Malamente rivista H di lotta e critica del territorio - n. 18
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
malamente n. 18 giugno 2020 rivista H di lotta e critica del territorio
malamente vanno le cose, in provincia e nelle metropoli malamente si dice che andranno domani malamente si sparla e malamente si ama malamente ci brucia il cuore per le ingiustizie e la rassegnazione malamente si lotta e si torna spesso conciati malamente ma si continua ad andare avanti malamente vorremmo vedere girare il vento malamente colpire nel segno malamente è un avverbio resistente per chi lo sa apprezzare. malamente rivista H di lotta e critica del territorio Numero 18 - giugno 2020 Reg. Trib. di Pesaro n. 9 del 2016. Dir. Resp. Antonio Senta. Ringraziamo Toni per la disponibilità offertaci. Pubblicazione a cura dell’Associazione culturale Malamente, Fano (PU). Stampa: Digital Team, Fano (PU). Sito web: www.malamente.info - Per contatti: malamente@autistici.org facebook.com/malamente.red - twitter.com/malamente_red In copertina: Volontari/e delle Brigate volontarie per l’emergenza Senigallia impegnati/e nel progetto BAMS di Arvultura.
OGGI VADO IN MONTAGNA Di Savino Monterisi Se non ti senti prigioniero di nessun luogo o padrone di qualche luogo, vuol dire che possiedi la libertà del cammino. Restare, allora, non è stata, per tan- 65 ti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità; restare è stata un’avventura, un atto di incoscienza e, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Non si ceda alla retorica o all’enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Vito Teti H È QUESTA UNA STORIA ABRUZZESE, una storia di montagna, di nonni, tra- dizioni, abbandono e speculazione. La riprendiamo dalle “Cronache della restanza” dell’amico e compagno Savino Monterisi, che avevamo già avuto modo di presentare su Malamente #17. La restanza è il coraggio di restare (o di ritornare) in quei luoghi esterni ai flussi del capitale e delle merci, luoghi che non hanno nulla da offrire a chi vive tra il supermercato e lo sfruttamento quotidiano, ma che possono aprire nuove opportunità di vita a chi cammina in direzione ostinata e contraria. Questa mia passione per la montagna, dura ormai da parecchio tempo. I primi passi devo averli mossi al Colle delle Vacche o giù di lì perché da che io mi ricordi, in montagna ci vado da quando ero piccolissimo. Sono pas- sate alla storia le memorabili giornate nelle quali zio Domenico montava delle palanche di legno sul rimorchio del trattore creando delle rudimentali postazioni a sedere e caricava una ventina di persone di Bagnaturo per por- tarle sul Morrone. Era la metà degli anni Novanta, le fabbriche avevano strappato alle cam- pagne uomini e donne ormai da più di un ventennio, il contatto con la terra appariva sempre più una cosa legata alla povertà – quasi nessuno era rimasto a lavorare in campagna. La fabbrica aveva concesso un tenore di vita dignitoso ai più, relegando i ricordi della fame e della sofferenza a un antico passato ormai estinto. Un allontanamento dalla terra che aveva tutto
66 Veduta dal Monte Porrara un significato metaforico, ci si stava separando proprio dalla sofferenza passata, non sapendo quello che si andava perdendo. Zio Domenico invece, che era uno che la terra la coltivava ancora, sapeva quanto quel legame “uomo-territorio” era imprescindibile per una comu- nità viva, così una o due volte l’anno, montate le palanche sul rimorchio, si prestava a questo rito che serviva a mantenere un legame con la montagna che per secoli era stata la nostra casa. Il suo gesto spassionato, svolgeva una precisa funzione sociale per il paese, affinché tutto non andasse perduto. Erano giornate belle per me quelle, i fiori, gli insetti, le croci sulle cime delle montagne e mai un animale ad attraversarci la strada – oggi come allora. La sensazione più sorprendente ripensandoci a distanza di venti e passa anni, è l’assenza