Effetti sistemici della radioterapia: l'immunoradioterapia
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Università degli Studi di Napoli “Federico II” Scuola Politecnica e delle Scienze di Base Area Didattica di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali Dipartimento di Fisica “Ettore Pancini” Laurea triennale in Fisica Effetti sistemici della radioterapia: l’immunoradioterapia Relatori: Candidata: Prof. Lorenzo Manti Giuseppina Cosenza Dott. Valerio Ricciardi Matricola N85001254 A.A. 2020/2021
Indice Introduzione 1 1. Il razionale radiobiofisico della radioterapia 3 1.1 Il potenziale terapeutico delle radiazioni ionizzanti 3 1.1.1 Tumour Local Control 10 1.1.2 Normal Tissue Complication Probability 12 1.2 Conseguenze della radioterapia sul microambiente tumorale 13 1.2.1 Radioresistenza tumorale 15 1.2.2 Propensione a processi metastatici 17 1.2.3 L’effetto abscopale 18 2. Immunoradioterapia 20 2.1 Sistema immunitario e carcinogenesi 20 2.2 Immunoterapia 25 2.3 Radiazioni ionizzanti (RI) ed il sistema immunitario 28 2.4 Uso della radioterapia combinata con l’immunoterapia 30 3. Nuove frontiere in immunoradioterapia 34 3.1 Immunoprotonterapia 34 3.2 Utilizzo di ioni 12C in combinazione con l’immunoterapia 37 Conclusioni 41 Bibliografia 42 Ringraziamenti 49
Introduzione La radioterapia (RT) a mezzo di fasci esterni di radiazioni ionizzanti (RI) è uno dei pilastri per il trattamento del cancro da quasi un secolo ed è utilizzata in quasi la metà dei pazienti affetti da tumore. Il potenziale terapeutico delle RI dipende dai suoi effetti citotossici, i più importanti dei quali risultano nella rottura dei legami che tengono unita la doppia elica del DNA, portando alla morte le cellule cancerose attraverso diversi processi, quali la catastrofe mitotica e, meno comunemente, attraverso apoptosi e senescenza cellulare. Tali processi hanno in comune come risultato la perdita da parte delle cellule tumorali della loro capacità proliferativa. Da circa 20 anni si stanno accumulando studi e risultati su un’inaspettata proprietà della radiazione: la capacità di alterare il microambiente tumorale in modo tale da generare una risposta immunitaria anti-tumorale a livello sistemico, ossia dell’intero organismo. La prima osservazione di tale fenomeno avvenne all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso grazie agli esperimenti di Richard H. Mole, nei quali osservò quello che chiamò effetto abscopale: a seguito dell’irraggiamento terapeutico di un tumore primario localizzato, furono osservate anche riduzioni di metastasi distanti, ossia di cellule tumorali al di fuori del campo irraggiato. All’epoca, non fu attribuita molta importanza a questo effetto e simili osservazioni cliniche rimasero confinate a pochi episodi nell’arco di alcuni decenni. Tuttavia, in tempi recenti, si è assistito ad un rinnovato interesse per questo fenomeno. Ciò è attribuibile alla scoperta del cosiddetto effetto bystander in vitro e, soprattutto, al numero crescente di osservazioni di questo effetto in vivo in vari tipi di tumore in combinazione con l’immunoterapia. Questa ha preso le mosse anni fa dalla constatazione che una delle condizioni che favoriscono la carcinogenesi è una riduzione dell’efficienza con la quale il sistema immunitario elimina le cellule precancerose. Pertanto, farmaci sono stati elaborati atti a potenziare la risposta immunitaria. La combinazione con la radioterapia localizzata per provocare una maggiore risposta sistemica rispetto a quella osservata a seguito della sola immunoterapia è invece una assoluta novità dal momento che, al contrario, era ben noto il potenziale immunosoppressivo delle RI. La ricerca sta quindi tentando di determinare quale tipo di radiazione sia più efficace nel produrre questo effetto pro-immunitario, quale sia la tempistica con cui utilizzare le RI in combinazione con gli attuali farmaci immunoterapici e quale sia la dose ottimale da amministrare al tumore primario per attivare un’efficace risposta immunitaria. Più specificatamente, dal momento che la qualità delle RI, sostanzialmente definita dal parametro radiobiofisico LET (Linear Energy Transfer), è un determinante fondamentale dell’efficacia biologica delle RI stesse, le direzioni future della ricerca in questo ambito si stanno concentrando sul possibile utilizzo anche dei fasci di particelle attualmente usati in adroterapia (protoni e ioni 12C) per capire se questi potrebbero produrre lo stesso o un maggiore effetto di stimolo 1
immunitario. Nel complesso, quindi, molti studi stanno valutando il possibile utilizzo in ambito clinico delle RI e della immunoterapia. Questo lavoro di tesi si prefigge di illustrare le principali evidenze sperimentali a supporto della possibilità di stimolare una risposta immunitaria a partire dall’irraggiamento del tumore in combinazione con i farmaci immunoterapici in uso. Nel primo capitolo è trattato dell’aspetto radiobiofisico della RT e delle conseguenze della stessa sull’ambiente tumorale. Nel secondo capitolo si illustrano gli aspetti fondanti dell’immunoradioterapia, gli effetti delle RI sul sistema immunitario e dell’uso della RT convenzionale combinata con l’immunoterapia. Nel terzo capitolo, infine, si illustrano le nuove frontiere dell’immunoradioterapia, che esplorano l’uso combinato coi fasci di protoni o degli ioni 12C usati attualmente in adroterapia. Infine si farà il punto della situazione confrontando ciò che si è ottenuto fino ad ora, quali sono i risultati degli studi preclinici più avanzati in corso e le direzioni più promettenti da seguire. 2
1. Il razionale radiobiofisico della radioterapia 1.1 Il potenziale terapeutico delle radiazioni ionizzanti Per radiazioni ionizzanti (RI) si intende il trasporto e conseguente rilascio, in caso di loro assorbimento in un mezzo, di una quantità di energia sufficiente ad espellere uno o più elettroni orbitali da un atomo o una molecola, provocandone, appunto, la ionizzazione. Nelle consuete applicazioni biomediche, esse possono essere composte da particelle cariche, neutroni o dalle onde appartenenti alla parte di spettro elettromagnetico più energetico (raggi γ, raggi X e parte degli ultravioletti); in ambiente cellulare, l’energia media richiesta per la ionizzazione della molecola più diffusa, ossia quella dell’acqua, è di circa 33 eV [1]. L’azione biologica conseguente all’assorbimento delle RI è sostanzialmente il risultato di una serie iniziale di processi fisico-chimici che caratterizzano l’interazione radiazione-materia e causano la rottura di legami delle principali macrobiomolecole. A questa fase, fa seguito quella più prettamente