergenza di voci notturne,
cauchemardesques. Il francese Darius Dolatyari-Dolatdoust con
la sua installazione Moving Landscape, ha sprofondato il suo
abito e lo sfondo della sua quinta in una vera e propria scena
teatrale dove alla ricchissima simbologia presente si è
aggiunto l’enigma del silenzio e di una movimentazione
animistica. Francesco Fonassi, insieme a Giulia Galvan, ha
declamato un “poema selvatico” estratto da un manoscritto
anonimo francese del quindicesimo secolo. La natura offre il
necessario per la vita e per la protezione mentre la mollezza
che il mondo moderno, a causa del possesso e delle ricchezze,
è in grado di creare, appare come il rischio della corruzione
dell’“Om Selvarech”. La purezza dell’uomo selvatico va di pari
passo con la sua rudezza, salvandolo dalla cultura (ritroviamo
qui il senso dell’opera anti-moderna di Ginzburg) e
investendolo di un potere di mediazione con il metafisico.
Anna Perach concepisce “sculture indossabili” che fanno
scaturire il reciproco mantenimento tra la narrazione intima,
personale e quella dei miti folklorici. Il procedimento
materiale attraverso il quale l’artista ucraina di origine
israeliana perviene alla creazione delle opere è quello del
tufting, tecnica produttiva che permette la creazione di
tappeti e che, questo è il punto che ci interessa di più,
chiude e fissa il ciuffo grazie al capitonnage. Il punto di
capitone lacaniano diviene qui l’immagine che mantiene la
correlazione invisibile e strettissima tra storia personale e
bestiario vitalistico. Raffaela Naldi Rossano ha riattivato
per l’occasione il progetto polimorfico I Confess, incentrato
su di un potere particolare che gli oggetti mantengono in sé:
quello della rimemorazione. Anche in questo caso, il “tocco”
che infrange ogni distanza fa precipitare il soggetto
all’interno del movimento mnestico di una narratività storica
personale, sempre in bilico tra una volontà di libertà
espressiva e l’affogamento dell’oblio. I frammenti scultorei
in mostra vengono parzialmente esternizzati al fine di
richiamare il pubblico che si accomoda in forme circolari
sulla grande pedana installata nel cortile. La messa in
movimento (sonoro) dell’opera esige la staticità dello
spettatore che viene attraversato dal potere ipnotico della
parola e da quello ondulatorio e cullante della musica.
L’ultima opera che chiude la mostra è quella misteriosa e
mistica dello svizzero Luca Frei. Il titolo 38074 indica il
codice di avviamento postale del Comune in cui si trova
l’opera in quel preciso momento, mostrando, così, un
trasformismo non più fisico o simbolico, ma codificato. Si
tratta qui di un raffreddamento concettuale che porta già con
sé il movimento, la vita. Per questo motivo non esiste una
performance dell’opera poiché l’atto performativo è già
incluso nel suo stare, nell’essere movimento operando nel
sistema di divisione territoriale che nulla esprime
dell’identità e dei valori.

Scendendo di un livello, si giunge nella grande sala delle
turbine. Qualche panca, un’immensa scena e uno sfondo lontano
e profondo che vela un colossale albero sospeso a mezz’aria
che gira su se stesso. Siamo in presenza dell’installazione 19
luglio 1985 – Una tragedia alpina. Ma prima che questo titolo
ci indichi la direzione da seguire e lo spazio della
narrazione, noi ci abbandoniamo a questo luogo di sospensione,
vagamente drammatico ma invaso da una luce bianca fredda che
ci mantiene sul limes, tra veglia e sonno. L’installazione si
deve al progetto OHT [Office for a Human Theatre] fondato nel
2008 e guidato dal curatore Filippo Andreatta. Se, à juste
titre, Carlo Ginzburg, nume tutelare della mostra Storia
notturna, rappresenta un’autorevole voce della microstoria,
anche qui, in questa grande sala, ritroviamo la passione verso
narrazioni che si discostano dai grandi récits storici per far
riemergere fatti e racconti “minori”, cancellati dal tempo e
dalla memoria. Ma dove qualcosa in loro perdura. Ed è proprio
su quel nocciolo duro, su quel residuo non riassumibile, che
OHT insiste e tesse la visibilità di una catastrofe
dimenticata. La data del titolo si riferisce a ciò che accadde
alle 12:22:55 del 19 luglio 1985, nella Val di Stava. In quel
preciso secondo cede l’arginatura del bacino superiore di
decantazione della fluorite che crolla sul bacino inferiore,
provocandone a sua volta il crollo. Una gigantesca colata di
torbida, un fango biancastro residuo della decantazione, si
dirige allora, ad una velocità che tocca i 25 metri al
secondo, verso l’abitato di Stava. Venti secondo dopo il
crollo del bacino, il paese viene sommerso e cancellato
completamente. L’onda proseguirà la sua corsa verso la
periferia nord di Tesero, scendendo a valle per poi
raggiungere la confluenza fra il rio Stava e il torrente
Avisio. Il conto di questa catastrofe fu il seguente: ventotto
bambini con meno di dieci anni, trentuno ragazzi con meno di
diciotto anni, ottantanove uomini e centoventi donne persero
la vita. Tre alberghi, cinquantatré case d’abitazione, sei
capannoni e otto ponti furono completamente distrutti mentre
nove edifici furono gravemente danneggiati. Centinaia di
alberi furono sradicati.

