Semplicità Intervista a Michele Spotti - Connessi all'Opera

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Semplicità Intervista a Michele Spotti - Connessi all'Opera
Estro    e   semplicità    –
Intervista a Michele Spotti
Verdi come baricentro della sua vita musicale, in equilibrio
tra Rossini e il Novecento. A ventisei anni, con impegni
importanti in corso e idee molto chiare, Michele Spotti è una
delle giovani bacchette più interessanti del panorama musicale
non solo italiano. Il 13 marzo prossimo si appresta a
inaugurare con Rigoletto di Verdi il Festival dell’Opera di
Lione. Con lo stesso titolo sarà poi ad Hannover, prima di un
Barbiere di Siviglia a Nancy e del ritorno al Festival della
Valle d’Itria di Martina Franca, che inaugura con la prima
moderna de La rappresaglia di Saverio Mercadante.

Partiamo da Lione, dove possiamo dire che lei è di casa.
È un teatro che mi ha coccolato sin dagli esordi: ho
cominciato qui nel 2016 come assistente di Alberto Zedda, sono
poi tornato con Stefano Montanari: sono figure diametralmente
opposte ma entrambi artisti a cui devo moltissimo per il mio
percorso di crescita. Lo scorso anno ho diretto qui Barbe-
Bleue di Offenbach con la regia di Pelly, ora torno con
Rigoletto che, incredibilmente, manca da questo palco da quasi
quarant’anni. L’aspetto vincente di Lione sta anche nei
dettagli: tutte le componenti del teatro, a cominciare
dall’orchestra fino alla tecnica, sono ad alti livelli, per
cui i risultati sono sempre buoni.

Come sarà la sua lettura di Rigoletto?
Rigoletto è un unicum: la sua struttura architettonica e la
sua organicità formale sono alla base del mio pensiero
interpretativo. Resterò fedele alla partitura con qualche
ricorso alla tradizione in pochissimi momenti, giustificati
dall’azione scenica. La mia interpretazione, in questo momento
della mia vita, sarà brillante, ma ho dovuto lavorare su di me
per una ricerca di respiro e profondità.
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Cosa l’ha più colpita nella scrittura di Verdi?
L’apparente semplicità con cui scrive e la complessità delle
emozioni che riesce a ottenere. Verdi è un concentrato di
espressione e tensione melodica e armonica.

Come procede il lavoro a Lione?
È un’esperienza bellissima, c’è un gruppo eterogeneo, ma molto
affiatato, e tutti siamo animati da un grande rispetto per
l’opera verdiana. Devo anche dire che Roberto Frontali (il
protagonista, ndr) è la persona che più mi ha ispirato in
questa produzione sia per la grandissima esperienza, sia per
l’umiltà che ha avuto nel rimettersi in gioco e trovare
insieme un Rigoletto cucito come un abito su misura.

Una sua opinione sull’eterna querelle tra i sostenitori della
tradizione e dell’innovazione nelle regie.
Credo che anche il regista, come il direttore, debba conoscere
e rispettare la partitura, perché lì c’è scritto tutto. Ciò
detto, sono favorevole alle regie cosiddette moderne purché ci
siano organicità nei    contenuti   e   consequenzialità   tra
intenzioni e fatti.

Nel suo presente e nel suo futuro c’è molto Verdi.
In novembre sarò ad Anversa per Ernani e credo che Rigoletto
ricorrerà spesso nella mia vita: al momento ho in programma
addirittura quattro o cinque produzioni diverse. Penso che
Verdi, e Donizetti con lui, intercettino la summa delle mie
preferenze per l’equilibrio che realizzano tra la frenesia e
il ritmo di Rossini e la melodia e il pathos del Verismo e di
Puccini. Verdi e Donizetti sono autori che sento profondamente
e che mi piace molto dirigere.

