PARTE PRIMA SEGRETO INVESTIGATIVO E DIVIETO DI PUBBLICAZIONE - I principi dettati dalla legge delega

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I principi dettati dalla legge delega

            PARTE PRIMA

SEGRETO INVESTIGATIVO E DIVIETO DI
         PUBBLICAZIONE
I principi dettati dalla legge delega

1. PROFILI STORICI

1.a Conoscenza pubblica nel codice di procedura penale del 1930

L’istituto del segreto investigativo proprio del nostro attuale sistema
processuale penale trova il suo precedente storico nel segreto istruttorio
introdotto con il codice del 1930: si può parlare, quindi, tra vecchio e
nuovo codice, di una continuità del carattere di segretezza della fase
investigativa, ossia anteriore al processo in senso proprio.
Il significato del segreto istruttorio sta nel fatto che gli atti e i fatti raccolti e
compiuti nel corso della fase istruttoria, sono tendenzialmente segreti alla
maggioranza delle persone, ossia sono noti soltanto a quei soggetti che la
legge ritiene possano venirne a conoscenza (anche dal punto di vista
etimologico ‘segreto’, dal latino secernere, fa pensare ad una distinzione,
ad una divisione tra coloro che possono venire a conoscenza e coloro che
non possono). E’ la legge che sancisce chi sia legittimato a conoscere e chi
no. Nella variazione di tale limite sta l’elemento che segna l’evoluzione
dell’istituto del segreto istruttorio fino al raggiungimento del suo
conseguente storico nell’attuale codice, ossia il segreto investigativo.
L’istituto del segreto istruttorio deriva sicuramente da un modello
inquisitorio di sistema processuale penale e, conseguentemente, caratterizza
come inquisitorio anche il sistema che lo accoglie, così come il nostro
sistema del 1930, nonostante esso fosse normalmente considerato dai
contemporanei commentatori come modello di tipo misto1, sulla scorta
dell’accoglimento della “soluzione di compromesso” elaborata dal codice

1
  Per tutti LUCCHINI, Elementi di procedura penale, Firenze, 1921; SANTORO, Manuale di diritto
processuale penale, Torino, 1954.
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napoleonico del 1808. Pare però da condividere l’opinione di chi2 ritiene
che definire un sistema come misto è una contraddizione di termini, dato
che esso non potrebbe contemporaneamente ispirarsi a due sistemi opposti
senza neutralizzarsi: un sistema allora dovrà scegliere tra i due modelli,
anche se poi tale scelta potrà essere temperata.
Il sistema del 1930 è, per l’appunto, un sistema ‘temperato’, ma senza
dubbio di radice inquisitoria. Se, infatti, nella fase dibattimentale,
improntata al contraddittorio delle parti, più marcato è il temperamento in
chiave accusatoria del sistema, nella fase istruttoria appare invece
chiaramente la matrice inquisitoria delle scelta del legislatore del 1930:
l’istruzione è infatti segreta, il magistrato raccoglie le prove senza alcun
intervento dell’imputato e del suo difensore, che possono venirne a
conoscenza solo al dibattimento, quando è ormai è troppo tardi per fornire
elementi nuovi per la decisione del giudice.
Guardando alla sola fase istruttoria di un sistema penale (ché ulteriori sono
gli elementi di natura inquisitoria che si possono trovare nelle fasi
successive), il carattere inquisitorio, dunque, le è dato non tanto dalla
segretezza che la accompagna, segretezza che del resto compare anche nel
sistema di tipo accusatorio dove l’accusatore svolge la sua attività
investigativa tendenzialmente inaudita altera parte, ma piuttosto dalla
presenza di un giudice proprio di tale fase, il giudice istruttore, che non
solo raccoglie gli elementi di prova, ma che anche li valuta.
A partire dagli anni Sessanta, la dottrina ha iniziato ad operare una
distinzione nel genus del segreto istruttorio tra segreto interno e segreto
esterno. I due tipi di segretezza si distinguono per oggetto, soggetti
vincolati, durata e scopi perseguiti. Il segreto interno è un limite alla
conoscibilità di atti e fatti “da parte di determinati soggetti”3, per l’esattezza
delle parti private e dei loro difensori. Il segreto esterno, invece, consiste

