Per un curricolo verticale di riflessione sulla lingua (parte I)

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Per un curricolo verticale di riflessione sulla lingua (parte I)
                                           Adriano Colombo

(Grammatica e didattica”, n.4, 2012 : http://www.maldura.unipd.it/ddlcs/GeD/quaderni_grammatica_didattica.html)

1. Quale grammatica?
        Le ragioni per cui è bene che la riflessione sulla lingua, e in particolare l’aspetto
grammaticale di tale riflessione, continui ad avere uno spazio nelle nostre scuole sono state più
volte discusse e non mi soffermerò a riprenderle. Mi limito a constatare che la tradizione
dell’insegnamento grammaticale è fortemente radicata nelle nostre scuole a tutti i livelli escluso il
triennio finale; che c’è un’opinione pubblica che crede nella grammatica, per quanto rozza possa
essere l’idea che si fa della disciplina e della sua funzione; che dunque l’insegnamento
grammaticale è destinato a durare nel tempo. È allora il caso di adottare il motto di cui si fregiano
alcuni manuali erotici: se lo facciamo, facciamolo bene.
        Questo mi impegna a specificare che cosa intendo per grammatica fatta “bene”. Se oggetto
del presente intervento è una ragionevole distribuzione di approcci e contenuti grammaticali lungo
gli anni del curricolo, è necessario preliminarmente precisare la sostanza didattica che dovrebbe
pervaderli tutti, insomma il senso che dovrebbe avere, in ogni momento e contesto, il “fare
grammatica”. La precisazione si può sintetizzare in tre punti, più una importante appendice.

1.1. Una grammatica descrittiva
        Qui “descrittiva” si oppone in primo luogo a “normativa”. Non si tratta di prescrivere e
proscrivere forme da usarsi o non usarsi, si tratta di comprendere alcuni meccanismi fondamentali
delle lingue e di una lingua. Insegnare certe bizzarrie dell’ortografia e della morfologia è certo
necessario, ma ha poco di grammaticale e nulla di “riflessione”. La grammatica dell’uomo della
strada o del redattore editoriale; la grammatica del barbiere che appena impara che sono professore
d’italiano mi chiede “di fronte si scrive attaccato o staccato?”, la grammatica di certi pedanti di un
tempo che insegnavano che gli occhiali si portano “in sul naso” e non “sul naso” si sbriciola in un
miscuglio di regolette immotivate e irrelate. È una grammatica delle eccezioni. La grammatica
descrittiva punta a capire in primo luogo le regolarità della lingua, quelle in cui di solito non si
sbaglia. quelle che si adottano senza nemmeno rendersene conto; a portare insomma alla luce della
coscienza la grammatica implicita in ogni parlante.

1.2. Una grammatica per l’intelligenza
        L’espressione, che risale a un lavoro di Deon (1995), potrebbe apparire ovvia: non è
compito della scuola, in ogni momento, sviluppare l’intelligenza? Sappiamo che purtroppo questo
spesso non accade; che troppo spesso l’imperativo implicito è “quando entri in classe, spegni il
cervello”. Basta sfogliare molti manuali di grammatica (per non parlare di altri) per verificare che
l’affermazione non è esagerata. Gran parte dell’insegnamento grammaticale richiede solo di
memorizzare definizioni e liste (di una “grammatica di liste” parlava già Simone, 1984). L’esercizio
della memoria è importante, ma certo ha poco a che fare con l’esercizio dell’intelligenza.
        Un esempio. Una ricerca condotta dal Giscel Emilia-Romagna (2011) ha mostrato che tutti i
bambini della scuola elementare hanno imparato che le preposizioni sono “di-a-da-in-con-su-per-
tra-fra”, e molti alla scuola media si attengono ancora a questo aureo criterio, fino al punto di non
riconoscere come preposizione un d’ apostrofato. La lista è facile da memorizzare e tale da bloccare
la possibilità di capire come funziona una preposizione. Che in queste tradizioni scolastiche possano
insinuarsi elementi più che discutibili è confermato dal fatto che la lista (limitata alle preposizioni
monosillabiche, forse nata in base a quelle che possono o potevano essere articolate) comprende
con ma esclude senza, che è esattamente con più una negazione e nel LIF (1972) ha un rango d’uso

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di tutto rispetto, 258, ma ha la colpa originale di essere un bisillabo; stessa sorte tocca alla
preposizione durante, che ha pure una buona frequenza, ma al peccato di trisillabilità aggiunge
quello di nascere dalla grammaticalizzazione di una forma verbale. Richiesto di riconoscere le
preposizioni in un brano, il bambino non ha bisogno di pensare, gli basta applicare la sua check list
mnemonica. Che poi questo lo induca a sbagliare pare sia secondario.
         Una grammatica per l’intelligenza è una grammatica che impegna gli allievi a esplorare i
testi, a scoprire regolarità e a formulare generalizzazioni; e se queste non hanno un valore assoluto,
se comportano eccezioni, tanto meglio: sarà uno stimolo ad affinare l’analisi o a riconoscerne la
parzialità. È una grammatica fatta di affermazioni non dogmatiche, ma soggette a verifica e
controvertibili. È l’approccio di cui ha fornito ottimi esempi Lo Duca in Esperimenti grammaticali
(1997); il titolo suggerisce che sia anche un avviamento a una mentalità scientifica, una volta che si
sia capito che “scientifico” non implica accertato per sempre e indiscutibile, ma al contrario
provvisorio e controvertibile.
         La ricerca citata sopra ha mostrato la straordinaria mobilitazione di energie intellettuali che
un semplice approccio esplorativo può scatenare. Dopo averlo sperimentato, alcuni insegnanti
hanno parlato di ragazzi «eccezionalmente coinvolti», altri hanno annotato: «c’è molta
soddisfazione quando riescono a fare esempi da soli dimostrando di aver colto quanto detto finora;
noto che si fanno molte domande sul funzionamento della lingua»; «sono soddisfatti quando
riescono a intuire o risolvere i problemi linguistici che via via affrontiamo» (Giscel Emilia-
Romagna, 2011, p. 225). Così hanno detto alcuni insegnanti, non tutti, ma questo è comprensibile;
più sconcertante è constatare che in quasi tutte le classi (ventotto tra scuola elementare e media)
l’approccio “sperimentale” è stato vissuto come una novità.

