3 Il presente e il futuro dell'energia 3.1 Le "guerre dell'energia" e il controllo dei flussi
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3 Il presente e il futuro dell’energia 3.1 Le “guerre dell’energia” e il controllo dei flussi Uno degli episodi che, con certezza, ha profondamente segnato ed influenzato le moderne dinamiche mondiali di valutazione e determinazione delle politiche di approvvigionamento energetico, è rappresentato da quello che è comunemente conosciuto come lo “shock petrolifero” del 1973. Per apprezzare appieno la por- tata e le conseguenze dell’episodio potrà essere opportuno trac- ciare brevemente un rapido excursus storico degli avvenimenti che lo precedettero, onde poter valutare con maggiore chiarez- za l’azione e la natura degli attori e delle forze in gioco. All’indomani del termine del primo conflitto mondiale, alcune compagnie petrolifere occidentali – tra cui certamente è da ri- cordare la Standard Oil Company – iniziarono ad investire in- genti capitali nell’esplorazione e nello sviluppo di infrastrutture in aree sino a poco tempo prima precluse agli stranieri, sia a causa della loro appartenenza al dominio turco, sia perché, so- prattutto, ritenute lande aride ed improduttive. I contratti e le concessioni esplorative venivano ottenuti per diretto intervento delle potenze coloniali occidentali o, in casi assai limitati, a se- guito dell’autorizzazione ottenuta da sovrani locali non consci del potenziale economico delle proprie risorse e, soprattutto, maggiormente interessati alle immediate ed abbondanti ricchez- ze derivanti dall’emanazione delle concessioni esplorative ai “ge- nerosi” investitori stranieri. Questa, in sintesi, la nascita della predominanza occidentale nelle aree di produzione del medio e vicino Oriente, sviluppatasi e trasformatasi in breve tempo in una vera e propria corsa all’oro, sotto il diretto controllo di uno sparuto gruppo di entità statuarie e societarie. Le società dell’industria petrolifera statunitense ed europea, meglio conosciute come “sette sorelle” dal numero delle princi- pali compagnie partecipanti allo sfruttamento energetico, in bre- ve tempo riuscirono a determinare, di fatto, un sistema di con- trollo egemonico delle risorse mondiali, mediante l’adozione di 81
una raffinata e complessa strategia che coinvolgeva le strutture societarie sotto il profilo economico e i governi sotto quello politico, con forti e radicati legami tra i vertici aziendali e il “mutevole” contesto politico, in funzione al contempo dell’in- teresse nazionale ed economico. L’azione delle compagnie pe- trolifere in aree soggette ad una scarsa, se non nulla, autono- mia politica dei governi locali e il confuso assetto di equilibri che caratterizzava l’epoca della decolonizzazione permisero l’instaurazione di fatto di una sorta di monopolio sia per quan- to concerne le strategie di esplorazione e produzione, sia per la parte prettamente economica e finanziaria delle operazioni. I governi e gli apparati amministrativi ed industriali locali, quin- di, erano relegati a ricoprire quei ruoli marginali che, tipica- mente, le potenze coloniali erano solite conferire al potere lo- cale, favorendo ricche e consenzienti aristocrazie ed impedendo l’attuazione di processi autonomisti e nazionalistici. La forte dipendenza, quindi, dei governi o delle amministrazio- ni locali dalle nazioni occidentali esercitanti la loro influenza sulle aree interessate, permise nel corso degli anni non solo l’effetti- vo sfruttamento delle risorse in senso assolutamente favorevole alle compagnie petrolifere occidentali ma, oltretutto, il ricono- scimento formale della legittimità delle operazioni tramite la sottoscrizione di accordi ufficiali di cooperazione e sfruttamen- to che autorizzavano, e tutelavano, gli operatori. L’esercizio di un potere di controllo di siffatte dimensioni in mano alle società petrolifere determinava contestualmente – seppur non in assenza di problemi e conflitti – l’assunzione da parte delle nazioni occidentali del potere di indirizzo e deter- minazione delle politiche di distribuzione e consumo di alcune fra le più importanti riserve energetiche del mondo, concentran- do nelle mani di poche nazioni una enorme capacità strategica. Nei primi anni Sessanta, nel pieno del processo di decoloniz- zazione ed in una fase di generalizzato e aperto scontro tra i movimenti indipendentisti e le potenze coloniali occidentali, il ruolo delle compagnie petrolifere restava protetto dall’evidente insostituibilità delle stesse nel processo di sfruttamento delle risorse energetiche. Si faceva largo, inoltre, un primo disordi- nato tentativo di ideologia aggregante autoctona che ipotizzava, in nome dell’Islam, ma anche del socialismo, di unire tutti i popoli arabi contro la minaccia rappresentata dall’Occidente e dalle sue strategie di controllo politico e militare delle aree pro- 82
duttive del mondo. La crisi di Suez, le guerre arabo-israeliane, il golpe del colonnello Gheddafi in Libia ed altri episodi di pari valenza strategica non si tradussero, però, in blocchi – od an- che solo interruzioni – significative dei flussi energetici verso i mercati di consumo occidentali. I paesi industrializzati, in sin- tesi, sia per la limitata natura del fenomeno, sia per le ridotte esigenze di consumo del periodo – almeno in comparazione con i valori odierni –, non ebbero a patire in modo significativo in termini energetici dai fenomeni di crisi di quegli anni, laddove l’opinione pubblica europea ed americana, probabilmente per la prima volta, scopriva l’esistenza di alcuni paesi dell’area mediorientale e delle dispute di questi con l’Occidente e con Israele. Al progredire del processo di stabilizzazione e consolidamento delle élite politiche dei paesi delle aree produttrici, l’Occidente assiste allo sviluppo di più razionali ed articolate forme di interazione con l’esterno finalizzate al conseguimento di uno status e di un ruolo che permetta ai paesi in via di sviluppo di poter abbandonare l’impeto e l’irruenza delle forme di governo postcoloniali ed adottare, invece, il carisma e la dialettica delle moderne democrazie. Tutto ciò subisce il pesante condizio- namento dettato dal crescente clima di tensione derivante dalla guerra fredda, imponendo nella maggior parte dei casi l’ado- zione di scelte politiche nell’una o nell’altra sfera di influenza. Il boom industriale degli anni Sessanta, unitamente allo sforzo produttivo per un’industria bellica dalle crescenti necessità de- rivanti da un sempre più aperto e teso confronto bipolare, por- tano gli Stati Uniti, nei primi anni Settanta, a raggiungere la sua capacità strutturale nella produzione di greggio. Lo scarso margine di surplus energetico porta, in conseguenza di ciò, gli Stati Uniti a constatare l’impossibilità di garantire ai suoi alle- ati un’adeguata copertura delle scorte, fornendo ai paesi pro- duttori il pretesto per aumentare il livello di controllo sulla produzione delle proprie riserve e per dare il via a quelle che, successivamente, sono state definite come le “guerre dell’ener- gia”. L’arma del petrolio spinge i paesi esportatori e quelli con- sumatori verso uno scontro frontale di sempre maggiore in- tensità, facendo precipitare questi ultimi nella prima vera, gran- de, crisi energetica mondiale, per la quale l’Occidente non era in alcun modo preparato e per la cui soluzione dovrà modifi- care enormemente le politiche strategiche di potenza che sino 83