biologica, al termine della quale tali danni possono essere permanenti e manifestarsi sotto forma di effetti a livello genetico o cellulare, oppure riparati in maniera da ripristinare la configurazione originale della macrobiomolecola interessata; anche danni mal riparati possono dare luogo ad effetti biologicamente rilevanti. Dal punto di vista radiobiofisico, le RI possono essere classificate in base alla modalità con cui i danni radioindotti possono essere causati: in tal senso, si parlerà di un’azione diretta se gli eventi di ionizzazione alterano direttamente le strutture biologiche (è il caso delle particelle cariche, ma anche dei neutroni, la cui azione si esplica attraverso la produzione di frammenti nucleari, quindi a loro volta di particelle cariche mediamente pesanti) oppure di un’azione indiretta (è il caso dei fotoni) quando il danno è mediato dall’azione di specie intermedie, quali i prodotti della radiolisi dell’acqua intracellulare (Figura 1.1) [1]. Figura 1.1 Le modalità di azione diretta e indiretta delle radiazioni ionizzanti. 3
Il principale bersaglio dell’azione biologica delle RI è il DNA (acido desossiribonucleico), portatore dell’informazione genetica e presente in unica copia, e i principali danni arrecati (in ordine decrescente per la capacità della cellula irraggiata di sopravvivere) sono: alterazioni delle basi azotate, single-strand break (SSB) e double-strand break (DSB). Il DSB (rottura della doppia elica) è sicuramente la lesione più deleteria a livello cellulare poiché, nonostante le cellule abbiano efficienti meccanismi di riparazione per questo tipo di danno, DBS mal o non riparati possono portare a mutazioni del DNA (con possibile innesco di processi legati alla carcinogenesi) o morte cellulare. L’effetto che può essere sfruttato con scopo terapeutico è sicuramente la morte cellulare: infatti, come già detto sopra, indirizzando fasci di radiazioni ionizzanti verso un tumore, si producono danni alle molecole di DNA delle cellule cancerose che verranno poi trasmessi durante la divisione cellulare (avendo queste una ridotta capacità di riparazione rispetto alle cellule sane), aumentando i difetti del DNA delle cellule malate ed inibendone la capacità di proliferare indefinitamente. Per comprendere alcuni dei meccanismi legati all’azione biologica delle RI, definiamo alcune grandezze radiobiologiche importanti: la dose assorbita, il Linear Energy Transfer (LET) e il Relative Biological Effectiveness (RBE). La dose corrisponde all’energia (media) assorbita dal tessuto irraggiato per unità di massa: = L’unità di misura è il Gray (Gy) che corrisponde a 1 J di energia assorbita da un 1 kg di massa (1 = 1 ∙ −1 ). Considerando la dose assorbita in funzione della profondità, per le particelle cariche (protoni e ioni 12C) si osserverà come andamento la curva di Bragg (Figura 1.2) e quindi la massima perdita di energia (picco di Bragg) si verifica verso la fine della traiettoria, mentre per i fotoni si osserva un’attenuazione dell’energia del fascio, con assorbimento maggiore sulla superficie del bersaglio, analogamente agli elettroni che risultano essere meno penetranti e rilasciano la maggior parte della loro energia anch’essi nella parte superficiale del bersaglio. Figura 1.2 Andamenti della dose assorbita per fasci di fotoni, elettroni, protoni e ioni 12C in funzione della profondità in un bersaglio spesso d’acqua, comparabile al tessuto biologico per l’interazione tra radiazione e bersaglio 4
Il LET è definito come la misura dell’energia trasferita localmente 1 ad un materiale per unità di lunghezza unitaria attraversata da particelle ionizzanti e l’unità di misura è il keV/µm. È una quantità media in quanto a livello microscopico l’energia persa per unità di lunghezza subisce importanti fluttuazioni stocastiche; serve a definire la densità di ionizzazione lungo la direzione di penetrazione delle RI. I raggi X, i raggi γ e gli elettroni sono considerate pertanto radiazioni a basso LET, mentre le particelle cariche pesanti sono radiazioni ad alto LET. L’RBE è definito come il rapporto di una dose di riferimento di un fascio di raggi X da 250 kV (Dx) e la dose della radiazione incognita necessaria per produrre lo stesso livello dell’effetto biologico considerato (Di); dato un tipo di radiazione, l’RBE varia con il LET, con la dose, con il frazionamento della dose, con il rateo della dose, con il sistema biologico considerato e con l’endpoint 2 investigato. Esiste una precisa correlazione tra LET e RBE [2]: l’RBE raggiunge un massimo con LET attorno ai 100 keV/µm per poi decrescere per LET maggiori. L’interpretazione biofisica del verificarsi del massimo a questo LET è che la separazione media tra gli eventi di ionizzazione coincide con il diametro della doppia elica, ossia circa 2 nm, quindi è massima la probabilità di causare un DSB con un’unica traccia. Definite queste grandezze, si può andare a descrivere il fenomeno della morte cellulare radioindotta, che da queste dipende in maniera quantitativa, e che può avvenire con diversi meccanismi: • Catastrofe mitotica: è il meccanismo principale di morte cellulare dopo irraggiamento e consiste nell’impossibilità di replicazione delle cellule a causa di aberrazioni cromosomiche e danni al DNA non riparati o mal riparati che impediscono la corretta divisione del materiale genetico durante la mitosi. • Apoptosi: è anche detta “morte programmata” e consiste in una “scelta” compiuta dalla cellula stessa di essere rapidamente e completamente distrutta e rimossa, in seguito a danni, stress o come protezione dalla carcinogenesi. • Autofagia: consiste in un processo nel quale le cellule digeriscono parte del loro citoplasma per formare piccole macromolecole ed energia; questo meccanismo non solo porta alla morte cellulare ma può essere utile nel rimuovere organelli danneggiati e può anche estendere la sopravvivenza delle cellule nei periodi di mancanza di sostanze nutrienti. 1 È importante specificare localmente poiché indica che si include nell’energia solo la frazione trasferita in prossimità della traccia della radiazione primaria. 2 Un endpoint è un evento che può avvenire o non avvenire in un dato tempo dopo l’irraggiamento e che viene scelto per studiare un determinato fenomeno mediante un apposito saggio: per esempio, la morte cellulare proliferativa radioindotta è l’endpoint che si riferisce alla perdita della capacità di dividersi di cellule irraggiate e viene di solito studiata mediante il saggio clonogenico. 5