1.3. Una grammatica che interagisca coi testi
        Non intendo riferirmi alla proposta, che ha circolato per alcuni anni, di una “grammatica dal
testo”, basata sull’idea che un testo, compreso ed esplorato a fondo, potesse fornire tutti gli spunti
necessari alla costruzione di una parte consistente della grammatica. Mi pare che l’idea traballi sul
confine tra grammatica e stilistica: ogni testo ha le sue peculiarità linguistiche, ma compito della
grammatica è di occuparsi di ciò che è comune a testi diversi, a situazioni comunicative diverse;
questo nocciolo comune permette poi la diversificazione delle varietà, dei registri, degli stili.
        Intendo piuttosto che la grammatica che si apprende dovrebbe essere in continua interazione
coi testi che si leggono e si scrivono in classe. Non credo che sia possibile o produttivo disciogliere
la lezione di grammatica nelle osservazioni occasionali che possono nascere dalle pratiche testuali.
Ma la grammatica che si apprende dovrebbe nascere da esempi testuali concreti, in cui certe
semplificazioni (inevitabili agli inizi) siano ridotte al minimo, e dovrebbe riusarsi di continuo sulle
più diverse occasioni testuali: per capire meglio un passo, per spiegare la natura di un errore, per
aiutare a scegliere in fase di produzione; nonché, infine, per affrontare lo studio delle lingue
straniere con coscienza contrastiva. Solo attraverso il ri-uso in situazioni diverse una conoscenza si
fissa e diventa competenza. Probabilmente una delle ragioni per cui tanti studenti arrivano
all’università in condizioni di grave ignoranza grammaticale è che sono stati esposti a ripetuti
insegnamenti grammaticali, ma non se ne sono mai fatti niente. Ho dovuto purtroppo constatare che
per alcuni insegnanti (ma anche per alcuni linguisti) oggetto della grammatica sono esclusivamente
certe frasette modello.

1.4. Lessico e grammatica
        Una precisazione si impone. Quanto è stato detto fin qui e quanto sarà detto si riferisce alla
morfosintassi e, in pari misura, allo studio del lessico. E come per “morfosintassi” si intende, è
ovvio, non la padronanza dei meccanismi, ma la riflessione, l’acquisto di consapevolezza sui
meccanismi, per “studio del lessico” non si intende l’incremento del patrimonio lessicale degli
allievi, che va perseguito attraverso le pratiche testuali, ma la riflessione sull’organizzazione del

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lessico, sugli elementi sistematici che vi sono presenti, anche se non hanno la cogenza dei sistemi
morfologici e sintattici.
        Sul piano delle forme, mi riferisco ovviamente alla formazione delle parole o morfologia
lessicale; se consideriamo che nel Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro più di un
terzo delle voci sono parole derivate, e coi composti si arriva quasi alla metà (De Mauro 2005, pp.
147, 153), ci rendiamo conto di quale potente strumento di organizzazione del patrimonio lessicale
siano la derivazione e la composizione, di come la consapevolezza di questi meccanismi possa
aiutare la mobilità mentale nel mare sterminato del lessico, stimolare la formulazione di ipotesi di
fronte alle parole sconosciute, fornire un supporto alla memoria lessicale.
        Sul piano dei significati, mi riferisco all’esplorazione delle relazioni semantiche che pure
danno struttura a parti del lessico: sinonimia, contrarietà, rapporti di inclusione, polisemia. La
polisemia ci porta a una fondamentale ragione a sostegno di una riflessione lessicale: essa è legata
in buona parte alla differenziazione dei costrutti, verbi e aggettivi sono polisemici in primo luogo in
relazione ai diversi “quadri funzionali” (Schwarze 2009, p. 107) in cui possono entrare; è quanto
dire che il lessico contiene una buona fetta della sintassi, come molte correnti della linguistica
contemporanea ci vanno insegnando. A un livello più avanzato, le presupposizioni lessicali
potrebbero costituire un interessante spazio di riflessione.
        Sulla distribuzione di questi oggetti di riflessione nel curricolo tornerò fra poco. Qui mi
limito a osservare che la nostra scuola sembra ancora ben lontana dal comprendere l’importanza del
lessico. Un primo indizio è costituito dalle grammatiche scolastiche: nel 1997 Salvatore C. Sgroi
esaminò sei grammatiche per la scuola media e trovò che lo spazio dedicato al lessico oscillava tra
lo 0,7% e il 10,8% (Sgroi 1997, p.134); nel 2011 Annarita Miglietta e Alberto Sobrero hanno
esaminato sei manuali di educazione linguistica per la scuola elementare e hanno trovato che lo
spazio del lessico sta in media ben al di sotto del 10% (Miglietta, Sobrero 2011, p. 101). L’idea che
queste percentuali dovrebbero avvicinarsi al 50% è ancora lontanissima dall’editoria scolastica.
Quanto alle pratiche correnti, mi risulta che ogni proposta di lavoro sulla formazione delle parole
nelle scuole elementari viene considerata una novità (con diffidenza o con entusiasmo, poco
importa). Nella scuola secondaria di primo e secondo grado impera il mito dell’importanza di
addestrare all’uso del dizionario, ma resta da stabilire se questo rifletta una pratica corrente o un
rimorso per una pratica poco praticata; in ogni caso il dizionario è concepito come lo strumento per
la soluzione di problemi ortografici o di significato (come se non fosse noto che le definizioni dei
dizionari sono di regola più difficili del definito), mai o quasi come uno strumento per
l’esplorazione del lessico e delle relazioni che lo strutturano.

2. Quale gradualità?
        Comincerò da una semplice constatazione: nella scuola italiana si studia molta grammatica,
se ne impara pochissima. Le informazioni in proposito ci giungono non solo dalle impressioni dei
docenti universitari di discipline linguistiche, ma dalle verifiche di ingresso che molti di loro hanno
condotto negli ultimi anni. Il documento più completo a mia conoscenza è Lo Duca (2005), che ha
sottoposto un questionario a 138 studenti del primo anno della facoltà di Lettere di Padova. A loro
ha chiesto in primo luogo se avevano “fatto grammatica” a scuola: risponde sì alle elementari il
98%, alle medie il 96%, nel biennio superiore l’80%. Un crollo (9,4%) si ha solo per il triennio
superiore: un dato prevedibile, che meriterà di ritornarci. Ma resta che quasi la totalità di questi
studenti ha avuto otto anni di insegnamento grammaticale; poche discipline possono vantare una
presenza altrettanto pervasiva nelle scuole. Quando poi si va alle domande sulle conoscenze
grammaticali, si trova che il termine coordinazione è noto solo al 61%, per non parlare di altri
termini appena meno tradizionali: sa che cosa vuol dire sintagma il 21%, pronome atono è noto
all’11%. La funzione di oggetto del relativo che in una frase data è riconosciuta dal 25%. Si noti che
questi studenti provengono da scuole di secondo grado diverse, ma si sono iscritti a Lettere, il che fa
presumere che “andassero bene” in italiano. Lo Duca (2005) cita anche un certo numero di ricerche
affini condotte in precedenza, con risultati non meno sconfortanti.