ad allora avevano caratterizzato i piani dei propri stati mag- giori 1. È ancora nella memoria di molti l’immagine delle lunghe file davanti ai distributori di benzina, allarmante segno del proces- so di crisi che si venne ad instaurare in concomitanza con lo shock energetico. Per la prima volta le moderne nazioni indu- strializzate occidentali constatarono l’impotenza delle proprie strutture politiche ed economiche in un contesto operativo di natura non bellica, laddove l’ingente potenziale militare non poteva trovare utilizzo – nella maggior parte dei casi – neanche quale strumento di pressione. Lo shock petrolifero del 1973 si verifica in concomitanza con il conflitto dello Yom Kippur, tra Israele ed i confinanti paesi arabi, quando gli aderenti al cartello dell’OPEC, quale misura ritorsiva in supporto al ruolo dei paesi arabi coinvolti nel con- flitto, decisero di adottare una politica di produzione fortemen- te restrittiva provocando conseguentemente una vertiginosa impennata dei prezzi del greggio. Il ruolo ed il potere sino ad allora in mano alle compagnie petrolifere e, di conseguenza, ai paesi occidentali, viene drammaticamente ridimensionato in se- guito all’adozione di una politica autoritaria ed aggressiva da parte di quei paesi che intendevano così dimostrare la volontà di determinare autonomamente le logiche e le dinamiche evolutive della politica nella regione, impedendo di fatto ogni possibile ingerenza occidentale in questioni considerate come interne. Il messaggio per l’Europa e gli Stati Uniti era chiaro: i paesi esportatori di petrolio e, più in generale, quelli del Nord Afri- ca e del medio e vicino Oriente non intendevano più ricono- scere quel ruolo egemone che i paesi e le compagnie occidenta- li avevano sino ad allora rivestito. In questo contesto, oltretutto, reputavano la questione israeliana come un affare “interno”, creato dall’Occidente quando il ruolo ed il potere sulla regione non era nelle mani della sua legittima autorità, e la cui soluzio- ne avrebbe dovuto provenire solo ed esclusivamente dal mon- do arabo. La lezione che i paesi occidentali trassero dallo shock petrolifero del 1973 li spinse ad un profondo ridimensionamento e ripensa- mento delle tradizionali strategie di potenza, sviluppando quella che di lì a poco divenne la moderna politica internazionale delle relazioni politiche ed economiche, basata sul principio delle arti- 84
colate logiche della dialettica e della mediazione e finalizzata al raggiungimento degli obiettivi attraverso processi di coesione ed azione non violenta. I paesi consumatori di energia predisposero, innanzitutto, una strategia di approvvigionamento energetico basata essenzialmente sul principio della differenziazione, cercando di sviluppare le attività di produzione in una molteplicità di aree del pianeta che, anche in circostanze di evidente antieconomicità, garantis- se la disponibilità delle risorse e la parcellizzazione entro limiti accettabili di sicurezza. La diversificazione avvenne, poi, sia in termini prettamente geografici che per fonte di energia, cercan- do di dare impulso alla sperimentazione ed alla produzione di nuove risorse energetiche per lo sfruttamento in ambito indu- striale e domestico. Non pochi, in quegli anni, furono i tentati- vi e gli esperimenti atti alla produzione di energia mediante l’uti- lizzo delle più disparate risorse e, nella gran parte dei casi, i risultati furono decisamente insoddisfacenti con un rapporto tra costi di produzione e quantità prodotte assolutamente al di sotto di ogni soglia di accettabilità. Nella realtà dei fatti, comunque, l’austerity energetica si tradus- se semplicemente in una differenziazione nelle aree di approv- vigionamento del petrolio, nella crescita dei consumi del carbo- ne e nel potenziamento delle attività di produzione e consumo del gas naturale, senza particolari innovazioni in campo tecno- logico per quanto concerne sia la produzione che il consumo di energia. Acceso ed intenso, invece, fu il dibattito relativo alla produzione e all’utilizzo dell’energia nucleare 2, dove l’Italia – come ben noto – decise di abbandonare il settore trasforman- do le centrali già attive o in via di completamento 3 ed acqui- stando dall’estero a costi decisamente maggiori l’energia così prodotta. Ulteriore significativo risultato delle politiche di esplo- razione alternativa di quegli anni è la nuova mappatura ener- getica del pianeta che, grazie al potenziale ruolo rivestito dal gas naturale, ha consentito una più attenta ed approfondita in- dagine in termini di risorse e – contestualmente – di modalità tecnologiche di estrazione, tali da ridefinire in positivo gli inte- ri valori del potenziale energetico mondiale. Nel corso degli anni Settanta, quindi, venne fortemente poten- ziata l’attività di produzione – e conseguentemente di esplora- zione – nell’area del Mare del Nord, del Centro America e del- l’Africa equatoriale, facendo diminuire progressivamente la rile- 85
vanza del medio Oriente quale area pivotale di produzione de- gli idrocarburi 4. Le crisi petrolifere costrinsero i leader politici degli Stati Uniti e dell’Europa a definire in tempi rapidi strate- gie di reazione atte al contenimento dello stato di crisi e fina- lizzate al ristabilimento delle normali condizioni di mercato nel complesso sistema energetico. In questo senso la differenziazione nell’approvvigionamento energetico costituiva senza dubbio la più urgente, ma non l’unica, azione da intraprendere al fine di poter ristabilire le condizioni di equilibrio necessarie al corret- to funzionamento del comparto industriale. Ben presto venne ideata e messa in atto una più articolata e complessa strategia di lungo periodo che, in sostanza, avrebbe permesso alle potenze industriali occidentali di controllare il flusso della produzione energetica e le relazioni politiche ad esse direttamente inerenti. La strategia, seppur mai ufficialmente palesata o concretamente definita in alcun luogo, prevedeva un progressivo indebolimento economico e politico dei paesi espor- tatori mediante l’adozione non solo di provvedimenti atti alla sensibile riduzione nell’acquisto delle fonti energetiche prodot- te in loco ma, ben più importante, attraverso un processo di opposizione politica ed economica mirante all’indebolimento industriale