• Senescenza: è un meccanismo che consiste nella perdita di capacità di proliferazione delle cellule e delle funzioni fisiologiche; è principalmente associato al processo di invecchiamento ma agisce anche come potenziale barriera contro la proliferazione incontrollata di cellule tumorali, che così perdono la capacità di moltiplicarsi. • Necrosi: consiste in una forma di morte cellulare accidentale, caotica, incontrollabile e irreversibile che avviene sotto condizioni estremamente sfavorevoli, incompatibili con il normale processo fisiologico, come ad esempio cambiamento di pH, perdita di energia oppure trattamenti che danneggiano il DNA, tra cui irraggiamento. L’obiettivo dell’uso delle RI in ambito clinico (radioterapia) è l’induzione della morte riproduttiva, ossia della perdita da parte delle cellule della capacità di proliferare. Per valutare questo effetto, detto anche morte clonogenica, si utilizza appunto il cosiddetto saggio clonogenico: esso è uno dei test più affidabili in quanto capace di misurare in vitro la risposta delle cellule all’irraggiamento (radiosensibilità) e metterla in relazione con la dose assorbita. Tale risposta si è vista ben riprodurre quella osservata in vivo a livello di tessuti sani o tumorali. Ci sono tre passaggi principali: irraggiamento dei campioni di cellule, crescita delle cellule irraggiate in colture e conteggio delle cellule sopravvissute. Un campione di cellule viene prelevato e posto in delle piastre e in queste irraggiate; da questo campione vengono estratte singole cellule (per evitare che dopo la crescita si possa ottenere una sottostima nel conteggio a causa di cellule sovrapposte e agglomerate) e poste nuovamente in piastre con terreni di crescita adeguati per la coltura cellulare. Trascorso il tempo necessario affinché le cellule irraggiate producano dei cloni macroscopicamente visibili, si procede al conteggio delle cellule sopravvissute: può avvenire manualmente o utilizzando degli algoritmi che scannerizzano le immagini delle piastre fornendo un conteggio affidabile; dal conteggio la frazione di sopravvivenza cellulare ad una dose nota sarà data dalla # 3 seguente espressione: = × . È correlata in funzione della # 100 dose assorbita definendo la curva di sopravvivenza cellulare (Figura 1.3): è una curva dose-risposta per effetto della morte cellulare dalla quale ricaviamo la frazione di sopravvivenza cellulare; i punti nel grafico sono fittati da una regressione ( ) 2 pesata secondo la formula lineare – quadratica = −( + ) , dove i (0) coefficienti α e β quantificano rispettivamente per i danni causati da singolo colpo non riparabili e per i danni causati da multipli colpi riparabili. 3 La plating efficiency (PE) è la percentuale di cellule seminate in vitro che, senza essere state esposte a radiazioni ionizzanti, è in grado di formare colonie ed è data da ⋕ = ⋕ × 100. 6
Figura 1.3 Curve di sopravvivenza cellulare, tipicamente raffigurate usando una scala logaritmica per la frazione di cellule sopravvissute in funzione della dose, riportata su scala lineare, per fotoni e ioni 12C a parità di per una determinata linea cellulare. Si osserva che per radiazioni a basso LET, la curva segue un andamento lineare - quadratico con un’iniziale spalla (la cui interpretazione biofisica è che essa sia dovuta alla prevalenza di danni subletali, per cui la radiazione è relativamente inefficiente a dosi medio-basse, fino a circa 2 Gy), mentre per radiazioni con LET crescente, la pendenza della curva tende a crescere, con la concomitante scomparsa della suddetta spalla, poiché aumentano i danni indotti letali, ossia non riparabili. È evidente come radiazioni con alto LET abbiano un’efficacia biologica maggiore rispetto a quelle con basso LET, ricordandoci però del LET ottimale per la maggiore efficacia biologica. Considerato, quindi, questo effetto citotossico delle RI, si è voluto sfruttarne il potenziale terapeutico nella lotta contro i tumori, e da qui nasce la radioterapia (in questa tesi considereremo quella a mezzo di fasci esterni di radiazioni ionizzanti). Per radioterapia (RT), dunque, si intende un trattamento medico locale che ha come scopo il provocare la morte delle cellule cancerose mediante le radiazioni ionizzanti, limitando al massimo i danni ai tessuti sani intorno al tumore; le radiazioni più utilizzate sono i raggi X ad alta energia, generati esternamente al paziente da acceleratori lineari e diretti verso il tumore bersaglio; altre radiazioni utilizzate sono fasci di elettroni e raggi γ. Il trattamento del tumore per mezzo della RT dipende da diversi fattori, tra cui le caratteristiche del tumore e la sua posizione, quindi quali radiazioni consideriamo, la loro efficacia biologica, la tensione di ossigeno, la radiosensibilità e, infine, la prescrizione della dose da somministrare al paziente. Si predilige il frazionamento della dose necessaria prevista per il trattamento (dai 60 agli 80 Gy) per aumentare la morte delle cellule cancerose e diminuire i danni ai tessuti sani intorno al tumore, avendo quest’ultimo ridotte capacità di riparo rispetto al tessuto sano: si somministra solitamente in frazioni di circa 2 Gy a seduta, una volta al giorno, con 7
una settimana di pausa, per un tempo che va dalle 5 alle 8 settimane di trattamento [4]. L’efficacia del frazionamento si basa sulle 4 “R” della radioterapia: • Riparazione del danno subletale: questo tipo di danno può essere riparato in poche ore tra una frazione e l’altra e quindi tende ad aumentare la sopravvivenza cellulare. • Ripopolazione: è l’aumento della divisione cellulare, osservata sia in quelle sane sia in quelle maligne, e avviene a diverse velocità a seconda dei tessuti; in quelli ad elevata cinetica, riduce l’entità del danno subito, al contrario dei tessuti a lenta cinetica, quindi può ridurre l’efficacia della terapia. • Ridistribuzione: se una popolazione di cellule, le quali possono trovarsi ciascuna in fasi diverse del ciclo cellulare 4, è colpita dalle RI, vengono uccise più cellule nelle fasi radiosensibili del ciclo rispetto a quelle nelle fasi meno radiosensibili (radiosensibilità massima nelle fasi G2 e M, intermedia in G1 e minima in S); le cellule sopravvissute procedono nel ciclo cellulare e se ne osserva una parziale sincronizzazione, rendendo la terapia più efficace. • Riossigenazione: è il fenomeno con cui le cellule ipossiche (in numero elevato nei tumori) vengono ossigenate dopo una dose di radiazione; questo fenomeno è importante perché l’ossigeno rende permanenti i danni prodotti da ionizzazione indiretta, quindi aumenta la radiosensibilità e di conseguenza l’efficacia della terapia. Quindi, i processi di riparazione e ripopolazione rendono i tessuti più radioresistenti ad una seconda dose di radiazione, mentre la ridistribuzione e