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Alla constatazione segue un’ipotesi: una delle ragioni di questo enorme spreco di energie di
insegnamento e di studio è la ripetizione ciclica degli stessi contenuti. Osserviamo i libri di testo di
grammatica per le elementari, le medie, il biennio: contengono esattamente le stesse cose nello
stesso ordine, aumenta solo il numero delle pagine. Ogni ciclo scolastico ricomincia da capo, perché
nel ciclo precedente i ragazzi non hanno imparato niente, ma dato che si ripeteranno le stesse cose
più o meno con lo stesso approccio, non impareranno niente nemmeno nel nuovo ciclo. Un fattore
secondario, ma importante, di questa ripetitività è il mimetismo: i libri per la scuola media non
possono contenere niente di meno di quelli del biennio, i libri per la scuola elementare devono a
loro volta contenere il tutto; in pillole, dato che fortunatamente il numero delle pagine è
contingentato, essendo i libri forniti dallo stato. Così in questi libri si verifica un affollamento di
contenuti incredibile: un testo per la quarta e quinta elementare contiene in 128 pagine non meno di
cinquanta argomenti diversi: c’è giustamente una parte di ortografia, c’è molta morfologia
(cosiddetta: che c’è di morfologico nel dire che l’aggettivo indica qualità?), ma c’è anche la sintassi
della frase semplice e del periodo, e infine non mancano mai le inutili funzioni della lingua di
Jakobson. Ovvio poi che se andiamo a cercare un paragrafo sull’avverbio (una nozione non facile,
in sé complessa) lo troviamo in due pagine (occupate per un terzo da illustrazioni), mai più riprese
in seguito.
         A volte gli insegnanti e gli studiosi si raccontano che questi ritorni ripetuti sugli stessi
argomenti rappresentano approfondimenti successivi, in un ideale percorso a spirale: a ogni giro
della spirale la visuale si allarga. Nei fatti constatiamo che certe conoscenze troppo anticipate,
banalizzate per adattarsi a una mente puerile, si fissano per il resto della vita e bloccano la
possibilità di un ripensamento critico. Quando gli insegnanti si sentono dire: “ma questo lo abbiamo
già ‘fatto’ in quarta elementare!”; è il segno che gli allievi stanno spegnendo il cervello.
         È oggi molto sentito il problema della “continuità” degli insegnamenti attraverso i cicli
scolastici. Intendo contestare che continuità possa voler dire ripetizione. La continuità implica la
discontinuità: il procedere verso traguardi nuovi in base a quanto si è appreso. Proverò a formulare
tre criteri per una continuità produttiva.

2.1. Continuità come differenziazione
        Introdotti in un nuovo ciclo scolastico gli allievi dovrebbero sentire che sono saliti a un
grado superiore di conoscenza, che affrontano contenuti nuovi in relazioni nuove; dovrebbero
sentirsi crescere intellettualmente così come crescono fisicamente, cambiano gusti e relazioni
sociali. Se alla prima lezione di grammatica della scuola media si sentono ripetere che il nome
indica persone, animali e cose, hanno tutte le ragioni per decidere che a quel punto la grammatica è
priva di interesse.
        Il criterio della differenziazione implica anche una parte negativa. Perché ogni ciclo abbia
qualche punto di interesse nuovo bisogna che il ciclo precedente si sia astenuto dal trattarlo. Se in
quinta elementare si affronta l’analisi del periodo (e ci sarà tempo per farlo solo frettolosamente e
superficialmente), in terza media l’argomento sarà privo di interesse.
        Ogni ciclo dovrebbe saggiamente astenersi da ciò che non è di sua diretta pertinenza (sulle
rispettive pertinenze farò ipotesi tra poco). Naturalmente questo non comporta divieti assoluti.
Spunti interessanti possono nascere in ogni settore, se l’atteggiamento è di ricerca, e non vanno
lasciati cadere; quello che vorrei suggerire è evitare di tematizzare argomenti anticipati in questo
modo, di farli oggetto di apprendimento sistematico. Un esempio. Proporrò più avanti che,
nell’ambito del lessico, le relazioni di significato siano il tema specifico di indagine per la scuola
media. Questo non significa che alla scuola elementare sarebbe proibito notare che ci sono parole
che hanno significati simili, significati opposti, altre che hanno più di un significato ecc.; ma
sarebbe bene che queste osservazioni restassero occasionali.

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2.2. Continuità come sistematizzazione
        Il secondo criterio di continuità dice che affrontare un tema di riflessione significherà quasi
sempre riprendere e riorganizzare conoscenze sparse già affiorate in precedenza nella riflessione.
Così ad esempio se la riflessione lessicale della scuola media tematizzerà le relazioni di significato.
Per fare un altro esempio, si abbozzerà un quadro complessivo dell’espressione linguistica del
tempo (e quindi dell’aspetto temporale), da cui i diversi usi dei tempi verbali, e i frequenti
slittamenti dai tempi alle modalità... solo a un livello avanzato, probabilmente nel biennio superiore,
ma ovviamente l’argomento non sarà interamente nuovo: di significato e usi del tempi verbali si
sarà parlato negli anni precedenti, dalla scuola elementare in poi, in diverse circostanze. Questi
spunti parziali verranno qui a comporsi in un quadro per quanto possibile complessivo.