2
    G.D. PISAPIA, Il segreto istruttorio nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1960, pp. 49 e ss.
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nel divieto di pubblicazione di certi atti, ossia nel divieto di rivelarli
mediante una pubblicazione “col mezzo della stampa o con altri mezzi di
divulgazione”4. Quindi, di fatto, soltanto il segreto interno è un segreto vero
e proprio, nel secondo caso non c’è un limite alla conoscenza, quanto
piuttosto un limite alla divulgazione; tant’è vero che non è detto che gli atti
coperti da divieto di pubblicazione siano al contempo anche segreti.
Negli ultimi anni di vigenza del codice, però, la distinzione, fatta per la
prima volta da Pisapia e accolta poi da tutta la dottrina, è stata da diverse
parti criticata5, in quanto, è stato detto, non sarebbe possibile parlare di due
autonomi profili di segretezza, perché essi non troverebbero alcun appiglio
nel dato positivo (dato che nel caso di divieto di pubblicazione, cioè del
segreto esterno, non si ha un vero e proprio segreto, ma solo un divieto di
divulgazione) e, comunque, non sarebbero sufficienti a rappresentare, nella
loro rigidità, tutte le diverse modalità in cui l’obbligo di fatto si manifesta.
Secondo altri6, poi, la distinzione tra segreto interno ed esterno non
potrebbe essere utilizzata neppure come criterio distintivo tra segreto
istruttorio e divieto di pubblicazione, anzi tale ultima distinzione potrebbe
meglio essere costruita facendo riferimento alla diversa disciplina e diversa
durata dei due istituti. Il divieto di pubblicazione, secondo questa dottrina,
non sarebbe posto ad esclusiva tutela del segreto esterno e, quindi, non
potrebbe essergli strettamente correlato, perché la pubblicazione di un atto
segreto, se viola il segreto esterno, viola anche lo stesso segreto interno.
Mentre il segreto istruttorio non tutela soltanto il segreto interno, ma anche
quello esterno, dato che non essendo a conoscenza del fatto è impossibile
divulgarlo. Pertanto Vismara propone di guardare all’obbligo di segretezza

3
  G.D. PISAPIA, cit., pp. 43 e ss.
4
  F. MANTOVANI, Appunti in tema di pubblicazione arbitraria di atti processuali, in Riv. it. dir. e
processo pen., 1960, pp. 237 e ss.
5
  Per tutti G. GIOSTRA, Processo penale e informazione, Giuffrè, Milano, 1989.
6
  G. VISMARA, Pubblicazione arbitraria di atti del procedimento penale e segreto istruttorio, in Arch.
Pen., 1984, pp. 299 e ss.
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ed al divieto di pubblicazione come a due istituti dotati di una loro
autonomia, che pure nella prassi concorrono spesso.
In ogni caso, sia che si voglia accogliere la distinzione tradizionale tra
segreto interno e esterno, sia che si voglia dare ragione alle più recenti
critiche circa l’insufficienza o addirittura l’inesattezza di tale distinzione,
resta il fatto che il sistema del 1930 poneva una serie di sbarramenti a
copertura delle indagini7: il primo, al momento della formazione degli atti
istruttori segreti, consiste nella limitazione o nel divieto dell’accesso dei
privati all’attività istruttoria (proprio su questo sbarramento hanno
maggiormente inciso le modifiche che hanno via via consentito la
partecipazione difensiva alla fase istruttoria, preparando la strada al codice
del 1988 che di tale eguaglianza delle parti fa uno dei propri baluardi). Il
secondo è rappresentato dal vero e proprio segreto istruttorio, ossia dal
divieto, per le persone che hanno compiuto, concorso a compiere o assistito
agli atti istruttori, di rivelare gli elementi che hanno conosciuto. Infine il
terzo consiste nel divieto di pubblicazione ed è il più generale dei tre
sbarramenti, in quanto, addirittura non riferendosi alla sola fase istruttoria,
ma all’intero iter procedimentale, vieta la divulgazione di certe notizie
attraverso i mezzi di comunicazione di massa.
Volendo a questo punto rifarsi strettamente ai dati normativi del codice del
1930, il segreto istruttorio e il divieto di pubblicazione erano disciplinati
dagli articoli 230 e 307, il primo, e dall’articolo 164, il secondo.