La descrizione minuziosa degli eventi, la precisione dei dati,
anche attraverso il sismogramma di Cavalese che documenta
l’impatto sismico, assumono una portata estrema nell’opera di
OHT. Ma di fronte alla freddezza dei dati che lasciano senza
parole, l’unico appiglio per la salvezza sembra essere
rappresentato dalla musica. Lux Aeterna di György Sándor
Ligeti e Again – After Ecclesiastes di David Lang fanno
emergere il punto d’incontro tra la musica contemporanea e il
teatro greco. La catastrofe alpina viene evocata con parole,
immagini, oggetti, movimenti e rumori, ma ciò che ci blinda ad
un reale per noi (ancora) sconosciuto, sono proprio quelle
composizioni corali, sacrali, sublimi. Il coro greco sembra
emergere come apparizione, e necessaria contro-effettuazione,
nella tragedia. Visione che trascende l’immanenza della
catastrofe inumana che si ripete, riemergendo dall’oblio della
storia, sotto i nostri occhi. Le luci di William Trentini,
scomparso pochi giorni prima dell’inaugurazione, acuiscono
l’aspetto pàtico generale e, interpolandosi con quello sonoro,
producono un sentimento dolente che accompagna gli spettatori
ben oltre l’uscita. L’installazione si chiude su ‘ndormenzete
popin, canto di montagna che fa lacrimare nella più sensibile
dolcezza innocente.

Le immagini viste alla Centrale Fies, in questo breve e
intensissimo weekend, tornano a interrogarci, non lasciando
sciogliere la presa immaginaria che esse hanno su di noi. La
fissità del nostro portato subisce a Fies una scossa che
provoca la disarticolazione delle immagini, la loro messa in
movimento, la loro sospensione. Mentre riecheggia, nella culla
ovattata del sogno, il suono una voce lontana: quella di una
preghiera laica.

 Gli spettacoli si sono svolti:
 Centrale idroelettrica Fies
 Località Fies 1, Dro (TN)

 Centrale Fies Art work Space e Il Gaviale hanno presentato:
 XL – Centrale Fies
 Chapter IV – Storia Notturna
 a cura di Simone Frangi e Denis Isaia
 Chapter VI – Hyperlocal
 a cura di Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta
 17 luglio – 8 agosto 2020

 19 luglio 2020
 Sala comando
Chapter IV – Storia Notturna
a cura di Simone Frangi e Denis Isaia
con opere di Mercedes Azpilicueta, Chiara Camoni, Darius-
Robin Dolatyari-Dolatdoust, Francesco Fonassi, Luca Frei,
Raffaela Naldi Rossano e Anna Perach
domenica 19 luglio, le opere sono state attivate da Ayla
Parisi, Carolina Lorenzi, Hannes Egger, Denis Isaia, Manuela
Reifer, Maya Stimpfl, Birgit Stimpfl, Martina Mosconi, Daniel
Bova, Mauro Caser, Darius Dolatyari – Dolatdoust, Giulia
Galvan, Emily Morellato.
production management Maria Chemello e Giulia Morucchio
allestimenti Antonello Marzari
light Design Fabio Sajiz

Sala turbine
19 luglio 1985 – Una tragedia alpina
installazione di OHT | Office for a Human Theatre
regia, scena e testo Filippo Andreatta
drammaturgia Marco Bernardi
corifeo, musiche e suono Davide Tomat
scenografo associato Alberto Favretto
luci William Trentini / Veronica Varesi Monti
responsabile palcoscenico Viviana Rella
best-girl Letizia Paternieri
assistente regista Veronica Franchi
video Armin Ferrari
produzione e amministrazione Laura Marinelli
promozione e distribuzione Laura Artoni
esperto giardiniere Cleto Matteotti
tecnico del suono Claudio Tortorici
sviluppo elettronico e automazioni Enrico Wiltch
animale guida il Cervo
produzione OHT
co-produzione Romaeuropa Festival, Centro Santa Chiara Trento
residenza artistica Centrale Fies art work space
con il contributo di Fondazione Caritro, Provincia Autonoma
di Trento
con il patrocinio della Fondazione Stava 1985
installazione co-prodotta da Centrale Fies art work space
durata 40’ in loop
in memoriam William Trentini

www.centralefies.it
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