Per un rinnovamento della cultura giuridica del lavoro in Italia - Michele Tiraboschi

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Numero 3 / 2020
              (estratto)

         Michele Tiraboschi

Per un rinnovamento della cultura
   giuridica del lavoro in Italia
Michele Tiraboschi, Per un rinnovamento della cultura giuridica del lavoro in Italia

         Per un rinnovamento della cultura
                giuridica del lavoro in Italia

                                                                         Michele Tiraboschi
  Ordinario di Diritto del lavoro , Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Considerazioni generali sul piano del metodo

Scriveva Gino Giugni che il diritto del lavoro non è il commento tecnico
di questa o quella legge nazionale, ma un campo fertile di esperienze e
rinnovamento della cultura giuridica e in fondo della intera società (G.
GIUGNI, Diritto del lavoro. Voce per una enciclopedia, in Lavoro, legge, contratti,
il Mulino, 1989, pp. 251-252). Chi condivide questa impostazione della
nostra materia non può non apprezzare il Manifesto per un diritto del lavoro
sostenibile proposto da Bruno Caruso, Riccardo Del Punta e Tiziano Treu.
Ed in effetti, ogni tentativo di mettere a sistema e attualizzare una
concezione globale delle funzioni del diritto del lavoro non solo va accolto
e salutato con favore, ma va apprezzato senza riserve per il solo fatto di
essere stato compiuto quale che sia poi la valutazione di merito delle
singole proposte o soluzioni avanzate.

Lo sforzo degli autori diventa tanto più apprezzabile, sempre sul piano del
metodo e delle finalità, se si considera che molti dei complessi problemi
con cui la dottrina giuslavorista si confronta da anni sono tra loro
intrecciati e si compenetrano con problematiche socio-economiche e direi
anche filosofiche di respiro più ampio, che travalicano gli stretti confini
del nostro settore disciplinare. Nonostante numerosi e recenti studi
monografici abbiano compiuto notevoli passi in avanti nella direzione di
modernizzare strumenti e tecniche di tutela del diritto del lavoro, si
avvertiva forte il bisogno di una lettura d’insieme sui problemi del lavoro.
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Solo questo tipo di analisi consente infatti di elaborare visioni e risposte di
sistema adeguate ad un contesto economico e sociale in cui la idea stessa
di lavoro è profondamente mutata rispetto a quella in cui le categorie
fondamentali della nostra materia sono state edificate, molte delle quali –
ed è questo un assunto che gli autori mettono bene in evidenza – “non
sono più adatte ad interpretare le nuove realtà del lavoro e delle imprese”
(p. 3). La missione tradizionale del diritto del lavoro (tutelare il contraente
debole) non si è certamente esaurita, dunque, ma occorre oggi ampliarla
per cogliere una realtà del lavoro sempre più differenziata e per rispondere
a nuovi bisogni e interessi dei lavoratori. Si tratta di premesse pienamente
condivisibili e da coltivare in modo anche più “deciso” di quanto
proposto, almeno con riferimento ad alcuni punti che si affronteranno
brevemente a seguire.

Se la consapevolezza sul lavoro che cambia è il presupposto indefettibile
per la elaborazione delle idee più dirompenti veicolate dal Manifesto, tra le
quali spicca una concezione collaborativa del rapporto e del contratto di
lavoro, la prospettiva dello sviluppo sostenibile si rivela particolarmente
feconda per svolgere una operazione culturale e scientifica della portata di
quella di cui si discute. In primo luogo, perché ci aiuta a collocare i processi
economici e sociali legati al lavoro nell’ambito di un approccio di sistema
che incorpori valori di altra natura, ma comunque con un forte contenuto
di socialità, come ad esempio quelli legati al pilastro ambientale dello
sviluppo o alle implicazioni socio-economiche dei cambiamenti
demografici, all’interno di un equilibrio dinamico rispetto al quale il tutto
non è la mera somma delle singole parti che lo compongono. In secondo
luogo, l’idea di sviluppo sostenibile suggerisce di adottare una visione di
lungo termine, che superi il breve-terminismo dominante nell’analisi e
soprattutto nella progettazione delle politiche del lavoro.