1.b Il segreto istruttorio

Per quanto riguarda il segreto istruttorio si può fare riferimento, oltre che
alla fase istruttoria vera e propria, disciplinata dall’articolo 307, anche alla
fase dell’istruttoria preliminare, quella, cioè, compiuta dal personale della

7
    A.TOSCHI, Segreto (diritto processuale penale), in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, pp. 1098 e ss.
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polizia giudiziaria e dal pubblico ministero, prima che il procedimento sia
avviato, quella fase, cioè, propedeutica alla deliberazione del magistrato
circa l’opportunità di avviare un’istruzione o meno, disciplinata
dall’articolo 230. Seguendo una successione cronologica è opportuno
partire dalla fase di preistruttoria coperta dal segreto imposto su “tutto ciò
che riguarda gli atti di polizia giudiziaria e il loro risultato”. Il dato
normativo dà un’indicazione estremamente lata, per individuarla meglio è
necessario porre attenzione a ciò che si intende per ‘atto di polizia
giudiziaria’, così come risultava dagli articoli 219 e seguenti del codice di
procedura penale previgente.
Erano atti di polizia giudiziaria l’arresto in caso di flagranza, l’esecuzione
di ordini e mandati di cattura o di accompagnamento, l’assicurazione del
corpo del reato, il sommario interrogatorio dell’arrestato e le sommarie
informazioni dei testimoni, le perquisizioni, il sequestro di corrispondenza,
l’intercettazione di comunicazioni epistolari, telegrafiche e telefoniche e, in
generale, “ogni atto diretto ad assicurare le prove del reato e la ricerca degli
indiziati di reità”. E’ chiaro che non per tutti quegli atti posti in essere dalla
polizia giudiziaria si può parlare di segreto, la natura di alcuni di essi
accentua la relatività del segreto, si pensi all’arresto in flagranza o
all’esecuzione di un atto di perquisizione: qui il segreto, oltre ad essere
relativo, si riferirà più al risultato dell’atto che all’atto in sé, semmai potrà
riferirsi all’esistenza dell’atto soltanto prima che questo venga posto in
essere. In questo caso la segretezza è funzionale alla riuscita dell’azione di
polizia.
Erano tenuti all’obbligo del segreto per quanto riguarda questa fase
preistruttoria “a) gli ufficiali di polizia giudiziaria, b) gli agenti di polizia
giudiziaria, c) le altre persone che compiono o concorrono a compiere atti
di polizia giudiziaria”8.

8
    Art. 230 c.p. 1930.
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Contrariamente alla dottrina9 che ritiene coperta dal segreto istruttorio
anche la fase preistruttoria, se ne pone un’altra, sostenuta principalmente da
Guarnieri10, che esclude tale copertura. L’autore sostiene che non si possa
parlare di segreto perché “la disposizione dell’articolo 307 è differentissima
da quella dell’articolo 230. Né si potrebbe sostenere il contrario sul riflesso
che l’articolo 307 fa puntualmente pendant all’articolo 230, stabilendo
un’obbligazione identica a partire dal momento in cui un atto formalmente
acquisito al procedimento ne diviene parte integrante ed indissociabile. In
altri termini, gli atti di polizia giudiziaria sarebbero pure essi protetti dal
segreto dell’istruzione, perché diventano atti del procedimento d’istruzione
di cui fanno parte integrante. [...] Anche se si ammettesse questa opinione,
ci si dovrebbe domandare da qual momento gli atti dell’istruzione della
polizia fanno veramente e propriamente parte integrante del procedimento
di istruzione. E’, all’opposto, certo che essi non possono far parte
integrante di una istruzione che non è ancora nata. Né potrebbesi sostenere
la sufficienza che un atto di procedimento sia legato a un processo penale
destinato a nascere, perché possa essere assoggettato al segreto
dell’istruzione”.
Passando, invece, alla fase istruttoria vera e propria, il relativo segreto è
sancito dall’articolo 307. Questa fase andrebbe distinta in istruttoria
formale e sommaria, ma, dato che tale distinzione influisce soltanto sulla
durata del segreto (nell’istruzione formale gli atti istruttori sono segreti fino
al loro deposito in cancelleria, mentre nell’istruzione sommaria sono
segreti fino alla richiesta del pubblico ministero di proscioglimento o di
citazione in giudizio), è possibile affrontare in un unico momento i temi,
identici per i due tipi di istruttoria, dell’oggetto del segreto, dei soggetti ad
esso vincolati e degli scopi perseguiti.

