"Pillole" anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato - Fondazione ...

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“Pillole” anti-COVID: quelle
che non vi hanno mai dato
written by Mario Menichella | 25 Marzo 2021
Una delle cose che mi hanno più colpito negativamente in
questo anno di pandemia è stata la quasi più totale assenza –
se si eccettua lo spot iniziale sull’igiene delle mani e
quello sull’app Immuni – di campagne di informazione e
prevenzione del Ministero della Salute attraverso il mezzo
televisivo, e in particolare la mancanza di una comunicazione
rivolta agli anziani, che, oltre a rappresentare la stragrande
maggioranza delle vittime del COVID, sono persone che, in
molti   casi,   si   informano   esclusivamente   attraverso   la
televisione. Oltre a ciò, ho notato che vari temi rilevanti
per la prevenzione del COVID non sono stati trattati tout
court, neppure in trasmissioni giornalistiche e medico-
scientifiche. In questo articolo affronterò, perciò, 10 fra le
principali questioni che la gente a casa si è posta o trovata
ad affrontare in questi mesi senza ricevere, a mio parere,
delle risposte o delle indicazioni soddisfacenti.

In particolare, cercherò di fornire qui, nei limiti di una
trattazione divulgativa ed al meglio delle conoscenze attuali
disponibili, delle “pillole” di informazioni utili che
purtroppo non sono mai state date da chi avrebbe dovuto farlo:
(1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione
della malattia? (2) Come capire chi è davvero più a rischio di
morte per il COVID-19? (3) Perché le cure domiciliari dei
pazienti COVID sono fondamentali? (4) Perché il fattore tempo
è così importante nella cura del COVID-19? (5) Quali
integratori sono utili contro il COVID secondo la letteratura
scientifica? (6) Perché la carica virale è importante
nell’infezione da COVID-19? (7) Mascherine, sterilizzatori,
pulsossimetri, etc.: cosa devo sapere? (8) Una domanda dei
medici: come vanno trattati i pazienti a casa? (9) Come posso
confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-COVID? (10) I
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vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

1) Quali sono i sintomi del COVID-19 e qual è l’evoluzione
della malattia?

Gli studi nella letteratura medica pubblicata in questo anno
di pandemia riportano che i pazienti ammalati di COVID-19
possono presentare, come sintomi all’esordio: febbre, tosse
secca, fame d’aria e affaticamento. Sono stati segnalati come
possibili sintomi in pazienti infetti anche mal di gola,
congestione nasale e naso che cola. Un numero significativo di
pazienti (20%-60%) sembra avere una perdita dell’olfatto (nota
anche come anosmia), che può essere il primo sintomo di
presentazione [1].

Secondo quanto diffuso dai Centers for Diseases Control (CDC)
di Atlanta, che negli Stati Uniti si occupano di epidemie e
malattie emergenti, nei pazienti infetti sono stati segnalati
anche brividi e tremore persistente, dolori muscolari, mal di
testa, nonché cambiamenti nel senso del gusto. Un sintomo del
contagio è talvolta la congiuntivite, per chi entra a contatto
con il virus attraverso la mucosa degli occhi. Un altro
disturbo che può emergere è la comparsa di vescicole sulla
pelle, lesioni pruriginose e necrosi.

Nei casi più gravi, l’infezione può causare polmonite virale.
Ed in circa il 90% delle diagnosi di ricovero ospedaliero di
pazienti italiani morti per COVID-19 nel 2020 sono menzionate
o condizioni (ad es. polmonite, insufficienza respiratoria) o
sintomi (ad es. febbre, affanno, tosse) riconducibili, per
l’appunto, al SARS-CoV-2 [2]. Nei ricoverati in Cina nel
gennaio 2020 (relativi a 552 ospedali del Paese), la febbre
era presente nel 44% dei pazienti all’ammissione, il secondo
sintomo più comune era la tosse (68%), mentre nausea e vomito
(5%) e diarrea (3,8%) erano poco comuni [3].

Il COVID-19 è una malattia caratterizzata da tre fasi [4], la
prima delle quali è una fase virale che dura 7-10 giorni a
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partire dalla prima manifestazione dei sintomi. In
approssimativamente il 20% dei casi è seguita da un secondo
stadio – quello infiammatorio – annunciato da marcatori pro-
infiammatori (ferritina, proteina C reattiva, etc.) e
caratterizzato dall’apparizione di infiltrati nei polmoni, che
sono seguiti in alcuni casi dal calo del livello di ossigeno
nel sangue (ipossemia), rivelabile tramite un comune
saturimetro.

Quest’ultima terza fase – che si verifica solo in un piccolo
sottoinsieme dei pazienti iniziali (circa il 5%) – è
caratterizzata da un’iperinfiammazione, che porta a una
cosiddetta “tempesta citochinica” (una reazione immunitaria
sistemica con cui il sistema immunitario combatte i
microrganismi patogeni e induce le cellule a produrre altre
citochine), che causa la “Sindrome di Distress Respiratorio
Acuto” (ARDS), patologia potenzialmente fatale per la quale i
polmoni non sono in grado di funzionare correttamente.

   Le tre fasi della malattia COVID-19. Come vedremo, è
   molto importante agire già sulla prima fase, sia
   attraverso una prevenzione fai-da-te con opportuni
   integratori sia con il supporto di terapie domiciliari
   adeguate somministrate dai medici di base o dalle Unità
   Speciali di Continuità Assistenziale (USCA). Tutto ciò è
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ancora più determinante con la comparsa di varianti del
   SARS-CoV-2 più virulente.

Come spiega il prof. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto
Mario Negri, “la prima fase, quella asintomatica che dura da 3
a 5 giorni, è caratterizzata da un’alta carica virale, che
aumenta ulteriormente con la comparsa dei sintomi. La malattia
va quindi affrontata prima che scenda ai polmoni. Se si parte
presto, di solito è possibile evitare il ricovero” [5]. È
ovviamente fondamentale, allo scopo, avvertire ai primi
sintomi il medico, cui spetta di indicare i farmaci da
assumere e le dosi (alcuni possono avere effetti collaterali,
specie se presi in concomitanza con altri).

Con la cosiddetta “variante inglese” (B.1.1.7), oggi
predominante anche in Italia, la prima fase si è però ridotta
a soli 2-3 giorni. Ciò suggerisce che il virus si replichi più
velocemente dando meno tempo al nostro sistema immunitario per
sviluppare gli anticorpi. Ma, soprattutto, secondo uno studio
di Grind et al. [10], la variante inglese del SARS-CoV-2
risulta essere più letale rispetto alla variante originale,
con un rischio di morte di ben il 67% maggiore, a conferma
della maggior virulenza di questa variante. Come vedremo nella
risposta all’ultima domanda, quest’ultimo è un effetto che
potrebbe essere legato ai vaccini oggi usati.