Questa prospettiva, che bene viene esemplificata dall’agenda 2030 delle
Nazioni Unite a più riprese richiamata nel Manifesto, implica un incessante

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dialogo tra valori e (quindi) tra interessi meritevoli di tutela, posti in una
relazione non più necessariamente conflittuale, ma collaborativa, nella
misura in cui ciascuno di essi contribuisce alla sostenibilità del sistema nel
suo complesso. Da qui anche la piena e convinta integrazione della
razionalità economica nel discorso giuslavoristico e il definitivo (tentativo
di) superamento di una concezione della impresa declinata sempre e
comunque in termini oppositivi se non come disvalore rispetto alla
razionalità giuridica.

Va peraltro rilevato che il percorso di universalizzazione dei fini e delle
tecniche di tutela che il Manifesto suggerisce, nella peculiare prospettiva di
una piena valorizzazione del lavoratore come persona, potrà essere anche
tortuoso, come pure molte delle idee proposte potranno rivelarsi di
difficile attualizzazione. Ma tralasciando per ora questo aspetto comunque
rilevante, e lasciando sullo sfondo tematiche settoriali che non è possibile
indagare in questa sede, vale la pena evidenziare come nel delineare il
passaggio dal selettivo all’universale, il Manifesto lasci intravedere ampi
spazi di continuità rispetto ai fini tradizionali della materia e altrettanti
profili di complementarietà tra tecniche di tutela classiche, che guardano
al lavoratore come contraente debole, e nuove frontiere di promozione
dello sviluppo della persona nel lavoro e nella società nel suo complesso,
che trovano negli approcci della capabilities e dello sviluppo sostenibile il
campo prediletto di declinazione.

Si tratta di un dato epistemologico di significativo rilievo su cui a nostro
avviso si possono aprire preziosi margini di dialogo con una parte
consistente della dottrina giuslavoristica che continua a manifestare forti
resistenze verso i processi di modernizzazione del diritto del lavoro, delle
sue narrative di fondo e delle relative tecniche di tutela. In questa
direzione, particolarmente apprezzabile è il proposito degli autori di
alimentare ricerche collettive e non solo individuali sulle questioni
sollevate: problemi complessi, necessitano risposte complesse, che

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possono essere elaborate solo collettivamente, con adeguata massa critica
anche e soprattutto attraverso la contaminazione delle diverse competenze
e sensibilità culturali. Si tratta a nostro avviso di una suggestione di metodo
da rivolgere in particolare alle giovani generazioni di studiosi e alle Scuole
di dottorato (che spesso oggi sono delle mere aggregazioni disciplinari di
facciata dove poi ognuno continua a coltivare il suo piccolo orticello) e
che, tuttavia, dovrebbe essere raccolta e trovare riscontri anche sul piano
istituzionale, con particolare riferimento sia ai dottorati innovativi sia in
relazione a tutte quelle procedure di valutazione a cui, a diversi fini, come
ricercatori siamo sottoposti le quali, allo stato, disincentivano anziché
valorizzare gli apporti collettivi e multidisciplinari alla ricerca.

Pienamente condivisibili, anche in questa prospettiva, sono poi le
considerazioni sulla auspicabile evoluzione della disciplina in senso critico
ma anche di maggiore apertura (p. 17 e ss.) sia sul fronte dei rapporti con
l’economia, sia su quello dei rapporti con altre discipline (scienze sociali),
senza trascurare l’importanza del confronto con altre branche del diritto
(dal diritto commerciale al diritto pubblico) e di una adeguata
valorizzazione dello studio del diritto vivente non solo giurisprudenziale
(come da tradizione) ma anche di quello contrattual-collettivo che io amo
ricondurre al metodo del diritto delle relazioni industriali.