9
 G.D. PISAPIA, cit., pp. 130 e ss.
10
  G. GUARNIERI, Procedimenti penali e libertà di stampa, in A.A.V.V., Legge penale e libertà del
pensiero, III Convegno di diritto penale, Bressanone, 1965, Padova, Cedam, 1966, pp. 19 e ss.
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Destinatari dell’obbligo in base all’articolo 307 erano “a) i magistrati,
anche se appartenenti al pubblico ministero, b) i cancellieri e i segretari, c) i
periti e gli interpreti, d) i difensori e i consulenti tecnici, e) le altre persone
che compiono o concorrono a compiere atti di istruzione o assistono al
compimento di esse”. La norma fu oggetto da parte della Corte di
Cassazione di un’interpretazione in senso estensivo: la Corte infatti
ricomprese tra gli obbligati anche il coadiutore del perito e chiunque fosse
venuto a conoscenza delle notizie in questione, a qualunque titolo ciò fosse
avvenuto. Tale elencazione faceva sorgere immediatamente due questioni:
quella relativa all’esplicita esclusione dal vincolo delle parti private e dei
testimoni e quella relativa, per contro, all’inclusione tra i soggetti vincolati,
dopo la riforma operata dalla legge n. 517 del 18 giugno 1955, anche dei
difensori. La prima delle due questioni prospettava alcuni dubbi sul
raggiungimento dello scopo dell’istituto in presenza di tale eccezione che
lasciava le parti private (ossia l’imputato, la parte civile, il responsabile
civile e la persona civilmente obbligata per l’ammenda) e i testimoni liberi
di rivelare tutto ciò che sapessero, anche se gli elementi a loro conoscenza,
per forza di cose, non erano molti. Si legge del resto nella Relazione
Ministeriale al progetto del codice penale11 che pretendere il silenzio di tali
soggetti sarebbe stato “eccessivo”, ma, soprattutto, sarebbe stato “difficile”
ottenerlo. Pertanto è parso “inopportuno” sanzionare l’eventuale violazione
di tale obbligo, anzi si è addirittura preferito non prevedere neppure
l’obbligo. La seconda, invece, concerneva la congruità del limite posto al
difensore con la natura stessa del suo ruolo che, per definizione, dovrebbe
godere di libertà di iniziativa e di movimento, essendo già sufficientemente
sacrificato dall’esistenza di forti sbarramenti nei suoi confronti nella fase
istruttoria, solo blandamente aperti da successive modifiche effettuate dalla

11
     Lavori preparatori, II, p. 503.
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Corte Costituzionale12. Oltretutto si pone il problema della disparità tra
questo trattamento e quello riservato alle altre parti private. E’ vero che
dalle rivelazioni inopportune del difensore a persone diverse dal suo
assistito (è chiaro che nei confronti di quest’ultimo non ha senso parlare di
segreto) potrebbero derivare difficoltà, ma queste dovrebbero semmai
trovare la loro soluzione nella disciplina relativa al segreto professionale,
che garantisce il cliente da dichiarazioni avventate del proprio difensore, o
addirittura nelle regole deontologiche che dovrebbero in ogni momento
guidare il professionista. Ma per un’analisi più approfondita della
disciplina che riguarda il comportamento del difensore è necessario
distinguere alcune situazioni in cui esso stesso può trovarsi. Il difensore
può rivelare all’assistito atti che legittimamente conosce: in questo caso
egli adempie ad un proprio dovere. Ma il difensore può anche rivelare
all’assistito atti che in realtà dovevano rimanere segreti, per esempio
un’intercettazione telefonica in atto: tale rivelazione può vanificare
l’operazione investigativa e in alcuni casi il difensore è stato accusato di
favoreggiamento personale. In realtà, bisogna fare in ogni caso riferimento
alla scriminante dell’adempimento di un dovere e dell’esercizio di un
diritto e distinguere i casi in cui il difensore sia venuto a conoscenza di atti
che dovevano rimanere segreti occasionalmente o in conseguenza della
violazione del segreto compiuta da altri, e i casi in cui il difensore abbia
tenuto una condotta ‘più attiva’ nell’ottenimento di tali notizie. C’è poi il
caso in cui nel procedimento vi siano più coimputati: ogni difensore ha
diritto di conoscere atti relativi al proprio assistito, non anche ad altri