2.3. Continuità come ri-uso
        Il terzo criterio della continuità è quello fondamentale. Mi è già accaduto di osservare che le
conoscenze si fissano e diventano competenze se sono usate. Questo vale nelle relazioni tra
riflessione sulla lingua e pratiche testuali, ma vale anche all’interno del percorso di riflessione sulla
lingua. Qualsiasi nuova acquisizione, se è acquisizione vera, richiede di rimettere in gioco molto di
ciò che si è già compreso e appreso. La sintassi della frase (se non è ridotta a un’analisi logica
meccanica) ha bisogno di individuare i verbi nelle frasi, e di confrontarsi con la possibile difficoltà
degli ausiliari; ha bisogno delle categorie di nome, aggettivo, avverbio, senza le quali non potrà
formare i sintagmi (o gruppi), primo passo di un’analisi di frase sensata. La formazione delle parole,
che include la derivazione con cambio di categoria lessicale, mette in gioco a sua volta il
riconoscimento delle categorie (“parti del discorso”); e quando (più avanti, alla fine della scuola
media se non al livello superiore) si affronterà la nominalizzazione di frasi, morfologia e sintassi
giocheranno insieme. Infine, nel trienni finali si leggono soprattutto testi letterari. Possibile che per
capirli e interpretarli non ci sia bisogno di concetti grammaticali?
        In sintesi: in un percorso di continuità ben pensato, niente è da ripetere daccapo perché
niente si butta via. Come non c’è bisogno di ripetere le tabelline della moltiplicazione via via che si
affrontano aspetti più complessi dell’aritmetica, perché le tabelline servono sempre, così non c’è
bisogno di ripetere che cos’è un nome (se si è data una definizione adeguata), cosa sono le flessioni
di genere e numero, come si riconosce un soggetto, perché queste conoscenze si usano
continuamente, leggendo, scrivendo, facendo grammatica.

3. Idee per la scuola elementare
3.1. Quando incominciare?
        Indubbiamente nel semplice apprendimento della lettura e della scrittura è insito un
elemento di metalinguisticità (Ferreri, in corso di stampa): si tratta di apprendere tecniche artificiali
nelle quali è insita una teoria della lingua (parlo della scrittura alfabetica). La metalinguisticità non
è ancora consapevolezza metalinguistica. Che cosa è opportuno portare a consapevolezza? Penso
che se nei primi anni della scuola elementare si fissasse attraverso l’esperienza un lessico tecnico
comprendente i termini lettera, sillaba, parola, frase (non “pensiero!”) e pochi altri, ovviamente
senza definizioni, con una presentazione ostensiva dei termini, questo sarebbe un importante
risultato grammaticale. Tremo, invece, quando vedo la quantità di nozioni più astratte che si
insinuano in un manuale di riflessione sulla lingua. Cito da uno a caso: Classe seconda: “Nomi
comuni e nomi propri”, “nomi singolari e nomi plurali” (N.B.: formulazione che fa pensare che i
nomi siano intrinsecamente singolari o plurali, come sono maschili o femminili), “Gli articoli”, “Gli
aggettivi qualificativi”, “I verbi”, “Soggetto e predicato”.
        Credo che per questo genere di grammatica (nei limiti e con gli approcci che mi accingo a
precisare) siano sufficienti gli ultimi due anni della scuola elementare. Non ho elementi
psicolinguistici per affermare che quella è l’età più adatta a cominciare una riflessione
grammaticale, ma devo prendere atto che c’è in proposito una tradizione radicata.

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3.2. Cominciare dal poco, ma dal sodo
        Parliamo dunque degli ultimi anni della scuola elementare. Mi pare semplice buonsenso
ritenere che gli obiettivi della riflessione dovrebbero essere pochi, chiari e spendibili.
        Una scelta preliminare si impone: l’approccio alla riflessione dovrebbe partire dai significati
o dalle forme? Chi insiste sui significati (come faceva il programma di Italiano per la scuola
elementare del 1985) osserva giustamente che a quelli si indirizza prioritariamente l’interesse del
bambino; ma si potrebbe obiettare che in questo orientamento è inclusa la propensione a identificare
i significati con le cose, che è quanto dire che nell’età infantile c’è qualche difficoltà a prendere in
considerazione la lingua in quanto lingua. Compito delle riflessione linguistica non dovrebbe essere
quello di richiamare l’attenzione sulla lingua in sé, dotata di propri meccanismi, allontanandola
dall’identificazione magica con le cose?
        In termini generali, la questione è presto risolta: la riflessione grammaticale, incluso
l’aspetto lessicale per una parte importante, nasce dall’osservazione che variazioni di significato
sono connesse a variazioni di forma. Da una studiosa con la quale ho avuto più motivi di dissenso
che di consenso, ho sentito una volta un’osservazione illuminante: se chiedo a un bambino di sette
anni che differenza c’è tra casa e case, può darmi due risposte: casa è una, case sono tante, oppure:
casa finisce per a, case finisce per e. Nel momento in cui il bambino riesce a connettere le due
risposte, nasce la grammatica.
        Questo ci porta a un approccio morfologico, e a una seconda controversia: c’è chi vi
contrappone un approccio sintattico, che parta dalle frasi più che dalle parole, rispettando il
globalismo proprio della mente infantile, portata a cogliere il significato di una frase, o di un testo,
nella sua integrità. Ma in tale approccio, inevitabilmente, il rapporto tra significati e forme è meno
in evidenza.
        È probabile che l’attenzione alle forme sia meno spontanea per il bambino, come del resto
per l’adulto non istruito. Ma questo non significa necessariamente che sia più difficile. Le forme
non sono un’astrazione: si vedono, si toccano, si possono manipolare. La forma di alcune parole
varia, altre sono invariabili; la forma di alcune parole varia in accordo a quella di altre, ci sono
variazioni di forma che producono una modificazione del significato di una parola, altre che
producono nuovi significati e nuove parole. Tutti fenomeni osservabili, suscettibili di produrre
generalizzazioni verificabili, quindi controvertibili. In confronto, il campo dei significati è molto
più evanescente.

