3 Il presente e il futuro dell'energia 3.1 Le "guerre dell'energia" e il controllo dei flussi

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Il presente e il futuro dell’energia

3.1
Le “guerre dell’energia” e il controllo dei flussi

Uno degli episodi che, con certezza, ha profondamente segnato
ed influenzato le moderne dinamiche mondiali di valutazione e
determinazione delle politiche di approvvigionamento energetico,
è rappresentato da quello che è comunemente conosciuto come
lo “shock petrolifero” del 1973. Per apprezzare appieno la por-
tata e le conseguenze dell’episodio potrà essere opportuno trac-
ciare brevemente un rapido excursus storico degli avvenimenti
che lo precedettero, onde poter valutare con maggiore chiarez-
za l’azione e la natura degli attori e delle forze in gioco.
All’indomani del termine del primo conflitto mondiale, alcune
compagnie petrolifere occidentali – tra cui certamente è da ri-
cordare la Standard Oil Company – iniziarono ad investire in-
genti capitali nell’esplorazione e nello sviluppo di infrastrutture
in aree sino a poco tempo prima precluse agli stranieri, sia a
causa della loro appartenenza al dominio turco, sia perché, so-
prattutto, ritenute lande aride ed improduttive. I contratti e le
concessioni esplorative venivano ottenuti per diretto intervento
delle potenze coloniali occidentali o, in casi assai limitati, a se-
guito dell’autorizzazione ottenuta da sovrani locali non consci
del potenziale economico delle proprie risorse e, soprattutto,
maggiormente interessati alle immediate ed abbondanti ricchez-
ze derivanti dall’emanazione delle concessioni esplorative ai “ge-
nerosi” investitori stranieri. Questa, in sintesi, la nascita della
predominanza occidentale nelle aree di produzione del medio e
vicino Oriente, sviluppatasi e trasformatasi in breve tempo in
una vera e propria corsa all’oro, sotto il diretto controllo di uno
sparuto gruppo di entità statuarie e societarie.
Le società dell’industria petrolifera statunitense ed europea,
meglio conosciute come “sette sorelle” dal numero delle princi-
pali compagnie partecipanti allo sfruttamento energetico, in bre-
ve tempo riuscirono a determinare, di fatto, un sistema di con-
trollo egemonico delle risorse mondiali, mediante l’adozione di

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una raffinata e complessa strategia che coinvolgeva le strutture
societarie sotto il profilo economico e i governi sotto quello
politico, con forti e radicati legami tra i vertici aziendali e il
“mutevole” contesto politico, in funzione al contempo dell’in-
teresse nazionale ed economico. L’azione delle compagnie pe-
trolifere in aree soggette ad una scarsa, se non nulla, autono-
mia politica dei governi locali e il confuso assetto di equilibri
che caratterizzava l’epoca della decolonizzazione permisero
l’instaurazione di fatto di una sorta di monopolio sia per quan-
to concerne le strategie di esplorazione e produzione, sia per la
parte prettamente economica e finanziaria delle operazioni. I
governi e gli apparati amministrativi ed industriali locali, quin-
di, erano relegati a ricoprire quei ruoli marginali che, tipica-
mente, le potenze coloniali erano solite conferire al potere lo-
cale, favorendo ricche e consenzienti aristocrazie ed impedendo
l’attuazione di processi autonomisti e nazionalistici.
La forte dipendenza, quindi, dei governi o delle amministrazio-
ni locali dalle nazioni occidentali esercitanti la loro influenza sulle
aree interessate, permise nel corso degli anni non solo l’effetti-
vo sfruttamento delle risorse in senso assolutamente favorevole
alle compagnie petrolifere occidentali ma, oltretutto, il ricono-
scimento formale della legittimità delle operazioni tramite la
sottoscrizione di accordi ufficiali di cooperazione e sfruttamen-
to che autorizzavano, e tutelavano, gli operatori.
L’esercizio di un potere di controllo di siffatte dimensioni in
mano alle società petrolifere determinava contestualmente –
seppur non in assenza di problemi e conflitti – l’assunzione da
parte delle nazioni occidentali del potere di indirizzo e deter-
minazione delle politiche di distribuzione e consumo di alcune
fra le più importanti riserve energetiche del mondo, concentran-
do nelle mani di poche nazioni una enorme capacità strategica.
Nei primi anni Sessanta, nel pieno del processo di decoloniz-
zazione ed in una fase di generalizzato e aperto scontro tra i
movimenti indipendentisti e le potenze coloniali occidentali, il
ruolo delle compagnie petrolifere restava protetto dall’evidente
insostituibilità delle stesse nel processo di sfruttamento delle
risorse energetiche. Si faceva largo, inoltre, un primo disordi-
nato tentativo di ideologia aggregante autoctona che ipotizzava,
in nome dell’Islam, ma anche del socialismo, di unire tutti i
popoli arabi contro la minaccia rappresentata dall’Occidente e
dalle sue strategie di controllo politico e militare delle aree pro-

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duttive del mondo. La crisi di Suez, le guerre arabo-israeliane,
il golpe del colonnello Gheddafi in Libia ed altri episodi di pari
valenza strategica non si tradussero, però, in blocchi – od an-
che solo interruzioni – significative dei flussi energetici verso i
mercati di consumo occidentali. I paesi industrializzati, in sin-
tesi, sia per la limitata natura del fenomeno, sia per le ridotte
esigenze di consumo del periodo – almeno in comparazione con
i valori odierni –, non ebbero a patire in modo significativo in
termini energetici dai fenomeni di crisi di quegli anni, laddove
l’opinione pubblica europea ed americana, probabilmente per
la prima volta, scopriva l’esistenza di alcuni paesi dell’area
mediorientale e delle dispute di questi con l’Occidente e con
Israele.
Al progredire del processo di stabilizzazione e consolidamento
delle élite politiche dei paesi delle aree produttrici, l’Occidente
assiste allo sviluppo di più razionali ed articolate forme di
interazione con l’esterno finalizzate al conseguimento di uno
status e di un ruolo che permetta ai paesi in via di sviluppo di
poter abbandonare l’impeto e l’irruenza delle forme di governo
postcoloniali ed adottare, invece, il carisma e la dialettica delle
moderne democrazie. Tutto ciò subisce il pesante condizio-
namento dettato dal crescente clima di tensione derivante dalla
guerra fredda, imponendo nella maggior parte dei casi l’ado-
zione di scelte politiche nell’una o nell’altra sfera di influenza.
Il boom industriale degli anni Sessanta, unitamente allo sforzo
produttivo per un’industria bellica dalle crescenti necessità de-
rivanti da un sempre più aperto e teso confronto bipolare, por-
tano gli Stati Uniti, nei primi anni Settanta, a raggiungere la
sua capacità strutturale nella produzione di greggio. Lo scarso
margine di surplus energetico porta, in conseguenza di ciò, gli
Stati Uniti a constatare l’impossibilità di garantire ai suoi alle-
ati un’adeguata copertura delle scorte, fornendo ai paesi pro-
duttori il pretesto per aumentare il livello di controllo sulla
produzione delle proprie riserve e per dare il via a quelle che,
successivamente, sono state definite come le “guerre dell’ener-
gia”. L’arma del petrolio spinge i paesi esportatori e quelli con-
sumatori verso uno scontro frontale di sempre maggiore in-
tensità, facendo precipitare questi ultimi nella prima vera, gran-
de, crisi energetica mondiale, per la quale l’Occidente non era
in alcun modo preparato e per la cui soluzione dovrà modifi-
care enormemente le politiche strategiche di potenza che sino