12
   Tra le sentenze della Corte Costituzionale più rilevanti in materia si vedano la n. 190 del 1970 (in Giur.
Cost., 1970, pp. 2179 e ss.) che estende all’interrogatorio la garanzia difensiva rappresentata
dall’assistenza del difensore che ha diritto anche al previo avviso del compimento di tale atto; n. 63 del
1972 (Giur. Cost., 1972, pp. 282 e ss.) che estende la possibilità di assistenza del difensore all’ispezione
giudiziale e alla perquisizione personale, per le quali tuttavia il difensore non ha diritto al previo avviso
del compimento dell’atto in questione; la n. 64 del 1972 (Giur. Cost., 1972, pp. 31 e ss.) che prevede la
possibilità per il difensore di assistere alla testimonianza a futura memoria e al confronto tra imputato e
testimone esaminato a futura memoria, con, in questo caso, anche il diritto al preavviso del compimento
dell’atto.
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coimputati; è però possibile che tra difensori vi sia uno scambio di
informazioni, anche per concordare una linea di difesa comune: la
perseguibilità dell’azione del difensore si ha qui solo nel caso in cui dalla
rivelazione derivi un danno al proprio assistito e si avrebbe, comunque, una
violazione del segreto professionale, non di quello istruttorio. L’estensione
dell’obbligo del segreto ai difensori e ai consulenti comporta anche un
ulteriore problema: quello della sanzione da applicare nel caso in cui tale
obbligo sia violato. Essi, infatti, non essendo ‘pubblici ufficiali’, non sono
punibili in base all’articolo 326 del codice penale che prevede come
necessaria tale qualifica per l’autore del reato, prevedendo un reato proprio;
non resta, quindi, che l’applicabilità degli articoli 622 o 684 del codice
penale, ma per la loro applicazione bisogna che ricorrano condizioni non
necessariamente presenti nella semplice violazione dell’obbligo del
segreto. Nel caso dell’articolo 622, infatti, che punisce la violazione del
segreto professionale, si deve trattare della rivelazione di notizie apprese
dal proprio cliente e, comunque, è necessaria la querela di parte. Nel caso
dell’articolo 684, che punisce la violazione del divieto di pubblicazione, è
necessario che ci sia stata la divulgazione col mezzo della stampa. Parte
della dottrina13 ha cercato a tal punto di giustificare l’applicabilità
dell’articolo 326 anche a questi soggetti affermando che difensore e
consulente tecnico, pur non essendo pubblici ufficiali, possono essere
considerati tali nel momento in cui partecipano o assistono al compimento
di atti di un’istruttoria penale: questo li renderebbe partecipi della funzione
giudiziaria e pertanto potrebbero essere considerati alla stregua di pubblici
ufficiali.
Circa l’oggetto del segreto istruttorio inerente la fase istruttoria vera e
propria, l’articolo 307 parlava di “tutto ciò che concerne gli atti istruttori ed
i loro risultati”, riproponendo un problema, analogo a quello verificatosi