2) Come capire chi è davvero più a rischio di morte per il
COVID-19?

Sono ormai noti tre diversi fattori di rischio che
caratterizzano un esito infausto nel COVID-19: (1) l’età, dato
che ben l’85% delle vittime italiane hanno più di 70 anni (e
circa il 95% delle vittime ha più di 60 anni); (2) la presenza
di comorbidità (anche i pochi morti italiani sotto i 40 anni
presentano, nella maggior parte dei casi, gravi patologie
preesistenti: cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete,
obesità [2]); (3) la carenza di vitamina D (nel sangue), come
evidenziato da numerosi studi nel mondo [6, 7].
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Si noti che, all’interno del 20% di pazienti la cui
condizione, dopo la prima settimana di malattia COVID-19, può
all’improvviso deteriorare si trovano anche persone che
inizialmente avevano una sintomatologia lieve [4]. Di
conseguenza risulta vantaggioso avere la capacità di
distinguere – al di là della semplice valutazione dei fattori
di rischio – i casi che avranno un andamento clinico non
complicato da quelli che hanno maggiore probabilità di
sviluppare distress respiratorio e che necessitano di terapie
precoci.

Uno studio svolto da Cabanillas et al. [4] ha mostrato che,
sebbene fra i malati di COVID-19 vi fossero differenze
statisticamente significative fra i casi a basso rischio di
morte e quelli a basso rischio, tuttavia non era possibile
identificare uno o più fattori nella manifestazione clinica
della malattia che potevano essere usati in modo affidabile
per classificare i pazienti in gruppi a basso rischio o a ad
alto rischio, in modo da riservare il ricovero ospedaliero
soltanto a quelli del secondo gruppo e da curare a casa gli
altri.

Infatti uno si aspetterebbe, intuitivamente, che la frequenza
dei sintomi sia minore nei casi a basso rischio. Ma,
contrariamente alle aspettative degli autori dello studio, la
maggior parte dei casi seguiti – e rivelatisi a posteriori a
basso rischio – presentavano, al momento della diagnosi, due o
tre sintomi, il che indica come non potessero essere
identificati come tali sulla base della sola sintomatologia.

Tuttavia, gli stessi autori hanno suggerito dei criteri nuovi
sulla base dei quali i casi a basso rischio possono essere
identificati e monitorati a casa, anche senza trattamento
farmacologico (l’integrazione di vitamina D3 è comunque
consigliabile anche in questi casi, dato l’elevato profilo di
sicurezza nelle dosi consigliate dagli esperti a scopo
preventivo: 4.000 UI al giorno, in particolare per anziani e
persone    “fragili”    [8]),   piuttosto    che  ricorrere
all’ospedalizzazione o alla cura ambulatoriale del paziente
COVID.

Il loro approccio è basato su una serie di parametri
misurabili (Interleuchina-6, ferritina, D-dimero, proteina C
reattiva, colesterolo HDL, linfopenia, saturazione
dell’ossigeno)    comprendenti    essenzialmente     marcatori
infiammatori basati sul sangue. Questo metodo ha mostrato
un’eccellente correlazione con l’esito clinico e costituisce
un miglioramento rispetto al metodo del “Punteggio CALL” (che
considera l’età, la presenza di comorbidità, il livello HDL e
la linfopenia per assegnare un punteggio prognostico).

Infine, molte fonti di informazioni suggeriscono che in una
grossa percentuale di casi la trasmissione virale avvenga in
casa. Quando possibile, e in assenza di COVID hotel, gli altri
contatti stretti sani dovrebbero lasciare il domicilio o
quanto meno rimanere isolati in modo assai stretto. Ciò riduce
la re-inoculazione del virus attraverso l’inspirazione di
bioaerosol virale [9] in caso di successiva (o precedente)
infezione di altri conviventi, cosa che può potenzialmente
aumentare la gravità della malattia. Dunque, le persone che
vivono in famiglia possono essere più a rischio rispetto a
quelle che vivono da sole.

3) Perché le cure domiciliari dei pazienti COVID sono
fondamentali?

Nella pandemia da COVID-19, in Italia a livello sanitario ci
si è concentrati principalmente su due tipi di risposta: (1)
il contenimento della diffusione dell’infezione e (2) la
riduzione della mortalità dei pazienti ricoverati. Sebbene
questi sforzi fossero ben giustificati, nella prima fase si
sono trascurati del tutto i pazienti rimasti a casa [6], cui
veniva negato l’accesso alle cure ambulatoriali del proprio
medico curante. In seguito le cose non sono migliorate molto,
poiché in quasi tutte le regioni le unità USCA nate allo scopo
sono poche ed i loro medici sono spesso giovani con poca
esperienza e iniziativa.

D’altra parte, l’attento studio dell’epidemiologia dei
ricoverati suggerisce fortemente che si dovrebbe, al
contrario, puntare moltissimo proprio sulle cure a domicilio
dei pazienti COVID. Infatti, la maggior parte dei pazienti che
arrivano ai Pronto soccorso degli ospedali con sintomi di
COVID-19 non necessitano, inizialmente, di cure mediche
avanzate: solo il 25% ha bisogno di ventilazione meccanica,
supporto circolatorio avanzato o di terapia sostitutiva renale
(per il filtraggio del sangue dei reni) [9].

Quindi, è ragionevole pensare che una buona parte – se non la
maggior parte – dei ricoveri potrebbero essere tranquillamente
evitati con una cura a casa dei pazienti come primo approccio,
cosa che richiede il solo potenziamento dell’accesso ai
farmaci ed all’ossigeno, nonché a un fondamentale dispositivo
low-cost di monitoraggio come il pulsossimetro. Quest’ultimo,
peraltro, potrebbe venire anche acquistato del tutto
autonomamente dal paziente, se questi solo venisse meglio
informato, anche con degli spot, della sua utilità,
soprattutto nel rilevare forme silenti di scarsa ossigenazione
del sangue (ipossemia) [11].

In altri Paesi, e anche in Italia, le cure domiciliari – per
quei pochi medici che le hanno praticate e in più usando un
protocollo di cura autogestito in deroga a quello stabilito
dall’AIFA – hanno contribuito a trattare in sicurezza i
pazienti con diversi gradi di complessità raggiungendo
bassissimi tassi di ospedalizzazione e di mortalità se
confrontati con quelli delle case di cura [12] oppure con
quelli dei pazienti “trattati” con il protocollo dell’AIFA del
9/12/20, basato essenzialmente su un antipiretico, la
tachipirina (dal prof. Remuzzi ritenuta inutile e
controproducente) e sulla “vigile attesa” (come dire: aspetta
e spera…).