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ad allora avevano caratterizzato i piani dei propri stati mag-
giori 1.
È ancora nella memoria di molti l’immagine delle lunghe file
davanti ai distributori di benzina, allarmante segno del proces-
so di crisi che si venne ad instaurare in concomitanza con lo
shock energetico. Per la prima volta le moderne nazioni indu-
strializzate occidentali constatarono l’impotenza delle proprie
strutture politiche ed economiche in un contesto operativo di
natura non bellica, laddove l’ingente potenziale militare non
poteva trovare utilizzo – nella maggior parte dei casi – neanche
quale strumento di pressione.
Lo shock petrolifero del 1973 si verifica in concomitanza con il
conflitto dello Yom Kippur, tra Israele ed i confinanti paesi
arabi, quando gli aderenti al cartello dell’OPEC, quale misura
ritorsiva in supporto al ruolo dei paesi arabi coinvolti nel con-
flitto, decisero di adottare una politica di produzione fortemen-
te restrittiva provocando conseguentemente una vertiginosa
impennata dei prezzi del greggio. Il ruolo ed il potere sino ad
allora in mano alle compagnie petrolifere e, di conseguenza, ai
paesi occidentali, viene drammaticamente ridimensionato in se-
guito all’adozione di una politica autoritaria ed aggressiva da
parte di quei paesi che intendevano così dimostrare la volontà
di determinare autonomamente le logiche e le dinamiche
evolutive della politica nella regione, impedendo di fatto ogni
possibile ingerenza occidentale in questioni considerate come
interne.
Il messaggio per l’Europa e gli Stati Uniti era chiaro: i paesi
esportatori di petrolio e, più in generale, quelli del Nord Afri-
ca e del medio e vicino Oriente non intendevano più ricono-
scere quel ruolo egemone che i paesi e le compagnie occidenta-
li avevano sino ad allora rivestito. In questo contesto, oltretutto,
reputavano la questione israeliana come un affare “interno”,
creato dall’Occidente quando il ruolo ed il potere sulla regione
non era nelle mani della sua legittima autorità, e la cui soluzio-
ne avrebbe dovuto provenire solo ed esclusivamente dal mon-
do arabo.
La lezione che i paesi occidentali trassero dallo shock petrolifero
del 1973 li spinse ad un profondo ridimensionamento e ripensa-
mento delle tradizionali strategie di potenza, sviluppando quella
che di lì a poco divenne la moderna politica internazionale delle
relazioni politiche ed economiche, basata sul principio delle arti-

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colate logiche della dialettica e della mediazione e finalizzata al
raggiungimento degli obiettivi attraverso processi di coesione ed
azione non violenta.
I paesi consumatori di energia predisposero, innanzitutto, una
strategia di approvvigionamento energetico basata essenzialmente
sul principio della differenziazione, cercando di sviluppare le
attività di produzione in una molteplicità di aree del pianeta
che, anche in circostanze di evidente antieconomicità, garantis-
se la disponibilità delle risorse e la parcellizzazione entro limiti
accettabili di sicurezza. La diversificazione avvenne, poi, sia in
termini prettamente geografici che per fonte di energia, cercan-
do di dare impulso alla sperimentazione ed alla produzione di
nuove risorse energetiche per lo sfruttamento in ambito indu-
striale e domestico. Non pochi, in quegli anni, furono i tentati-
vi e gli esperimenti atti alla produzione di energia mediante l’uti-
lizzo delle più disparate risorse e, nella gran parte dei casi, i
risultati furono decisamente insoddisfacenti con un rapporto tra
costi di produzione e quantità prodotte assolutamente al di sotto
di ogni soglia di accettabilità.
Nella realtà dei fatti, comunque, l’austerity energetica si tradus-
se semplicemente in una differenziazione nelle aree di approv-
vigionamento del petrolio, nella crescita dei consumi del carbo-
ne e nel potenziamento delle attività di produzione e consumo
del gas naturale, senza particolari innovazioni in campo tecno-
logico per quanto concerne sia la produzione che il consumo
di energia. Acceso ed intenso, invece, fu il dibattito relativo alla
produzione e all’utilizzo dell’energia nucleare 2, dove l’Italia –
come ben noto – decise di abbandonare il settore trasforman-
do le centrali già attive o in via di completamento 3 ed acqui-
stando dall’estero a costi decisamente maggiori l’energia così
prodotta. Ulteriore significativo risultato delle politiche di esplo-
razione alternativa di quegli anni è la nuova mappatura ener-
getica del pianeta che, grazie al potenziale ruolo rivestito dal
gas naturale, ha consentito una più attenta ed approfondita in-
dagine in termini di risorse e – contestualmente – di modalità
tecnologiche di estrazione, tali da ridefinire in positivo gli inte-
ri valori del potenziale energetico mondiale.
Nel corso degli anni Settanta, quindi, venne fortemente poten-
ziata l’attività di produzione – e conseguentemente di esplora-
zione – nell’area del Mare del Nord, del Centro America e del-
l’Africa equatoriale, facendo diminuire progressivamente la rile-

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vanza del medio Oriente quale area pivotale di produzione de-
gli idrocarburi 4. Le crisi petrolifere costrinsero i leader politici
degli Stati Uniti e dell’Europa a definire in tempi rapidi strate-
gie di reazione atte al contenimento dello stato di crisi e fina-
lizzate al ristabilimento delle normali condizioni di mercato nel
complesso sistema energetico. In questo senso la differenziazione
nell’approvvigionamento energetico costituiva senza dubbio la
più urgente, ma non l’unica, azione da intraprendere al fine di
poter ristabilire le condizioni di equilibrio necessarie al corret-
to funzionamento del comparto industriale.
Ben presto venne ideata e messa in atto una più articolata e
complessa strategia di lungo periodo che, in sostanza, avrebbe
permesso alle potenze industriali occidentali di controllare il
flusso della produzione energetica e le relazioni politiche ad esse
direttamente inerenti. La strategia, seppur mai ufficialmente
palesata o concretamente definita in alcun luogo, prevedeva un
progressivo indebolimento economico e politico dei paesi espor-
tatori mediante l’adozione non solo di provvedimenti atti alla
sensibile riduzione nell’acquisto delle fonti energetiche prodot-
te in loco ma, ben più importante, attraverso un processo di
opposizione politica ed economica mirante all’indebolimento
industriale ed all’isolamento internazionale.
Per i paesi esportatori, inoltre, veniva a profilarsi l’incombente
minaccia di forme di paralisi – più o meno ufficialmente di-
chiarate – nell’approvvigionamento di tecnologia ed infrastrut-
ture di provenienza occidentale per le quali non risultava certo
semplice poter individuare un’alternativa di mercato. Diversi
paesi in via di sviluppo reputarono di poter agevolmente aggi-
rare questo tipo di ostacolo spostando il proprio allineamento
politico nell’area del blocco sovietico, scoprendo però gradual-
mente di avere una controparte il cui “stato di salute” politica
ed economica versava in una iniziale, seppur già grave, crisi. I
sovietici, infatti, non furono in grado né di fornire i grandi
impianti industriali di cui i paesi alleati avevano particolare bi-
sogno 5, né soprattutto quella tecnologia sofisticata di cui solo i
paesi occidentali sembravano essere i detentori.
Un’ulteriore mossa nella strategia statunitense ed europea fu l’ac-
ceso duello ingaggiato con l’OPEC, il cartello dei paesi esporta-
tori delle fonti di energia, per indebolirne il potere e limitarne
il potenziale d’azione. Il disegno politico di reazione al ruolo
dell’OPEC nel mondo consisteva essenzialmente nel creare il