la riossigenazione li rendono più radiosensibili. Negli anni, grazie ai progressi tecnologici, ci sono stati miglioramenti nel trattamento, come nel rilascio della dose e nella diagnostica del volume tumorale. Per esempio, una nuova frontiera è rappresentata dall’adroterapia, che sfrutta fasci di particelle cariche accelerate da sincrotroni o ciclotroni (solitamente si utilizzano fasci di protoni o di ioni carbonio) e i vantaggi sono diversi: come si può evincere dalla curva di Bragg delle particelle cariche più utilizzate (Figura 1.2), quasi tutta l’energia è depositata a fine percorso, quindi si possono raggiungere con più precisione i tumori profondi diminuendo il rischio di danneggiare i tessuti sani circostanti. A tale migliore precisione balistica, nel caso degli ioni carbonio si aggiunge anche un vantaggio radiobiologico, costituito dal maggiore RBE esibito da questi ioni alle energie tipiche utilizzate in clinica (tra i 300 e 400 MeV/n), rendendoli quindi indicati per il trattamento dei tumori più radioresistenti. 4 Il ciclo cellulare è un processo geneticamente controllato, costituito da una serie di eventi coordinati e dipendenti tra loro, dai quali dipende la corretta proliferazione delle cellule eucariotiche. Gli eventi molecolari che controllano il ciclo cellulare sono ordinati e direzionali: ogni processo è la diretta conseguenza dell'evento precedente ed è la causa di quello successivo. È caratterizzato da cinque fasi: fase G1, fase S, fase G2, mitosi e citodieresi chiamata anche divisione citoplasmatica. G sta per "Gap" (Intervallo); S sta per "Synthesis" (Sintesi). 8
Anche con i miglioramenti e i progressi tecnologici, uno dei fondamentali passaggi di questo trattamento medico rimane il conoscere la relazione tra una data dose assorbita e la conseguente risposta biologica e i fattori che la influenzano: può essere misurata attraverso diversi endpoint, tra cui la regressione tumorale, il ritardo della ricrescita tumorale e il Tumour Local Control. I primi due endpoint non sono però considerati utili clinicamente poiché presentano delle limitazioni: in particolare, il test sulla regressione tumorale risulta essere molto poco specifico, mentre quello sul ritardo della ricrescita tumorale presenta delle difficoltà metodologiche nello stimare accuratamente la morte delle cellule. Quindi il Tumour Local Control è l’endpoint preferibile per investigare a livello sperimentale e clinico i miglioramenti relativi alla RT [5]. Nonostante esista una certa tolleranza alla tossicità della RT, non ci sarà mai una dose somministrata le cui complicazioni saranno pari a zero e per questo la prescrizione del trattamento deve essere espressione del bilanciamento tra i rischi e i benefici e, per questo, definiamo la finestra terapeutica (Figura 1.4): è la possibile differenza tra la dose di tolleranza e la dose necessaria al controllo del tumore, cioè il range di dosi che ottimizzano l’efficacia antitumorale e il mantenimento della tossicità radioindotta a livelli “accettabili”. Figura 1.4 La finestra terapeutica è il range di dosi tra il miglior controllo del tumore raggiungibile in virtù di un livello prescelto di complicazioni ai tessuti sani dovute all'irraggiamento. È una finestra concettuale, la quale più è ampia, più il trattamento risulterà efficace e sicuro. Per quantificarla, consideriamo l’indice terapeutico (therapeutic ratio, TR), definito come la misura quantitativa della sicurezza del trattamento, la differenza tra il controllo del tumore e la complicazione ai tessuti sani; una misura di questo indice è data dalla probabilità di avere un trattamento senza complicazioni, che è uguale a: = ∙ (1 − ) dove TCP e NTCP sono due indicatori importanti per determinare la finestra terapeutica: rispettivamente sono la probabilità del controllo locale del tumore e la probabilità di avere complicazioni ai tessuti sani [6]. Poiché importanti nel determinare la finestra terapeutica, si andrà ad approfondire i concetti di Tumour Local Control e di Normal Tissue Complication Probability (NTCP). 9
1.1.1 Tumour Local Control Il Tumour Local Control (TLC) è lo scopo della radioterapia curativa. Un tumore si dice localmente controllato se tutte le cellule clonogeniche sono state inattivate. La relazione tra dose di radiazione, inattivazione delle cellule clonogeniche ed il TLC è la seguente (Figura 1.5): per la radioterapia frazionata, si è dimostrato che il logaritmo delle cellule clonogeniche sopravvissute decresce linearmente con la dose totale; se la dose è alta abbastanza da uccidere tutte le cellule capaci di ricorrenza (ritorno di sintomi o della malattia dopo la remissione), allora il TLC è raggiunto. Figura 1.5 Relazione tra numero di cellule clonogeniche sopravvissute, dose di radiazione e Tumour Local Control, assumendo un tumore iniziale di circa 109 cellule clonogeniche e una frazione di sopravvivenza del 50% dopo 2 Gy di dose [5]. Possiamo definire il Tumour Control Probability (TCP): è una funzione che descrive la distribuzione casuale della morte radioindotta nella popolazione di cellule clonogeniche. Denotato con n il numero di cellule sopravvissute ad una dose e considerando che questa sia una variabile casuale con distribuzione di tipo Poissoniano P(n) 5, il TCP è uguale a: = − 0∙ ( ) dove n0 è il numero di cellule cancerose iniziale e S(D) è la loro frazione di 2 sopravvivenza � � uguale a ( ) = −( + ) , dove α è il coefficiente relativo al 0 danno letale (DSB), β è il coefficiente relativo al danno non letale (SSB) e G è il fattore di Lea-Catcheside (tiene conto della probabilità di danno letale causata da più interazioni non letali) (Figura 1.6) [7]. Poiché le 4 “R” della radioterapia (ripopolazione, riparo, ridistribuzione e riossigenazione) influenzano il TLC, S(D) viene modificata nel seguente modo: 5 La distribuzione di Poisson è una distribuzione di probabilità discreta data da ( ) = − Ɐ n ∈ N, dove n è il ! numero di eventi per intervallo di tempo e λ è il numero medio di eventi per intervallo di tempo. Il valore atteso e la varianza risultano essere entrambi λ. Si è scelta la distribuzione poissoniana perché può spiegare in dettaglio l’influenza dei fattori biologici per determinare la TCP e inoltre il modello poissoniano si basa sulla frazione che sopravvive delle cellule. 10