Dunque le cure domiciliari, se fatte con protocolli opportuni,
non solo (1) riducono gli accessi agli ospedali dei malati di
COVID, ma anche – a cascata – (2) i ricoveri in terapia
intensiva e (3) i morti, che sono i tre numeri che l’Italia
non è riuscita a controllare, al punto da dover ricorrere a
lockdown prolungati. Se ciò poteva forse essere tollerabile
nella prima fase primaverile del 2020, quando si era del tutto
impreparati, ciò non avrebbe dovuto ripetersi nell’autunno,
quando c’erano tutto il tempo e il know-how necessari per
spostare gran parte delle cure dalla fase tardiva ospedaliera
a quella precoce domiciliare.

In Italia, alcuni medici di base di tutte le regioni si sono
riuniti in un gruppo, il “Comitato per le Cure Domiciliari
COVID-19”, che ha messo a punto e testato sui propri pazienti
un protocollo di cura. È grazie a loro e all’efficacia
dimostrata sul campo dal loro protocollo che l’Italia ha avuto
un po’ meno morti di quelli che avrebbe potuto avere, dato che
solo una percentuale del tutto irrisoria dei loro pazienti ha
richiesto in seguito il ricovero. Tuttavia si è trattato di
una goccia del mare, poiché tutti gli altri medici di base e
quelli delle USCA si sono invece attenuti al protocollo
ufficiale, quello dell’“aspetta e spera” [13].

Il Comitato in questione – che comprende anche uno stimato
medico ospedaliero, l’oncologo Luigi Cavanna – è nato
inizialmente sui social, dove è seguito da oltre 100.000
persone, e poi si è tramutato in un’associazione, la quale da
tempo chiede che il proprio protocollo di cura basato sull’uso
precoce di certi farmaci (quali idrossiclorochina,
azitromicina, eparina, etc. e anche vitamina D) venga
riconosciuto ufficialmente a seguito dell’efficacia mostrata
dai numeri. Esso è in contatto con medici all’estero (Brasile,
Stati Uniti, etc.) che hanno sperimentato con analogo successo
protocolli molto simili.

4) Perché il fattore tempo è così importante nella cura del
COVID-19?
Sebbene ora siano disponibili opzioni di cura per i pazienti
con malattia COVID grave che richiedono il ricovero in
ospedale, è urgentemente necessaria l’adozione di interventi
che possano essere somministrati precocemente a casa durante
il corso dell’infezione per prevenire la progressione della
malattia e le complicanze a lungo termine [14]. I trattamenti
precoci per il COVID-19, tanto più se associati a un vaccino
efficace, avrebbero implicazioni rilevanti per la capacità di
porre fine a questa pandemia.

Il vantaggio di curare precocemente le infezioni da agenti
patogeni (e ridurre così la probabilità di ricoveri e di esiti
infausti) è noto da oltre un secolo, ma per ridurre i costi e
gli effetti collaterali i farmaci sono tipicamente prescritti
come trattamento terapeutico, il che significa solo dopo che
si sono manifestati i sintomi della malattia [15]. Inoltre, in
Italia molte persone sono morte di COVID perché anche quei 2-3
giorni o più per aspettare l’esito del tampone prima di dare
dei farmaci ha fatto spesso la differenza.

I medici di base del già citato “Comitato per le Cure
Domiciliari COVID-19” hanno avuto successo non solo perché
hanno usato un buon protocollo di cura, ma anche perché non
hanno aspettato l’esito di tamponi, bensì hanno dato subito i
farmaci (come del resto suggerito pubblicamente anche dal
prof. Remuzzi). Chi disponeva di un ecografo portatile l’ha
usato per diagnosticare la polmonite interstiziale, e
l’acquisto di tale strumentazione – che è poco costosa – per
medici di base e USCA sarebbe stato un investimento del
Governo molto più saggio rispetto a quello per i banchi di
scuola.

Lo studio sulla risposta immunitaria al COVID-19 suggerisce
che un intervento precoce potrebbe aiutare a bilanciare la
risposta immunitaria efficace contro l’azione dannosa causata
dal SARS-CoV-2, in modo da costruire una risposta forte per
combattere il virus. Poiché i pazienti con malattia moderata
non hanno ancora sviluppato danni agli organi terminali, i
dati suggeriscono che l’inizio del decorso della malattia è il
momento migliore per intervenire con varie opzioni di
trattamento per prevenire gli squilibri immunitari, proteici e
metabolici osservati con la malattia più grave degli stadi
successivi [16].

È proprio la fase iniziale      del COVID-19, quella in cui
appaiono i primi sintomi, ad essere quella più ottimale per
trattare la malattia, prima che la risposta infiammatoria
passi da utile a dannosa in quanto assolutamente eccessiva. In
parole povere, questi risultati suggeriscono che l’intervento
con vari integratori antivirali e immunomodulanti nelle prime
fasi del COVID-19 (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.)
potrebbe limitare la disfunzione nella risposta del sistema
immunitario alla lotta contro il virus [16].

La cosa non è difficile da capire. Nella prima fase della
malattia, assistiamo a una sorta di gara fra, da una parte, la
replicazione del virus che si moltiplica creando sempre più
unità di se stesso e, dall’altra, il sistema immunitario che
deve produrre velocemente sempre più anticorpi per
neutralizzare le particelle del virus. Gli integratori a loro
volta agiscono, da una parte, rallentando la replicazione del
virus (azione antivirale) e, dall’altra, favorendo la
produzione di anticorpi (azione immunomodulante). Dunque,
facilitano di molto il rapido prevalere dei “difensori” (gli
anticorpi) rispetto agli “attaccanti” (le particelle virali).
La “guerra” di un organismo contro il COVID-19 è,
   inizialmente, una battaglia fra la replicazione virale
   del SARS-CoV-2 e la produzione di anticorpi
   neutralizzanti queste particelle virali. Alcuni
   integratori (ad es. vitamina D, lattoferrina, etc.),
   grazie alla loro azione antivirale e immunomodulante, se
   presi quotidianamente come forma di prevenzione della
   progressione della malattia verso stadi più gravi, in
   caso di contagio rallentano la moltiplicazione delle
   particelle di virus e aiutano le difese immunitarie.