ed all’isolamento internazionale. Per i paesi esportatori, inoltre, veniva a profilarsi l’incombente minaccia di forme di paralisi – più o meno ufficialmente di- chiarate – nell’approvvigionamento di tecnologia ed infrastrut- ture di provenienza occidentale per le quali non risultava certo semplice poter individuare un’alternativa di mercato. Diversi paesi in via di sviluppo reputarono di poter agevolmente aggi- rare questo tipo di ostacolo spostando il proprio allineamento politico nell’area del blocco sovietico, scoprendo però gradual- mente di avere una controparte il cui “stato di salute” politica ed economica versava in una iniziale, seppur già grave, crisi. I sovietici, infatti, non furono in grado né di fornire i grandi impianti industriali di cui i paesi alleati avevano particolare bi- sogno 5, né soprattutto quella tecnologia sofisticata di cui solo i paesi occidentali sembravano essere i detentori. Un’ulteriore mossa nella strategia statunitense ed europea fu l’ac- ceso duello ingaggiato con l’OPEC, il cartello dei paesi esporta- tori delle fonti di energia, per indebolirne il potere e limitarne il potenziale d’azione. Il disegno politico di reazione al ruolo dell’OPEC nel mondo consisteva essenzialmente nel creare il 86
maggior numero di fratture all’interno della compagine, agendo localmente su ogni singolo paese dell’Organizzazione. Gli effetti della politica di diversificazione nell’approvvigiona- mento delle fonti di energia si concretizzarono in breve tempo in una drastica riduzione nei volumi del greggio estratto nelle aree del medio Oriente, nonché dell’indotto economico ad esso strettamente correlato ed alimentato quasi totalmente dal ruolo delle società petrolifere occidentali. In tale circostanza i paesi produttori si vennero a trovare nella difficoltà, se non nell’im- possibilità, di poter portare a termine gli ambiziosi progetti in- dustriali e sociali che per più di un decennio avevano caratte- rizzato i piani di sviluppo dei governi locali. Il prezzo del greg- gio, oltretutto, veniva ad essere gradualmente ridimensionato – seppur nell’arco di fluttuazioni anche sensibili – concorrendo a determinare il ridimensionamento dei bilanci locali. Ai paesi esportatori, in sintesi, veniva offerta l’alternativa di riconsidera- re le proprie politiche aggressive sul fronte degli idrocarburi o, alternativamente, di avviarsi verso l’incerta sorte che si profila- va per quelle nazioni che sceglievano di adottare una politica di chiusura verso i mercati di destinazione delle risorse ener- getiche. La stessa OPEC cercò di ricompattare le proprie fila adottando una nuova e più mirata serie di azioni atte al contenimento della crisi ed al ripristino delle condizioni di vantaggio in seno alla propria compagine. L’Organizzazione, soprattutto, cercava di ar- ginare il crescente diffondersi delle crisi e degli scontri tra i membri, mossi dalle necessità individuali che imponevano l’aper- tura al dialogo ed al compromesso con le nazioni occidentali. Nel febbraio del 1981, poi, si verifica una nuova, pericolosa, impennata del prezzo del petrolio, che raggiunge il costo di 34 dollari al barile, superando di quasi dieci dollari il valore del 1975. I meccanismi di assorbimento e controllo del mercato, però, questa volta riuscirono ad arginare in breve tempo la cri- si, portando progressivamente al ribasso il prezzo del petrolio sino ad arrivare al valore negativo record del maggio 1986 pari a 10,34 dollari al barile. Il perdurare della crisi ed il volume costantemente ridotto di capitali derivanti dalla vendita del greggio impongono all’OPEC una radicale riorganizzazione interna, dalla quale ne uscirà una fragile strategia basata sullo sviluppo di un meccanismo di contenimento e controllo del mercato articolato su una drastica 87
politica di riduzione dei volumi della produzione, finalizzata alla definizione di un sistema di quote nell’ambito di un tetto mas- simo produttivo. Nello stesso periodo, però, si venne a delineare nell’area del Golfo Persico e della penisola arabica una sostanziale modifica- zione degli assetti politici. Al governo imperiale dello Shah Reza Pahlavi, in Iran, si sostituì nel 1979 una teocrazia guidata da un anziano e radicale esponente del clero sciita, l’Ayatollah Ruollah Khomeini. Il nuovo regime, entrato in rotta di collisione con il governo degli Stati Uniti reo di aver appoggiato sino all’ultimo il governo dello Shah, impose una drastica islamizzazione dello Stato trovandosi da subito in aperta contrapposizione con gli interessi ed il ruolo di gran parte delle società straniere ope- ranti sul territorio iraniano. L’occupazione dell’ambasciata ame- ricana ad opera di un gruppo di studenti islamici – apertamen- te appoggiati dal governo provvisorio – e la successiva presa in ostaggio di diverse unità di personale dell’ambasciata stessa, determina la definitiva chiusura da parte degli Stati Uniti verso l’Iran. Il ruolo e la presenza americana nella regione, con la dramma- tica uscita dall’Iran, subisce un profondo ridimensionamento e la rivoluzione iraniana finisce per modificare anche in seno agli stessi paesi dell’area la convinzione della necessità di rivedere il ruolo e gli obiettivi della fragile coesione che sino ad allora li aveva legati. Le monarchie della penisola arabica, soprattutto, iniziarono a vedere con crescente preoccupazione il modello islamico iraniano, la sua dottrina ed il continuo tentativo di esportazio- ne ad opera della classe politica religiosa di Teheran. La gran parte dei paesi arabi iniziò già nella prima metà degli anni Ot- tanta a prendere le distanze dall’Iran e ad adottare provvedi- menti di ordine pubblico e sicurezza al proprio interno onde evitare le pericolose infiltrazioni di agenti e sobillatori come avvenuto in Oman, Libano e Sudan. L’Iran, di conseguenza, si venne a trovare isolato politicamente non solo dall’Occidente ma anche – con diversa entità – dagli stessi paesi della regione, messi sulla difensiva dall’enorme potenziale destabilizzante rap- presentato dal modello dalla rivoluzione iraniana. L’Arabia Saudita, il paese certamente più ricco della regione, adottò una particolare strategia tesa a prevenire i potenzialmente dannosi effetti di un sentimento irredentista di marca islamico- 88