13
     CARNELUTTI, Lezioni sul processo penale, I, pp. 188 e ss., ripreso poi da FOSCHINI, Sistema del
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nella fase preistruttoria, riguardo l’identificazione concreta di tali atti
coperti da segreto, infatti la dizione dell’articolo 307 è identica a quella
dell’articolo 230, “tutto ciò che riguarda gli atti di polizia giudiziaria ed i
loro risultati”. La formula è ampia e necessariamente non puntuale:
innanzitutto è da chiedersi se oggetto del segreto siano soltanto gli ‘atti’,
cui fa riferimento il dato positivo, o anche i ‘fatti’ che ne costituiscono il
contenuto. Una risposta negativa svuoterebbe di significato l’intera
disciplina del segreto istruttorio, facendo sì, per esempio, che resti segreta
la notizia che un soggetto è stato sottoposto a interrogatorio, ma
consentendo che siano resi noti gli elementi che l’interrogato ha dichiarato.
Né l’articolo 230 né il 307 individuano con esattezza i limiti del segreto, è
allora necessario individuarli in via interpretativa facendo riferimento alla
finalità dell’istituto del segreto istruttorio. Nell’articolo 299 si legge che
scopo dell’istruttoria è pervenire all’accertamento della verità. Ecco che,
allora, si può affermare che sarà segreto tutto ciò la cui rivelazione a
persone diverse da quelle legittimate possa causare un impedimento
all’accertamento della verità. Pare in questo senso che si possano
comprendere anche i fatti istruttori oltreché gli atti.
Molti sono stati gli interventi sui limiti del segreto istruttorio, operati sia
dal legislatore che dalla Corte Costituzionale, tutti improntati ad
un’apertura della fase istruttoria alla difesa. La prima legge di riforma è
stata la n. 517 del 18 giugno 1955, che ha consentito al difensore di
assistere ad alcune operazioni giudiziarie, tra cui la perizia, le perquisizioni
domiciliari, gli esperimenti giudiziari, le ricognizioni, ed ha previsto che i
verbali di tali atti e dell’interrogatorio dell’imputato, che continua a
rimanere segreto, siano depositati in modo che comunque il difensore possa
prenderne conoscenza. Parallelamente la stessa legge ha introdotto
l’obbligo del segreto istruttorio anche a carico del difensore, oltre che del

diritto processuale penale, Milano, 1956, pp. 233 e ss.
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consulente tecnico. Sono seguiti poi numerosi interventi della Corte
Costituzionale, che, con metodo abbastanza casuale, dovuto al fatto che le
sue decisioni sono state sempre sollecitate da casi concreti sottoposti alla
sua attenzione, ha esteso il diritto della difesa di partecipare ed assistere al
compimento di nuovi atti, finalmente anche l’interrogatorio dell’imputato
(16 dicembre 1970 n. 190). Restano, invece, ancora fuori dalla possibilità
del difensore di assistervi due importanti atti: la testimonianza e il
confronto.
Tali innovazioni si concludono con la legge n. 330 del 5 agosto 1988, che
anticipa di pochi mesi il sistema previsto dal nuovo codice.

1.c Il divieto di pubblicazione

Il divieto di pubblicazione è ispirato ad una finalità precisa ben diversa dal
segreto istruttorio: esso è, infatti, volto ad evitare che una conoscenza
diffusa degli atti di un procedimento penale in corso possa arrecare danni
all’amministrazione della giustizia, turbando l’autonomia decisionale del
giudice e suscitando l’interesse morboso e la pressione dell’opinione
pubblica, e alle parti private coinvolte nel procedimento, che potrebbero
vedere irrimediabilmente lese la loro reputazione e la loro riservatezza. Già
dall’individuazione delle molteplici finalità dell’istituto è facile intendere
come esso sia tanto ampio da risultare persino vago nei propri confini
essenziali. Tale ampiezza, secondo una dottrina14, sarebbe sintomo
dell’origine e della finalità della norma “nata in un periodo storico in cui si
voleva sottrarre l’operato della magistratura a qualsiasi forma di controllo
sociale”.