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maggior numero di fratture all’interno della compagine, agendo
localmente su ogni singolo paese dell’Organizzazione.
Gli effetti della politica di diversificazione nell’approvvigiona-
mento delle fonti di energia si concretizzarono in breve tempo
in una drastica riduzione nei volumi del greggio estratto nelle
aree del medio Oriente, nonché dell’indotto economico ad esso
strettamente correlato ed alimentato quasi totalmente dal ruolo
delle società petrolifere occidentali. In tale circostanza i paesi
produttori si vennero a trovare nella difficoltà, se non nell’im-
possibilità, di poter portare a termine gli ambiziosi progetti in-
dustriali e sociali che per più di un decennio avevano caratte-
rizzato i piani di sviluppo dei governi locali. Il prezzo del greg-
gio, oltretutto, veniva ad essere gradualmente ridimensionato –
seppur nell’arco di fluttuazioni anche sensibili – concorrendo a
determinare il ridimensionamento dei bilanci locali. Ai paesi
esportatori, in sintesi, veniva offerta l’alternativa di riconsidera-
re le proprie politiche aggressive sul fronte degli idrocarburi o,
alternativamente, di avviarsi verso l’incerta sorte che si profila-
va per quelle nazioni che sceglievano di adottare una politica
di chiusura verso i mercati di destinazione delle risorse ener-
getiche.
La stessa OPEC cercò di ricompattare le proprie fila adottando
una nuova e più mirata serie di azioni atte al contenimento della
crisi ed al ripristino delle condizioni di vantaggio in seno alla
propria compagine. L’Organizzazione, soprattutto, cercava di ar-
ginare il crescente diffondersi delle crisi e degli scontri tra i
membri, mossi dalle necessità individuali che imponevano l’aper-
tura al dialogo ed al compromesso con le nazioni occidentali.
Nel febbraio del 1981, poi, si verifica una nuova, pericolosa,
impennata del prezzo del petrolio, che raggiunge il costo di 34
dollari al barile, superando di quasi dieci dollari il valore del
1975. I meccanismi di assorbimento e controllo del mercato,
però, questa volta riuscirono ad arginare in breve tempo la cri-
si, portando progressivamente al ribasso il prezzo del petrolio
sino ad arrivare al valore negativo record del maggio 1986 pari
a 10,34 dollari al barile.
Il perdurare della crisi ed il volume costantemente ridotto di
capitali derivanti dalla vendita del greggio impongono all’OPEC
una radicale riorganizzazione interna, dalla quale ne uscirà una
fragile strategia basata sullo sviluppo di un meccanismo di
contenimento e controllo del mercato articolato su una drastica

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politica di riduzione dei volumi della produzione, finalizzata alla
definizione di un sistema di quote nell’ambito di un tetto mas-
simo produttivo.
Nello stesso periodo, però, si venne a delineare nell’area del
Golfo Persico e della penisola arabica una sostanziale modifica-
zione degli assetti politici. Al governo imperiale dello Shah Reza
Pahlavi, in Iran, si sostituì nel 1979 una teocrazia guidata da un
anziano e radicale esponente del clero sciita, l’Ayatollah Ruollah
Khomeini. Il nuovo regime, entrato in rotta di collisione con il
governo degli Stati Uniti reo di aver appoggiato sino all’ultimo
il governo dello Shah, impose una drastica islamizzazione dello
Stato trovandosi da subito in aperta contrapposizione con gli
interessi ed il ruolo di gran parte delle società straniere ope-
ranti sul territorio iraniano. L’occupazione dell’ambasciata ame-
ricana ad opera di un gruppo di studenti islamici – apertamen-
te appoggiati dal governo provvisorio – e la successiva presa in
ostaggio di diverse unità di personale dell’ambasciata stessa,
determina la definitiva chiusura da parte degli Stati Uniti verso
l’Iran.
Il ruolo e la presenza americana nella regione, con la dramma-
tica uscita dall’Iran, subisce un profondo ridimensionamento e
la rivoluzione iraniana finisce per modificare anche in seno agli
stessi paesi dell’area la convinzione della necessità di rivedere il
ruolo e gli obiettivi della fragile coesione che sino ad allora li
aveva legati.
Le monarchie della penisola arabica, soprattutto, iniziarono a
vedere con crescente preoccupazione il modello islamico
iraniano, la sua dottrina ed il continuo tentativo di esportazio-
ne ad opera della classe politica religiosa di Teheran. La gran
parte dei paesi arabi iniziò già nella prima metà degli anni Ot-
tanta a prendere le distanze dall’Iran e ad adottare provvedi-
menti di ordine pubblico e sicurezza al proprio interno onde
evitare le pericolose infiltrazioni di agenti e sobillatori come
avvenuto in Oman, Libano e Sudan. L’Iran, di conseguenza, si
venne a trovare isolato politicamente non solo dall’Occidente
ma anche – con diversa entità – dagli stessi paesi della regione,
messi sulla difensiva dall’enorme potenziale destabilizzante rap-
presentato dal modello dalla rivoluzione iraniana.
L’Arabia Saudita, il paese certamente più ricco della regione,
adottò una particolare strategia tesa a prevenire i potenzialmente
dannosi effetti di un sentimento irredentista di marca islamico-