3.3. Quale morfologia?
        Quel che propongo è in certo senso tradizionale: la scuola elementare come luogo della
morfologia, della scoperta delle categorie grammaticali (numero, genere, persona, tempo) e delle
categorie lessicali (nome, verbo, aggettivo...). Non è molto diverso da quel che ha proposto di
recente Tullio De Mauro (2009, p. 21): «Ciò che probabilmente è utile fin dal livello elementare [...]
è l’introduzione progressiva di una nomenclatura metalinguistica minima, di logonimi come nome,
verbo, aggettivo, numero, tempo, persona, modo, pronome, preposizione, proposizione, forse
predicazione, il cui uso appropriato sia garantito da esemplificazioni più che da definizioni generali,
difficilmente semplificabili se devono avere qualche rigore». Ciò che non mi convince, in questa
proposta (a parte che personalmente abbrevierei un po’ la lista dei termini) è che sia possibile, e
pedagogicamente corretto, contare su una pura ostensione dei termini, su una acquisizione senza
comprensione. E non condivido l’idea, che pare suggerire De Mauro, che si tratti di un’acquisizione
spicciola, che non richiede troppo impegno. A mio parere si tratta di un’acquisizione importante,
densa di implicazioni teoriche, e tuttavia accessibile a un bambino di nove o dieci anni.
        Davvero le definizioni di verbo e nome sono «difficilmente semplificabili se devono avere
qualche rigore»? Che cosa facciamo noi adulti scolarizzati quando identifichiamo un verbo? certo
non pensiamo all’azione, all’evento e ad altre astrazioni semantiche: pensiamo alla forma di
dizionario, l’infinito, o comunque alla coniugazione. È vero che sul verbo, come sul nome (Lo
Duca, Polato, 2009, p. 81), converge un fascio di caratteristiche morfologiche, sintattiche,

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semantiche e pragmatiche; ma il punto di vista morfologico, integrato da qualche elemento
sintattico, è sufficiente per l’identificazione e definizione rigorosa delle categorie lessicali; e merita
un serio e abbastanza prolungato impegno di ricerca e di scoperta: un impegno dell’intelligenza.
         Esempio: un nome è una parola dotata intrinsecamente di genere, flessibile secondo il
numero. La definizione non copre tutti i casi: che dire di città? per includere la parola tra i nomi
bisogna osservare che le caratteristiche di genere intrinseco e numero variabile non sono nella
forma della parola ma nella sintassi dell’accordo (gli articoli che possono accompagnare quel
nome): questo implica un lavoro di definizione generale, controesempio, revisione e ampliamento
della definizione, che è una vera esperienza di pratica scientifica.
         Ovviamente questo approccio richiede di spazzare via il ciarpame di definizioni semantiche
che ingombra la cosiddetta morfologia dei libri di testo: il nome designa persone, animali o cose (e
non cessa di stupirmi che nessuno noti l’assenza dei vegetali da questo albero di Porfirio del reale),
il verbo indica l’azione, ecc. Qualcuno può ritenere che queste definizioni siano “facili” e possano
essere un punto di partenza per approfondimenti successivi. In realtà queste definizioni sono
sbagliate, fanno sbagliare, e si fissano nella mente come tutti gli apprendimenti precoci, col rischio
di bloccare per sempre la possibilità di capire qualcosa di grammatica. Ne ho la dimostrazione nella
registrazione di una lezione in una classe di scuola media risalente ai primi anni ottanta (Colombo,
1987). I ragazzi dovevano spiegare come assegnavano alle diverse parti del discorso parole estratte
da un testo, e applicavano coscienziosamente quello che avevano imparato. Si vedono dal vivo gli
effetti di un certo insegnamento: tracce di identificazione magica tra le parole e le cose («Io intendo
per nomi le cose, gli oggetti»), e soprattutto errori indotti: difficoltà «non è un nome, non è un
oggetto, non è un animale, una persona, è una cosa che non si può toccare, è astratta e quindi è un
aggettivo», corsa in barca da corsa «è un aggettivo, perché definisce come è la barca», e
ovviamente azione «lo dice anche la parola che fa l’azione, quindi è un verbo». Con questa
partenza, è prevedibile che la difficoltà di riconoscere come nomi gli astratti persista fino alla scuola
secondaria di secondo grado (Lo Duca, Polato, 2009, p. 88).
         L’insensibilità alle forme di certe grammatiche scolastiche ha dell’incredibile: di recente mi
è accaduto di consultare quattro o cinque libri di riflessione sulla lingua per la quarta e quinta
elementare alla voce “avverbio”, una categoria in sé complessa e difficile: l’avverbio veniva
variamente definito come modificatore, ma non uno di quei testi si ricordava di annotare che si
tratta di una parola invariabile (e a questo punto la distinzione dall’aggettivo potrebbe diventare
problematica). Del resto, che ci siano parole variabili e invariabili viene frettolosamente annotato
nel fare l’elenco delle “parti del discorso”, e poi non se ne riparla mai più; alcune maestre mi
confermavano che questa distinzione non rientra nelle loro pratiche abituali.

3.4. Una traccia di sillabo morfosintattico
        La sequenza di apprendimenti che sto per delineare non va intesa in modo rigido: molte
variazioni di ordine possono dipendere dalle situazioni che si creano in una classe; è bello quando
sono i bambini a guidare la danza. Quello che non è negoziabile è l’approccio di ricerca:
osservazione guidata, generalizzazione, verifica, revisione.
        La prima osservazione potrebbe riguardare l’esistenza di parole che variano nella parte
finale ed altre che non variano; chiedendosi se queste variazioni di forma comportano una
variazione di significato si scoprirebbero le categorie di genere, numero, persona e tempo. Parlare di
genere e numero vuol dire anche parlare di arbitrarietà della lingua: ci sono nomi femminili di
professioni normalmente maschili, ci sono termini plurali che designano oggetti singoli. La
morfologia non è un campo di osservazioni banale.
        Terzo passo: l’accordo. Ci sono parole che regolano genere e numero su quelli di altre
parole. Da qui nasce l’identificazione e distinzione di nomi e aggettivi: i nomi hanno un genere e
prendono un numero, gli aggettivi prendono genere e numero da un nome nel contesto.
L’identificazione di articoli, dimostrativi e altri determinanti dovrebbe essere semplice a questo
punto, ma se inizialmente venissero chiamati tutti “aggettivi” la semplificazione non sarebbe