sunnita in seno al proprio popolo, adottando una rigida inter- pretazione coranica, seppur nel contesto di un quadro costitu- zionale di stampo monarchico. Sotto un altro profilo, invece, tese a riconsiderare la propria posizione nei confronti dell’Oc- cidente, aprendo la propria economia al mercato e criticando apertamente il sistema di autoregolamentazione dell’OPEC e del- la sua politica di determinazione delle quote, quotidianamente superate dalla produzione non autorizzata di molti Stati mem- bri, tra i quali l’Arabia Saudita stessa. Sfruttando tale pretesto, nel 1985 l’Arabia Saudita denunciò di non voler più ricoprire il ruolo di potenza “stabilizzatrice” nel sistema di determinazione dei prezzi del petrolio e, quindi, di adottare unilateralmente una politica aggressiva destinata alla riconquista di quel ruolo e quella posizione che da anni perse- guiva sul mercato. Questa, sostanzialmente, fu la principale causa nel crollo dei prezzi del petrolio che comportò il raggiungimento dei valori minimi record del maggio del 1986 e sembrò segnare la fine dell’OPEC quale organismo di controllo e determinazione delle strategie di produzione. La decisione saudita di incrementare la produzione fu presa di comune accordo con gli Stati Uniti, nel quadro di un sostan- zioso programma di investimenti atti a rilanciare l’industria del petrolio e, soprattutto, a permettere la dismissione – o la ridu- zione – della produzione nelle aree ove questa era giudicata economicamente svantaggiosa, come ad esempio nel Mare del Nord. I positivi effetti per i paesi consumatori derivanti dallo scardi- namento del sistema di alleanza e coesione in seno ai paesi ara- bi, furono rappresentati nell’immediato da una sostanziale di- minuzione del prezzo del petrolio, nell’ambito di un più gene- rale sistema di equilibrio del mercato, e dalla ripresa delle atti- vità di esplorazione con la risultante nuova determinazione della mappa delle riserve energetiche del pianeta, assai meno allar- mistica di quella diffusa nel decennio precedente. L’adozione delle strategie economiche di produzione dell’Ara- bia Saudita condusse rapidamente ad un considerevole ridimen- sionamento del ruolo dell’OPEC nello scenario internazionale, con il parziale isolamento anche al suo interno nei confronti dei paesi maggiormente antioccidentali. Il perdurare dello stato di crisi, inoltre, permise agli Stati Uniti ed all’Europa la ripresa della propria politica di investimento nelle nuove aree di produzio- 89
ne, con il lancio di ambiziosi progetti e di una nuova politica di sfruttamento energetico non più legata esclusivamente al pe- trolio ma anche al gas naturale. Nonostante ciò le tradizionali aree di produzione del petrolio restano – per propria scelta – chiuse ad ogni forma di investi- mento da parte dei paesi occidentali, perdurando tuttora tale condizione. Il risultato più evidente di questo atteggiamento si è tradotto, col tempo, in un aumento dei costi di produzione – soprattutto a causa dell’obsoleta tecnologia in uso – ed una in- completa mappatura delle risorse energetiche a causa della ri- dotta, se non nulla, attività esplorativa in alcune aree notoria- mente ricche di risorse. È in questo quadro economico internazionale, in cui il mercato energetico tendeva a tornare sotto il controllo delle compagnie occidentali, che si vennero a determinare due fondamentali epi- sodi politici di portata mondiale. Il primo, in ordine cronologi- co, è rappresentato dalla guerra del Golfo, conflitto che con- trappose l’Iraq di Saddam Hussein ad una estesa coalizione in- ternazionale nel 1991 e risoltosi con la disfatta dell’esercito iracheno e la liberazione del Kuwait. Il secondo è la dissoluzio- ne dell’Unione Sovietica e la nascita della nuova Russia. Per quanto concerne il primo episodio, di cui si tratterà mag- giormente nel prosieguo, verrà semplicemente ricordato in que- sta sede che la sua rilevanza risiede non tanto nell’episodio bellico in sé, in cui una potentissima coalizione militare ha avu- to ragione in breve tempo di un poco più che scalcinato eserci- to mediorientale 6, bensì nel fatto che gli Stati Uniti riuscirono a delineare e ad attuare con grande abilità diplomatica una co- alizione di forze che per la prima volta vedeva riunite al suo interno anche paesi arabi – tra cui soprattutto la Siria –, nel comune impegno per la liberazione del Kuwait da parte delle truppe irachene. Il fatto bellico, sul cui esito non ci furono dubbi sin dall’inizio, ha rappresentato solo un eccezionale stru- mento mediatico ad uso e consumo dell’opinione pubblica mondiale, perseguendo il fine statunitense di imporre quel nuo- vo ordine mondiale di cui il presidente George Bush Sr parlò all’indomani del cessate il fuoco con l’Iraq e di cui il figlio oggi si trova a dover gestire la pesante eredità. In relazione, invece, al secondo fondamentale episodio politico, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, è necessario precisare in premessa ad ogni altro argomento qui trattato l’eccezionale va- 90
lenza del fatto, in conseguenza del quale l’ordine mondiale ha subito un pesante disequilibrio conseguentemente al venir meno del contrappeso politico e militare di una delle due superpo- tenze operanti nell’ambito di un contesto bipolare. Ciò che appa- re più rilevante, a distanza di circa dieci anni, è la probabile impossibilità per gli Stati Uniti di mantenere il proprio ruolo e l’attuale livello di presenza nel mondo nel medio-lungo perio- do, in un contesto determinato dalla contrapposizione di po- tenza legato non più al fattore bellico ma esclusivamente a quello economico, e nell’ambito del quale le controparti degli Stati Uniti sono nazioni, od organismi sopranazionali, del tutto avulsi dalle logiche di penetrazione e controllo del territorio e, anzi, entro un certo margine costretti a seguire il percorso segnato dal proprio contesto economico e finanziario entro il quale deb- bono uniformarsi per il perseguimento degli obiettivi di più ampia portata 7. In un quadro di siffatta natura, come già detto, gli interessi oc- cidentali nell’area del medio Oriente e del Golfo Persico torna- rono a rappresentare una considerevole quota del bilancio ener- getico globale, con un repentino aumento nel livello di dipen- denza da aree così turbolente ed instabili. In particolar modo il medio Oriente tornò nel 1991 a rappresentare il 42% circa del totale del fabbisogno energetico occidentale, contro il 37,7% del 1985, con previsioni che si spingono sino a poco più del 50% per il decennio 2000-2010 8. Il dissolversi dell’Unione Sovietica e l’indipendenza di tutti gli Stati ex sovietici dell’Asia centrale, inoltre, ha grandemente ri- voluzionato gli equilibri che per anni avevano caratterizzato non solo le relazioni internazionali ma, soprattutto, quelle di natura economica e finanziaria. È venuto meno, oltretutto, uno storico alleato di molti paesi per lungo tempo schierati contro le po- tenze industrializzate occidentali e gli Stati Uniti in primo luo- go, costringendo tutti i paesi socialisti o, comunque, non alline- ati a dover rivedere le linee di fondo dei propri indirizzi di politica estera. Le repubbliche centro-asiatiche ex sovietiche si sono inserite nel contesto energetico mondiale proponendosi quale alternativa all’instabile mondo mediorientale e, grazie anche a valutazioni estremamente ottimistiche sul proprio potenziale in termini di riserve, quali veri e propri eden produttivi del futuro. La mag- gior parte dei paesi dell’area, poi, è decisamente favorevole a 91