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sunnita in seno al proprio popolo, adottando una rigida inter-
pretazione coranica, seppur nel contesto di un quadro costitu-
zionale di stampo monarchico. Sotto un altro profilo, invece,
tese a riconsiderare la propria posizione nei confronti dell’Oc-
cidente, aprendo la propria economia al mercato e criticando
apertamente il sistema di autoregolamentazione dell’OPEC e del-
la sua politica di determinazione delle quote, quotidianamente
superate dalla produzione non autorizzata di molti Stati mem-
bri, tra i quali l’Arabia Saudita stessa.
Sfruttando tale pretesto, nel 1985 l’Arabia Saudita denunciò di
non voler più ricoprire il ruolo di potenza “stabilizzatrice” nel
sistema di determinazione dei prezzi del petrolio e, quindi, di
adottare unilateralmente una politica aggressiva destinata alla
riconquista di quel ruolo e quella posizione che da anni perse-
guiva sul mercato. Questa, sostanzialmente, fu la principale causa
nel crollo dei prezzi del petrolio che comportò il raggiungimento
dei valori minimi record del maggio del 1986 e sembrò segnare
la fine dell’OPEC quale organismo di controllo e determinazione
delle strategie di produzione.
La decisione saudita di incrementare la produzione fu presa di
comune accordo con gli Stati Uniti, nel quadro di un sostan-
zioso programma di investimenti atti a rilanciare l’industria del
petrolio e, soprattutto, a permettere la dismissione – o la ridu-
zione – della produzione nelle aree ove questa era giudicata
economicamente svantaggiosa, come ad esempio nel Mare del
Nord.
I positivi effetti per i paesi consumatori derivanti dallo scardi-
namento del sistema di alleanza e coesione in seno ai paesi ara-
bi, furono rappresentati nell’immediato da una sostanziale di-
minuzione del prezzo del petrolio, nell’ambito di un più gene-
rale sistema di equilibrio del mercato, e dalla ripresa delle atti-
vità di esplorazione con la risultante nuova determinazione della
mappa delle riserve energetiche del pianeta, assai meno allar-
mistica di quella diffusa nel decennio precedente.
L’adozione delle strategie economiche di produzione dell’Ara-
bia Saudita condusse rapidamente ad un considerevole ridimen-
sionamento del ruolo dell’OPEC nello scenario internazionale, con
il parziale isolamento anche al suo interno nei confronti dei paesi
maggiormente antioccidentali. Il perdurare dello stato di crisi,
inoltre, permise agli Stati Uniti ed all’Europa la ripresa della
propria politica di investimento nelle nuove aree di produzio-

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ne, con il lancio di ambiziosi progetti e di una nuova politica
di sfruttamento energetico non più legata esclusivamente al pe-
trolio ma anche al gas naturale.
Nonostante ciò le tradizionali aree di produzione del petrolio
restano – per propria scelta – chiuse ad ogni forma di investi-
mento da parte dei paesi occidentali, perdurando tuttora tale
condizione. Il risultato più evidente di questo atteggiamento si
è tradotto, col tempo, in un aumento dei costi di produzione –
soprattutto a causa dell’obsoleta tecnologia in uso – ed una in-
completa mappatura delle risorse energetiche a causa della ri-
dotta, se non nulla, attività esplorativa in alcune aree notoria-
mente ricche di risorse.
È in questo quadro economico internazionale, in cui il mercato
energetico tendeva a tornare sotto il controllo delle compagnie
occidentali, che si vennero a determinare due fondamentali epi-
sodi politici di portata mondiale. Il primo, in ordine cronologi-
co, è rappresentato dalla guerra del Golfo, conflitto che con-
trappose l’Iraq di Saddam Hussein ad una estesa coalizione in-
ternazionale nel 1991 e risoltosi con la disfatta dell’esercito
iracheno e la liberazione del Kuwait. Il secondo è la dissoluzio-
ne dell’Unione Sovietica e la nascita della nuova Russia.
Per quanto concerne il primo episodio, di cui si tratterà mag-
giormente nel prosieguo, verrà semplicemente ricordato in que-
sta sede che la sua rilevanza risiede non tanto nell’episodio
bellico in sé, in cui una potentissima coalizione militare ha avu-
to ragione in breve tempo di un poco più che scalcinato eserci-
to mediorientale 6, bensì nel fatto che gli Stati Uniti riuscirono
a delineare e ad attuare con grande abilità diplomatica una co-
alizione di forze che per la prima volta vedeva riunite al suo
interno anche paesi arabi – tra cui soprattutto la Siria –, nel
comune impegno per la liberazione del Kuwait da parte delle
truppe irachene. Il fatto bellico, sul cui esito non ci furono
dubbi sin dall’inizio, ha rappresentato solo un eccezionale stru-
mento mediatico ad uso e consumo dell’opinione pubblica
mondiale, perseguendo il fine statunitense di imporre quel nuo-
vo ordine mondiale di cui il presidente George Bush Sr parlò
all’indomani del cessate il fuoco con l’Iraq e di cui il figlio oggi
si trova a dover gestire la pesante eredità.
In relazione, invece, al secondo fondamentale episodio politico,
la dissoluzione dell’Unione Sovietica, è necessario precisare in
premessa ad ogni altro argomento qui trattato l’eccezionale va-

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lenza del fatto, in conseguenza del quale l’ordine mondiale ha
subito un pesante disequilibrio conseguentemente al venir meno
del contrappeso politico e militare di una delle due superpo-
tenze operanti nell’ambito di un contesto bipolare. Ciò che appa-
re più rilevante, a distanza di circa dieci anni, è la probabile
impossibilità per gli Stati Uniti di mantenere il proprio ruolo e
l’attuale livello di presenza nel mondo nel medio-lungo perio-
do, in un contesto determinato dalla contrapposizione di po-
tenza legato non più al fattore bellico ma esclusivamente a quello
economico, e nell’ambito del quale le controparti degli Stati
Uniti sono nazioni, od organismi sopranazionali, del tutto avulsi
dalle logiche di penetrazione e controllo del territorio e, anzi,
entro un certo margine costretti a seguire il percorso segnato
dal proprio contesto economico e finanziario entro il quale deb-
bono uniformarsi per il perseguimento degli obiettivi di più
ampia portata 7.
In un quadro di siffatta natura, come già detto, gli interessi oc-
cidentali nell’area del medio Oriente e del Golfo Persico torna-
rono a rappresentare una considerevole quota del bilancio ener-
getico globale, con un repentino aumento nel livello di dipen-
denza da aree così turbolente ed instabili. In particolar modo il
medio Oriente tornò nel 1991 a rappresentare il 42% circa del
totale del fabbisogno energetico occidentale, contro il 37,7% del
1985, con previsioni che si spingono sino a poco più del 50%
per il decennio 2000-2010 8.
Il dissolversi dell’Unione Sovietica e l’indipendenza di tutti gli
Stati ex sovietici dell’Asia centrale, inoltre, ha grandemente ri-
voluzionato gli equilibri che per anni avevano caratterizzato non
solo le relazioni internazionali ma, soprattutto, quelle di natura
economica e finanziaria. È venuto meno, oltretutto, uno storico
alleato di molti paesi per lungo tempo schierati contro le po-
tenze industrializzate occidentali e gli Stati Uniti in primo luo-
go, costringendo tutti i paesi socialisti o, comunque, non alline-
ati a dover rivedere le linee di fondo dei propri indirizzi di
politica estera.
Le repubbliche centro-asiatiche ex sovietiche si sono inserite nel
contesto energetico mondiale proponendosi quale alternativa
all’instabile mondo mediorientale e, grazie anche a valutazioni
estremamente ottimistiche sul proprio potenziale in termini di
riserve, quali veri e propri eden produttivi del futuro. La mag-
gior parte dei paesi dell’area, poi, è decisamente favorevole a