1 ) 2 + 2 ( ) 2 + ( − ) ( ) = − − ( 2 dove σ è la varianza di α, γ è il valore specifico della ripopolazione del tumore che dipende dal tempo di raddoppio, T è la durata dell’intero trattamento (overall treatment time), TK è il tempo di ritardo nella ripopolazione delle cellule tumorali dopo un trattamento con radiazioni (kick off time) e G(τ) è la funzione di Lea- 2 Catcheside, definita come ( ) = 2 � � ( − − 1 + ) dove τ è il tempo di riparo [8]. Figura 1.6 Grafico del Tumour Control Probability (TCP) in funzione della dose di radiazione D. La relazione quantitativa tra la dose, il numero di cellule clonogeniche sopravvissute e TCP corrisponde alla base biologica del TLC come saggio della sopravvivenza delle cellule clonogeniche dopo l’irraggiamento. Le percentuali del controllo locale ad ogni livello di dose sono ottenute calcolando dei punti caratteristici sulla curva dose- risposta: tra questi si considera il TCD50, cioè la dose necessaria per controllare il 50% del tumore; considerando la statistica poissoniana, si calcola nel seguente modo: 50 = 0 ∙ (ln 0 − ln(ln 2)) dove D0 corrisponde alla radiosensibilità intrinseca delle cellule clonogeniche e N0 corrisponde al numero delle cellule clonogeniche prima dell’irraggiamento. 11
1.1.2 Normal Tissue Complication Probability Il Normal Tissue Complication Probability (NTCP) è un parametro utilizzato per calcolare la probabilità di avere delle complicazioni ai tessuti sani intorno a quello tumorale. Considerando che questo può essere descritto da un modello di tipo Poissoniano P(n), il NTCP è uguale a: = − 0∙ ( ) dove N0 è il numero di cellule presenti nel tessuto sano e S(d) è la loro frazione di − sopravvivenza uguale a ( ) = 0 , dove d0 è il valore di dose necessario ad inattivare le cellule e d è la dose totale assorbita dal tessuto sano [7]. Questa espressione è valida nel caso in cui consideriamo una dose distribuita in maniera uniforme su tutta l’area corrispondente al tessuto sano. Nel caso di distribuzione di dose non uniforme, consideriamo la seguente forma semi-empirica: 1 − 2 ( ) = � 2 √2 −∞ − 50 con = , dove EUD è la dose uniforme equivalente che avrebbe prodotto 50 lo stesso danno biologico della dose somministrata, TD50 è la dose uniforme necessaria per uccidere il 50% di cellule e m è un parametro fenomenologico, inversamente proporzionale alla pendenza della curva dose-risposta (in radioterapia a fasci esterni, TD50=40 Gy e m=0.12) (Figura 1.7) [9]. Se si considera l’influenza delle 4 “R” della radioterapia, S viene modificata nel seguente modo: 2 2 ( , ) = − − − ℎ ( ) 6 5F 2 1− ln 2 dove ℎ ( ) = � � � � � − �, con = − ∆ e con = (è la costante 1− 1− 1 2 di riparo che dipende dalla metà tempo di riparo del tessuto sano) [8]. 6 Per α, β e n vedi paragrafo 1.1.1. 12
Figura 1.7 Grafico della NTCP teorica e semi-empirica di Lyman in funzione di u 1.2 Conseguenze della radioterapia sul microambiente tumorale Lo scopo primario della RT è di indurre la morte proliferativa (clonogenica) delle cellule cancerose, che avviene principalmente per catastrofe mitotica e meno comunemente per apoptosi e senescenza, quindi di solito ci si concentra su questi effetti biologici diretti sulle cellule cancerose, senza però considerare nel complesso tutto il microambiente tumorale (Tumour MicroEnvironment, TME), che gioca un ruolo fondamentale nelle diverse fasi che caratterizzano la progressione tumorale durante lo sviluppo della neoplasia e la cui radiorisposta esercita un ruolo importante in RT. Infatti, il TME è diverso da quello associato ai tessuti normali, essendo caratterizzato da diversità nei valori di pH, da una diversa distribuzione dei nutrienti e da una diversa concentrazione di ossigeno (Figura 1.8): è eterogeneo, in quanto costituito non solo da cellule tumorali ma anche da tessuti fisiologici (non tumorali), che comprendono lo stroma (impalcatura di sostegno) con i fibroblasti 7, i vasi sanguigni ed i globuli bianchi, soprattutto linfociti T 8 e macrofagi 9, i cui 7 Sono cellule del tessuto connettivo, in grado di produrre le componenti della matrice extracellulare, la quale ha il compito di sostenere gli altri tessuti. 8 Sono cellule fondamentali della risposta immunitaria specifica maturate nel timo (per questo si chiamano T); hanno un recettore specifico per l’antigene (qualsiasi sostanza capace di indurre una risposta specifica immunitaria o cellulare) costituito da una struttura specifica detta TCR (T-cell receptor, con grande variabilità) associata ad un insieme di molecole che formano un’unità strutturale (CD3, CD4, CD8 a seconda della funzione svolta). Possono svolgere sia un ruolo adiuvante (T helper/inducer) sia funzioni citotossiche; sono attivate dal riconoscimento dell’antigene sulla membrana di altre cellule, quali macrofagi o cellule B, che l’hanno fagocitato, degradato e modificato. 9 Sono cellule del sangue e del tessuto connettivo, capaci di fagocitare e digerire cellule e detriti. Hanno un ruolo importante nel sistema immunitario poiché presentano l’antigene. 13
precursori sono monociti 10 derivanti dalla linea mieloide; si ritrovano anche, in quantità diverse, cellule dell’immunità innata quali macrofagi, granulociti 11 e cellule mieloidi immature 12 da cui derivano i monociti [10]. Figura 1.8 Schema del microambiente tumorale La complessità di interazione tra le componenti del microambiente tumorale porta allo sviluppo e al progresso del tumore e deve essere considerata quando si agisce con la radiazione; infatti si è osservato che il TME si altera dinamicamente per effetto dell’azione della RI [10]. Gli effetti indotti dalla radiazione e quindi le alterazioni che si osservano nel TME in seguito ad irraggiamento possono influenzare in maniera positiva la lotta al tumore oppure portare complicazioni e rallentamenti nel trattamento; l’acquisizione di radioresistenza da parte delle cellule cancerose e la propensione a metastatizzare sono tra le alterazioni negative che possono presentarsi dopo l’irraggiamento mentre l’effetto abscopale è tra quelle positive e più sorprendenti che possono verificarsi durante il trattamento del cancro. 10 Sono globuli bianchi con nucleo polimorfo e citoplasma leggermente basofilo; intervengono nel riconoscere l’antigene, eliminano cellule danneggiate e nei siti infiammatori maturano in macrofagi fagocitando alcuni agenti patogeni. 11 Sono globuli bianchi componenti della risposta immunitaria non specifica caratterizzati dalla presenza di granulazioni specifiche nel citoplasma, quali basofile, neutrofile ed eosinofile, e dall’aspetto irregolare del nucleo; durante le infiammazioni, migrano dai vasi sanguigni nel tessuto connettivo e assumono proprietà fagocitarie. 12 Sono cellule prodotte dal midollo osseo che si specializzano in cellule del sangue e in vari tipi di globuli bianchi. 14