14
   G. NEPPI MODONA, Profili contraddittori del rapporto tra giustizia e informazione: il segreto
professionale del giornalista e il segreto istruttorio, in Quest. Giust., 1983, n.3, pp. 543 e ss.
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L’articolo 164, che disciplina il divieto in generale, inibiva la
pubblicazione, col mezzo della stampa o con altri mezzi di divulgazione,
fatta da chiunque e in qualsiasi modo, totale o parziale, anche per riassunto
o a guisa d’informazione, del contenuto di qualunque documento e di ogni
atto, scritto o orale, relativo: a) all’istruzione formale o sommaria, fino a
che del documento o dell’atto non sia stata data lettura nel dibattimento a
porte aperte; b) ad una istruzione chiusa con sentenza che dichiari di non
doversi procedere, fino a che ne sia possibile la riapertura, cioè fino a
quando il reato non sia estinto.15.
Difficile è individuare gli atti vincolati dal divieto di pubblicazione, la
lettera del quale sembra fare riferimento a tutti gli atti del procedimento
penale, quelli istruttori e quelli dibattimentali, a prescindere dal fatto che
essi siano segreti o meno, dato che tale divieto può coprire anche atti non
coperti dal segreto istruttorio. Paradossalmente però, sempre secondo il
dato letterale dell’articolo, dato che tale divieto sorge con l’inizio della fase
istruttoria, resterebbero fuori dal divieto e, quindi, sarebbero pubblicabili,
tutti gli atti di polizia giudiziaria, gli atti di istruzione preliminare e la
stessa notizia di reato. E’ chiaro che un’interpretazione strettamente
letterale, che porti a queste conclusioni, frustra entrambe le finalità
dell’istituto, sia quella della serenità del giudice, sia quella della
riservatezza delle parti coinvolte dato che, comunque, si avrebbe un ampio
varco attraverso il quale potrebbero passare notizie sufficienti a mettere al
corrente la comunità. Ma per ovviare a questa difficoltà la stessa Corte
Costituzionale          ha     autorizzato         un’interpretazione             più     ampia       della

15
   Per completezza è necessario citare anche l’ultima lettera dell’articolo che prevedeva un ulteriore
divieto non connesso al tema in questione riferendosi ad atti relativi al dibattimento: c) all’istruzione o al
giudizio se il dibattimento è tenuto a porte chiuse, in questo caso però la durata del divieto variava a
seconda della ragione che aveva motivato l’esclusione del pubblico dall’aula. Gli atti infatti divenivano
pubblicabili dopo che erano stati letti in udienza se il dibattimento si svolgeva a porte chiuse per ragioni
di pubblica igiene o perché la pubblicità poteva suscitare riprovevole curiosità; lo divenivano dopo il
passaggio in giudicato della sentenza se il dibattimento si era svolto a porte chiuse per le manifestazioni
da parte del pubblico atte a turbare la serenità del dibattimento stesso; lo divenivano dopo settanta anni in
tutti gli altri casi di dibattimento a porte chiuse, tra i quali si comprendevano le ipotesi di possibilità di
nocumento alla sicurezza dello Stato, all’ordine pubblico, o all’imputato minore di diciotto anni.
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disposizione, che coprisse col divieto anche gli atti precedenti l’avvio
formale dell’istruzione.
Altra questione indubbiamente poco congrua della disciplina dell’istituto,
perché contrasta con l’ampiezza dell’oggetto del divieto, è relativa alla
condotta vietata, sicuramente troppo ristretta. L’articolo 164, infatti, vieta
soltanto la pubblicazione “col mezzo della stampa o con altri mezzi di
divulgazione”, restano quindi fuori tutte le altre ipotesi di rivelazione o di
diffusione effettuate con mezzi differenti, si pensi per esempio ad un
comizio. Del resto questa esclusione è stata riconosciuta come legittima
dalla Corte Costituzionale, investita della questione, in quanto la diversità
di trattamento sarebbe giustificata dalla maggiore diffusività e pertanto
dalla maggiore potenzialità offensiva della divulgazione tramite la stampa,
piuttosto che con gli altri mezzi di divulgazione che potrebbero essere
lecitamente utilizzati.
Destinatario del divieto di pubblicazione è chiunque. Non si fa riferimento,
come nel caso del segreto istruttorio, a ben individuati soggetti che per
avere partecipato a vario titolo al compimento di atti istruttori, ne sono a
conoscenza e potrebbero pertanto rivelarli: qui si parla di ciascun soggetto
che sia in grado di divulgare, con la stampa o con un mezzo tale da
giungere ad una quantità indeterminata di persone, notizie relative al
procedimento penale.
Come si è detto, si è cercato di vedere nel divieto di pubblicazione un
istituto correlato al segreto istruttorio, del resto la stessa Relazione sul
progetto preliminare del codice penale afferma che tale divieto vuole
andare a rafforzare il segreto istruttorio per evitare anche quelle condotte
che potevano uscire dalle maglie della disciplina del segreto e dare adito a
comportamenti tali da frustrare l’attività dell’autorità giudiziaria o da
violare la riservatezza degli imputati. Ed effettivamente il divieto di
pubblicazione si pone come istituto ben più ampio del segreto istruttorio,
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tanto da poter apparire come mezzo per recuperare le smagliature ad esso
(si pensi alla rivelazione di atti segreti da parte di soggetti non obbligati al
segreto che possono essere puniti, eventualmente, soltanto facendo
riferimento alla disciplina del divieto di pubblicazione, se la rivelazione ha
assunto anche la forma di una divulgazione col mezzo della stampa o
comunque con un mezzo che ha la stessa potenzialità lesiva). Ma la
diversità delle due discipline per quanto riguarda i destinatari dell’obbligo
(chiunque per l’una e ben individuati soggetti per l’altra), la sua estensione
oggettiva (tutti gli atti istruttori e dibattimentali da una parte, solo alcuni
ben individuati atti dall’altra), le conseguenze della sua violazione (reato
comune in un caso, reato proprio nell’altro) e la ben minore gravità della
sanzione prevista per la violazione del divieto di pubblicazione rispetto a
quella prevista per la violazione del segreto istruttorio, fanno sì che sia più
opportuno considerare questi due istituti come autonomi uno rispetto
all’altro, seppure spesso concorrenti in un’ipotesi di reato.