sciogliere ogni legame di natura politica con la Russia, in favo- re dell’instaurazione di normali, e proficue, relazioni di tipo commerciale che permettano l’assunzione di un ruolo autono- mo e privilegiato che, a tutt’oggi, sembra essere il frutto più di un eccessivo ottimismo piuttosto che di reali capacità e poten- zialità. L’odierna concezione della politica di sicurezza globale svilup- pata dagli Stati Uniti, e quindi anche quella avente interesse per l’ambito energetico, ha conferito all’Arabia Saudita un ruolo decisivo per la determinazione degli equilibri regionali dell’area. La volontà di mantenere aperti canali di approvvigionamento energetico a basso costo, quali quelli dell’intera area del medio Oriente, ha spinto gli Stati Uniti verso l’adozione di una politi- ca attiva e presenzialista, volta al mantenimento con ogni mez- zo (anche bellico) degli equilibri attuali. La scarsa convergenza degli interessi locali, inoltre, ha favorito la recrudescenza di antiche rivalità e lo spunto per diretti interventi destinati a sot- tolineare i confini, rigorosamente non territoriali, della capacità decisionale e di autodeterminazione 9. Da segnalare, infine, il recente tentativo di riorganizzazione in seno all’OPEC – seppur sempre sotto il pesante condizionamento dettato dal ruolo dell’Arabia Saudita – nel tentativo di riporta- re il prezzo del petrolio entro una “forbice di sicurezza” che possa fornire garanzie finanziarie di lungo periodo ai paesi espor- tatori. In tal senso nel gennaio del 2001 il presidente di turno, il venezuelano Ali Rodriguez, confermava in una conferenza stampa l’intenzione dei paesi aderenti all’Organizzazione dei paesi produttori ed esportatori di voler ridurre la produzione di greggio di un milione di barili al giorno a partire dal febbra- io dello stesso anno. La notizia, divulgata dagli analisti con lar- go anticipo, non colse di sorpresa il mercato ed evitò un rialzo dei prezzi, confermando però l’attuazione della nuova strategia dell’OPEC finalizzata a garantire il prezzo del greggio entro la forbice dei 22-28 dollari al barile, impedendo brusche variazio- ni al ribasso ed evitando crolli del mercato come quelli conse- guenti alle decisioni di Jakarta del 1997. La decisione attuata nel gennaio del 2001 – la cui valenza fu esagerata da buona parte dei media mondiali – rappresentava in realtà da una modesta riduzione dei volumi di greggio immessi sul mercato, atta al preventivo controllo delle fluttuazioni e calibrata sapientemente per non generare conflitti con l’Unione Europea e, ben più 92
importante, con gli Stati Uniti d’America. L’ala “dura” dell’OPEC, quella che chiedeva riduzioni ben più sostanziose, era stata di- plomaticamente portata a più miti consigli dagli esperti delega- ti dell’Arabia Saudita, divenuti oramai i veri arbitri del cartello. Incombe oggi sul potere dell’OPEC, inoltre, l’incognita dell’Iraq di Saddam Hussein, il cui potenziale energetico rappresenta una va- riabile economica di cui gli Stati membri percepiscono e valutano il rischio, per consistenza capace di sconvolgere totalmente gli equi- libri del mercato energetico e al quale gli Stati Uniti potrebbero rivolgersi più o meno palesemente, favorendo l’accesso al mercato del greggio iracheno, probabilmente con la mediazione dei più moderati paesi europei. Non sono, quindi, allo stato, preoccupanti le decisioni dell’OPEC circa le riduzioni nella produzione di greggio da immettere sul mercato, limitandosi per il momento ad essere costituite da modesti quantitativi aventi lo scopo di equilibrare il sistema dei prezzi e permettere ai paesi produttori di permanere entro la forbice di cui al progetto originario. Non è da escludere, quin- di, che nel prossimo futuro vengano stabilite nuove periodiche riduzioni od aggiustamenti – anch’essi di modesta entità – atti a raggiungere i volumi necessari per garantire un costo al bari- le non inferiore ai 22 dollari e tamponare così i negativi effetti del consueto calo stagionale dei consumi nell’emisfero setten- trionale e nelle altre principali aree di consumo del pianeta. L’adozione di una politica di tal fatta in seno all’OPEC, inoltre, potrebbe rappresentare ed essere esplicativa dell’adozione da parte degli Stati membri di una strategia comune impostata alla moderazione e risultante, con ogni probabilità, dall’imposizione della pax saudita sulla maggioranza dei paesi produttori, finaliz- zata al pesante ridimensionamento dell’ala intransigente del car- tello. Ciò che duole segnalare in conclusione, invece, è una inerte posizione dell’Unione Europea, sempre più frammentata al suo interno ed apparentemente incapace di cogliere i vantaggi di una situazione alquanto dinamica e promettente. Alla notizia della riduzione dell’export di greggio, nel gennaio del 2001, i delega- ti europei presentarono all’OPEC una mera nota di protesta mo- tivata dalla circostanza che il costo del greggio al barile non aveva ancora superato i limiti minimi della forbice. Un’accorta e mirata azione politica, di concerto con gli Stati Uniti, per il coinvolgimento nell’arena energetica dell’Iraq, del- 93
l’Iran e della Libia, con il progressivo annullamento delle aree di frizione e la conseguente rimozione degli attuali limiti politi- ci strutturali del mercato, avrebbe potuto conferire un rinnova- to ruolo politico all’Europa avviandola sulla difficile ma neces- saria strada della definizione di una politica energetica comune avulsa dalle singole decisioni delle compagnie petrolifere resi- denti negli Stati dell’Unione. 3.2 Le principali aree di produzione delle fonti di energia Le grandi concentrazioni di risorse energetiche, per quelli che sono i valori e le stime sino ad oggi formulati, sono disomoge- neamente localizzate in poche aree geografiche del pianeta. Li- mitate riserve energetiche sono presenti pressoché ovunque, ma il loro sfruttamento viene reso difficile, se non addirittura im- possibile, dallo scarso potenziale e dagli elevati costi di produ- zione connessi. Le aree ove maggiore è la concentrazione di idrocarburi sono certamente quelle del medio Oriente, dell’Asia centrale, del- l’America centrale, del Sud-est asiatico e del Mare del Nord, senza trascurare la circostanza, però, che l’esplorazione di altre aree del pianeta è stata sino ad oggi di scarsa entità, concen- trandosi la produzione lì dove già erano state localizzate le ri- serve e dove veniva reputato economicamente idoneo lo sfrut- tamento. È, pertanto, estremamente probabile che molti settori dello scac- chiere energetico mondiale dove sono oggigiorno localizzate ri- serve in quantità ritenute modeste possano riservare grandi sor- prese allorquando le politiche di esplorazione diverranno mas- sicce e capillari. Lo scopo di questa sezione non vuole essere quello di delinea- re una completa e dettagliata mappa delle risorse energetiche disponibili sul pianeta, bensì quello di fornire un quadro quan- to più esauriente possibile sullo stato e sulle dinamiche di svi- luppo delle aree geografiche ove le maggiori concentrazioni di risorse sembrano oggi essere localizzate. In quest’ottica, quindi, verranno posti in relazione i fattori prettamente economici connessi con l’ambito energetico e quel- li politici legati alle logiche di relazione tra i popoli e gli Stati, 94