1.2.1 Radioresistenza tumorale Per radioresistenza tumorale si intende la scarsa propensione a reagire all’azione delle RI da parte dei tessuti tumorali. Può essere intrinseca o acquisita durante la RT: ne consegue che non si osservano nel tumore gli effetti citotossici previsti dopo i pregressi trattamenti radioterapici e, anzi, questi ultimi ne risultano essere a volte la causa causando il fallimento del TLC. I meccanismi che portano all’acquisizione di tali forme di radioresistenza sono diversi e tuttora oggetto di molti studi [11]: • Ipossia: per ipossia si intende la condizione di bassi livelli di ossigeno nei tessuti. Le ricerche hanno evidenziato che in condizioni di ipossia le cellule cancerose diventano circa 2-3 volte più radioresistenti rispetto alla condizione normale e questo fenomeno è detto effetto ossigeno. Questo effetto è importante poiché l’ossigeno influisce sulla formazione dei radicali liberi (i principali mediatori del danno radioindotto al DNA durante l’azione indiretta, come descritto nel paragrafo 1.1): in condizioni normali, le molecole di ossigeno vanno ad ossidare i radicali del DNA andando ad rendere permanenti i danni irreparabili; in condizioni di ipossia, invece, questo processo è notevolmente alterato a causa dei bassi livelli d’ossigeno, quindi si assiste ad una minore incidenza di DSB. Inoltre, l’effetto è quantificabile mediante il cosiddetto OER (Oxygen Enhancement Ratio), definito alla stregua dell’RBE, cioè come il rapporto tra la dose somministrata in condizioni di ipossia e la dose somministrata in condizioni di tessuto normalmente ossigenato per indurre lo stesso livello di effetto biologico; nel grafico 1.9, si può osservare come varia l’OER in funzione della tensione di ossigeno, dall’unità in caso di anossia ad un massimo di 3 unità nel caso di 100% di presenza di ossigeno per tessuti irraggiati con RI a basso LET. Figura 1.9 Curva che mostra come varia la capacità radiosensibilizzante dell’ossigeno intracellulare (OER) in funzione della tensione di ossigeno quando il tessuto è esposto a radiazioni con basso LET (come nel caso dei raggi X) 15
L’OER diminuisce all’aumentare del LET della radiazione, in quanto diminuisce il ruolo dell’azione indiretta, e quindi delle specie reattive dell’ossigeno, Reactive Oxygen Species o ROS (Figura 1.10) Figura 1.10 Curve di sopravvivenza cellulare in cui è evidenziata la riduzione di OER tra il caso di anossia e di ossigenazione, per dosi più basse rispetto a quelle più alte • Riparo dei danni al DNA: la radiazione può indurre una risposta al danneggiamento del DNA, tale da proteggere le cellule dall’instabilità causata dal danno e portando all’aumento del tasso di riparo che causa una maggiore radioresistenza. • Arresto del ciclo cellulare: dopo aver rilevato i danni al DNA, le molecole di controllo del ciclo cellulare delle cellule cancerose possono regolarlo e arrestarne l’avanzata; in particolare si è osservato che la proteina 14-3-3σ è strettamente associata allo sviluppo di radioresistenza, andando a bloccare il ciclo durante la fase G2/M. • Alterazioni di oncosoppressori e di oncogeni: si è osservato che la deregolazione dell’espressione di alcuni oncogeni promuove l’invasione dei tumori così come la radioresistenza; inoltre l’alterazione dell’espressione di oncosoppressori (come miR-29 e miR-22) è una delle cause per la comparsa di radioresistenza. • Autofagia: per autofagia si intende un meccanismo cellulare che permette la degradazione e il riciclo dei componenti cellulari; durante questo processo i costituenti citoplasmatici danneggiati sono isolati dal resto della cellula all'interno di una vescicola a doppia membrana, nota come autofagosoma, che si fonde poi con quella di un lisosoma ed il contenuto viene degradato e riciclato. Si è osservato che la sua disfunzione può promuovere o inibire la sopravvivenza e la proliferazione delle cellule cancerose; inoltre può ridurre il tasso di apoptosi delle cellule danneggiate dalle RI, proteggendole e quindi stimolando la radioresistenza. • Generazione di cellule staminali cancerose (Cancer Stem Cells o CSC): le CSC sono delle cellule cancerose indifferenziate con alta attività oncogenica, con 16
propria capacità di rinnovamento, possono differenziarsi in seguito in molti tipi di cellule e sono responsabili di eventuale ricorrenza tumorale (recidive). Inoltre sono responsabili dello sviluppo dell’eterogeneità delle cellule tumorali, importante fattore che va a favore della resistenza alle terapie e quindi della radioresistenza; hanno un rapido meccanismo di riparo del DNA, capacità di disintossicazione o mediazione dell’afflusso di agenti citotossici, capacità di eliminare le ROS e una specifica manutenzione del TME, che contribuisce allo sviluppo della radioresistenza. • Alterazioni del metabolismo del tumore: si è osservato che una delle cause della radioresistenza è dovuta a cambiamenti nel metabolismo glicolitico o mitocondriale delle cellule cancerose. 1.2.2 Propensione a processi metastatici La metastasi è il fenomeno con cui le cellule tumorali si spostano dalla zona in cui si sono formate a un’altra parte del corpo e nella maggior parte dei casi è tipica delle fasi più avanzate della progressione di un tumore inizialmente localizzato. Questo fenomeno avviene quando le cellule con capacità metastatiche riescono a raggiungere i linfonodi più vicini, che hanno il compito di bloccare il passaggio di molecole estranee o pericolose; se riescono a superare i linfonodi, le cellule metastatiche si immettono nel sistema linfatico e possono raggiungere aree molto distanti dal loro tumore di origine. Inoltre, queste cellule possono anche passare dal sistema linfatico a quello sanguigno, grazie alle vie di comunicazione tra i due sistemi. In aggiunta, le cellule tumorali possono anche entrare direttamente nei vasi sanguigni attraversandone le pareti e, sopravvivendo all'attacco del sistema immunitario, raggiungono una nuova zona dando origine ad un nuovo tumore [12]. Da molti esperimenti in vitro e in vivo ci sono evidenze che le RI applicate alle cellule cancerose potrebbero stimolare il processo metastatico. Quattro meccanismi che potrebbero influenzare la percentuale di metastasi dopo irraggiamento sono [13]: • Diretta alterazione delle cellule tumorali clonogeniche attraverso la radiazione, che porterebbe al miglioramento della capacità di metastatizzare. • Una sorta di effetto a distanza di irraggiamento locale che porterebbe a migliorare la capacità di siti distanti a supportare nuove metastasi. • Effetto locale della radiazione che provoca un ritardo nella progressione del tumore facilitando l’ingresso di cellule tumorali nel sistema circolatorio. • Effetto locale della radiazione che provoca un ritardo nella progressione del tumore permettendo di aumentare il tempo necessario alle cellule tumorali di entrare nella circolazione. Da ulteriori esperimenti in vivo e in vitro, si è osservato che il processo metastatico sarebbe spesso favorito nel caso di somministrazione di dosi di radiazione subterapeutiche (insufficienti a curare il tumore primario), che comporterebbe un 17