L’importanza del favorire i nostri “difensori” naturali, del
resto, è palese anche con gli attuali vaccini anti-COVID, che
stimolano l’organismo umano a produrre anticorpi (e una
memoria immunitaria) contro la famosa proteina “spike” (una
delle 26 proteine del SARS-CoV-2), che è l’uncino con cui si
lega alle nostre cellule. Infatti, quando una persona viene
infettata da questo virus, la risposta del sistema immunitario
di un vaccinato è rapida e imponente proprio poiché
“l’esercito” di anticorpi è già pronto e l’organismo non è
preso alla sprovvista, come invece avviene a un non vaccinato
(e non immunizzato).

5) Quali integratori sono utili contro il COVID secondo la
letteratura?
La patogenesi del COVID-19 è altamente complessa e comporta la
soppressione della risposta immunitaria innata e antivirale
dell’ospite, l’induzione di stress ossidativo seguita da
iperinfiammazione descritta come “tempesta di citochine”, che
causa il danno polmonare acuto, fibrosi tissutale e polmonite
[17]. Attualmente, ancora diversi farmaci sono in fase di
valutazione per la loro efficacia, sicurezza e per la
determinazione delle dosi per il COVID-19, ma ciò richiede
molto tempo per la loro convalida.

Pertanto, esplorare la riproposizione di composti naturali
contro il COVID-19 può fornire alternative sul breve termine,
in quanto questi non presentano effetti collaterali e sono di
basso costo e di facile reperibilità per il grande pubblico.
Diversi nutraceutici hanno una comprovata capacità di
potenziare il sistema immunitario e di agire come antivirali,
antiossidanti e antinfiammatori. Questi includono la vitamina
D, la vitamina C, la lattoferrina, lo zinco, la curcumina, i
probiotici, la quercetina, etc.

Assumere alcuni di questi fitonutrienti sotto forma di
integratore alimentare può dunque aiutare a rafforzare il
sistema immunitario, rallentare la replicazione del virus,
precludere la progressione della malattia allo stadio grave e
sopprimere ulteriormente l’iperinfiammazione fornendo supporto
sia profilattico che terapeutico contro il COVID-19, come
sottolineato da uno studio [17] svolto da un gruppo di
ricercatori indiani e pubblicato su una importante rivista di
immunologia. Tra l’altro, potrebbe non essere un caso che
l’India abbia avuto 10 volte meno morti COVID (per milione di
abitanti) rispetto all’Italia.

La carenza di vitamina D è risultata essere, secondo svariati
studi scientifici anche a livello di meta-analisi [5], un
fattore di rischio indipendente per le forme gravi di
COVID-19, per cui può essere usata sia in ambito preventivo
(in dosi di 4.000 UI al giorno nella sua forma di vitamina
D3), sia in ambito terapeutico (ad alte dosi). Pure la
lattoferrina – una proteina che, come la vitamina D, ha
proprietà antivirali, immunomodulanti e anti-infiammatorie –
ha mostrato una notevole efficacia negli studi clinici [18,
19] nell’abbattere il rischio di forme gravi di COVID-19, e
viene perciò assunta da tempo da moltissimi medici e
farmacisti.

La vitamina C può potenzialmente proteggere dalle infezioni a
causa del suo ruolo essenziale sulla salute immunitaria.
Questa vitamina supporta la funzione di varie cellule
immunitarie e migliora la loro capacità di proteggere dalle
infezioni. È stato dimostrato che l’integrazione con Vitamina
C riduce la durata e la gravità delle infezioni delle vie
respiratorie superiori (la maggior parte delle quali si
presume siano dovute a infezioni virali), compreso il comune
raffreddore, che può essere prodotto da alcuni tipi di
coronavirus con cui la nostra specie convive da tempo [20]. La
dose raccomandata di Vitamina C varia da 1 a 3 g / giorno.

Lo zinco è un metallo essenziale coinvolto in una varietà di
processi biologici grazie alla sua funzione di cofattore,
molecola di segnalazione e elemento strutturale. Regola
l’attività infiammatoria e ha funzioni antivirali e
antiossidanti. Lo zinco è considerato il potenziale
trattamento di supporto contro l’infezione da COVID-19 a causa
dei suoi effetti antinfiammatori, antiossidanti e antivirali
diretti. Quest’ultimo effetto è ottenuto riducendo l’attività
dell’ACE-2, la proteina delle cellule a cui l’uncino (spike)
del SARS-CoV-2 si lega per entrare nella cellula [17]. La dose
raccomandata da vari studi varia da 20 a 92 mg / settimana.

La curcumina, che possiamo assumere aggiungendo un cucchiaino
di curcuma al cibo, ha un ampio spettro di azioni biologiche,
comprese attività antibatteriche, antivirali, antimicotiche,
antiossidanti e antinfiammatorie [21]. Inoltre inibisce la
produzione di citochine pro-infiammatorie nelle cellule, ed
esercita un effetto antivirale su un’ampia gamma di virus, tra
cui virus dell’influenza, adenovirus, epatite, virus del
papilloma umano (HPV), virus dell’immunodeficienza umana
(HIV), etc. [22]. Pertanto, la curcumina potrebbe essere un
altro integratore interessante nella lotta alla patogenesi del
COVID-19.

6) Perché la carica virale è importante nell’infezione da
COVID-19?

Come per qualsiasi altro agente patogeno (batteri, funghi,
etc.) o veleno, i virus sono di solito più pericolosi quando
si presentano in quantità maggiori. Sola dosis venenum facit,
ovvero “è la dose che fa il veleno”, dicevano i latini e il
concetto si applica, mutatis mutandis, anche ai virus.
“Piccole esposizioni iniziali tendono a portare a infezioni
lievi o asintomatiche, mentre dosi più grandi possono
risultare letali”, come ha spiegato molto bene il professore
di chimica e genomica Joshua Rabinovitz.

Lo sappiamo bene nel caso dei batteri, in quanto è proprio la
concentrazione di noti batteri indicatori di contaminazione
fecale – l’Escherichia coli e gli enteroccchi intestinali – a
definire se un’acqua costiera è balneabile o meno. Ad es., il
valore limite dei primi è di 500 UFC (Unità Formanti Colonie)
/ 100 ml di acqua. Oltre questa soglia la balneazione è
vietata, poiché alcuni ceppi di questi batteri possono causare
nell’uomo infezioni a carico del tratto digerente, delle vie
urinarie o di molte altre parti del corpo.