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sciogliere ogni legame di natura politica con la Russia, in favo-
re dell’instaurazione di normali, e proficue, relazioni di tipo
commerciale che permettano l’assunzione di un ruolo autono-
mo e privilegiato che, a tutt’oggi, sembra essere il frutto più di
un eccessivo ottimismo piuttosto che di reali capacità e poten-
zialità.
L’odierna concezione della politica di sicurezza globale svilup-
pata dagli Stati Uniti, e quindi anche quella avente interesse per
l’ambito energetico, ha conferito all’Arabia Saudita un ruolo
decisivo per la determinazione degli equilibri regionali dell’area.
La volontà di mantenere aperti canali di approvvigionamento
energetico a basso costo, quali quelli dell’intera area del medio
Oriente, ha spinto gli Stati Uniti verso l’adozione di una politi-
ca attiva e presenzialista, volta al mantenimento con ogni mez-
zo (anche bellico) degli equilibri attuali. La scarsa convergenza
degli interessi locali, inoltre, ha favorito la recrudescenza di
antiche rivalità e lo spunto per diretti interventi destinati a sot-
tolineare i confini, rigorosamente non territoriali, della capacità
decisionale e di autodeterminazione 9.
Da segnalare, infine, il recente tentativo di riorganizzazione in
seno all’OPEC – seppur sempre sotto il pesante condizionamento
dettato dal ruolo dell’Arabia Saudita – nel tentativo di riporta-
re il prezzo del petrolio entro una “forbice di sicurezza” che
possa fornire garanzie finanziarie di lungo periodo ai paesi espor-
tatori. In tal senso nel gennaio del 2001 il presidente di turno,
il venezuelano Ali Rodriguez, confermava in una conferenza
stampa l’intenzione dei paesi aderenti all’Organizzazione dei
paesi produttori ed esportatori di voler ridurre la produzione
di greggio di un milione di barili al giorno a partire dal febbra-
io dello stesso anno. La notizia, divulgata dagli analisti con lar-
go anticipo, non colse di sorpresa il mercato ed evitò un rialzo
dei prezzi, confermando però l’attuazione della nuova strategia
dell’OPEC finalizzata a garantire il prezzo del greggio entro la
forbice dei 22-28 dollari al barile, impedendo brusche variazio-
ni al ribasso ed evitando crolli del mercato come quelli conse-
guenti alle decisioni di Jakarta del 1997. La decisione attuata
nel gennaio del 2001 – la cui valenza fu esagerata da buona parte
dei media mondiali – rappresentava in realtà da una modesta
riduzione dei volumi di greggio immessi sul mercato, atta al
preventivo controllo delle fluttuazioni e calibrata sapientemente
per non generare conflitti con l’Unione Europea e, ben più

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importante, con gli Stati Uniti d’America. L’ala “dura” dell’OPEC,
quella che chiedeva riduzioni ben più sostanziose, era stata di-
plomaticamente portata a più miti consigli dagli esperti delega-
ti dell’Arabia Saudita, divenuti oramai i veri arbitri del cartello.
Incombe oggi sul potere dell’OPEC, inoltre, l’incognita dell’Iraq di
Saddam Hussein, il cui potenziale energetico rappresenta una va-
riabile economica di cui gli Stati membri percepiscono e valutano
il rischio, per consistenza capace di sconvolgere totalmente gli equi-
libri del mercato energetico e al quale gli Stati Uniti potrebbero
rivolgersi più o meno palesemente, favorendo l’accesso al mercato
del greggio iracheno, probabilmente con la mediazione dei più
moderati paesi europei.
Non sono, quindi, allo stato, preoccupanti le decisioni dell’OPEC
circa le riduzioni nella produzione di greggio da immettere sul
mercato, limitandosi per il momento ad essere costituite da
modesti quantitativi aventi lo scopo di equilibrare il sistema dei
prezzi e permettere ai paesi produttori di permanere entro la
forbice di cui al progetto originario. Non è da escludere, quin-
di, che nel prossimo futuro vengano stabilite nuove periodiche
riduzioni od aggiustamenti – anch’essi di modesta entità – atti
a raggiungere i volumi necessari per garantire un costo al bari-
le non inferiore ai 22 dollari e tamponare così i negativi effetti
del consueto calo stagionale dei consumi nell’emisfero setten-
trionale e nelle altre principali aree di consumo del pianeta.
L’adozione di una politica di tal fatta in seno all’OPEC, inoltre,
potrebbe rappresentare ed essere esplicativa dell’adozione da
parte degli Stati membri di una strategia comune impostata alla
moderazione e risultante, con ogni probabilità, dall’imposizione
della pax saudita sulla maggioranza dei paesi produttori, finaliz-
zata al pesante ridimensionamento dell’ala intransigente del car-
tello.
Ciò che duole segnalare in conclusione, invece, è una inerte
posizione dell’Unione Europea, sempre più frammentata al suo
interno ed apparentemente incapace di cogliere i vantaggi di una
situazione alquanto dinamica e promettente. Alla notizia della
riduzione dell’export di greggio, nel gennaio del 2001, i delega-
ti europei presentarono all’OPEC una mera nota di protesta mo-
tivata dalla circostanza che il costo del greggio al barile non
aveva ancora superato i limiti minimi della forbice.
Un’accorta e mirata azione politica, di concerto con gli Stati
Uniti, per il coinvolgimento nell’arena energetica dell’Iraq, del-

93
l’Iran e della Libia, con il progressivo annullamento delle aree
di frizione e la conseguente rimozione degli attuali limiti politi-
ci strutturali del mercato, avrebbe potuto conferire un rinnova-
to ruolo politico all’Europa avviandola sulla difficile ma neces-
saria strada della definizione di una politica energetica comune
avulsa dalle singole decisioni delle compagnie petrolifere resi-
denti negli Stati dell’Unione.

3.2
Le principali aree di produzione delle fonti di energia

Le grandi concentrazioni di risorse energetiche, per quelli che
sono i valori e le stime sino ad oggi formulati, sono disomoge-
neamente localizzate in poche aree geografiche del pianeta. Li-
mitate riserve energetiche sono presenti pressoché ovunque, ma
il loro sfruttamento viene reso difficile, se non addirittura im-
possibile, dallo scarso potenziale e dagli elevati costi di produ-
zione connessi.
Le aree ove maggiore è la concentrazione di idrocarburi sono
certamente quelle del medio Oriente, dell’Asia centrale, del-
l’America centrale, del Sud-est asiatico e del Mare del Nord,
senza trascurare la circostanza, però, che l’esplorazione di altre
aree del pianeta è stata sino ad oggi di scarsa entità, concen-
trandosi la produzione lì dove già erano state localizzate le ri-
serve e dove veniva reputato economicamente idoneo lo sfrut-
tamento.
È, pertanto, estremamente probabile che molti settori dello scac-
chiere energetico mondiale dove sono oggigiorno localizzate ri-
serve in quantità ritenute modeste possano riservare grandi sor-
prese allorquando le politiche di esplorazione diverranno mas-
sicce e capillari.
Lo scopo di questa sezione non vuole essere quello di delinea-
re una completa e dettagliata mappa delle risorse energetiche
disponibili sul pianeta, bensì quello di fornire un quadro quan-
to più esauriente possibile sullo stato e sulle dinamiche di svi-
luppo delle aree geografiche ove le maggiori concentrazioni di
risorse sembrano oggi essere localizzate.
In quest’ottica, quindi, verranno posti in relazione i fattori
prettamente economici connessi con l’ambito energetico e quel-
li politici legati alle logiche di relazione tra i popoli e gli Stati,

94
cercando di non trascurare tutti quegli elementi di natura glo-
bale che, in ragione dell’interesse suscitato da un settore di
cotale importanza, tendono ad inserirsi nella usuale dinamica
evolutiva degli argomenti trattati.
Maggiore dettaglio, infine, sarà riservato per quelle aree ove la
rilevanza del fattore energetico sarà maggiore, senza in questo
modo voler diminuire la valenza politica ed economica delle
stesse aree in relazione ad altri ambiti economici e politici.

