Viaggio in Kosovo PER FARE DELLA PACE UNA MISSIONE NON IMPOSSIBILE

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Viaggio in Kosovo

PER FARE DELLA PACE UNA MISSIONE NON IMPOSSIBILE
Raggiungere, tra boschi, valli e montagne, Novo Brdo dove opera, sotto l’egida
dell’Onu, “Radio Youth Voice”, la prima radio multietnica del paese kosovaro, lì
dove in effetti le tensioni tra albanesi e serbi appaiono soltanto sopite, e sono
quest’ultimi a rischiare adesso la ‘pulizia etnica’ in forma di vendetta. I militari
stranieri simpatizzano con le ragazze, ma la situazione sembra nel complesso quella
di un reclusorio in attesa che venga proclamata l’indipendenza da Belgrado.

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di Valerio Di Paola

       Dalla frontiera macedone la strada scende annodata alla montagna. Sembra di attraversare
gli Appennini, i boschi della Maiella in autunno: c’è qualche scheletro grigio di vecchia fabbrica
nascosto dagli alberi e una grandiosa cava dietro quasi ogni curva, simile ai gradoni di uno stadio
deserto scavato nella roccia arancione. A valle la strada corre dritta attraverso la pianura brulla dai
riflessi azzurri. Ci fermiamo per la benzina e un caffè: il bar dietro l’autorimessa è arredato con
scuri mobili tirolesi e una grossa radio che trasmette musica country. Sotto un vecchio specchio
della Coca Cola due uomini in divisa blu chiacchierano in albanese approssimativo con due ragazze
biondissime; forzano un sorriso e non perdono mai di vista il loro fuoristrada parcheggiato davanti
alla vetrina, con la scritta Unmik sullo sportello: United Nation Mission for Kosovo. Il benzinaio
indossa un grembiule bianco e ci porta quattro caffellatte con sopra una montagna di panna
durissima.
       Lungo la strada per Pristina stanno allineate brutte palazzine a tre piani; sanno di disordine e
d’abuso edilizio, come lungo le coste pugliesi o calabre. Si coagulano in cinque o sei e fanno un
villaggio albanese, ognuno con la piccola moschea nuova fiammante: dietro le case a metà, senza
finestre, con i balconi senza ringhiera, spunta il minareto dalla punta luccicante di stagnola. Qualche
ragazzo arricchito in fretta sfreccia a bordo della sua auto sportiva nera, con i vetri scuri e i
cerchioni cromati: sfiora l’asfalto e fa il rumore di un vecchio salvadanaio. Il nostro fuoristrada
sobbalza su una fitta sequenza di dossi artificiali: stiamo entrando in un villaggio serbo, annuncia
dal posto di guida Antonello, che è qui da un anno. Le case ora hanno un solo piano dal tetto
spiovente e giardini dietro le palizzate. Davanti ad un muricciolo di mattoncini gialli sta un giovane
soldato altissimo, biondo, che imbraccia goffamente un fucile enorme: guarda stupito il fiume di
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macchine scassate, vecchi camion russi e fuoristrada che fluisce lento sotto il suo naso, sulla spalla
ha cucita una bandiera finlandese. Qui sono loro a controllare che il villaggio non venga attaccato;
altrove ci sono gli Americani e gli Italiani sono a nord, verso la Serbia, dove tira aria più pesante.
Girare con un fuoristrada bianco serve a non farsi fermare dai soldati ogni tre, quattro chilometri:
bianco significa “internazionale”, Croce Rossa o Nazioni Unite o, nel nostro caso, cooperazione per
lo sviluppo dei media. Il soldato biondo rientra nella garitta costruita in fretta che lo contiene
appena: fa la guardia al monastero ortodosso medievale di Graçanica, patrimonio dell’umanità per
l’Unesco, circondato dal filo spinato.
       Ora sono i Serbi, gli ex padroni, a rischiare la pulizia etnica mentre gli Albanesi si prendono
gli uffici pubblici a Pristina, i negozi, l’università: in albanese si chiama “vetevendosie”,
autodeterminazione, aspettando che le Nazioni Unite proclamino il Kosovo indipendente da
Belgrado. Serbi e Albanesi fanno così, a turno, più o meno da mille anni. I villaggi sono isole a
centinaia, serbe e albanesi, una dopo l’altra; alcune sono tre case e un bar squallido che vende
sigarette puzzolenti con il timbro del monopolio: U.N. Interim Administration. Si paga con gli Euro,
i soldi “internazionali” dei soldati e dei burocrati, dei volontari e dei poliziotti, aspettando la fine
del far west. Antonello racconta le ultime violenze e sterza di colpo per far passare due colossali
Hummer dei Marines che fanno tremare l’asfalto. Un paio d’anni fa si sono uccisi a decine in pochi
giorni: correva voce che i due bambini albanesi morti nel fiume li avessero affogati i compagni di
gioco, serbi. C’erano già migliaia di soldati di tutto il mondo sparsi per il Kosovo, ma non servì a
molto. La guerra è finita ma, solo domenica scorsa, una granata è piovuta su un monastero
ortodosso e ad una manifestazione non autorizzata a Pristina due ragazzi albanesi sono stati uccisi.
Un blindato francese, una papera d’acciaio grande come un autobus, è riverso nel fosso accanto alla
strada: i soldati discutono su come tirarlo fuori di lì e cambiare la ruota forata; mi dicono di
abbassare la telecamera.
       Lungo la strada nella terra di nessuno ad ogni incrocio c’è una fiammante automobile bianca
con scritto Police e un giovanotto in divisa blu e arancione, albanese; accanto ha un Carabiniere o
un poliziotto bulgaro o un agente della Gendarmerie che lo affianca, lo istruisce, lo sorveglia.
Sbadigliano, perché non c’è nulla da fare; i camion intanto marciano lenti lungo le strade dritte
verso l’Albania: quasi tutta l’eroina del pianeta oggi viaggia attraverso il Kosovo.

