Ricostruzione post sisma: Irpinia 1980 alla prova dei piani di recupero

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Ricostruzione post sisma: Irpinia 1980 alla prova dei piani di recupero
Ricostruzione post sisma:
Irpinia 1980 alla prova dei
piani di recupero
L’evento del 1980 fu solo l’ultimo atto di una lunga e pesante
tradizione di terremoti in Irpinia: nel 1694 (6.000 vittime),
nel 1907 e 1910, nel 1930 (1.404 vittime) e nel 1962. In un
territorio così martoriato, la popolazione era caparbiamente
sopravvissuta in quelli che si usavano definire romanticamente
“paesi-presepe”, contornati da scenari suggestivi, con centri
storici suddivisi da intricati sistemi di viuzze, impreziositi
da rocche, castelli e antichi edifici, in serenità e
semplicità di rapporti umani ma privi di particolari punti di
forza economici, tanto meno industriali.

Ciononostante, la ricostruzione venne incentrata sul rilancio
industriale ma la pioggia di contributi pubblici per lanciare
venti zone industriali tra Campania e Basilicata non rese più
fertile il tessuto produttivo bensì si disperse
infruttuosamente (tranne che per alcuni) in mille rivoli che
alimentarono false partenze di imprese, seguite da rapidi
fallimenti, e gonfiarono le banche locali: nella zona
terremotata aprirono gli sportelli ben ventisei banche
cooperative (nove nella sola provincia di Avellino).

Sul piano della ricostruzione abitativa, i finanziamenti
furono altrettanto imponenti e inefficaci. Solo una piccola
parte di essi è arrivata agli oltre 300 comuni danneggiati,
con circa 150mila edifici da ricostruire totalmente. Fondi
consistenti furono dirottati per una serie di opere pubbliche
assenti in precedenza, tra cui molte arterie stradali finite
sotto inchiesta perché costruite da imprese legate alla
camorra o realizzate su rifiuti tossici smaltiti in maniera
illecita.
Ricostruzione post sisma: Irpinia 1980 alla prova dei piani di recupero
La ricostruzione nel “cratere”
La zona epicentrale, definita il “cratere”, comprendeva molti
dei comuni dell’alta Irpinia in provincia di Avellino, tra cui
piccoli nuclei urbani nati attorno alle sorgenti di due
importanti fiumi, il Sele e l’Ofanto, di antichissima
fondazione e densissima e ricchissima stratificazione
edilizia.
Nel dibattito sugli indirizzi da dare alla ricostruzione si
confrontarono due orientamenti: da un lato, quello volto a
recuperare e valorizzare l’assetto tradizionale dei paesi
colpiti, in parte ispirato al genuino rispetto e
riconoscimento del loro valore culturale, in parte strumentale
al mantenimento di un certo ordine politico di stampo più
feudale che democratico; dall’altro, quello che spingeva per
l’innesco di uno sviluppo modernistico, ancor più necessario
dopo il terremoto in aree così marginalizzate, ma anche
funzionale agli appetiti affaristici dei notabili locali.

La legge n. 219, del 14 maggio 1981 fu la composizione
imperfetta di questi due indirizzi. Sotto il profilo
urbanistico, la novità più importante fu l’imposizione di una
pianificazione totale che, partendo da quella più ampia
regionale, settorializzata rispetto ad aree differenti (dalle
aree sub-regionale del “cratere e dalla conurbazione
napoletana, fino alle aree densamente popolate della costa
salernitana e a quelle delle zone interne), giunge fino agli
ambiti comunali, la maggior parte dei quali, sprovvisti
totalmente di strumenti organizzativi del territorio,
avrebbero dovuto adottare obbligatoriamente entro 12 mesi una
pianificazione urbanistica comprendente:
a) il Piano di Zona;
b) il Piano degli Insediamenti Produttivi;
c) i Piani di Recupero;
d) i Piani esecutivi.
Tali obblighi e tempi gettarono nel caos le amministrazioni
locali e la Regione stessa, poco organizzati ad affrontare
l’emergenza urbanistica.
Ricostruzione post sisma: Irpinia 1980 alla prova dei piani di recupero
Rovine nel villaggio di Romagnano (fonte foto: Flickr Paolosub)