La cosiddetta “carica virale” è invece un’espressione numerica
della quantità di virus in un dato volume di fluido corporeo
(ad es. l’espettorato, il plasma sanguigno, etc.). Ogni virus
ha la capacità di sopravvivere per un certo tempo
nell’ambiente all’interno del fluido, ma è necessaria una
carica virale minima per produrre l’infezione negli esseri
umani: ad es. sono sufficienti circa 100 particelle virali nel
caso del norovirus [23] – il virus a RNA responsabile della
diarrea – e tale quantità minima è diversa da virus a virus.
Pertanto, per proteggersi dal COVID-19, occorre cercare di
prevenire l’esposizione ad alte dosi di virus. In pratica,
entrare in un palazzo di uffici in cui qualcuno è stato con il
coronavirus non è così pericoloso come sedersi accanto a
quella persona per un’ora in treno. Perciò, la durata breve
dell’esposizione – così come il distanziamento sociale e una
corretta igiene – aiutano a ridurre la dose di virus che
possiamo inalare. Anche le mascherine FFP2 possono contribuire
ad abbattere di molto la dose in questione.

L’esposizione ad alte dosi di SARS-CoV-2 è più probabile nelle
interazioni ravvicinate fra le persone, come nel corso di
riunioni o in bar affollati, o nel toccarsi il naso o la bocca
dopo aver ricevuto quantità sostanziose di virus sulle mani.
Le ricerche hanno mostrato che le interazioni interpersonali
sono più pericolose in spazi chiusi e a breve distanza, con
un’escalation nelle dosi che aumenta con il tempo di
esposizione. Quest’ultimo rappresenta quindi una variabile
molto interessante.

   Più tempo si trascorre in un ambiente chiuso o
   semichiuso con aria infetta dal virus e maggiori sono le
probabilità di infettarsi, a parità di altre condizioni.
   L’uso della mascherina, se questa è scelta e indossata
   correttamente, può abbattere quindi di molto la
   probabilità di contagio e, quando anche quest’ultimo si
   verificasse, la barriera costituita dalla mascherina
   permette di assorbire una carica virale inferiore.

Un esperimento effettuato dall’Istituto per le Malattie
infettive americano (NIAD) [24] ha mostrato come il virus
SARS-CoV-2 possa rimanere sospeso nell’aria, sotto forma di
aerosol, fino a 3 ore. Tuttavia, la quantità di virus si
dimezza nel giro di un’ora ed è bassa negli spazi aperti.
Pertanto, la minaccia di contagio può arrivare soprattutto dai
luoghi chiusi (o semi-chiusi) e affollati, con i mezzi di
trasporto (metropolitane, autobus, tram, treni locali, etc.) a
farla da padrone per l’elevata densità di persone associata.

Una volta capito il concetto di carica virale, si può
comprendere facilmente perché il COVID-19 ha spesso sterminato
intere famiglie: in Cina come in Italia e in altri Paesi sono
state innumerevoli le famiglie i cui membri si sono tutti
ammalati e sono morti uno dopo l’altro in casa (per la
saturazione degli ospedali e per la mancanza dei cosiddetti
“COVID hotel”). Infatti, il non usare le mascherine in
famiglia e il non isolare subito i contagiati espone gli altri
familiari a dosi di virus assai elevate, donde gli esiti
infausti.

7) Mascherine, sterilizzatori, pulsossimetri, etc.: cosa devo
sapere?

Secondo uno studio anticipato dal The New England Journal of
Medicine [25], la carica virale del SARS-CoV-2 rilevata nei
pazienti COVID asintomatici era simile a quella dei
sintomatici, il che dà un’idea quantitativa del potenziale di
trasmissione dei soggetti asintomatici o minimamente
sintomatici rispetto ai sintomatici. Dato che non possiamo
sapere se siamo nei pressi di un soggetto asintomatico o
paucisintomatico che potrebbe trasmetterci l’infezione,
l’indossare una mascherina di protezione è fondamentale.

La mascherina non serve solo a impedire l’infezione, ma anche
a ridurre la carica virale cui potremmo essere esposti. Oltre
all’utilità nella protezione individuale, l’uso di massa delle
mascherine può ridurre di molto la trasmissione dei virus
respiratori. Ad es., secondo uno studio di Wu et al. [26],
durante l’epidemia di SARS del 2003 l’abbattimento della
trasmissione virale è stato addirittura del 70%. E, sempre
grazie all’uso delle mascherine, nell’inverno 2002-2003 a Hong
Kong l’influenza di fatto non circolò.

Esistono, come è noto, tre diversi tipi di mascherine di tipo
medico: (1) chirurgiche (di forma rettangolare, sono inadatte
a un filtraggio superiore al 65%, non essendo aderenti al
viso); (2) respiratorie di tipo FFP2 (o N95), che filtrano
almeno il 95% delle particelle di 0,6 micron o più grandi; (3)
respiratorie di tipo FFP3 (o N99), che filtrano almeno il 99%
delle particelle di 0,6 micron o più grandi. Queste ultime,
però, se espellono l’aria della persona tramite una valvola
non proteggono le altre persone (sono perciò dette “egoiste” e
non devono mai essere usate per la protezione dal SARS-CoV-2).

Poiché le nuove varianti attecchiscono molto più facilmente, è
senza dubbio raccomandabile l’utilizzo di mascherine FFP2, ma
è importante accertarsi che siano prodotte in Italia e che
forniscano una certificazione rilasciata da un ente del
settore. Oggi le si possono trovare facilmente digitando nei
siti di commercio elettronico “mascherine ffp2 italiane
certificate”. Ovviamente, vanno poi indossate bene adattando
l’archetto metallico alla forma del proprio naso. Una FFP2 è
garantita per un uso di almeno 8 ore, ma se la usate solo
negli ambienti chiusi (e all’esterno usate una chirurgica) di
solito dura di più.

Le mascherine e le superfici possono essere sterilizzate in
modo assai efficace con una soluzione idroalcolica al 70%,
come illustrato in un mio articolo sull’argomento [3]. Gli
ambienti, invece, possono essere sterilizzati facilmente
usando lampade germicide a raggi UV-C, che vanno usate sempre
solo in assoluta assenza di persone, poiché i raggi UV-C sono
cancerogeni per la pelle e molto pericolosi per gli occhi. Per
sterilizzare una grande stanza in 10 minuti, servono circa 5 W
di UV-C [4]. Sconsiglio invece l’uso di ozonizzatori, perché
potrebbero operare nella regione “tossica” per i polmoni.