cercando di non trascurare tutti quegli elementi di natura glo- bale che, in ragione dell’interesse suscitato da un settore di cotale importanza, tendono ad inserirsi nella usuale dinamica evolutiva degli argomenti trattati. Maggiore dettaglio, infine, sarà riservato per quelle aree ove la rilevanza del fattore energetico sarà maggiore, senza in questo modo voler diminuire la valenza politica ed economica delle stesse aree in relazione ad altri ambiti economici e politici. 3.2.1. Il Nord Africa e l’Africa sub-sahariana Le grandi concentrazioni energetiche del continente africano sono localizzate essenzialmente nell’area settentrionale e centra- le sub-sahariana, e sono nel loro complesso una delle maggiori riserve di idrocarburi del pianeta. Una circostanza di non tra- scurabile importanza è quella rappresentata dal fatto che l’Afri- ca, quale territorio di dominio coloniale da parte delle grandi potenze occidentali, è stata largamente esplorata e mappata in funzione dello sfruttamento delle sue ricche risorse minerarie, nel corso degli ultimi quattro secoli. Le peculiari condizioni cli- matiche e geomorfologiche, però, hanno sempre costituito un pesante ostacolo a tutte le iniziative di esplorazione in funzione dello sfruttamento e, quindi, la conoscenza delle reali risorse del continente risulta estremamente limitata. Le riserve energetiche dell’area settentrionale sono localizzate essenzialmente nei territori dell’Algeria, della Libia e dell’Egit- to, ognuno dei quali con peculiarità sue proprie e con strategie produttive strettamente dipendenti dal complesso di relazioni determinatesi nel corso del XX secolo. L’Algeria, in termini energetici, è un paese dalla storia relativa- mente recente, avendo l’epoca del colonialismo francese ed il successivo turbolento e sanguinoso periodo della decoloniz- zazione impedito di fatto, sino alla metà degli anni Cinquanta, l’attuazione di una sistematica campagna esplorativa. Solo nel 1956 venne individuato il primo giacimento petrolifero, nell’area di Hassi Messaoud, primo tassello di un importante mosaico energetico che, seppur nell’ambito di un paese sconvolto da gra- vi crisi politiche ed istituzionali, veniva lentamente delineandosi. Le riserve energetiche accertate dell’Algeria ammontano oggi a 9,2 miliardi di barili per il petrolio e 160 Tcf per il gas natura- 95
le, con stime per ulteriori giacimenti di ampia portata che spin- gono gli analisti di tutto il mondo a considerare l’Algeria ancor oggi come un paese largamente inesplorato. Uno dei maggiori ostacoli anche per lo sviluppo di una più articolata e massiccia politica energetica che possa incrementa- re – e non di poco – i valori attuali di produzione, è rappre- sentato dal perdurante stato di crisi in cui versa la politica in- terna dell’Algeria da circa un decennio. In particolar modo è acceso lo scontro tra le forze politiche al governo, appoggiate dalle forze armate, e le frange estremiste del Fronte islamico di salvezza, partito di ispirazione marcatamente religiosa vincitore delle elezioni politiche del 1991, successivamente annullate col pretesto di brogli. Un robusto pacchetto di misure per la normalizzazione della crisi interna è stato adottato dal presidente Bouteflika – eletto nel 1999 – nel corso degli ultimi due anni e lo scontro tra forze governative ed oppositori, nonostante il perdurare di episodi violenti e di sanguinosi attentati, è note- volmente calato di intensità. È da riscontrare, purtroppo, l’in- capacità dell’esecutivo di saper adottare misure economiche e sociali atte alla reale soluzione dei problemi strutturali del pae- se, quali la disoccupazione, la creazione di un’industria alterna- tiva a quella energetica e lo sviluppo di politiche sociali intese ad alleviare le penose condizioni di vita dei ceti più poveri del paese. Il trend di sviluppo che caratterizza l’economia algerina sin dal 1997 ha beneficiato nel corso del 2000 e dei primi mesi del 2001 del positivo effetto derivante dalla crescita dei prezzi del petro- lio, con un significativo segnale positivo esteso a tutta la sfera economica del paese. Nel tentativo, inoltre, di dare impulso al- l’economia dell’energia, il presidente algerino ha pianificato un esteso programma di interventi atti alla maggiore apertura del comparto verso i capitali esteri e verso quelli privati. Tale poli- tica incontra, però, una forte opposizione in seno ai sindacati dei lavoratori e nei movimenti di opposizione, più per ragioni connesse ad uno storico confronto politico che per reali moti- vazioni di ordine economico. È necessario, in sintesi, che il paese chiuda definitivamente i conti con il torbido passato sfociato in aperto e sanguinoso scon- tro nel corso degli anni Novanta, così come nelle intenzioni del presidente Bouteflika ma anche di gran parte dei leader dei movimenti di opposizione, logorati da oltre dieci anni di vio- 96
lenze e di clandestinità. In tal senso il potere politico ha mosso i primi passi aprendo al dialogo ed offrendo una via d’uscita legata ad una, seppur ancora generica, forma di amnistia la chiave di una possibile soluzione della crisi. Di certo il proces- so di normalizzazione in Algeria dovrà passare anche attraverso una nuova definizione della struttura politica del paese, onde poter offrire spazio ai movimenti di ispirazione islamica ed a quelli di opposizione ideologica. Per quanto concerne la produzione energetica del paese, essa è largamente concentrata nelle aree desertiche meridionali, in lar- ga parte definite come “zone di esclusione” dal governo e, per- tanto, precluse all’ingresso non autorizzato e sotto stretta sor- veglianza da parte delle forze armate. La protezione degli im- pianti e del personale straniero operante in loco è stata – non a torto – ritenuta dalle autorità algerine come una delle più importanti operazioni nell’ottica della sicurezza e dell’interesse nazionale, favorendo comunque, anche nei periodi di più acce- sa crisi, la presenza delle compagnie e del personale straniero. Più problematica, invece, la protezione della rete di trasporto, in larghissima parte ubicata in aree desertiche impossibili da sorvegliare con la presenza fisica di reparti armati. Tra le solu- zioni adottate figurano quelle locali di interramento e sorveglian- za aerea e quelle internazionali – spesso neanche confermate ufficialmente – di monitoraggio randomico via satellite. I principali legami politici e commerciali dell’Algeria sono cer- tamente quelli rappresentati dalla Francia, dalla Spagna, dalla Germania e dall’Italia, destinatarie di circa il 90% della produ- zione di petrolio (oltre 800.000 barili al giorno) e del 65% di quella del gas naturale (2,9 Tcf di gas prodotti contro 2,1 Tcf di gas esportato). L’Italia, in particolar modo, rappresenta una delle più importanti – se non la più importante, attualmente – controparti commerciali dell’Algeria, a cui il paese è legata da importanti accordi per la produzione e per il trasporto del gas naturale attraverso la rete pipeline denominata Transmed, che collega le aree di produzione del meridione algerino all’Italia (e poi alla Slovenia) lungo un percorso di 667 miglia che attraver- sa la Tunisia e raggiunge la Sicilia con un lungo tratto sottoma- rino. La capacità complessiva del Transmed è pari a 2,3 Bcf/d anche se appare sempre più evidente la disomogeneità nei flus- si di trasporto imposta dalla strozzatura del tratto sottomarino, dove da più parti è stata segnalata la necessità di un raddoppio 97