Di fianco al valore e alle opportunità ora messe in evidenza, il Manifesto
presenta due limiti di cui gli autori sono pienamente consapevoli e che
peraltro ci sembrano connaturati ad ogni approccio olistico allo studio dei
fenomeni sociali. Il primo è dato dal fatto che “il diavolo sta nei dettagli”.
La complessità di molte delle idee e visioni proposte affiora non solo e
non tanto dal tentativo di immaginare i percorsi per una loro concreta
attualizzazione, in un contesto dove nuove opportunità di sviluppo
coesistono con fenomeni di drammatica involuzione economica e sociale,
quanto nel momento in cui il lettore, come è normale che sia, ceda alla
tentazione di precisare alcune opzioni interpretative di dettaglio sulle quali

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è comprensibile che possano più facilmente insorgere divergenze di
veduta (vedi infra). Il secondo limite rappresenta il rovescio della medaglia
del primo. Riguarda il fatto che, negli approcci olistici, il sistema di
riferimento è sempre a sua volta parte di un sistema più ampio, all’interno
del quale si intrecciano altri sistemi tra loro interagenti. Il limite, insomma,
è il cielo; e per quanto si possa volare altissimo, la prospettiva di analisi del
diritto del lavoro non potrà mai essere sufficientemente ampia da
abbracciare la pienezza del sistema nella sua interezza. Ragione per cui la
vocazione multidisciplinare che il Manifesto già esprime rispetto ad altre
branche del diritto e delle scienze sociali, potrebbe essere ulteriormente
arricchita da una discussione dei relativi contenuti con colleghi di altre
discipline, anche quelle più apparentemente distanti.

Veniamo ora all’analisi di dettaglio delle due tesi a nostro avviso centrali
del Manifesto, che toccano trasversalmente gran parte degli assi tematici
affrontati dagli autori: la prima relativa ai livelli e alle tecniche di tutela della
persona al lavoro; la seconda riguardante il ruolo centrale assegnato
all’autonomia collettiva.

I due livelli di tutela

Nella visione proposta dagli Autori, che attualizza la riflessione di Supiot
sui cerchi concentrici di tutela, il diritto del lavoro deve proteggere i
lavoratori operando su due livelli.

Il primo livello è quello della tutela del lavoratore - in particolare
subordinato, ma non solo ormai - dalla disparità di potere contrattuale
inerente alla relazione di lavoro e dai rischi della mercificazione e dello
sfruttamento; ma non solo, si estende anche alla garanzia di sostegno
economico e possibilmente alla funzione di redistribuzione delle ricchezza
per contrastare vecchie e nuove disuguaglianze. Obiettivo del diritto del

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lavoro (condiviso con le istituzioni del welfare) è, in questa dimensione,
prendersi cura di tutte le situazioni di vulnerabilità.

Il secondo livello è quello di una protezione proattiva e capacitante,
finalizzata a consentire al lavoratore di sviluppare la propria dotazione di
risorse professionali e personali (nell’orizzonte valoriale tracciato
dall’approccio delle capabilities), di cui il diritto alla formazione rappresenta
una chiara esemplificazione.

Sul fronte delle tutele basiche, gli Autori propongono di dare attuazione
alla idea, emersa in fase di progettazione della Legge 24 giugno 1997, n.
196 di uno Statuto dei lavori. Il secondo livello di protezione (quella
proattiva e capacitante) è declinato nella proposta di un “nuovo” contratto
di lavoro subordinato che enfatizzi la presenza di rilevanti interessi comuni
tra le parti, spingendo a comportamenti cooperativi, e si traduca nel
riconoscimento al lavoratore, accanto ai classici diritti, di diritti di nuovo
conio    nella     sfera      della      formazione,           della     informazione,          della
partecipazione. Ciò, però, unitamente ad un impegno altrettanto fermo in
direzione dell’universalismo delle protezioni di welfare e anche delle tutele
proattive per rispondere alle sfide poste dai mercati transizionali e tutelare
le “carriere laterali”.