3.2.1. Il Nord Africa e l’Africa sub-sahariana

Le grandi concentrazioni energetiche del continente africano
sono localizzate essenzialmente nell’area settentrionale e centra-
le sub-sahariana, e sono nel loro complesso una delle maggiori
riserve di idrocarburi del pianeta. Una circostanza di non tra-
scurabile importanza è quella rappresentata dal fatto che l’Afri-
ca, quale territorio di dominio coloniale da parte delle grandi
potenze occidentali, è stata largamente esplorata e mappata in
funzione dello sfruttamento delle sue ricche risorse minerarie,
nel corso degli ultimi quattro secoli. Le peculiari condizioni cli-
matiche e geomorfologiche, però, hanno sempre costituito un
pesante ostacolo a tutte le iniziative di esplorazione in funzione
dello sfruttamento e, quindi, la conoscenza delle reali risorse
del continente risulta estremamente limitata.
Le riserve energetiche dell’area settentrionale sono localizzate
essenzialmente nei territori dell’Algeria, della Libia e dell’Egit-
to, ognuno dei quali con peculiarità sue proprie e con strategie
produttive strettamente dipendenti dal complesso di relazioni
determinatesi nel corso del XX secolo.
L’Algeria, in termini energetici, è un paese dalla storia relativa-
mente recente, avendo l’epoca del colonialismo francese ed il
successivo turbolento e sanguinoso periodo della decoloniz-
zazione impedito di fatto, sino alla metà degli anni Cinquanta,
l’attuazione di una sistematica campagna esplorativa. Solo nel
1956 venne individuato il primo giacimento petrolifero, nell’area
di Hassi Messaoud, primo tassello di un importante mosaico
energetico che, seppur nell’ambito di un paese sconvolto da gra-
vi crisi politiche ed istituzionali, veniva lentamente delineandosi.
Le riserve energetiche accertate dell’Algeria ammontano oggi a
9,2 miliardi di barili per il petrolio e 160 Tcf per il gas natura-

95
le, con stime per ulteriori giacimenti di ampia portata che spin-
gono gli analisti di tutto il mondo a considerare l’Algeria ancor
oggi come un paese largamente inesplorato.
Uno dei maggiori ostacoli anche per lo sviluppo di una più
articolata e massiccia politica energetica che possa incrementa-
re – e non di poco – i valori attuali di produzione, è rappre-
sentato dal perdurante stato di crisi in cui versa la politica in-
terna dell’Algeria da circa un decennio. In particolar modo è
acceso lo scontro tra le forze politiche al governo, appoggiate
dalle forze armate, e le frange estremiste del Fronte islamico di
salvezza, partito di ispirazione marcatamente religiosa vincitore
delle elezioni politiche del 1991, successivamente annullate col
pretesto di brogli. Un robusto pacchetto di misure per la
normalizzazione della crisi interna è stato adottato dal presidente
Bouteflika – eletto nel 1999 – nel corso degli ultimi due anni e
lo scontro tra forze governative ed oppositori, nonostante il
perdurare di episodi violenti e di sanguinosi attentati, è note-
volmente calato di intensità. È da riscontrare, purtroppo, l’in-
capacità dell’esecutivo di saper adottare misure economiche e
sociali atte alla reale soluzione dei problemi strutturali del pae-
se, quali la disoccupazione, la creazione di un’industria alterna-
tiva a quella energetica e lo sviluppo di politiche sociali intese
ad alleviare le penose condizioni di vita dei ceti più poveri del
paese.
Il trend di sviluppo che caratterizza l’economia algerina sin dal
1997 ha beneficiato nel corso del 2000 e dei primi mesi del 2001
del positivo effetto derivante dalla crescita dei prezzi del petro-
lio, con un significativo segnale positivo esteso a tutta la sfera
economica del paese. Nel tentativo, inoltre, di dare impulso al-
l’economia dell’energia, il presidente algerino ha pianificato un
esteso programma di interventi atti alla maggiore apertura del
comparto verso i capitali esteri e verso quelli privati. Tale poli-
tica incontra, però, una forte opposizione in seno ai sindacati
dei lavoratori e nei movimenti di opposizione, più per ragioni
connesse ad uno storico confronto politico che per reali moti-
vazioni di ordine economico.
È necessario, in sintesi, che il paese chiuda definitivamente i
conti con il torbido passato sfociato in aperto e sanguinoso scon-
tro nel corso degli anni Novanta, così come nelle intenzioni del
presidente Bouteflika ma anche di gran parte dei leader dei
movimenti di opposizione, logorati da oltre dieci anni di vio-

96
lenze e di clandestinità. In tal senso il potere politico ha mosso
i primi passi aprendo al dialogo ed offrendo una via d’uscita
legata ad una, seppur ancora generica, forma di amnistia la
chiave di una possibile soluzione della crisi. Di certo il proces-
so di normalizzazione in Algeria dovrà passare anche attraverso
una nuova definizione della struttura politica del paese, onde
poter offrire spazio ai movimenti di ispirazione islamica ed a
quelli di opposizione ideologica.
Per quanto concerne la produzione energetica del paese, essa è
largamente concentrata nelle aree desertiche meridionali, in lar-
ga parte definite come “zone di esclusione” dal governo e, per-
tanto, precluse all’ingresso non autorizzato e sotto stretta sor-
veglianza da parte delle forze armate. La protezione degli im-
pianti e del personale straniero operante in loco è stata – non
a torto – ritenuta dalle autorità algerine come una delle più
importanti operazioni nell’ottica della sicurezza e dell’interesse
nazionale, favorendo comunque, anche nei periodi di più acce-
sa crisi, la presenza delle compagnie e del personale straniero.
Più problematica, invece, la protezione della rete di trasporto,
in larghissima parte ubicata in aree desertiche impossibili da
sorvegliare con la presenza fisica di reparti armati. Tra le solu-
zioni adottate figurano quelle locali di interramento e sorveglian-
za aerea e quelle internazionali – spesso neanche confermate
ufficialmente – di monitoraggio randomico via satellite.
I principali legami politici e commerciali dell’Algeria sono cer-
tamente quelli rappresentati dalla Francia, dalla Spagna, dalla
Germania e dall’Italia, destinatarie di circa il 90% della produ-
zione di petrolio (oltre 800.000 barili al giorno) e del 65% di
quella del gas naturale (2,9 Tcf di gas prodotti contro 2,1 Tcf di
gas esportato). L’Italia, in particolar modo, rappresenta una delle
più importanti – se non la più importante, attualmente –
controparti commerciali dell’Algeria, a cui il paese è legata da
importanti accordi per la produzione e per il trasporto del gas
naturale attraverso la rete pipeline denominata Transmed, che
collega le aree di produzione del meridione algerino all’Italia (e
poi alla Slovenia) lungo un percorso di 667 miglia che attraver-
sa la Tunisia e raggiunge la Sicilia con un lungo tratto sottoma-
rino. La capacità complessiva del Transmed è pari a 2,3 Bcf/d
anche se appare sempre più evidente la disomogeneità nei flus-
si di trasporto imposta dalla strozzatura del tratto sottomarino,
dove da più parti è stata segnalata la necessità di un raddoppio