       Novo Brdo è in montagna: il palazzo bianco con la bandiera sbiadita delle Nazioni Unite, il
municipio, dovrebbe esserne il centro. Il paese è fatto da qualche centinaio di brutti palazzi
socialisti lanciati sul dorso del pendio come coriandoli e da un gregge d’antiche masserie candide.
Serbi e Albanesi vivono separati in gruppi di dieci, venti, ognuno con le sue api da miele, le galline,
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l’orto e un cimitero. La strada, prima della radio, fa una lunga curva attorno ad una fattoria e alla
carcassa di una Trabant mezza affondata nella terra, il pollaio. Radio Youth Voice, il lavoro di
Antonello, è una piccola baita di lamiera blu elettrico: il filo del telefono arriva dal municipio
serpeggiando per il prato e sulla collina c’è l’antenna, pagata cinquemila euro dalla Caritas italiana.
Ci lavorano in sei, tre albanesi e tre serbi; si sentono in tutta la montagna e fino a Gjilan, una specie
di città con la moschea, un monastero ortodosso, un paio di barbieri, un ingrosso di mattoni e la
scuola, ma solo quando il tempo è buono. Davanti alla radio Arbenita, albanese di vent’anni, sorride
seduta in bilico su una quercia con un paio di grandi cuffie calcate sulle orecchie. Gabriel,
giornalista francese, la sta fotografando per il sito internet che farà conoscere il progetto: “I’m
listening Radio Youth Voice”, la prima radio multietnica del Kosovo.
       In realtà vanno in onda la mattina in albanese e il pomeriggio in serbo: insieme provano a
fare le riunioni di redazione. È già molto stare nella stessa stanza, mi dice Antonello sottovoce:
alcuni, serbi, hanno fatto il servizio militare al fronte, altri hanno fatto in tempo a salire sulla
montagna con i guerriglieri albanesi dell’Uck. Arbenita ha enormi occhi azzurri: la guerra era
brutta, orribile, ma ora è finita, sorride e punta altrove i grandi occhi tristi. Inutile chiedere altro, ci
mettiamo al lavoro: agenzie di stampa, fonti, criteri di notiziabilità; difficile farsi capire in inglese e
Luigi, giornalista di Sky, passa al calabrese. Funziona. Dopo quattro ore inchiodati allo schermo
abbiamo i “lanci” per un notiziario bilingue: Gotcza, vent’anni, albanese, ha fatto il gingle con il
portatile di Gabriel, “Radio Youth Voice, breaking news!” Ma Sasha, diciotto anni, serbo, armeggia
con un fascio di cavi polverosi e scuote la testa: nel generatore di corrente che ruggisce sotto la
finestra c’è benzina per altri dieci minuti; domani, forse, dopo essere andati a Gjilan a fare il pieno.
Quasi al buio, Arbenita prepara un altro caffè: i ragazzi della radio si passano muti un cruciverba, il
posacenere è una montagna di mozziconi. Mi chiedo perché non si arrabbiano, come fanno a non
spaccare tutto e fuggire da questo luogo immobile: penso a casa, all’Italia, alla mia tesi di laurea
lasciata a metà.
       Un paio d’ore dopo facciamo appena in tempo a riempire qualche bottiglia d’acqua alla luce
spettrale dei telefoni cellulari, prima che, come ogni notte, l’acquedotto smetta di funzionare. Acqua
e luce qui sono imprevedibili, ride il padrone della casa in cui alloggiamo, un omone albanese che
parla un po’ di francese: lui se ne andrà presto, dice, andrà in Iraq a fare la guardia del corpo. E con
i soldi qui si comprerà tutto il palazzo.