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snaturante. Quanto ai pronomi, da un punto di vista morfosintattico possiamo tranquillamente
considerarli nomi, ci sarà tempo per individuarli nella loro specificità e addentrarsi in elenchi e nelle
complicazioni dei clitici italiani; se questo può avvenire entro la scuola elementare bene, altrimenti
si ricordi che il corso di studi successivo è lungo.
         Il verbo. La sua definizione in termini morfologici è semplice, altra cosa è addentrarsi nella
complicata coniugazione italiana. Una difficoltà che sicuramente va affrontata è il riconoscimento
di forme composte con ausiliare; una ricerca di Lo Duca, Cristinelli e Martinelli (2011) ci dice che
ancora nella scuola media alte percentuali di ragazzi non riconoscono in avevamo finito una forma
verbale unica, tanto più quando ausiliare e participio non sono contigui. Dare un nome ai tempi
verbali, oltre che alle forme non finite, è utile, probabilmente necessario; Lo Duca (2012) afferma a
ragione che è importante, più che nominare una forma, capire a che cosa quella forma serve, ma
credo che sia difficile parlare del significato di qualcosa senza nominarlo. L’esplorazione dei
significati (al plurale) dei tempi verbali e della loro arbitrarietà (un presente può riferirsi al passato,
un passato al presente, il futuro è usato più spesso come modo che come tempo...) sarà interessante
e si fermerà là dove si fermerà la mente dei bambini. Quanto al congiuntivo, nello stesso articolo Lo
Duca ha notato come sia difficile, all’età della scuola elementare, afferrare i suoi valori modali; si
può rimandare a un altro livello di scuola questa ricerca, limitandosi a “battezzare” una forma di
congiuntivo quando la si incontra.
         Non è possibile parlare del verbo senza parlare della sua funzione sintattica nella frase.
Credo che alla fine della quinta elementare i concetti di valenza, e poi di soggetto, siano accessibili;
tra l’altro si ricordi che l’identificazione del soggetto in italiano è facilmente verificabile in base
all’accordo col verbo, le difficoltà che si riscontrano in proposito fino all’università dipendono
probabilmente dal non aver appreso questo semplice criterio. Vedrei comunque questi concetti, alle
elementari, come spunti e anticipazioni, senza una specifica tematizzazione. Più importante mi pare
tematizzare a questo punto il concetto di sintagma (o gruppo: ma i termini tecnici non spaventano i
bambini, quando li hanno capiti).
         Il sintagma è necessario al momento di affrontare le preposizioni, che non connettono nomi,
ma sintagmi nominali. La ricerca citata del Giscel Emilia-Romagna (2011) ha mostrato che bambini
di quarta elementare possono comprendere la funzione di connessione sintattica delle preposizioni
(eventualmente con le metafore di “ganci” e “chiodi”); anche se, data la brevità dell’intervento
didattico promosso nella ricerca, la strategia cieca della lista mnemonica restava radicata. In un
contesto dove l’approccio sperimentale sia praticato sistematicamente, si può contare su un
apprendimento più stabile, in cui senza, contro ecc. possano essere ammesse tra le preposizioni a
dispetto della lista.
         Più difficile sembra l’identificazione degli avverbi, ma anche in questo caso si potrebbe
proporre un procedimento empirico. Tra le parole invariabili abbiamo preposizioni, congiunzioni,
avverbi; le prime due categorie hanno funzione di connessione, la terza no. Verifica: se da una frase
tolgo una preposizione o una congiunzione, la frase non è più corretta, o meglio, non è più una
frase; se tolgo un avverbio, ci sarà ovviamente una perdita di significato, ma quel che resta è ancora
una frase. La verifica può dare in casi marginali risultati discutibili, perché non discuterne coi
bambini? Del resto la categoria stessa degli avverbi ha confini incerti (Schwarze, 2009, p. 185); sì,
no, non sono avverbi? perché non chiedere il loro parere?
         Quel che precede forse non è tanto un sillabo quanto un tentativo di mostrare che un
approccio empirico, esplorativo, formale rende possibile entro l’arco della scuola elementare una
rassegna delle categorie lessicali quasi completa e fondata su basi più solide delle evanescenti
definizioni semantiche che regnano nelle scuole.

3.5. Morfologia lessicale
        Nella scuola elementare, in coerenza con l’approccio formale che qui si caldeggia, l’ampio
spazio da dedicare al lessico potrebbe essere destinato alla morfologia lessicale (termine che qui si
preferisce al più tradizionale e altrettanto adeguato “formazione delle parole” solo per sottolineare

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la coerenza col resto del curricolo proposto). Si tratta di un campo di fenomeni che si possono
“toccare con mano”, starei per dire, e si prestano a ogni sorta di manipolazioni, nonché ad approcci
giocosi (basta ricordare alcuni suggerimenti della Grammatica della fantasia di Rodari). Fino dalle
prime fasi di apprendimento del linguaggio i bambini si esercitano in manipolazioni derivative, a
tutte le età si divertono a creare neoformazioni; da qui a una considerazione più metodica il passo è
breve.
         Ci sono dunque tutte le condizioni perché questo sia un importante terreno di lavoro fin dalle
prime classi elementari, tranne una: la tradizione didattica. Per la tradizione didattica la grammatica
si identifica con l’analisi grammaticale, e l’analisi grammaticale prevede solo alla voce “nome” una
casella “primitivo / derivato”. In una scuola primaria ho sentito poi affermare con tutta serietà: “per
noi i nomi derivati sono solo quelli derivati da altri nomi”; di conseguenza il confronto tra i valori
del suffisso –ino in arrotino e in coltellino era precluso.
         Per tornare dal curricolo reale al curricolo proposto, la sequenza degli argomenti di
morfologia lessicale può essere molto libera. È probabile che l’alterazione si presti a essere uno dei
primi (purché venga il momento in cui sia rivelato un segreto di solito gelosamente celato: essa non
riguarda solo i nomi). Le derivazioni con transcategorizzazione si presteranno a un confronto
fecondo con l’apprendimento delle diverse categorie lessicali. Nelle sottigliezze del “suffisso zero”
e delle formazioni “parasintetiche” si entrerà nella misura in cui i bambini lo esigano con le loro
domande e obiezioni. Insomma il campo è vasto, ricco e attraversabile in molte direzioni. Peccato
che sia così poco coltivato.