Sembra però da questa proposta emergano dunque non solo due livelli di
protezione, ma anche un (persistente) dualismo tra subordinati e lavoratori
che sperimentano carriere laterali. Apprezzabile il riconoscimento dei
nessi, delle interazioni e dei collegamenti esistenti, proprio nell’ottica dei
mercati transizionali, tra politiche attive, politiche passive, istituti di
welfare pubblico, e regolazione del rapporto di lavoro, che ritorna anche
nel capitolo dedicato alla rilettura del paradigma della flexicurity come
proposta in grado di valorizzare le istituzioni del mercato del lavoro, non
in contrapposizione con la regolazione del rapporto di lavoro, ma in una
virtuosa circolarità tra i due poli (p. 46).

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La prospettiva non sembra però coltivata fino in fondo, nel senso di un
riconoscimento e di una analisi delle profonde ricadute dell’emergere dei
mercati transizionali del lavoro sulla regolazione del lavoro, a partire dal
superamento della contrapposizione tra mercati interni e mercati esterni
del lavoro e dalla necessità di porre al centro della riflessione le transizioni
occupazionali e non più gli status. Acquisizioni che dovrebbero spingere
il giurista del lavoro a interrogarsi prima di tutto sulle regole di struttura e
di funzionamento dei mercati del lavoro (da cui dipendono l’istituzione e
l’istituzionalizzazione di specifici mercati, la possibilità per i lavoratori di
accedervi e muoversi al loro interno in condizioni di trasparenza e
sicurezza), che davvero interessano, trasversalmente, tutti i lavoratori.

Ciò consentirebbe, tra le altre cose, di offrire anche una lettura più
adeguata ai tempi rispetto al tema, pur affrontato nel Manifesto, delle
persistenti disuguaglianze di genere. Riconosciuto il problema, invero, gli
autori non entrano nel merito di analisi puntuali o proposte specifiche,
riconoscendo peraltro come la legislazione italiana sulla parità di genere
sia adeguata ai più alti livelli. Non viene in particolare evidenziato come la
questione di genere possa e debba essere declinata, dibattuta e affrontata
alla luce dei problemi affrontati nel testo, avendo, come riconosciuto dagli
Autori, una valenza trasversale e una importanza cruciale per il futuro
stesso del lavoro. Sul filo dei ragionamenti proposti nel Manifesto,
meriterebbe ad esempio maggiore attenzione il dato della profonda e
continua intersezione tra transizioni biografiche e lavorative, che come
noto (in un trend costante, esacerbato dalla pandemia) influenza in
particolare il rapporto tra donne e lavoro. Dato che suggerisce un
ripensamento dei confini del diritto del lavoro e forse del concetto stesso
di lavoro, non solo attraverso il riconoscimento di ogni fase della vita
prioritariamente dedicata alla cura dei figli e familiari non autosufficienti
come meritevole di tutele, ma anche con una efficace regolazione del

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mercato formale del lavoro di cura ed una adeguata valorizzazione delle
professionalità in esso coinvolte.

Rivitalizzare soggetti e azioni collettive

La consapevolezza dell’emergere di bisogni e interessi dei lavoratori
diversi da quelli tradizionali, e del loro manifestarsi non solo sul piano
individuale (come lascerebbero supporre i processi di frammentazione e
differenziazione del lavoro più volte richiamati) ma anche sul piano
collettivo, è centrale, nel Manifesto, e sollecita una serie di proposte sul
rinnovamento della rappresentanza (cfr. §VII). Va peraltro rilevato che
molti dei processi di modernizzazione del diritto del lavoro suggeriti dal
Manifesto hanno già trovato importanti spazi di concretizzazione
nell’ambito della contrattazione collettiva aziendale, come a più riprese
enfatizzato dagli Autori. A testimoniarlo, le numerose intese ad alto
impatto innovativo siglate da aziende e sindacati nell’ultimo decennio.
Intese che vanno ben oltre la difesa ad oltranza dello status quo e dei posti
di lavoro esistenti.