97
nelle condutture. Un ulteriore importante snodo per il traspor-
to del gas, poi, è quello che collega i giacimenti di Hassi R’Mel
a Cordova, in Spagna, attraverso il Marocco, Gibilterra ed il
Portogallo, lungo una direttrice di 168 miglia che va a collegarsi
con le rete di distribuzione spagnola, terminando nella rete cen-
trale europea.
Le attività energetiche algerine sono controllate dalle compagnie
statali Sonatrach e Sonelgas, rispettivamente dedicate al segmento
petrolifero ed a quello gasifero, per le quali il governo intende-
rebbe attivare un ristretto processo di privatizzazioni che inte-
ressi le compagnie sussidiarie non fondamentali. Le attività del-
le compagnie sono localizzate essenzialmente nelle aree di Hassi
Messaoud, Zotti e Gessi al-Agreb per il petrolio ed in quelle di
Hassi R’Mel, Rhourde Nouss e Salah per il gas naturale.
Parimenti importante in Nord Africa sotto il profilo energetico
è la Libia che, con riserve accertate di petrolio per 30 miliardi
di barili, rappresenta senza dubbio uno dei paesi più ricchi di
risorse dell’intera area. La Libia, come già dettagliatamente de-
scritto nel primo capitolo, ha consegnato nel 1989 i due presun-
ti attentatori del B-747 della Pan Am esploso in volo nel 1988,
ottenendo l’immediata sospensione delle sanzioni decretate a suo
tempo dall’ONU quando il colonnello Gheddafi si era ripetuta-
mente rifiutato di collaborare alle indagini sull’attentato. Uno
dei primi effetti di questa manovra è stato certamente quello di
attirare nuovamente verso il mercato energetico libico l’interes-
se delle compagnie petrolifere straniere, rivitalizzando il più
importante e vitale settore economico del paese. La Libia, in-
fatti, dipende per il 95-96% del proprio reddito nazionale dai
ricavi derivanti dalla vendita del petrolio e nel corso degli ulti-
mi anni aveva pesantemente sofferto, oltre che per l’effetto pro-
vocato dalle sanzioni, a causa del continuo diminuire del prez-
zo del petrolio.
I progetti per la diversificazione dell’industria nazionale in sen-
so alternativo a quello energetico non hanno, finora prodotto
risultati degni di nota ed il governo di Tripoli è oggi più che
mai intenzionato a modificare la propria strategia internaziona-
le – un tempo basata sul concetto di potenza e mirante all’eser-
cizio del potere di controllo ed indirizzo nella regione sulla base
di un utopistico progetto di coesione tra Stati arabi, di cui il
colonnello Gheddafi si era sempre fatto promotore e finanziatore
– adottando politiche di cooperazione con i paesi del Maghreb,

98
del Mediterraneo e dell’Africa sub-sahariana in settori quali il
turismo, la pesca e l’agricoltura.
Il complesso ed articolato – nonché misterioso – processo di
trasformazione dello Stato voluto da Gheddafi ed annunciato
nel marzo del 2000 prevede, oltre alla radicale trasformazione
dello Stato mediante devoluzione di molte cariche e molti po-
teri alle entità locali, una impressionante serie di faraoniche
opere pubbliche destinate al duplice obiettivo di rilanciare l’eco-
nomia, anche mediante l’ingresso di capitali stranieri nell’esecu-
zione delle infrastrutture, ed alleviare la dipendenza della Libia
dai prodotti esteri, dando impulso – soprattutto nel settore agri-
colo – alla produzione nazionale. Uno dei più ambiziosi pro-
getti in tal senso è senza dubbio il Grande Fiume, una ciclopica
opera destinata a trasportare acqua dalle falde sotterranee in
pieno deserto sino al mare, irrigando al tempo stesso, mediante
un’articolata serie di canali, una estesa zona oggi desertica.
Con l’abolizione del ministero per l’Energia la National Oil
Company, compagnia di Stato per lo sfruttamento delle risorse
energetiche, si trova oggi a rivestire il particolare e fondamen-
tale compito di indirizzo nella determinazione delle politiche di
sviluppo energetico del paese, trattando in modo diretto e defi-
nendo in prima persona gli accordi e le strategie a tutti i livelli
negoziali con l’estero.
Il partner commerciale primario della Libia è, senz’ombra di
dubbio, l’Italia che opera nel paese sin dal 1959, seguito dalla
Germania, dalla Francia, dalla Spagna e dalla Gran Bretagna.
Con la sospensione delle sanzioni internazionali, però, le com-
pagnie petrolifere statunitensi non hanno tardato a manifestare
il loro interesse per le risorse energetiche del paese che furono
costrette ad abbandonare alla metà degli anni Ottanta e nel
quale ipotizzano di tornare in tempi considerevolmente brevi.
Lo stesso presidente della NOC, nel 2000, ha confermato la di-
sponibilità della Libia ad operare con le compagnie statunitensi
nell’ambito del medesimo piano di concessioni entro cui le stesse
operavano nel 1986, anno in cui per ordine del presidente degli
Stati Uniti Ronald Reagan, l’ultima società USA lasciò il suolo
libico.
Le riserve petrolifere libiche sono concentrate essenzialmente in
tre grandi aree localizzate ad est (sede dei giacimenti giant
Intisar, Nafoura-Augila, Amal, Bu Attifel ed altri), ad ovest
(Dahra-Hofra, Bahi, Baida ecc.) e nel centro-nord (sede dei gia-