Riferimenti bibliografici
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                                                                                                           9
Per un curricolo verticale di riflessione sulla lingua (parte II)
                (“Grammatica e didattica, n. 5, 2013 http://www.maldura.unipd.it/ddlcs/GeD/Colombo_G&D_5.pdf)

4. Idee per la scuola media
4.1. La sintassi
         La proposta avanzata nella prima parte di questo lavoro, che la scuola elementare sia il luogo
di tematizzazione della morfologia, implica ovviamente che i tre anni della scuola media siano il
luogo di tematizzazione della sintassi. Parlare di “luogo di tematizzazione” non significa istituire
barriere: ho già accennato che il fenomeno sintattico dell’accordo è utile a percepire fino dall’inizio
del percorso grammaticale l’esistenza nella lingua di leggi formali, a istituire le categorie
grammaticali, ad alcune distinzioni fra categorie lessicali; ho anche accennato che studiare i verbi
implica gettare lo sguardo sul complesso delle loro proprietà, compresa la valenza. Quando parlo di
“luogo della sintassi” penso soprattutto all’analisi sistematica delle strutture di frase. L’espressione
“analisi della frase” esclude rigidamente il termine “analisi logica”, che non è un termine neutro, ma
è carico di implicazioni filosofiche, di distorsioni concettuali germinateci sopra nella tradizione
scolastica, e soprattutto di abitudini e pigrizie mentali radicate nella storia di ciascuno di noi
scolarizzati.
         Un’altra precisazione. Il termine “frase” intende escludere il termine “proposizione”,
radicato in una lunga tradizione non solo scolastica, e presente tuttora in grammatiche concepite per
il livello universitario e di ispirazione non tradizionale1. “Proposizione” è un termine che ha un
ruolo preciso nella logica e nella psicologia cognitiva; trasferito nella grammatica porta con sé
un’idea di meccanica identificazione tra analisi linguistica e analisi del pensiero. Libero ciascuno di
vedere questa identità come una meta della ricerca, purché lo dichiari e con questo si impegni ad
affrontare tutte le discrasie evidenti a chiunque osservi la superficie del problema.

4.2. Il modello valenziale
        Da alcuni anni si va diffondendo tra gli insegnanti e nelle scuole il modello valenziale di
analisi della frase. Per quanto minoritario, per quanto confinato ancora per lo più nella scuola
secondaria di secondo grado (dove comporta una problematica ristrutturazione degli apprendimenti
pregressi), il modello riscuote un certo successo: ci sono testimonianze che esso in molti insegnanti
risuscita un interesse per la grammatica e riesce a sollecitare negli allievi un impegno attivo.
        Tra i modelli non tradizionali, quello valenziale si trova a concorrere con quello di origine
martinetiana della “frase minima”, egemone nella scuola elementare, e con l’analisi binaria di
origine distribuzionalista. L’idea della “frase minima” ridotta a soggetto e verbo, oltre a essere fonte
di equivoci sui quali tornerò più avanti, semplicemente non tiene, come sa chiunque conosca
l’esistenza di verbi transitivi a oggetto non cancellabile o generalizzabile. L’analisi binaria, che
scompone la frase in un sintagma nominale più un sintagma verbale che comprende tutto ciò che
non è incluso nel primo, si applica male a una lingua come l’italiano, piuttosto libera quanto
all’ordine delle parole; una vecchia battuta diceva che l’ultimo della classe, quello che chiama
“soggetto” in ogni caso la prima parola lessicale della frase, è un grande distribuzionalista.
        Mi rendo conto che l’approccio binario è rimasto radicato nella grammatica generativa in
tutte le sue successive versioni (salvo errore), dove è alla base dell’identificazione del soggetto
come “argomento esterno”; ma esso esige di ricorrere a una componente trasformazionale per
qualsiasi variazione dell’ordine canonico SVO, e mi auguro che nessuno ritenga trasferibili
nell’insegnamento modelli così sofisticati.
        Mi rendo pure conto che i due modelli, valenziale e binario, non sono incompatibili sul
piano teorico: elementi di tipo valenziale, nella forma dei ruoli tematici o dei casi profondi, sono da

1
  Mi riferisco a Andorno 2003, Salvi, Vanelli 2004, che per motivi che mi sfuggono introducono il termine
“proposizioni” per le frasi subordinate.

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tempo inclusi nella grammatica generativa; la grammatica lessico-funzionale assume a un livello
una struttura valenziale, a un altro livello, sintagmatico, recupera il sintagma verbale nella sua
forma canonica di origine strutturalista. Ma a ragazzi di undici anni presenterei un modello
semplice ed univoco. Ho visto manuali che presentano uno dopo l’altro il concetto di valenza e la
scomposizione binaria della frase, ma non fanno sul serio: si limitano a dare un rapido brivido di
modernità, prima di tuffarsi nell’analisi logica.

4.3. Soggetto e complementi
         Un vantaggio dell’approccio valenziale è che induce a scomporre la frase in sintagmi: gli
elementi che un verbo mette in relazione non sono parole singole. La prima mossa mette così subito
da parte il procedimento sequenziale proprio dell’analisi logica, che mira solo a battezzare ogni
pezzo di frase con categorie mal definite (“specificazione”, “termine”) o extralinguistiche (“causa”,
“abbondanza”, “compagnia”...). Al suo posto subentra un sistema di relazioni funzionali: non
esistono “argomenti” in sé, ma “argomenti di” un verbo. Una volta riconosciuti gli argomenti come
sintagmi, non è difficile poi vedere come essi possano contenere a loro volta dei sintagmi
(complementi di nomi o di aggettivi): gli allievi scoprono relazioni di inclusione, cioè il fenomeno
della ricorsività, cominciano a vedere nella frase una gerarchia di relazioni funzionali.
         In un approccio valenziale il soggetto appare in un primo tempo come un argomento tra gli
altri (a uno stesso livello, anche nei grafi), ed è bene che appaia come termine di una relazione e
non reificato in sé come rischia di apparire in certe descrizioni scolastiche. Ma dopo questo primo
passo il soggetto è indubbiamente il primo argomento da identificare, se non altro per la proprietà di
cui gode di essere in rapporto di implicazione con gli altri: se l’argomento è unico è
necessariamente il soggetto, se sono due o più, uno è necessariamente il soggetto.
         Quanto alla definizione di soggetto, pare che nella maggior parte delle grammatiche
scolastiche abbia attualmente successo quella di origine logica: il soggetto è ciò di cui si parla, ciò
di cui il predicato dice qualcosa. Così formulata, la definizione si presta a qualche equivoco, dato
che una frase “parla di” tutto ciò che in essa è nominato, e un verbo “dice qualcosa” di tutti i suoi
argomenti. L’intenzione sottostante è naturalmente quella di far riconoscere l’argomento (più
propriamente, la testa del sintagma argomento) che è in accordo di persona e numero col verbo, ma
questo aspetto operativo viene pudicamente taciuto, perché l’analisi logica evita per principio di
nominare ciò che ha un carattere propriamente sintattico. Definire invece il soggetto in base
all’accordo col verbo significa riferirsi a ciò che noi adulti scolarizzati facciamo in effetti quando
individuiamo il soggetto di una frase, significa fornire un criterio operativo e verificabile: se si
cambia il numero del soggetto bisogna cambiare la forma verbale (in modo finito), se si cambia il
numero di un altro argomento il verbo può rimanere invariato. In qualche grammatica scolastica
l’accordo è citato come una proprietà del soggetto, conosco un solo caso in cui è indicato come
criterio di verifica.
         Quanto ai complementi, in un’analisi funzionale non saranno ovviamente “complementi di”
una categoria del reale (luogo, fine, vantaggio...), ma complementi di una categoria lessicale:
complementi di un verbo (argomentali), di un nome, di un aggettivo, più raramente di un avverbio.
Che poi a certi gruppi di espressioni si possano associare certe nozioni, è un’idea che ha una sua
validità, ma più complessa e sfumata, che si può introdurre all’occorrenza in seconda battuta.
Nell’ipotesi che vado delineando, quando si parla di sintassi la priorità va assegnata alle strutture
formali.