nelle condutture. Un ulteriore importante snodo per il traspor- to del gas, poi, è quello che collega i giacimenti di Hassi R’Mel a Cordova, in Spagna, attraverso il Marocco, Gibilterra ed il Portogallo, lungo una direttrice di 168 miglia che va a collegarsi con le rete di distribuzione spagnola, terminando nella rete cen- trale europea. Le attività energetiche algerine sono controllate dalle compagnie statali Sonatrach e Sonelgas, rispettivamente dedicate al segmento petrolifero ed a quello gasifero, per le quali il governo intende- rebbe attivare un ristretto processo di privatizzazioni che inte- ressi le compagnie sussidiarie non fondamentali. Le attività del- le compagnie sono localizzate essenzialmente nelle aree di Hassi Messaoud, Zotti e Gessi al-Agreb per il petrolio ed in quelle di Hassi R’Mel, Rhourde Nouss e Salah per il gas naturale. Parimenti importante in Nord Africa sotto il profilo energetico è la Libia che, con riserve accertate di petrolio per 30 miliardi di barili, rappresenta senza dubbio uno dei paesi più ricchi di risorse dell’intera area. La Libia, come già dettagliatamente de- scritto nel primo capitolo, ha consegnato nel 1989 i due presun- ti attentatori del B-747 della Pan Am esploso in volo nel 1988, ottenendo l’immediata sospensione delle sanzioni decretate a suo tempo dall’ONU quando il colonnello Gheddafi si era ripetuta- mente rifiutato di collaborare alle indagini sull’attentato. Uno dei primi effetti di questa manovra è stato certamente quello di attirare nuovamente verso il mercato energetico libico l’interes- se delle compagnie petrolifere straniere, rivitalizzando il più importante e vitale settore economico del paese. La Libia, in- fatti, dipende per il 95-96% del proprio reddito nazionale dai ricavi derivanti dalla vendita del petrolio e nel corso degli ulti- mi anni aveva pesantemente sofferto, oltre che per l’effetto pro- vocato dalle sanzioni, a causa del continuo diminuire del prez- zo del petrolio. I progetti per la diversificazione dell’industria nazionale in sen- so alternativo a quello energetico non hanno, finora prodotto risultati degni di nota ed il governo di Tripoli è oggi più che mai intenzionato a modificare la propria strategia internaziona- le – un tempo basata sul concetto di potenza e mirante all’eser- cizio del potere di controllo ed indirizzo nella regione sulla base di un utopistico progetto di coesione tra Stati arabi, di cui il colonnello Gheddafi si era sempre fatto promotore e finanziatore – adottando politiche di cooperazione con i paesi del Maghreb, 98
del Mediterraneo e dell’Africa sub-sahariana in settori quali il turismo, la pesca e l’agricoltura. Il complesso ed articolato – nonché misterioso – processo di trasformazione dello Stato voluto da Gheddafi ed annunciato nel marzo del 2000 prevede, oltre alla radicale trasformazione dello Stato mediante devoluzione di molte cariche e molti po- teri alle entità locali, una impressionante serie di faraoniche opere pubbliche destinate al duplice obiettivo di rilanciare l’eco- nomia, anche mediante l’ingresso di capitali stranieri nell’esecu- zione delle infrastrutture, ed alleviare la dipendenza della Libia dai prodotti esteri, dando impulso – soprattutto nel settore agri- colo – alla produzione nazionale. Uno dei più ambiziosi pro- getti in tal senso è senza dubbio il Grande Fiume, una ciclopica opera destinata a trasportare acqua dalle falde sotterranee in pieno deserto sino al mare, irrigando al tempo stesso, mediante un’articolata serie di canali, una estesa zona oggi desertica. Con l’abolizione del ministero per l’Energia la National Oil Company, compagnia di Stato per lo sfruttamento delle risorse energetiche, si trova oggi a rivestire il particolare e fondamen- tale compito di indirizzo nella determinazione delle politiche di sviluppo energetico del paese, trattando in modo diretto e defi- nendo in prima persona gli accordi e le strategie a tutti i livelli negoziali con l’estero. Il partner commerciale primario della Libia è, senz’ombra di dubbio, l’Italia che opera nel paese sin dal 1959, seguito dalla Germania, dalla Francia, dalla Spagna e dalla Gran Bretagna. Con la sospensione delle sanzioni internazionali, però, le com- pagnie petrolifere statunitensi non hanno tardato a manifestare il loro interesse per le risorse energetiche del paese che furono costrette ad abbandonare alla metà degli anni Ottanta e nel quale ipotizzano di tornare in tempi considerevolmente brevi. Lo stesso presidente della NOC, nel 2000, ha confermato la di- sponibilità della Libia ad operare con le compagnie statunitensi nell’ambito del medesimo piano di concessioni entro cui le stesse operavano nel 1986, anno in cui per ordine del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, l’ultima società USA lasciò il suolo libico. Le riserve petrolifere libiche sono concentrate essenzialmente in tre grandi aree localizzate ad est (sede dei giacimenti giant Intisar, Nafoura-Augila, Amal, Bu Attifel ed altri), ad ovest (Dahra-Hofra, Bahi, Baida ecc.) e nel centro-nord (sede dei gia- 99