99
cimenti giant Defa-Waha e Nasser). La produzione libica di
petrolio, pari a circa 1,45 milioni di barili al giorno – con un
export di circa 1,2 mbbl/d – genera entrate in valuta stimate
intorno ai 10,5 miliardi di dollari per l’anno 2001.
Decisamente meno sviluppata, invece, l’attività di produzione del
gas naturale, del quale la Libia può disporre di riserve stimate
per un valore di circa 46 Tcf, a fronte di una produzione che
nel 1999 era di poco superiore a 0,25 Tcf. Lo scarso sfruttamen-
to del potenziale gasifero della Libia 10 è dovuto ai parimenti
minimi investimenti fatti in tal senso dalle compagnie straniere,
concentrate con maggiore interesse sulle riserve petrolifere ed
ostacolate, comunque, dal pesante clima determinatosi durante
il periodo delle sanzioni e dalle ingenti aliquote fiscali imposte
sulle attività di esplorazione e produzione. Il potenziale rappre-
sentato dal gas libico, comunque, non resta inosservato ed è,
anzi, oggetto di numerosi progetti di sfruttamento, tra i quali
in particolare due, entrambi italiani, meritano attenzione. Il pri-
mo, per lo sfruttamento delle riserve di gas localizzate nelle aree
occidentali del paese 11 e per le quali è già stata definita una
joint venture tra l’AGIP 12 e la NOC, prevede – tramite l’italiana
Edison – di produrre e convogliare verso l’Italia 140 Bcf di gas
all’anno 13 attraverso una pipeline sottomarina che, lungo un
percorso di 370 miglia, raggiunga le coste della Sicilia sud-orien-
tale e si colleghi alla preesistente struttura Transmed.
Un ulteriore progetto, invece, portato avanti dall’AGIP ed anco-
ra in fase di valutazione, concerne lo sfruttamento e la connes-
sione delle riserve energetiche libiche ed egiziane ed il successi-
vo trasporto attraverso una rete di pipeline verso i mercati di
consumo ed intermedi sul suolo italiano.
Penalizzata negli anni in cui l’embargo ha limitato il suo poten-
ziale economico rappresentato dalle fonti di energia, la Libia
cerca oggi di guadagnare terreno sviluppando con la maggiore
capillarità possibile non solo le sue riserve energetiche ma, so-
prattutto, la sua rete di connessioni al sistema dei trasporti.
Diversi, infatti, i progetti allo studio alternativi alle proposte
italiane, interessanti per la Libia soprattutto in considerazione
del fatto che le proposte italiane prevedono la realizzazione di
impianti ad hoc con lunghe percorrenze sottomarine, con le
connesse difficoltà di realizzazione, mentre altri progetti con la
Tunisia, l’Algeria, il Marocco e la Spagna potrebbero essere più
facilmente realizzabili semplicemente raccordando le preesistenti

100
strutture di trasporto già operative nei vari paesi, accelerando i
tempi per lo sfruttamento delle ingenti riserve.
In quest’ottica, quindi, la Libia oggi deve potersi saper reinserire
nel tessuto economico del Mediterraneo abbandonando le logi-
che politiche che da sempre avevano caratterizzato la politica
di Gheddafi, dimostrando ai paesi occidentali di essere pronta
ad una cooperazione economica ed industriale non soggetta alle
impennate politiche che per anni hanno rappresentato le rela-
zioni internazionali di Tripoli.
Un cenno, con riferimento all’area del Nord Africa, merita l’Egit-
to, paese dalle ingenti risorse energetiche e dal prodigioso pro-
gresso economico compiuto nel corso degli anni Novanta, peri-
odo in cui le riforme e le privatizzazioni attuate sotto la presi-
denza di Hosni Mubarak hanno prodotto significativi migliora-
menti sulla bilancia commerciale del paese, rilanciando l’econo-
mia e dando impulso agli investimenti stranieri.
La diversificazione industriale attuata per contenere i periodici
e stagionali effetti connessi alla principale risorsa economica del
paese, l’energia, si sono tradotti in Egitto in una reale crescita
del settore turistico ed in una più proficua gestione dei pedag-
gi nel Canale di Suez 14, crocevia di interesse strategico prima-
rio nel settore dei trasporti, energetici in primo luogo. Questi
iniziali progressi in campo economico costituiscono uno dei mo-
tivi di ottimismo nella valutazione complessiva di medio e lun-
go periodo del paese, oggi più che mai impegnato nella ricerca
di una soluzione ai suoi problemi strutturali quali la disoccupa-
zione e la trasformazione del sistema economico nazionale, scon-
volto oltretutto da incontrollabili flussi migratori verso l’estero
e verso la capitale, Il Cairo, una delle più popolose città del
mondo.
L’Egitto ha riserve petrolifere accertate per quasi 3 miliardi di
barili, con una produzione di circa 720.000 barili al giorno as-
sorbita per intero dalle esigenze di consumo interne 15. La pro-
duzione petrolifera è sensibilmente decresciuta nel corso degli
ultimi anni a causa del raggiungimento dei valori di maturità
per alcuni dei principali giacimenti 16. Al contempo sono aumen-
tati i consumi interni e, con un rateo di crescita della domanda
pari a quello odierno, l’Egitto potrebbe divenire un importato-
re di petrolio entro i primi anni del prossimo decennio.
Gli interessi italiani in Egitto, con riferimento al settore petro-
lifero, sono essenzialmente collegati alla joint venture Petrobel,

101
tra EGPC ed AGIP per lo sfruttamento dei giacimenti di Belayim
– nell’area del Golfo di Suez – ed alla concessione ottenuta
dall’AGIP per l’esplorazione dell’area offshore nel tratto di mare
Mediterraneo adiacente le coste settentrionali egiziane.
Le risorse energetiche di maggior interesse per l’Egitto, invece,
sono rappresentate dal gas naturale, con stime per quasi 43 Tcf 17
a fronte di una ancor modesta attività di produzione pari a 0,5
Tcf interamente assorbita dalla domanda interna. Le aree mag-
giormente ricche di gas, allo stato attuale delle esplorazioni, sono
quelle del delta del Nilo e nell’area offshore immediatamente
antistante, e quelle desertiche ad ovest.
In ambito gasifero l’Italia è certamente il partner di maggior
rilievo attualmente operante in Egitto, tramite la sussidiaria
dell’AGIP IEOC – International Egyptian Oil Company – impe-
gnata nelle attività di esplorazione e produzione in tutte le aree
di interesse energetico del paese. Anche un’altra società italia-
na, la Edison, ha sviluppato intense ed importanti attività in
Egitto, concentrando le sue operazioni nell’area offshore del
delta del Nilo e mediante la partecipazione alla realizzazione di
una rete di trasporto nella parte settentrionale del paese essen-
zialmente destinata ad alimentare la crescente domanda interna.
L’Egitto, inoltre, potrebbe rappresentare un importante tassello
nel complesso mosaico dei rapporti tra Stati arabi ed Israele,
sviluppando un progetto, già allo studio, che consenta al gas
egiziano di approvvigionare Israele tramite una rete pipeline la
cui costruzione potrebbe essere agevolata da un primo tratto di
condotta già realizzato ad opera del gruppo ENI. La crisi da
tempo in atto con l’autorità palestinese nei territori occupati e
l’ambiguo comportamento israeliano nei confronti dell’Egitto a
seguito della scoperta di un giacimento potenzialmente promet-
tente al largo delle coste dello Stato ebraico hanno messo, co-
munque, seriamente in discussione l’opportunità di sviluppo di
tale progetto, lasciando vago il calendario dei lavori.

L’Africa sub-sahariana, al pari dell’area settentrionale del conti-
nente, è particolarmente ricca di risorse energetiche, concentra-
te per lo più entro i confini di tre Stati, la Nigeria, l’Angola ed
il Gabon.
La Nigeria non solo è il più importante dei paesi produttori
dell’Africa sub-sahariana ma, soprattutto, è uno dei principali
fornitori dei paesi dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, con

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