di fatica. Come se per i bambini la stanchezza non fosse contemplata. Finita la camminata tornavamo al trattore che veniva parcheggiato solitamente al Colle delle Vacche se l’escursione era in zona San Pietro o a Jaccio Rosso se l’escursione era diretta al Colle della Croce. Ad aspettarci al ritorno c’era sempre zia Maria che cucinava gli spaghetti aglio e olio e la scamorza arrosto. Quando tornavo a casa scoprivo di essermi ustionato sulle orecchie. Mi uscivano delle bolle d’acqua grosse come delle ganasce che mi coprivano per intero la parte superiore del padiglione. Il berretto che avevo in testa faceva il suo sporco lavoro, ma non fino in fondo. Di quella esperienza mi
è rimasta l’abitudine prima di ogni escursione, di cospargermi di crema solare ben bene sopra le orecchie. Zio Domenico con quel suo gesto semplice, replicava anche una condi- zione tipica degli abitanti di Bagnaturo. Sì, perché in montagna i nostri avi ci andavano da sempre. Ci si andava per fare i ceppi, la legna, le pigne, per coltivare la terra – molte terre erano nei pressi del Castello di Pratola o Castello d’Orsa – e ci si andava per pascolare qualche animale che si aveva. Insomma la frequentazione della montagna era una necessità. Chissà cosa avrebbero risposto i miei bisnonni ad esempio, se settanta anni fa gli aves- sero detto che le persone un giorno avrebbero smesso di andare in monta- gna. Si sarebbero probabilmente fatti una bella risata perché non andare in montagna per loro era praticamente impossibile, se volevano sopravvivere. 67 Invece le fabbriche, lo sviluppo e il progresso, negli anni hanno allontanato le persone dalla montagna, ma direi più in generale dal territorio, con tutto quello che questo può comportare negativamente. Zio Domenico tutto questo lo sapeva e ci teneva a portarci su ogni anno. È probabile che in questo suo rituale ci fosse qualcosa anche del tradizio- nale pranzo domenicale che le famiglie di Bagnaturo negli anni Settanta e Ottanta erano solite fare in montagna nella bella stagione, insomma la classica gita fuori porta. Di tutto ciò non rimane nulla, oggi il rapporto con la montagna si basa quasi esclusivamente sul consumo, eccetto che per una minoranza molto ristretta di persone. Colle delle Vacche, Jaccio Rosso - Foto di marybove, da wikiloc
68 Passo San Leonardo, Pacentro La montagna e l’ambiente in generale, li percepiamo come entità che pos- sono essere consumate. È per questo che le maggiori occasioni di business per le zone montane, si hanno con il turismo sciistico, in assoluto il turi- smo che più deturpa e impatta la montagna. Un turismo con il quale però si fanno molti soldi, divenuto oggi quasi una questione di vera e propria sopravvivenza economica per alcuni comprensori. Non essendo stati in grado di creare all’epoca un tipo di sviluppo ecologico ed equilibrato per le zone montane, ci accontentiamo oggi di avere monta- gne sventrate dodici mesi l’anno e un turismo massificato che la consuma per i tre mesi invernali. La somma di queste due componenti crea la mag- gior parte della ricchezza dei comprensori montani insieme a una buona dose di speculazione edilizia. Non voglio dare un giudizio tranciante e negativo sullo sci, so che per molte persone è la fonte di reddito principale o una grande passione, vorrei solo che si ragionasse di più su come questo tipo di turismo e la soprav- vivenza degli ambienti montani potrebbero coesistere. Ormai l’errore è stato fatto, bisogna interrogarsi su come poter gradualmente rimediare. Questa riflessione l’ha fatta molto meglio di me Paolo Cognetti sul suo blog (http://paolocognetti.blogspot.com/2018/05/il-futuro-possibile.html) se vi interessa ve ne consiglio la lettura. In realtà non era di questo che volevo parlare, ci pensavo però perché oggi sono stato con Nicola in escursione nella Valle delle Gravare, verso Monte Greco, partendo dagli impianti dell’Aremogna sopra Roccaraso. Forse non lo sapete, ma a parte l’inverno, l’Aremogna è una cattedrale nel deserto. Eravamo solo noi due in un parcheggio sterminato che può contenere for- se duemila automobili. Il vento faceva smuovere un lenzuolo pubblicitario