aumento di cellule tumorali circolanti nel sistema di circolazione sistemica. Al momento, osservazioni cliniche non confermano, però, tutti questi dati e meccanismi, lasciando ancora aperta la domanda sulla possibilità della RT di favorire paradossalmente il processo di metastasizzazione [14,15]. 1.2.3 L’effetto abscopale Una proprietà inaspettata della radiazione è quella di alterare il microambiente tumorale in modo tale da generare una risposta immunitaria anti-tumorale. Questo fenomeno fu chiamato effetto abscopale (dal latino ab, “lontano da”, e scopus, “obiettivo”) da Richard H. Mole [16], il quale per primo osservò questo effetto nei primi anni ’50 del Novecento: si tratta di un effetto in cui si osserva una riduzione di metastasi distanti al di fuori del campo oggetto del trattamento, ossia del volume irraggiato di un tumore primario localizzato. All’epoca, non fu attribuita molta importanza a questo effetto; tuttavia, in tempi recenti, si è assistito ad un crescente interesse per questo fenomeno. Ciò è stato dovuto alla scoperta dell’effetto bystander 13 in vitro [17] e, soprattutto, al numero crescente di osservazioni di questo effetto in vari tipi di tumore in combinazione con l’immunoterapia (approfondiremo questa sinergica combinazione nel paragrafo 2.4) [18]. Si è osservato che il sistema immunitario è un elemento chiave per il verificarsi dell’effetto abscopale: infatti sappiamo che la RT può aumentare l’immunogenicità delle cellule cancerose, incrementando la traslocazione della calreticolina 14 sulla superficie delle cellule del tumore, il rilascio extracellulare di proteine del gruppo 1 ad alta mobilità (HMGP1) 15 e di ATP 16, portando alla morte cellulare immunogenica (stimola l’inglobamento dell’antigene delle cellule dendritiche 17 e comporta una migliore presentazione dell’antigene al sistema immunitario citotossico) [19]. Inoltre 13 Con il termine effetto bystander (dall’inglese “spettatore”) viene indicata l’induzione di un effetto biologico in cellule che non sono state direttamente colpite dalla radiazione, ma che si trovano nelle vicinanze di cellule irraggiate o che sono state esposte al terreno di coltura di tali cellule. È una proteina codificata dal gene CARL che è espressa in molte cellule tumorali e ha la funzione di promuovere i 14 macrofagi per fagocitare le cellule cancerose pericolose. 15 È una proteina strutturale della cromatina, non istonica, che ha la funzione di rimodellare la cromatina e un importante ruolo da mediatrice e segnalatrice dell’infiammazione, in particolare nel caso di necrosi. 16 È un nucleoside formato da adenina e da uno zucchero a 5 atomi di carbonio, al quale sono legati in serie 3 gruppi fosfato; poiché i legami tra gli atomi di carbonio e i gruppi fosfato sono altamente energetici, è il principale composto chimico che fornisce l’energia necessaria alla cellula per svolgere qualunque tipo di lavoro biologico. 17 Cellule appartenenti al sistema immunitario, note anche come cellule che presentano l’antigene; hanno la funzione di processare gli antigeni in frammenti, i quali sono esposti sulla superficie delle cellule in strutture con molecole del sistema MHC. Questi complessi sono così presentati ai linfociti T e ciò dà inizio alla risposta immunitaria. 18
è responsabile della generazione di neoantigeni 18 e può migliorare la presentazione degli antigeni; in più, può ridurre il grado di immunosoppressione (in parte a causa della produzione di citochine 19 come gli interferoni di tipo I) e le componenti immunosoppressive nel TME, quali cellule regolatrici T, cellule soppressori di derivazione mieloide e cellule dendritiche tollerogeniche (che inducono tolleranza immunogenica) [19]. Infine, la radiazione favorisce la creazione di un pattern di citochine che facilitano la migrazione e la funzione delle cellule effettori T CD8+ [20]: si è osservato che una migliore espressione e presentazione dell’antigene così come il miglior funzionamento delle cellule effettori T sono un buono razionale per l’effetto abscopale. Per l’osservazione di questo effetto, studi preclinici hanno suggerito l’utilizzo di dosi maggiori rispetto a quelle considerate durante le terapie, quindi supportando l’ipofrazionamento, anche se esiste un limite (>10-12 Gy) oltre il quale c’è un aumento dell’immunosoppressione e della scomparsa di questo effetto [19]. In realtà, l’effetto abscopale indotto dalla sola radiazione è un fenomeno molto raro: infatti sono stati riportati solo 47 casi dal 1960 al 2018 con il solo trattamento radioterapeutico [18]; le cause di tale scarsa occorrenza in ambito clinico sono ancora non chiare e non ben esplorate ma alcune spiegazioni plausibili potrebbero essere la forte immunosoppressività del microambiente tumorale [19] e il fatto che i meccanismi immunosoppressivi che possono essere stati causati dall’irraggiamento potrebbero limitare una risposta immunitaria sistemica [18]. 18 Sono antigeni che vengono presentati dalle molecole dei complessi MHC I e II sulla superficie delle cellule tumorali; possono essere tumore-specifici (TSA) (quindi sono prodotto di una mutazione tumore-specifica), cioè sono presentati solo da cellule tumorali, oppure possono essere associati al tumore (TAA), cioè sono presentati sia da cellule tumorali sia da cellule normali. 19 Sono proteine che svolgono importanti funzioni di controllo, in particolare della risposta immunitaria, delle infiammazioni, del differenziamento e crescita delle cellule. Queste funzioni avvengono quando c’è interazione tra la citochina e il suo recettore sulla superficie cellulare. 19