Consiglio inoltre di avere a casa un saturimetro, detto anche
pulsossimetro (tenetevi invece alla larga dalle app per
misurare l’ossigeno). I modelli con il miglior rapporto
qualità / prezzo sono quelli marchiati GIMA, usati anche dagli
equipaggi delle ambulanze, mentre eviterei quelli cinesi low-
cost, quasi del tutto inutili. Un normale livello di ossigeno
nel sangue (SpO2), per polmoni sani, è compreso in genere fra
il 95% ed il 100%. In generale, una lettura del saturimetro
inferiore al 95% è considerata bassa. Pertanto, già al di
sotto di questa soglia – specie se il trend è decrescente –
andrebbe avvisato il medico.

Nel caso ci si dovesse mai trovare in una situazione come
quella verificatasi nella primavera del 2020 – con gli
ospedali pieni e le persone malate di COVID che si dovevano
curare a casa da sole, ma il loro numero era tale che c’era
scarsità di bombole di ossigeno – è bene sapere che, in
assoluta mancanza di alternative, per una persona che ha
difficoltà nel respirare si può usare, in associazione a una
maschera per ossigenoterapia, un concentratore di ossigeno,
che lo produce da solo per cui il gas non si esaurisce mai.
Ormai ne esistono sul mercato vari modelli, ed i migliori
producono 6-8 litri al minuto [4].

8) Una domanda dei medici: come vanno trattati i pazienti a
casa?

Come in tutte le aree della medicina, anche per le cure
domiciliari il grande studio clinico “randomizzato,
controllato con placebo, a gruppi paralleli in pazienti
appropriati a rischio con esiti significativi” rappresenta il
gold standard teorico per raccomandare la terapia. Questi
standard, però, non sono abbastanza rapidi o rispondenti alla
pandemia COVID-19 [9], in quanto seguire i pazienti a casa per
uno studio controllato rappresenta uno sforzo organizzativo ed
economico molto grande da affrontare.

Se gli studi clinici controllati sui pazienti a casa non sono
facili, è evidentemente necessario esaminare altre
informazioni scientifiche relative all’efficacia e alla
sicurezza dei farmaci. Pertanto, nel contesto delle attuali
conoscenze, data la gravità della malattia e la relativa
disponibilità, costo e tossicità delle terapie, ogni medico e
paziente devono fare una scelta: vigile attesa passiva in
auto-quarantena o trattamento attivo più o meno “empirico”
allo scopo di ridurre le probabilità ospedalizzazione e la
morte [9], ad es. sfruttando il protocollo dei colleghi medici
di base del già citato “Comitato per le Cure Domiciliari
COVID-19”.

Quest’ultimo si basa principalmente sull’idrossiclorochina in
associazione con l’azitromicina, nonché sull’eparina e altri
farmaci, secondo lo schema molto dettagliato pubblicato in uno
studio di McCoullogh et al. [9], coordinato dall’epidemiologo
statunitense Harvey Risch. Uno studio condotto in Francia su
pazienti ricoverati e positivi al SARS-CoV-2, e confermato da
uno successivo più ampio, ha in effetti evidenziato che
l’aggiunta di azitromicina all’idrossiclorochina ha
determinato una riduzione della carica virale e un
significativo miglioramento del decorso della patologia [29].
Algoritmo di trattamento per la malattia COVID-19
   confermata in pazienti ambulatoriali a casa in
   quarantena automatica. BMI = indice di massa corporea;
   CKD = malattia renale cronica; CVD = malattia
   cardiovascolare; DM = diabete mellito; Dz = malattia;
   HCQ = idrossiclorochina; Mgt = gestione; O2 = ossigeno;
   Ox = ossimetria; Yr = anno. (fonte: McCoullogh et al.
   [9])

L’infezione da SARS-CoV-2, come molte altre, può essere più
suscettibile di terapia nelle prime fasi del suo corso, ma
probabilmente non risponde agli stessi trattamenti molto tardi
nelle fasi ospedaliere e terminali della malattia. Perciò, è
necessario iniziare il trattamento prima che i risultati di
tamponi PCR siano noti. Inoltre, poiché il COVID-19 esprime un
ampio spettro di malattie che progrediscono dall’infezione
asintomatica a quella sintomatica fino alla fulminante
sindrome da distress respiratorio e al cedimento del sistema
multiorgano, è necessario personalizzare la terapia [9].

L’estensione a livello nazionale del protocollo adottato di
recente dal Piemonte, mutuato dall’esperienza del“Comitato per
le Cure Domiciliari” (e basato sull’impiego della vitamina D
 della idrossiclorochina, etc.) – e che pare aver dato
risultati notevoli, sebbene non pubblicati per le ragioni di
cui sopra – sarebbe forse preferibile rispetto all’adozione di
linee guida “teoriche” (come quelle proposte da Remuzzi [30],
da Matteo Bassetti, etc.), che si basano su studi di farmaci
testati in fasi di cura del COVID più avanzate, ma non ancora
in fase precoce con studi controllati (tuttavia uno studio
sull’approccio Remuzzi è in corso).

In ogni caso, perfino uno di questi ipotetici protocolli
“sintetici”, teorici, non ancora validati in fase precoce
rappresenterebbe, quasi certamente, un notevole “upgrade”
rispetto alle indicazioni terapeutiche fornite a novembre dal
Ministero della Salute nella circolare dal titolo “Gestione
domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” [31],
basata sulle raccomandazioni dell’AIFA (e sospesa dal TAR del
Lazio il 4/3/21). In base a tale documento, si possono usare
antinfiammatori come paracetamolo (ad es. Tachipirina) o FANS
per pazienti sintomatici, in particolare in caso di febbre,
dolori articolari o muscolari.

Il testo dichiara, inoltre, che “l’uso dei corticosteroidi è
raccomandato nei soggetti con malattia COVID-19 grave che
necessitano di supplementazione di ossigeno”. Invece,
l’eparina è indicata solo nei soggetti immobilizzati per
l’infezione in atto. Al medico, infine, la circolare
suggerisce di avere un approccio di “vigile attesa” con
“misurazione periodica della saturazione dell’ossigeno”
tramite il saturimetro. Nel documento si suggerisce poi di
monitorare i parametri vitali tramite un punteggio: quello
consigliato è il “Modified Early Warning Score”. Ma quanti
medici di base hanno l’hanno davvero calcolato?

9) Come posso confrontare l’efficacia dei vari vaccini anti-
COVID?

Nel valutare i vaccini, in realtà, si usano due diversi tipi
di indicatori – l’efficacia e l’efficienza – e poiché i media
non spiegano mai la differenza fra i due, è facile che nei
lettori si ingeneri una grande confusione, poiché non si può
confrontare ad es. l’efficacia di un vaccino X con
l’efficienza di un vaccino Y, poiché sarebbe un po’ come
confrontare le mele con le pere: semplicemente non ha senso.
Inoltre, quella che ci interessa da un punto di vista pratico
è più l’efficienza che non l’efficacia.