della Bmw mangiato dal tempo e un rumore metallico risuonava regolare cadenzando la desolazione del luogo. L’hotel Paradiso poco più a mon- te era un gigante senza senso, le centinaia di stanze che lo compongono prendono aria solo qualche settimana l’anno, ospitando turisti romani e napoletani venuti a divertirsi sulla neve. Per fortuna in cresta la visuale ha lasciato spazio a un panorama intatto, solo una carrabile e qualche rifugio per pastori segnalavano la presenza dell’uomo. Il lago Pantaniello era una pozza di fango, il lontano parente del rigoglioso lago che si forma in primavera. Le ampie vallate erano pulite rispetto al grosso impatto degli impianti di risalita e delle opere ingegneri- stiche per consentire la discesa che avevo visto fino a poco prima. La cima di Monte Greco era come una bussola, indicava la direzione da seguire 69 senza possibilità di sbagliare. Il passaggio di Adri, il pastore rumeno con le sue duecento pecore provenienti direttamente da Cepagatti, ha riportato sulla Terra quello scenario che pareva provenire da un mondo remoto. Chissà se gli sciatori prima di dare luogo alla discesa volgono lo sguardo anche su questa parte di montagna o se la concentrazione è tutta per l’a- drenalinica e artificiale avventura che stanno per imboccare. Chissà se nei loro selfie con scarponi e salopette compare an che il profilo di cresta del Greco, di Serra le Gravare o di Monte Chiarano. Non so se zio Domenico – Menecucc’ come l’hanno sempre chiamato in paese – sia mai stato all’Aremogna. Non posso nemmeno più chiederglielo Il Lago Pantaniello alle falde del Monte Greco
perché da qualche settimana ha deciso di passare a miglior vita, lasciando a zia Giuseppina il pesante ruolo di essere l’ultima erede vivente dei “zur- ritt” – il soprannome della famiglia di mia nonna paterna. A Menecucc’ non potrò mai chiedere nemmeno il motivo di quel suo gesto: perché portarci tutto il paese e non solo la sua famiglia in montagna? Posso solo provare a immaginarlo, come ho fatto in queste righe. Queste domande rimarranno in sospeso in eterno. Noi che restiamo ab- biamo l’arduo compito di provare a cogliere il senso nascosto di gesti appa- rentemente semplici, ma che con molta probabilità vengono da un tempo lontano. Il ricordo delle azioni è il lascito più importante di chi non ave- 70 va fatto le “scuole grosse”, ma aveva dentro di sé tutta la sapienza di un mondo antico ormai scomparso. Riscoprirne gli aspetti migliori è roba da archeologi del sociale, un lavoro imprescindibile per correggere la rotta sbagliata intrapresa dal nostro mondo malato. Savino Monterisi, “Cronache della restanza”, Riccardo Condò editore, 2020 Collana Il Libraio di Notte / 1 http://www.cronachedellarestanza.it
Ogni numero della rivista è scaricabile gratuitamente in pdf dal sito www.malamente.info dal momento della pubblicazione cartacea del numero successivo 1 copia: 3 euro da 3 copie in poi: 2 euro abbonamento (sostenitore) 4 numeri: 15 euro spedizioni a nostro carico Per abbonamenti, richieste di copie, proposte di articoli, segnalazioni e suggerimenti: malamente@autistici.org
mala mente in questo numero: NÉ COL VIRUS NÉ CON LO STATO 1 L’IMPORTANTE É LA SALUTE! 5 L’EMERGENZA AL PRONTO SOCCORSO DI SENIGALLIA 13 LA PESTE VIRALE IN ITALIA: NUMERI, PAROLE E LETTURE 17 PER UNA SANITÀ PUBBLICA, GRATUITA E UMANIZZATA 27 CRONACA DI UN 25 APRILE PROVVISORIO 37 LA STAFETTA “GASNOMADE“ 41 DIECI PREMESSE PER UNA PANDEMIA 49 BRIGATE VOLONTARIE D’ALTRI TEMPI 57 OGGI VADO IN MONTAGNA 65 L’ARSENALE DI SVOLTE DI FIUNGO 71 50-40 FRECCIANERA 77 SALVIAMO IL PIANETA! SMANTELLIAMO IL DIGITALE! 83 ATTORNO A UNA VITA: MARIA BALZARINI RODA 99 IL PRIMO COMBATTIMENTO 111 LETTURE PER RESISTERE 117
Puoi anche leggere