Superata l’epoca della contesa industriale, si registra la crescente diffusione
di un nuovo approccio alle relazioni industriali incentrato sul reciproco
impegno delle parti a garantire insieme produttività e tutela dei bisogni
sociali per fornire risposte di respiro non più solo aziendale, ma per l’intera
comunità. Parliamo di un patrimonio contrattuale, soprattutto di livello
aziendale e ancora territoriale, ancora poco conosciuto ma di indubbia
ricchezza, che può davvero rappresentare un punto di riferimento per
l’attuale dibattito sulla riforma del nostro mercato del lavoro nella
prospettiva dello sviluppo sostenibile delle aziende e dei territori. In questa
area non vedremmo male la formulazione di una proposta verso il
legislatore volta a garantire la piena e trasparente conoscibilità di questo

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esteso e ricco diritto che nasce dai sistemi di relazioni industriali, per
esempio attraverso l’obbligo di deposito per la sua valenza a fini di legge.

Non si arriva, tuttavia, fino a riconsiderare l’opportunità di aprire un
dibattito, prima che sulle finalità e sulle forme organizzative della
rappresentanza, sulla sua stessa natura, a partire da un riesame della
categoria giuridica di interesse collettivo, che ne rappresenta la sostanza.
Ipotesi, questa, che sarebbe giustificata non solo (e non tanto)
dall’emergere di interessi nuovi espressi da gruppi di lavoratori
(certamente in espansione) quali i lavoratori autonomi di terza generazione
o i gig-workers (che non a caso si orientano verso forme di aggregazione
diverse da quella sindacale); né dalla pur cruciale esigenza di proteggere i
lavoratori da vecchie e nuove forme di precarietà e vulnerabilità; quanto
dall’emergere di una serie di bisogni comuni ad una ben più ampia fetta di
lavoratori, quelli che esercitano nel corso delle proprie carriere una
professione di contenuto prevalentemente intellettuale in varie forme
giuridiche, transitando dal lavoro autonomo a quello subordinato, ad altre
forme di attività, esprimendo tuttavia continuativamente un interesse
collettivo alla valorizzazione della loro professionalità.

In questo senso, non solo per leggere i nuovi volti del lavoro, ma per
tutelare ogni forma di lavoro in considerazione dell’accresciuto peso del
bagaglio di conoscenze e competenze e di un loro costante aggiornamento
in ogni ambito, pare opportuno andare anche oltre le proposte degli
estensori del Manifesto fino a raggiungere il cuore della nozione di interesse
collettivo per farle inglobare il tema della valorizzazione e del
riconoscimento della professionalità, come viatico per un rinnovamento
profondo della natura e delle finalità del sindacato, e dunque delle sue
forme organizzative, delle sue strategie, e dei suoi strumenti.

Ora, sappiamo bene almeno dai tempi di Sombart che, contrariamente a
quanto riteneva Marx, l’economia non è il nostro destino. Questo nel

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senso che l’economia non costituisce un processo naturale, ma è sempre
stata – e tale rimarrà per l’avvenire – una creazione culturale scaturita dalla
libera decisione degli uomini. Nella sua essenza, l’assetto della economia è
quindi un problema non di scienza ma di volontà. Ed è allora compito del
giurista del lavoro riconoscere e valorizzare questa volontà che, come
abbiamo imparato dalla lezione di Gino Giugni, emerge in termini
normativi non solo nell’ambito dell’ordinamento statuale, ma anche di
quello intersindacale secondo espressioni di razionalità giuridica
decisamente più aderenti alla realtà dei fenomeni che si intendono
disciplinare (consapevole che lo                       spunto meriterebbe maggiore
approfondimento, rinvio sul punto a M. Tiraboschi, L’emergenza sanitaria
da Covid-19 tra codici ATECO e sistemi di relazioni industriali: una questione di
metodo, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi, Welfare e lavoro
nella emergenza epidemiologica. Contributo sulla nuova questione sociale, vol. V,
ADAPT University Press, 2020).

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