4.4. 5ucleo e circostanti
        Fin qui si è parlato del nucleo della frase. Un’ovvia progressione didattica porta a
interessarsi subito dopo degli elementi extranucleari (che saranno presenti fin dall’inizio nei
materiali discussi con gli allievi, ma provvisoriamente lasciati da parte). Due precisazioni
terminologiche sono qui opportune. Chiamo gli elementi extranucleari “circostanti” (che preferisco
a “circostanziali” solo per brevità) adottando il termine usato da Tesnière (1959, p. 125), che per

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primo introdusse questa distinzione (Graffi 2010, p. 271). Non mi sfugge che Francesco Sabatini,
nella sua meritoria opera di diffusione della grammatica valenziale, ha assegnato il termine
“circostanti” agli elementi attributivi dei sintagmi nucleari: «quegli elementi - come attributi,
apposizioni, avverbi, espressioni preposizionali - che si aggregano direttamente ai singoli costituenti
del nucleo», come trovo in una versione online del Dizionario Sabatini Coletti
(http://dizionari.corriere.it, visto il 20.10.20122). Considero l’innovazione discutibile per più di una
ragione. In primo luogo il termine “circostanziali” è già da tempo in uso, anche in grammatiche
scolastiche, per riferirsi agli elementi extranucleari, e del resto già alcuni grammatici tradizionali
parlavano di “circostanze” per riferirsi agli elementi detti anche “avverbiali”; i problemi
terminologici possono essere secondari per chi è già esperto di una materia, mentre possono essere
fonte di confusione ed ansietà per gli insegnanti che si accostano a modelli per loro nuovi. In
secondo luogo l’innovazione non è solo terminologica: Sabatini, nel fornire rappresentazioni
schematiche delle frasi, fa dei suoi “circostanti” una sorta di guscio intermedio tra il nucleo e
l’extranucleo (si veda ad esempio Sistema e testo, Loescher, Torino, 2011, p. 348); in questo modo
sbiadisce il senso dell’unità dei sintagmi che costituiscono il nucleo. Se ne può ricavare
l’impressione che il nucleo sia individuato come ciò che resta togliendo da una frase tutte le parole
non essenziali: la “frase minima”.
         E qui sta la seconda precisazione terminologica: lo scambio tra nucleo e frase minima non è
innocuo. La nozione di “nucleo” comporta l’istruzione “cerca gli elementi messi in relazione dal
verbo predicato”, la nozione di “frase minima” comporta l’istruzione “togli tutto ciò che non è
essenziale o che è meno importante”. E un ragazzo nell’età della scuola media inevitabilmente
intenderà “più e meno importante” in senso comunicativo, non formale; in una frase come “Il treno
è partito in perfetto orario”, quel che conta dal punto di vista comunicativo è la precisazione di
tempo, proprio ciò che gli si vorrebbe far togliere come non essenziale.
         I problemi del modello valenziale non si limitano a questi, evitabili col semplice buonsenso.
Come è noto, i confini tra nucleo e circostanti non sono sempre facili da definire, e non è raro avere
opinioni diverse su casi specifici. Credo che in sede didattica sia importante in primo luogo fornire
dei criteri per la distinzione, in secondo luogo riconoscere che questi criteri non hanno un valore
assoluto e che casi dubbi possono sussistere comunque. I criteri formali sono noti: la maggiore
libertà di posizione nella frase dei circostanti, la possibilità di staccarli da una frase attraverso una
coordinazione con un sostituto del tipo ...e questo accade..., e lo fa...3. Questi criteri non risolvono
tutti i casi, e il ricorso a criteri semantici (che cosa è o non è implicato da un significato di un verbo)
può essere aleatorio e non valido intersoggettivamente. Credo che affrontare apertamente la
difficoltà con gli allievi, riconoscere l’accettabilità di opinioni diverse, purché motivate, sia
altamente educativo. Qualunque modello di descrizione sintattica ha margini di problematicità, e il
fatto di evidenziare immediatamente i propri è un merito non secondario del modello valenziale.
         Altre difficoltà che si possono presentare all’inizio possono essere risolte gradualmente;
sarebbe bene lasciare che emergessero dalle obiezioni degli allievi, messi di fronte a un materiale di
esempi autentici e variegati,. Ad esempio la polivalenza per polisemia di molti verbi. O i casi di
assenza di un argomento dalla superficie della frase per ellissi (per lo più del soggetto, ma non
solo), o per “astrazione” (Schwarze 2009, p. 138) o generalizzazione (tipico di verbi transitivi di uso
frequente come leggere, mangiare...); l’incremento della valenza (ibid., p. 140) apportato dal
“dativo di interesse”, o “benefattivo”. Ancora, l’apparente duplicazione di un sintagma argomento
quando include elementi coordinati: la coordinazione è un fenomeno ricorsivo non meno della
subordinazione, per cui anche in questo caso avremo un sintagma uno e bino, o uno e trino, per
inclusione; affrontare questo punto avrebbe tra l’altro il vantaggio di presentare la coordinazione
prima come legame tra elementi subfrasali, come di fatto è nella grande maggioranza dei casi
(Colombo 2012), invece che partire dalla coordinazione tra frasi indipendenti (il caso più raro, ma

2
  Questa precisazione non si trovava nell’edizione originale del DISC (Giunti, Firenze, 1997), che si limitava a riferire
l’accezione data al temine da Tesnière.
3
  Su questo procedimento si diffonde Prandi (2006, pp. 122, 125).

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