La cosiddetta “efficacia” (efficacy) di un vaccino è la
percentuale di riduzione dell’incidenza della malattia in un
gruppo vaccinato rispetto a un gruppo non vaccinato in
condizioni     ottimali.    La   cosiddetta     “efficienza”
(effectiveness) del vaccino, invece, è la capacità del vaccino
nel prevenire esiti di interesse per il “mondo reale” [2]. La
seconda dà una valutazione meno rigorosa (anche perché non è
ottenuta attraverso uno studio controllato randomizzato su un
campione prescelto) ma più rilevante dal punto di vista
sanitario.

In termini statistici, l’efficacia è un’unità di misura che
definisce quanto un vaccino riduce il rischio di contrarre una
malattia, come ad esempio il COVID-19. In pratica, nei trial
si osserva quante persone vaccinate con il vaccino in esame
hanno contratto il SARS-COV-2 e si compara questo dato con
quante persone (che hanno ricevuto soltanto il placebo) si
sono ammalate. La differenza risulta nella percentuale di
efficacia dichiarata dai produttori (ad es. 95% per il Pfizer
contro la variante originale del virus).

Zero efficacia significa che i vaccinati corrono lo stesso
rischio delle persone che non hanno ricevuto il vaccino.
Un’efficacia del 100% vuol dire che il rischio di contrarre la
malattia è risultato azzerato. Solitamente, però, l’efficacia
varia a seconda del Paese in cui viene effettuato lo studio.
Ad esempio, le sperimentazioni dei vaccini anti-COVID in
genere mostrano un’efficacia più bassa in Sudafrica o in Sud
America, dove sono largamente presenti due varianti
verosimilmente indotte dai vaccini stessi [32].
L’efficienza di un vaccino, invece, è la sua capacità di
ridurre esiti spiacevoli per la persona o per il sistema
sanitario, che nel caso del COVID-19 sono, essenzialmente tre:
(1) l’ospedalizzazione in reparti a bassa intensità di cura;
(2) il ricovero nel reparto di terapia intensiva; (3) la morte
del paziente. Da questo punto di vista, ad esempio, il vaccino
Pfizer con cui in Israele si è vaccinato oltre il 95% della
popolazione ha mostrato di avere una capacità assai elevata di
prevenire tutti e tre questi esiti.

Dunque, per poter confrontare i vari vaccini anti-COVID, in
realtà conoscere la sola efficacia risultante dai trial (in
cui il vaccino è somministrato a un campione di persone sane
selezionate ad hoc) risulta utile fino a un certo punto. Una
volta che il vaccino viene impiegato sul campo per la
vaccinazione di massa, è l’efficienza il dato che dobbiamo
valutare e confrontare, anche se la somministrazione a una
popolazione non selezionata può introdurre dei bias, e quindi
i dati ottenibili sono meno “solidi”.

Dai dati disponibili finora, i vaccini attualmente usati in
Italia (Pfizer, Moderna e Astrazeneca) mostrano tutti una
buona efficienza contro la variante inglese (B.1.1.7), che
dunque non è resistente agli anticorpi neutralizzanti da essi
indotti. Al contrario, la variante sudafricana (B.1.351) pone
maggiori problemi, non tanto per i vaccini a mRNA (Pfizer e
Moderna), quanto per Astrazeneca, i cui anticorpi
neutralizzanti hanno mostrato un’attività molto bassa contro
questa variante, un serio segnale di allarme sui problemi che
i virus resistenti possono porre nel prossimo futuro [33].

10) I vaccini anti-COVID sono sicuri o corro qualche pericolo?

La sicurezza di un vaccino dipende dai suoi effetti
collaterali. Questi possono essere divisi, essenzialmente, in
tre diversi tipi: (1) effetti a breve termine (minuti, ore,
pochi giorni), (2) effetti a medio termine (settimane, mesi),
e (3) effetti a lungo termine (anni). In un vaccino normale
vengono studiati tutti e tre i tipi di effetti, ma nel caso
dei vaccini anti-COVID – sviluppati frettolosamente per uso
“in emergenza”: (a) gli effetti a lungo termine non sono stati
studiati; (b) si tratta, fondamentalmente, di vaccini “leaky”
(vedi [32]), il che può comportare una serie di conseguenze
imprevedibili sul medio termine.

Ma vediamo le cose più in dettaglio. Gli effetti a breve
termine dei vaccini anti-COVID attualmente in commercio in
Italia (Pfizer, Moderna, Astrazeneca) non pongono particolare
motivo di preoccupazione, se non forse per le donne incinte,
per chi avesse un’infezione COVID in corso (altra circostanza
non testata nei trial, per cui potrebbe essere prudente
realizzare un test antigenico prima del vaccino), e –
verosimilmente – per la popolazione più giovane. Infatti, come
ora vedremo, il rapporto rischi/benefici sembra invertirsi al
di sotto di una certa età, sebbene non esistano dati diretti
sull’argomento.

Grazie al database USA degli effetti avversi (VAERS), l’ing.
A. Tsiang ha stimato [34], in modo semplice ed elegante, che
le morti per milione di dosi somministrate associate ai
vaccini Pfizer + Moderna sono state circa 100 volte maggiori
di quelle segnalate per la vaccinazione antinfluenzale 2019-20
(vedi l’Appendice qui sotto). In pratica, le morti imputabili
a questi due vaccini anti-COVID sono pochissime: solo 23 per
milione di dosi (in ottimo accordo con i 21,2 e 28,3
morti/milione segnalati, rispettivamente, per Pfizer e
Astrazeneca nel database del Regno Unito (MHRA) [35]. Ciò
significa che il rischio di morire per il vaccino uguaglia
quello di morire per COVID-19 per i ragazzi di circa 25 anni
(vedi Appendice).
Il rischio di morire per una dose di vaccino
       anti-COVID posto nella giusta prospettiva.
       Anche considerando un numero di dosi ricevute
       di vaccino anti-COVID pari a 2 o 3, si tratta
       comunque di un rischio di morte statisticamente
       molto basso rispetto ad altri cui siamo esposti
       comunemente nel corso della nostra vita. (fonte
       degli altri rischi: U.S. National Safety
       Council – Center for Health Statistics)