I Piani di Recupero nei centri storici minori

1. Conza della Campania
Conza della Campania è un paese di circa 2000 abitanti, al
confine tra la Campania e la Basilicata. Ripetutamente
ricostruito su se stesso dopo i ricorrenti terremoti che lo
hanno colpito nel corso dei secoli (il primo documentato
risale all’anno 990), sorgeva su una collina a circa 500
m.s.l.m. dominando l’intera valle dell’Ofanto; nel terremoto
del 23 novembre 1980, riportò danni al 95% dell’intero
abitato, formato da insulae con case di modesta altezza e
addossate le une alle altre, fondate su terreni di riporto o
appoggiate a costruzione sottostanti prospicienti altre
stradine. Il crollo di alcuni edifici, dovuto alla scossa,
determinò una reazione a catena, danneggiando progressivamente
gli edifici legati gli uni agli altri.
Sin dal giorno successivo al disastro, tutti i sopravvissuti,
all’unanimità, decretarono la fine della vita attiva della
vecchia e collinare Compsa e l’inizio di una nuova vita con la
fondazione di una nuova città, a valle. Il Piano, affidato al
prof. Corrado Beguinot, più volte rivisto e rielaborato e
approvato in via definitiva solo nel 1984, prevedeva di
edificare a valle la nuova città, in località Piano delle
Briglie, ad un chilometro e mezzo dall’antico insediamento,
che sarebbe diventato un parco archeologico con un forte
legame con il nuovo centro.

Il Piano di Beguinot aveva due obiettivi principali: il
recupero dei vani poco danneggiati con funzione di servizio al
parco archeologico sulle colline di Conza e di Ronza
(dichiarate proprietà pubblica sotto la gestione del Ministero
dei Beni culturali) e la realizzazione di nuovi edifici
pubblici lungo un asse stradale che avrebbe legato l’antica
Compsa alla nuova. Il piano è informato al concetto di
conservazione integrata dei centri storici, che sottolinea la
necessità di conservare insieme al patrimonio architettonico
ed urbanistico anche il tessuto sociale e le destinazioni
d’uso.

Nel periodo successivo, poco è stato fatto per la sistemazione
della parte di reperti rinvenuti e per il recupero di vani a
servizio del parco archeologico e della città in generale.
L’asse attrezzato di connessione tra i due siti non è stato
mai realizzato. Il legame che si prospettava dovessero avere
le due città, Compsa e Conza, rimane, per ora, solo visivo e
non funzionale o strutturale. Il parco archeologico, pur
essendo ricco di valenze archeologiche, appare incompleto e
stenta a diventare un servizio turistico-culturale attrattivo.
Parco archeologico di Conza della Campania (Fonte foto: Flickr Fiore S. Barbato)

Approfondimenti

Strutture esistenti in muratura
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Partendo dalla classificazione per tipologia e per tecniche
costruttive degli edifici esistenti in muratura, l’Autore
fornisce indicazioni utili per operare l’indagine della
struttura, individuare il metodo di calcolo più adeguato e
verificare i meccanismi di collasso dell’edificio.

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2. Sant’Angelo dei Lombardi
Sant’Angelo dei Lombardi, posto su di un colle ad 800 m sul
livello del mare, è il paese simbolo del terremoto del 1980.
Mentre Conza della Campania rappresenta l’epicentro sismico,
Sant’Angelo è l’epicentro della ricostruzione, esempio
positivo di risposta immediata alla distruzione provocata dal
sisma.
Già dal febbraio del 1981 si profilò l’idea, sostenuta dalla
popolazione, che non intendeva abbandonare il proprio paese,
di un piano urbanistico che salvasse ciò che era rimasto di
uno dei centri più antichi, storicamente più rilevanti della
provincia. A tale scopo, una delibera del consiglio comunale
istituì il “Servizio Beni Culturali ed Ambientali”, con il
compito di coordinare le iniziative miranti al recupero di
tutto il patrimonio artistico ed architettonico.

Il primo risultato fu di adottare, invece dell’uso
indiscriminato delle ruspe, il criterio della rimozione
manuale delle macerie, sperimentata con successo in Friuli nel
1976, pratica che permise di recuperare molta parte di quel
patrimonio artistico e architettonico e si rivelò vantaggiosa
anche economicamente, facendo risparmiare circa un miliardo
rispetto all’uso dei mezzi meccanici.
Fu approntato un progetto pilota, comprendente un’area del
centro storico di circa 5000 mq, con un preventivo di spesa
massimo di 5 miliardi di lire e un tempo di esecuzione di un
anno, mirante al recupero di quasi 200 vani abitativi ed
altrettanti da adibire ad attività commerciali e artigianali.
Contemporaneamente, si avviava la redazione del piano di
recupero, a cura di un gruppo di progettisti, coordinato
dall’arch. Antonio Iannello. Il piano fu presentato e adottato
il 16 settembre del 1981.