       Il primo radiogiornale multietnico va in onda a mezzogiorno: i ragazzi si scambiano l’unica
sedia della piccola stanza imbottita di lana di vetro e leggono le notizie, una in serbo e una in
albanese, attenti che la sedia non si capovolga perché delle quattro rotelle che dovrebbe avere ne
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manca una. Sasha serissimo non stacca le dita dalle manopole del mixer: tutti leggono spediti sulla
musica sincopata fatta da Gabriel, senza intoppi, con le pause e le cadenze giuste, che tanto ci
preoccupavano. L’uomo della Caritas kosovara, serbo, allegro e a lungo operaio in Germania, è
raggiante. Ha portato con sè due ragazzini curiosi, sedicenni. Uno ha una zazzera di capelli
biondissimi, siede a parlare fitto con Luigi d’inchieste e investigazioni, dell’Espresso e dell’Italia e
prende furiosamente appunti. L’altra lega i capelli lunghissimi, siede davanti al microfono, afferra
risoluta una “velina” e va in onda tutto d’un fiato.
       La sera vado a casa di Vladan, il direttore della radio, a vedere la partita in televisione,
sperando che la luce non manchi di nuovo: Serbia contro Portogallo. Ventiquattro anni, serbo e
occhi furbi dietro gli occhiali da vista, Vladan sopravvive aiutando il padre con le api. Meglio qui
che in città, dice, dove tutti i serbi sono tutti disoccupati: qui guadagna qualche centinaio d’euro al
mese. Ma la benzina costa poco meno che in Italia. Qualche anno fa suo padre e quello di Sasha,
che abita nella fattoria vicina, facevano una notte per uno sull’aia, con il fucile carico: oggi il
vecchio passaporto serbo di Vladan non serve a niente, non lo riconoscono neanche alla frontiera
macedone. Baijran, l’altro direttore della radio, albanese di ventitre anni, con il suo passaporto
rilasciato dal governo provvisorio, quando a Pristina comandava l’Uck, al massimo può andare in
Albania, sempre che alla frontiera i poliziotti siano di buon umore. È un’amicizia tra reclusi, ma
quello che infastidisce di più Vladan, se esce con Baijran, è il dover parlare a bassa voce nei
ristoranti o nelle poche discoteche di Pristina non riservate agli “internazionali”, perché nessuno
capisca a quale etnia appartengono: deve farlo per sé e ancora di più per il suo amico. I genitori
stanno cercando di comprare una casa in Serbia, nel caso ci sia bisogno di andarsene in futuro, ma
non vorrebbero usarla: Vladan ha una bambina di un anno; la madre, vent’anni, aspetta che si
addormenti insieme alla nonna. La Serbia sta perdendo uno a zero. Vladan apre una lattina di birra e
mi dice ridendo che aspetta un altro figlio.
       La sera a Novo Brdo quando la radio tace ci sono un paio di bar e bisogna decidere se stare
con gli Albanesi o con i Serbi. Il fuoristrada sfiora il ciglio dei tornanti sventagliando con gli
abbaglianti le lame bianche delle betulle. I cani da pastore abbandonati durante la guerra prima
hanno mangiato le pecore, poi si sono uniti in branchi; è per questo, dicono, che tutti qui girano
ancora armati. Stasera entro con i ragazzi serbi in un piccolo capanno di lamiera da cui filtra una
fioca luce gialla: c’è una pelle di volpe appesa sul bancone e l’ostessa, una specie di ciclope, ci
consegna pezzi di carne alla griglia, cipolle crude e pomodori. Nell’angolo è seduto un uomo
robusto sui cinquant’anni, color lampone: è il medico del paese e, quando serve, il veterinario e sta
impartendo ordini ad un reggimento di lattine di birra vuote schierate sul suo tavolo. Appare una
bottiglia di grappa alle prugne con dentro una grossa croce di legno, una croce ortodossa. Chissà
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come si fa ad infilarcela dentro. Il dottore propone un brindisi per ognuno dei soprannomi che
inventa per noi: Nappoleone, Davynci, Mosolini, Collombo. Si beve in piedi, prendendosi sotto
braccio, e poi ci si bacia tre volte. Fuori dalla finestra non si vede niente, il Kosovo sembra tutto
uguale.
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