1.d Limiti della disciplina prevista dal codice del 1930 e proposte di
modifica

La segretezza della fase istruttoria tipica del modello di processo penale
delineato dal codice del 1930 sollevò ben presto molte critiche e aspri
dibattiti in dottrina. Il segreto è senza dubbio legato ad una concezione
arcaica del sistema penale: il modello inquisitorio giustificava la scelta a
favore della segretezza delle indagini rifacendosi alla concezione classica
della testimonianza, secondo la quale un uomo mente soltanto se ha un
interesse nella questione, pertanto bastava al magistrato inquisitore scoprire
gli eventuali interessi del testimone e delle parti nella causa e da questo si
poteva dedurre la veridicità delle loro affermazioni, senza alcun bisogno di
un loro intervento diretto o di loro spiegazioni. La Scuola Positiva è giunta
I principi dettati dalla legge delega

ad affermare, invece, che un uomo può mentire anche per ragioni diverse
da un proprio interesse nella questione: difetti di percezione, lacune nella
memoria, tenore delle domande. Il segreto viene allora ridimensionato,
perché assumono grande rilevanza i confronti, gli apporti di notizie
provenienti da ogni parte, come nella ricostruzione di uno scenario
impossibile da parte di una sola persona. Ma anche senza risalire tanto
indietro nelle origini del segreto nel sistema penale, senza dubbio la sua
rilevanza è stata sottolineata nel codice del 1889 e nel codice del 1930 in
quanto esso è stato ritenuto fondamentale per il raggiungimento degli scopi
essenziali della fase istruttoria: realizzazione dell’attività giudiziaria senza
alcuna interferenza o pressione da parte dell’opinione pubblica e delle parti
private coinvolte nel procedimento; impedimento della diffusione di notizie
che potessero suscitare la curiosità morbosa della popolazione e persino
fungere da esempi per personalità già deviate; protezione della reputazione
e della riservatezza delle parti coinvolte. Per raggiungere questi obiettivi il
legislatore del 1930 ha sacrificato altri importanti aspetti: la partecipazione
della difesa alla fase istruttoria e quindi l’attuazione di un’efficace difesa
dell’imputato fin dall’inizio del procedimento, il controllo dell’attività
giudiziaria operata attraverso la trasparenza delle sue azioni. Con l’andare
avanti del tempo e con l’affermarsi sempre più forte delle libertà della
persona si sono anche poste le questioni della libertà di stampa, della libertà
di critica e di manifestazione del proprio pensiero, chiaramente limitate dal
velo che nascondeva ogni attività istruttoria. Oltre a questi conflitti
extraprocessuali, negli anni Sessanta si è cominciato a parlare anche degli
inconvenienti    che    il     segreto       istruttorio        determina   sullo   stesso
funzionamento     del    processo:          il    mistero        può   assicurare   contro
l’inquinamento delle prove, ma può contemporaneamente arrivare a minare
la loro completezza e la loro stessa attendibilità, oltreché comportare
l’inattuazione del diritto di difesa dell’imputato.
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