cimenti giant Defa-Waha e Nasser). La produzione libica di petrolio, pari a circa 1,45 milioni di barili al giorno – con un export di circa 1,2 mbbl/d – genera entrate in valuta stimate intorno ai 10,5 miliardi di dollari per l’anno 2001. Decisamente meno sviluppata, invece, l’attività di produzione del gas naturale, del quale la Libia può disporre di riserve stimate per un valore di circa 46 Tcf, a fronte di una produzione che nel 1999 era di poco superiore a 0,25 Tcf. Lo scarso sfruttamen- to del potenziale gasifero della Libia 10 è dovuto ai parimenti minimi investimenti fatti in tal senso dalle compagnie straniere, concentrate con maggiore interesse sulle riserve petrolifere ed ostacolate, comunque, dal pesante clima determinatosi durante il periodo delle sanzioni e dalle ingenti aliquote fiscali imposte sulle attività di esplorazione e produzione. Il potenziale rappre- sentato dal gas libico, comunque, non resta inosservato ed è, anzi, oggetto di numerosi progetti di sfruttamento, tra i quali in particolare due, entrambi italiani, meritano attenzione. Il pri- mo, per lo sfruttamento delle riserve di gas localizzate nelle aree occidentali del paese 11 e per le quali è già stata definita una joint venture tra l’AGIP 12 e la NOC, prevede – tramite l’italiana Edison – di produrre e convogliare verso l’Italia 140 Bcf di gas all’anno 13 attraverso una pipeline sottomarina che, lungo un percorso di 370 miglia, raggiunga le coste della Sicilia sud-orien- tale e si colleghi alla preesistente struttura Transmed. Un ulteriore progetto, invece, portato avanti dall’AGIP ed anco- ra in fase di valutazione, concerne lo sfruttamento e la connes- sione delle riserve energetiche libiche ed egiziane ed il successi- vo trasporto attraverso una rete di pipeline verso i mercati di consumo ed intermedi sul suolo italiano. Penalizzata negli anni in cui l’embargo ha limitato il suo poten- ziale economico rappresentato dalle fonti di energia, la Libia cerca oggi di guadagnare terreno sviluppando con la maggiore capillarità possibile non solo le sue riserve energetiche ma, so- prattutto, la sua rete di connessioni al sistema dei trasporti. Diversi, infatti, i progetti allo studio alternativi alle proposte italiane, interessanti per la Libia soprattutto in considerazione del fatto che le proposte italiane prevedono la realizzazione di impianti ad hoc con lunghe percorrenze sottomarine, con le connesse difficoltà di realizzazione, mentre altri progetti con la Tunisia, l’Algeria, il Marocco e la Spagna potrebbero essere più facilmente realizzabili semplicemente raccordando le preesistenti 100
strutture di trasporto già operative nei vari paesi, accelerando i tempi per lo sfruttamento delle ingenti riserve. In quest’ottica, quindi, la Libia oggi deve potersi saper reinserire nel tessuto economico del Mediterraneo abbandonando le logi- che politiche che da sempre avevano caratterizzato la politica di Gheddafi, dimostrando ai paesi occidentali di essere pronta ad una cooperazione economica ed industriale non soggetta alle impennate politiche che per anni hanno rappresentato le rela- zioni internazionali di Tripoli. Un cenno, con riferimento all’area del Nord Africa, merita l’Egit- to, paese dalle ingenti risorse energetiche e dal prodigioso pro- gresso economico compiuto nel corso degli anni Novanta, peri- odo in cui le riforme e le privatizzazioni attuate sotto la presi- denza di Hosni Mubarak hanno prodotto significativi migliora- menti sulla bilancia commerciale del paese, rilanciando l’econo- mia e dando impulso agli investimenti stranieri. La diversificazione industriale attuata per contenere i periodici e stagionali effetti connessi alla principale risorsa economica del paese, l’energia, si sono tradotti in Egitto in una reale crescita del settore turistico ed in una più proficua gestione dei pedag- gi nel Canale di Suez 14, crocevia di interesse strategico prima- rio nel settore dei trasporti, energetici in primo luogo. Questi iniziali progressi in campo economico costituiscono uno dei mo- tivi di ottimismo nella valutazione complessiva di medio e lun- go periodo del paese, oggi più che mai impegnato nella ricerca di una soluzione ai suoi problemi strutturali quali la disoccupa- zione e la trasformazione del sistema economico nazionale, scon- volto oltretutto da incontrollabili flussi migratori verso l’estero e verso la capitale, Il Cairo, una delle più popolose città del mondo. L’Egitto ha riserve petrolifere accertate per quasi 3 miliardi di barili, con una produzione di circa 720.000 barili al giorno as- sorbita per intero dalle esigenze di consumo interne 15. La pro- duzione petrolifera è sensibilmente decresciuta nel corso degli ultimi anni a causa del raggiungimento dei valori di maturità per alcuni dei principali giacimenti 16. Al contempo sono aumen- tati i consumi interni e, con un rateo di crescita della domanda pari a quello odierno, l’Egitto potrebbe divenire un importato- re di petrolio entro i primi anni del prossimo decennio. Gli interessi italiani in Egitto, con riferimento al settore petro- lifero, sono essenzialmente collegati alla joint venture Petrobel, 101
tra EGPC ed AGIP per lo sfruttamento dei giacimenti di Belayim – nell’area del Golfo di Suez – ed alla concessione ottenuta dall’AGIP per l’esplorazione dell’area offshore nel tratto di mare Mediterraneo adiacente le coste settentrionali egiziane. Le risorse energetiche di maggior interesse per l’Egitto, invece, sono rappresentate dal gas naturale, con stime per quasi 43 Tcf 17 a fronte di una ancor modesta attività di produzione pari a 0,5 Tcf interamente assorbita dalla domanda interna. Le aree mag- giormente ricche di gas, allo stato attuale delle esplorazioni, sono quelle del delta del Nilo e nell’area offshore immediatamente antistante, e quelle desertiche ad ovest. In ambito gasifero l’Italia è certamente il partner di maggior rilievo attualmente operante in Egitto, tramite la sussidiaria dell’AGIP IEOC – International Egyptian Oil Company – impe- gnata nelle attività di esplorazione e produzione in tutte le aree di interesse energetico del paese. Anche un’altra società italia- na, la Edison, ha sviluppato intense ed importanti attività in Egitto, concentrando le sue operazioni nell’area offshore del delta del Nilo e mediante la partecipazione alla realizzazione di una rete di trasporto nella parte settentrionale del paese essen- zialmente destinata ad alimentare la crescente domanda interna. L’Egitto, inoltre, potrebbe rappresentare un importante tassello nel complesso mosaico dei rapporti tra Stati arabi ed Israele, sviluppando un progetto, già allo studio, che consenta al gas egiziano di approvvigionare Israele tramite una rete pipeline la cui costruzione potrebbe essere agevolata da un primo tratto di condotta già realizzato ad opera del gruppo ENI. La crisi da tempo in atto con l’autorità palestinese nei territori occupati e l’ambiguo comportamento israeliano nei confronti dell’Egitto a seguito della scoperta di un giacimento potenzialmente promet- tente al largo delle coste dello Stato ebraico hanno messo, co- munque, seriamente in discussione l’opportunità di sviluppo di tale progetto, lasciando vago il calendario dei lavori. L’Africa sub-sahariana, al pari dell’area settentrionale del conti- nente, è particolarmente ricca di risorse energetiche, concentra- te per lo più entro i confini di tre Stati, la Nigeria, l’Angola ed il Gabon. La Nigeria non solo è il più importante dei paesi produttori dell’Africa sub-sahariana ma, soprattutto, è uno dei principali fornitori dei paesi dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, con 102
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