Per quanto riguarda invece gli effetti a medio termine dei
vaccini anti-COVID in commercio, attualmente non si conosce la
loro incidenza (ad es. quella di complicazioni tromboemboliche
o di eventuali risposte infiammatorie che portino a condizioni
autoimmuni) a molte settimane dalla dose ricevuta (quando tali
eventi vengono più difficilmente inseriti nei database degli
affetti avversi) e tanto meno conosciamo gli effetti di tali
vaccini quando l’immunità tende a svanire, verosimilmente dopo
molti mesi. Inoltre, prima o poi potrebbero emergere nuove
varianti del virus che “bypasseranno” del tutto i vaccini
attuali e/o saranno più virulente e pericolose per la
popolazione, come ho illustrato con vari esempi storici qui
[32].
Il virologo e grande esperto di vaccini Geert Vanden Bossche
(che ha lavorato per OMS, FDA, CDC, GAVI, Bill e Melinda Gates
Foundation, etc.) è assai preoccupato: fare una vaccinazione
di massa a pandemia in corso, con vaccini “non sterilizzanti”
(come quelli ora usati [32]) ha un’altra importante
conseguenza: la soppressione temporanea del baluardo contro
questo virus costituito dall’immunità naturale “innata”, cosa
assai problematica (specie fra i più giovani), poiché prima o
poi la pressione evolutiva esercitata dai vaccini può
selezionare ceppi mutanti di SARS-CoV-2 resistenti ai vaccini
– come sta già accadendo con la resistenza agli antibiotici –
rendendo addirittura controproducente l’immunità artificiale
indotta dagli attuali vaccini, che è solo “proteina spike-
specifica” [36, 37].

Infine, normalmente il processo per approvare un nuovo vaccino
richiede un decennio, così da poter escludere effetti a lungo
termine. La durata troppo breve degli studi fatti per ottenere
le autorizzazioni “in emergenza” dalle autorità regolatorie
(FDA, EMA, etc.) – la FDA ad es. richiede solo 2 mesi di dati
raccolti – non consente una stima realistica degli effetti
tardivi. Ad esempio, per i vaccini a mRNA (mai usati prima!)
non è stato studiato l’impatto sulla fertilità e l’eventuale
trasmissione alla progenie di mutazioni dannose e, per quelli
a vettore virale, l’eventuale cancerogenesi. Non a caso, a chi
fa il vaccino anti-COVID in Italia viene fatto firmare un
modulo di consenso informato che nell’allegato recita “non è
possibile al momento prevedere danni a lunga distanza”.

In conclusione, poiché i vaccini devono essere somministrati
solo se i benefici superano i rischi, in considerazione: (1)
di quanto fin qui illustrato, (2) del fatto che i vaccini
“leaky” non producono immunità di gregge, e (3) tenendo conto
del fatto che circa il 96% dei morti per COVID in Italia sono
costituiti da over 60 [38] (più alcuni individui fragili), a
mio avviso si dovrebbe vaccinare solo la popolazione a rischio
– appunto, over 60 e persone “fragili” di ogni classe di età
(ad es. immunodepressi, etc.), come del resto avviene da
sempre per la vaccinazione contro i virus dell’influenza –
senza far correre alla popolazione più giovane anche i rischi
sul medio e lungo termine, oggi del tutto imprevedibili per
dei vaccini sperimentali.

APPENDICE – Stima della mortalità legata ai vaccini anti-COVID
negli USA

L’ing. A. Tsiang dell’Environmental Health Trust (EHS)
statunitense, ispirato da un articolo apparso sulla testata
The Epoch Times [39], ha stimato i tassi di mortalità legati
ai due vaccini anti-COVID usati negli USA (Pfizer e Moderna)
tramite un attento confronto, possibile grazie al database
pubblico VAERS, con i tassi di mortalità riscontrati nella
vaccinazione antinfluenzale 2019-20, che sono risultati essere
di circa 100 volte più bassi. Infatti, se le morti segnalate
come affetti avversi dei vaccini anti-COVID fossero per la
maggior parte casuali, logicamente dovrebbero essere simili
(in percentuale sulle dosi somministrate) a quelle segnalate
per l’influenza, e non due ordini di grandezza più grandi. Ma
ecco quanto ha trovato.

Poiché i morti negli USA segnalati al VAERS nella campagna
antinfluenzale 2019-2020 sono stati circa 45 su 170 milioni di
vaccinati, l’incidenza è stata dello 0,000026%, pari a circa
0,26 morti per milione di dosi. Viceversa, poiché i morti
segnalati in relazione ai vaccini anti-COVID negli USA sono
stati, dal 14 dicembre 2020 al 19 febbraio 2021 (circa 2
mesi), 966 su 41.977.401 dosi somministrate, l’incidenza è
stata dello 0,0023%, pari a circa 23,0 casi per milione di
dosi. Dunque, i morti in eccesso prodotti dai 2 vaccini anti-
COVID Pfizer + Moderna sono stimabili in (23,0 – 0,26 =) 23
morti per milione di dosi somministrate. Siamo quindi ora in
grado di stimare il rapporto rischi-benefici per le varie
classi di età.

Si noti che il tasso di mortalità da infezione COVID negli USA
è stato, secondo i CDC di Atlanta, dello 0,003% per la fascia
di età 0-19 anni, e dello 0,02% per la fascia di età 20-49
anni. Quindi il rapporto rischi-benefici nel fare questi due
vaccini sembra essere maggiore solo per le persone di età,
verosimilmente, maggiori di circa 25 anni. Per le persone più
giovani di (all’incirca) questa età, il rischio di morire per
il vaccino o per il COVID-19 sembra essere dunque praticamente
equivalente, e ciò dovrebbe essere un aspetto da valutare con
attenzione in una seria politica di salute pubblica, anche in
considerazione del fatto che poco o nulla si sa sui possibili
effetti a medio o a lungo termine dei vaccini a mRNA (mai
usati prima sull’uomo).

Vorrei sottolineare che questo risultato si può considerare
molto “solido”, poiché:

   1. La platea dei vaccinati per l’antinfluenzale è composta
     per lo più da anziani, quindi in realtà se si facessero
     le correzioni per età il rapporto in questione (100 x)
      risulterebbe ancora più grande.
   2. Entrambe le vaccinazioni sono state fatte a una platea
     di persone vastissima (decine di milioni di persone),
     perciò l’errore statistico risulta essere del tutto
      ininfluente.
   3. Vi è un ottimo accordo con i dati ottenuti per il Regno
      Unito dal database MHRA [35] e con quelli ottenibili,
      sia pure indirettamente, per l’Italia (ciò sarà mostrato
      in un futuro articolo).
   4. Secondo l’ultimo rapporto dell’AIFA, il numero di
      segnalazioni (per 100.000 dosi) degli effetti avversi
      dei vaccini anti-COVID appare essere maggiore per le
      classi di età più giovani [40].

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[32] Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende
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