2. Immunoradioterapia 2.1 Sistema immunitario e carcinogenesi Il sistema immunitario è un sistema molto complesso composto da diverse componenti molecolari e cellulari che intervengono e collaborano per la difesa e il mantenimento dell’integrità dell’organismo. Si possono distinguere due tipi di immunità: l’immunità innata e l’immunità adattativa o specifica [21]. L’immunità innata è la prima difesa contro gli agenti patogeni ed è non specifica; comprende barriere epiteliali (pelle, mucose, ciglia), fattori solubili (chemochine) e cellule cosiddette effettrici (fagociti, cellule Natural Killer, etc.). I fagociti sono particolari globuli bianchi che neutralizzano gli agenti esterni fagocitandoli, cioè inglobandoli al loro interno; tra i fagociti più importanti, si annoverano i macrofagi, i granulociti neutrofili e le cellule dendritiche [22,23]: • I macrofagi sono originati dai monociti circolanti, che nei siti di un’infiammazione si differenziano, appunto, nei macrofagi; assumono morfologie diverse a seconda del tessuto in cui si trovano. La loro funzione è la fagocitosi, la distruzione degli agenti patogeni ed il secernere citochine per reclutare altri leucociti dal sangue ai siti di infiammazione. • I neutrofili sono tra i leucociti più presenti (60-70% dei leucociti); entrano in azione all’inizio dei processi infiammatori ed intercettano, degradandoli, gli agenti estranei mediante fagocitosi; generano specie reattive (ROS e NOS), enzimi proteolitici 20 e peptidi dai granuli citoplasmatici. • Le cellule dendritiche (Dendritic Cell, DC) sono caratterizzate da lunghe ramificazioni dette dendriti, simili a tentacoli, e la loro funzione è quella di cattura e presentazione dell’antigene (Antigen-Presentation Cell, APC): sulla loro superficie ci sono recettori detti TLR (Toll-Like Receptors) che inviano un segnale di attivazione alle DC per avviarsi ai tessuti linfoidi e questo permette l’attivazione dei linfociti T e B, tipici della risposta immunitaria specifica (vedi sotto), dunque i DC rappresentano la congiunzione tra i due tipi di immunità. A questo punto, dopo aver fagocitato e ridotto l’agente esterno in frammenti (antigeni), i DC presentano questi ultimi sulla loro superficie in strutture con le molecole MHC 21 (Major histocompatibility complex) per il riconoscimento e l’eliminazione da parte dei linfociti (Figura 2.1). 20 Enzimi che rompono i legami peptidici tra gli amminoacidi. 21 Insieme di proteine codificate dal cromosoma 6; sono espresse sulla superficie cellulare e hanno la funzione di farsi riconoscere dal recettore T per l’antigene, presente sulla superficie del linfocita T. Si distinguono MHC di classe I e di classe II in base alla loro struttura e alla posizione degli aminoacidi che differenziano gli MHC. 20
Figura 2.1 L'azione delle cellule dendritiche durante la risposta immunitaria Fanno parte dell’immunità innata anche le cellule Natural Killer (NK): sono cellule citotossiche derivanti dal midollo osseo, importanti nell’eliminazione di cellule (pre)tumorali e di cellule infette da virus; la loro azione è detta “naturale” poiché si possono attivare senza il riconoscimento dell’antigene, quindi senza la presenza delle molecole MHC. La loro attivazione può avvenire, inoltre, anche mediante il riconoscimento di sostanze che costituiscono i microrganismi attraverso dei recettori specifici detti PRR (Pattern Recognition Receptors), presenti in caso di infezione, e mediante il riconoscimento di molecole espresse solo da cellule danneggiate o alterate (come nel caso delle cellule tumorali); una volta attivate, le NK rilasciano nelle cellule bersaglio degli enzimi che svolgono funzione citotossica, avviandole all’apoptosi. L’immunità adattativa o specifica è la risposta immunitaria che consiste nel riconoscere e reagire a specifici antigeni e nel conservarne la memoria nel tempo (memoria immunologica); in particolare, si attiva quando l’immunità innata non riesce ad eliminare gli agenti patogeni e comprende diverse fasi, quali l’acquisizione dell’antigene, la sua elaborazione, la sua presentazione, il suo riconoscimento e la sua eliminazione. I principali leucociti coinvolti in questi processi sono i linfociti, tra i quali si distinguono due tipi principali: i linfociti T e i linfociti B [22,23]. • I linfociti T sono detti così poiché originano nel midollo osseo ma maturano nel timo; la loro funzione principale è il riconoscimento dell’antigene poiché sulla loro superficie è presente un recettore specifico per l’antigene costituito da una specifica struttura detta TCR (T-Cell Receptor), che accede alle molecole MHC per l’identificazione, associata ad un insieme di proteine di membrana costituente un’unità strutturale detta CD3 (Cluster of Differentiation). Si possono distinguere sottogruppi di linfociti T, ciascuno con funzioni differenti: T-helper, T-citotossici e T-regolatori. I T-helper (Th) sono 21
caratterizzati anche da un’altra unità strutturale, detta CD4, oltre alla CD3, e hanno la funzione di secernere citochine (come l’interferone e l’interleuchina- 2) dopo il riconoscimento dell’antigene, svolgendo un ruolo di “aiutanti” nella risposta immunitaria, dirigendo l’azione di altri gruppi di linfociti T, dei linfociti B e dei macrofagi. I T-citotossici (Cytotoxic T Lymphocytes, CTL) sono caratterizzati dall’unità strutturale CD8, oltre alla CD3, e hanno funzione di eliminazione delle cellule infette; riconoscono l’antigene sulla cellula bersaglio in associazione con le molecole MHC di classe I e vanno a formare la cosiddetta sinapsi immunologica, cioè uno spazio chiuso fra linfociti e cellula bersaglio nel quale vengono rilasciati gli enzimi che andranno a distruggere la cellula infetta. I T-regolatori (Treg) sono linfociti che hanno funzione regolatrice della risposta immunitaria, spegnendo il processo per sopprimere attività potenzialmente nocive degli altri tipi di linfociti e l’insorgenza di malattie autoimmuni. • I linfociti B sono detti così perché originano e maturano nel midollo osseo (in inglese “bone marrow”); sono i responsabili della risposta umorale, cioè della fase della risposta immunitaria che riguarda la produzione di anticorpi. Alla fine della loro vita, si trasformano in plasmacellule e producono gli anticorpi o immunoglobuline (Ig), che sono particolari proteine che si legano agli antigeni in maniera specifica per renderli suscettibili all’azione di cellule del sistema immunitario che provvederanno all’eliminazione (Figura 2.2); ci sono diversi tipi di immunoglobuline: le IgM intervengono per prime al contatto con un nuovo antigene, le IgG intervengono dopo il contatto, le IgA intervengono come difesa contro le infezioni delle mucose e sono presenti nelle secrezioni esterne, le IgE si attivano nel caso di reazioni allergiche, mentre non è chiara la funzione biologica delle IgD. Ci sono anche diversi tipi di linfociti B: linfociti B-1, che esprimono in maggior quantità le IgM rispetto alle IgG e presentano bassa affinità con molti antigeni; linfociti B-2, che presentano diverse specificità e circolano nel sangue e nei vasi linfatici (così come i B-1); linfociti B della memoria, che sono in grado di sopravvivere anche per tutta la vita nell’organismo e quindi rendendo le risposte immunitarie successive al primo contatto con un antigene più rapide. 22
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