E Puccini?
Puccini è un autore estremamente delicato e spesso frainteso,
anche se, per rendergli onore, basterebbe fare quello che
scrive. Ciò detto, costituisce anche una sfida tecnica per il
direttore: soprattutto Bohème, che ho diretto da poco, è una
sorta di saggio di tecnica direttoriale.
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A lei piace anche frequentare il repertorio sinfonico, non
solo quello operistico. Non crede invece che, anche per
ragioni di mercato, sarebbe meglio specializzarsi in un solo
ambito?
Non mi sono mai piaciute le etichette. Secondo me, le due cose
dovrebbero andare di pari passo. La sinfonica è sempre stata
nelle mie corde, anche perché io nasco violinista e ho suonato
in orchestra; inoltre, rispetto all’opera, quello sinfonico è
un repertorio che prevede un approccio molto diverso alla
partitura e, diciamolo, al direttore dà anche una
soddisfazione diversa.

A proposito di sinfonica, ha recentemente diretto la Nona
Sinfonia di Beethoven. Com’è stato?
L’ho studiata parecchi mesi prima di provarla e dirigerla è
stata un’emozione fortissima. Il movimento che mi ha creato
più difficoltà è stato il primo, sia a livello di
concertazione, sia perché da solo dura quanto un’altra
Sinfonia. Spero di poterla dirigere tante volte in carriera
perché con la maturità certi pensieri cambiano.

Prima ha citato Alberto Zedda e Stefano Montanari. Cosa ha
imparato da loro?
Da Zedda la semplicità con cui ci si deve approcciare a una
partitura. Ho assistito a varie prove musicali, aveva
un’energia incredibile, anche in veneranda età, e una passione
costante verso quello che dirigeva. È stato per me una fonte
di ispirazione, anche per la sua umiltà. Da Montanari ho
imparato l’estro di non accontentarsi di ciò che è scritto, ma
anche di inseguire idee a volte folli: esagerare con la
creatività nello studio e poi scremare per creare la propria
interpretazione.

Tra i grandi maestri del passato o del presente c’è qualcuno a
cui guarda in particolare?
Il mio punto di riferimento è Leonard Bernstein: a volte il
gesto non è bellissimo ma incarna la musica in modo
incredibile. Tra quelli di oggi, Gianandrea Noseda, con il
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quale ho seguito un corso, per la carica emotiva e nel
contempo la semplicità che mette nella concertazione.

Come fa un direttore giovane come lei a guadagnarsi
l’attenzione di orchestrali spesso più vecchi?
Mostrarsi preparati è una forma di rispetto per la tua
posizione e per chi hai davanti. Bisogna essere per metà
direttori e per metà psicologi, dunque mostrarsi decisi sulle
proprie posizioni ma anche capaci di adattarsi. Sempre con il
sorriso.

Ha già avuto modo di leggere la partitura de La rappresaglia
di Mercadante, titolo con cui inaugura il 14 luglio il
prossimo Festival della Valle d’Itria?
L’ho già studiata in maniera abbastanza approfondita. Si
tratta di un meraviglioso capolavoro da riscoprire, un mix tra
Rossini e un Donizetti che verrà. L’opera è stata scritta
prima di Don Pasquale ma in certe cabalette presenta una
scrittura donizettiana matura. Il soggetto, poi, è molto
interessante, con uno scambio di identità mai artificioso.
Mercadante è un mago della musica sia dal punto di vista
dell’orchestrazione che per la capacità di inserire
innovazioni pur restando nel linguaggio del melodramma dei
primi 30 anni dell’Ottocento. È molto interessante il fatto
che ci siano molte citazioni rossiniane, in particolare da
Barbiere e Cenerentola. Ne parlavo anche con il musicologo
Francesco Lora, che sta curando l’edizione critica della
partitura: non è “prendersi gioco di”, ma la precisa volontà
di far conoscere certi temi o stilemi rossiniani in Spagna, a
Cadice, dove l’opera andò in scena per la prima volta.

Può anticiparci qualcosa del concerto che dirigerà al Rossini
Opera Festival, con Juan Diego Florez?
Ci saranno inediti di Rossini, sinfonie appartenenti a diversi
momenti della sua carriera, nonché un Pas de deux del
Guillaume Tell. Per quanto riguarda le arie, posso dire che ci
saranno piacevoli sorprese, con arie di appendice da opere
come Matilde, Italiana e Turco.
Semplicità Intervista a Michele Spotti - Connessi all'Opera
Photo credit: Marco Borrelli
Photo credit: Marco Borrelli

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Photo credit: Jonathan Berger
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