Lo strumento urbanistico di recupero considera il centro
storico come un “unico monumento” e disciplina gli interventi
attraverso la redazione di norme tecniche adeguate al
monumento sul quale si interviene. Il centro storico venne
diviso in unità minime di intervento, nell’ambito delle quali
il piano prescriveva l’unitarietà della progettazione
urbanistica ed edilizia e la più rigorosa progettazione ed
esecuzione dei lavori di adeguamento sismico.

Gli interventi previsti per il raggiungimento delle finalità
del piano, furono:
• il restauro urbanistico per la conservazione dell’unità
formale e strutturale dell’antico impianto urbano, mantenendo
le volumetrie esistenti, eliminando le superfetazioni e
conservando o “ripristinando” i valori ambientali delle
cortine, dei tetti e dell’arredo urbano;
• il restauro diviso in tre tipologie differenti, a seconda
della qualità dell’edificio, da interventi estremamente cauti
e attenti alla conservazione dei valori formali e strutturali
degli edifici più antichi o originali, anche se non vincolati,
fino a interventi di restauro degli edifici più recenti o
trasformati, per i quali è comunque prescritto il rispetto dei
valori formali acquisiti;
• la ricostruzione di edifici dei quali non si ha una
documentazione grafica, fotografica o planimetrica sufficiente
e dei quali non è stata ritrovata una quantità sufficiente di
elementi lapidei. Per questi è prevista la ricostruzione
secondo l’impianto fondiario riportato nelle planimetrie
catastali, non necessariamente attraverso i canoni
dell’edilizia contemporanea ma con l’uso di materiali che
facciano distinguere “le parti del tessuto edilizio
ricostruito da quello originario restaurato”.

Il Piano di Recupero di Sant’Angelo fallì proprio per la sua
impostazione culturalmente avanzata, rigida nel prescrivere il
restauro e il recupero degli edifici e degli ambiti urbani, ma
troppo flessibile e generica nella scelta specifica dei metodi
da applicare, senza fornire indicazioni pratiche, facilmente
comprensibili e utilizzabili dai tecnici esecutori dei
progetti e dalle imprese edili, mediamente poco preparati ad
affrontare un compito così delicato in una situazione così
eccezionale. Una pratica mediocre vinse un’eccellente teoria.
Negli anni successivi, di variante in variante, gli interventi
di restauro furono trasformati in interventi di sostituzione
edilizia, che mutarono la tipologia edilizia sia dal punto di
vista tecnologico strutturale sia dal punto di vista formale,
anche perché non normate dal piano stesso, producendo forte
disomogeneità nei caratteri unitari della città. La
conseguenza grave fu la perdita, all’interno del centro
storico, di importanti testimonianze architettoniche e,
quindi, la cancellazione della memoria storica.

L’Abbazia del Goleto, parzialmente danneggiata dal sisma del 1980, esempio riuscito di
restauro e conservazione

Scheda dell’evento
Data: domenica 23 novembre 1980 ore 19:34
Magnitudo scala Richter: 6,9
Scala Mercalli: X

Area: 17.000 km 2 nella Campania centrale e la Basilicata
centro-settentrionale, con epicentro tra i comuni di Teora,
Castelnuovo di Conza, e Conza della Campania.
Vittime: 2.914 morti, 8.848 feriti
Danni: 687 comuni interessati dal sisma, di cui 37 disastrati
(danni al costruito superiore all’80%), 314 gravemente
danneggiati (danni al costruito tra il 40% e l’80%), 336
danneggiati (danni al costruito inferiori al 40%). Gli
sfollati furono 280.000.

Leggi gli altri capitoli di “La ricostruzione post sisma in
Italia”:
1. Introduzione
2. Messina 1908. La città che visse due volte
3. Belice 1968
4. Friuli 1976
5. Irpinia 1980
6. Umbria-Marche 1997
7. Puglia-Molise 2002
8. Pianura Padana 2012
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